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sabato 31 luglio 2010
venerdì 30 luglio 2010
Ilvo Punk
Così Fini fece buon viso a cattivo gioco. E divenne, a sua volta, socio fondatore del PdL. Per trasformarsi, presto, in un critico implacabile. Secondo Berlusconi: un capo corrente. E nel PdL le correnti non sono previste. A Berlusconi non piacciono. Anzi non le sopporta. D'altronde, non gli piace - e non sopporta - neppure Fini. Lo ha ripetuto molte volte, negli ultimi giorni. Senza troppa cautela.
La sintassi di Ilvo Diamanti
Spezzata. Franta. In tante frasette minuscole. Legate dal senso. Ma divise. Dal punto fermo. Onnipresente. Connettore e divisore. Un ceffone al lettore. Ehi lettore. Ciaf! Stai attento. Ciaf! Sto dicendo cose importanti. Ciaf! La sintassi. Di Ilvo Diamanti. Una gragnuola di ceffoni.
Mi piace.
La ammiro. Lo ammiro. Ha fegato. Che ci vuole per cominciare le frasi con un pronome relativo. O con una congiunzione. Per proseguire con una preposizione. Altri ci provano. Lo imitano. Mettono un punto. Poi scrivono “che”. E provano un brivido. Il brivido della libertà. Ma poi si pentono. Prima di pubblicare. Si correggono. È più forte di loro. Hanno paura. Del direttore. Che alle vecchie regole ci tiene. Dei colleghi. Maligni. O dei lettori. È pieno di maestre in pensione. Che non hanno altro da fare. Nella vita. Che protestare. Per la sintassi troppo sbarazzina. Ci vuole coraggio. Il coraggio di Ilvo.
In un'Italia ancora malgrado tutto convinta che scrivere bene consista nell'inanellare subordinate su subordinate in rapporti sempre più complessi e inestricabili – appesantiti, ogni tanto, da qualche inciso ridondante – un'Italia barocca che dietro al carrozzone sintattico seicentesco nasconde un'inveterata tendenza all'anacoluto liberatorio, sicché dopo avere affastellato venticinque proposizioni tutte dipendenti tra loro uno non ricorda più bene quale fosse la principale su cui era basato tutto il castello, e manda tutto all'aria col fare di colui che in fondo la sintassi la saprebbe padroneggiare benissimo, ma oggi ha meglio da fare (laddove viceversa non ha assolutamente niente di meglio da fare, e semplicemente non sa manovrare la sua lingua natale, figurarsi le altre che in teoria qualcuno avrebbe dovuto insegnargli, vive o morte che fossero), in quest'Italia di prosatori prolissi, gaddiani della domenica pomeriggio, arbasini in congedo, l'esempio di Ilvo ci mostra una nuova via. Coraggiosa. Una rottura. Col passato. E col presente. E il futuro. No future. Il Punk. Non è morto. È Ilvo. Il punk. Della sintassi italiana. Ilvo Rotten. Ti rulla di ceffoni. Ilvo Céline.
I ragazzini. A cui insegno. Vorrei lo imitassero. Una volta portavo il giornale in classe. Poi la Repubblica cessò le copie omaggio. La crisi. Comunque finché c'era glielo leggevo. Sentite? Dicevo. È semplice. Si può scrivere così. Frasi brevi. Una dopo l'altra. Non è uno stupido. Insegna all'università. Guadagna il decuplo di me. Scrive frasi più brevi delle vostre. Si può fare.
Col tempo poi magari vi allungherete. Comincerete ad attaccare una frase con l'altra, imparerete i segreti della coordinazione. E con un altro po' di tempo, e molta pazienza, dalla coordinazione passerete alla subordinazione, che è difficile, sì; ma la vera difficoltà sta nel non abusarne. Ma una frasetta breve alla Diamanti, ogni tanto, continuerete a infilarla. Un ceffone. Ogni tanto. Fa bene. Al lettore. Che dorme. Sempre. Dovete pensare al lettore come a vostro padre. Sul divano. Alle ventitré. Non vi ascolta. Per più di tre righe. Dovete scoppiargli in faccia, periodicamente. Ma non a ritmo regolare. Sennò si abitua. Cullatelo finché non vedete che gli sta per calare la palpebra e poi ciaf! Lettore! È di te che si parla! Stronzo! No, non dico le parolacce ai ragazzini, le sto dicendo a te adesso! Io lo so come fai. Scorri la riga e pensi ai fatti tuoi. Sbagliato. Ilvo. Non. Te. Lo. Consente.
Invece questi qui arrivano su dalle elementari che scrivono frasi lunghissime ma il loro concetto di frase lunghissima è fatta di tante frasi semplici alla Diamanti ma collegate tra loro da congiunzioni ma sono quasi sempre le stesse congiunzioni ma io gli dico ma mettete punto piuttosto ma loro no ma io gli dico ma che male c'è ma è solo un punto fermo ma non vi fa mica niente, e poi ogni tanto si potrebbe mettere anche qualche virgola, che ne dite, ma non c'è verso ma davvero qual è il problema delle maestre elementari col punto fermo ma che male vi fa ma siete tutte joyciane ma forse avete paura che la punta della bic trapassi il foglio che si pungano che vadano in coma come la Rosaspina nella fiaba ma su ma dai, ma almeno il punto alla fine della frase le maestre ve l'avranno tramandato, ma no neanche quello
La sintassi di Ilvo Diamanti
Spezzata. Franta. In tante frasette minuscole. Legate dal senso. Ma divise. Dal punto fermo. Onnipresente. Connettore e divisore. Un ceffone al lettore. Ehi lettore. Ciaf! Stai attento. Ciaf! Sto dicendo cose importanti. Ciaf! La sintassi. Di Ilvo Diamanti. Una gragnuola di ceffoni.
Mi piace.
La ammiro. Lo ammiro. Ha fegato. Che ci vuole per cominciare le frasi con un pronome relativo. O con una congiunzione. Per proseguire con una preposizione. Altri ci provano. Lo imitano. Mettono un punto. Poi scrivono “che”. E provano un brivido. Il brivido della libertà. Ma poi si pentono. Prima di pubblicare. Si correggono. È più forte di loro. Hanno paura. Del direttore. Che alle vecchie regole ci tiene. Dei colleghi. Maligni. O dei lettori. È pieno di maestre in pensione. Che non hanno altro da fare. Nella vita. Che protestare. Per la sintassi troppo sbarazzina. Ci vuole coraggio. Il coraggio di Ilvo.
In un'Italia ancora malgrado tutto convinta che scrivere bene consista nell'inanellare subordinate su subordinate in rapporti sempre più complessi e inestricabili – appesantiti, ogni tanto, da qualche inciso ridondante – un'Italia barocca che dietro al carrozzone sintattico seicentesco nasconde un'inveterata tendenza all'anacoluto liberatorio, sicché dopo avere affastellato venticinque proposizioni tutte dipendenti tra loro uno non ricorda più bene quale fosse la principale su cui era basato tutto il castello, e manda tutto all'aria col fare di colui che in fondo la sintassi la saprebbe padroneggiare benissimo, ma oggi ha meglio da fare (laddove viceversa non ha assolutamente niente di meglio da fare, e semplicemente non sa manovrare la sua lingua natale, figurarsi le altre che in teoria qualcuno avrebbe dovuto insegnargli, vive o morte che fossero), in quest'Italia di prosatori prolissi, gaddiani della domenica pomeriggio, arbasini in congedo, l'esempio di Ilvo ci mostra una nuova via. Coraggiosa. Una rottura. Col passato. E col presente. E il futuro. No future. Il Punk. Non è morto. È Ilvo. Il punk. Della sintassi italiana. Ilvo Rotten. Ti rulla di ceffoni. Ilvo Céline.
I ragazzini. A cui insegno. Vorrei lo imitassero. Una volta portavo il giornale in classe. Poi la Repubblica cessò le copie omaggio. La crisi. Comunque finché c'era glielo leggevo. Sentite? Dicevo. È semplice. Si può scrivere così. Frasi brevi. Una dopo l'altra. Non è uno stupido. Insegna all'università. Guadagna il decuplo di me. Scrive frasi più brevi delle vostre. Si può fare.
Col tempo poi magari vi allungherete. Comincerete ad attaccare una frase con l'altra, imparerete i segreti della coordinazione. E con un altro po' di tempo, e molta pazienza, dalla coordinazione passerete alla subordinazione, che è difficile, sì; ma la vera difficoltà sta nel non abusarne. Ma una frasetta breve alla Diamanti, ogni tanto, continuerete a infilarla. Un ceffone. Ogni tanto. Fa bene. Al lettore. Che dorme. Sempre. Dovete pensare al lettore come a vostro padre. Sul divano. Alle ventitré. Non vi ascolta. Per più di tre righe. Dovete scoppiargli in faccia, periodicamente. Ma non a ritmo regolare. Sennò si abitua. Cullatelo finché non vedete che gli sta per calare la palpebra e poi ciaf! Lettore! È di te che si parla! Stronzo! No, non dico le parolacce ai ragazzini, le sto dicendo a te adesso! Io lo so come fai. Scorri la riga e pensi ai fatti tuoi. Sbagliato. Ilvo. Non. Te. Lo. Consente.
Invece questi qui arrivano su dalle elementari che scrivono frasi lunghissime ma il loro concetto di frase lunghissima è fatta di tante frasi semplici alla Diamanti ma collegate tra loro da congiunzioni ma sono quasi sempre le stesse congiunzioni ma io gli dico ma mettete punto piuttosto ma loro no ma io gli dico ma che male c'è ma è solo un punto fermo ma non vi fa mica niente, e poi ogni tanto si potrebbe mettere anche qualche virgola, che ne dite, ma non c'è verso ma davvero qual è il problema delle maestre elementari col punto fermo ma che male vi fa ma siete tutte joyciane ma forse avete paura che la punta della bic trapassi il foglio che si pungano che vadano in coma come la Rosaspina nella fiaba ma su ma dai, ma almeno il punto alla fine della frase le maestre ve l'avranno tramandato, ma no neanche quello
mercoledì 28 luglio 2010
Il fantasma della Disco
Non si esce vivi
È difficile spiegare a chi non ne guarda. Se scrivo che la tv italiana in chiaro sta facendo schifo, voi penserete vabbè, sai la notizia. Cane morde uomo. Ecco, no. La tv italiana sta facendo molto più schifo del solito. Chihuahua sdentato morde Tyson, una cosa del genere, vi dico che la notizia c'è.
Ma è difficile da tirar fuori perché non è uno schifo eclatante, non sono nati nuovi format schifosi, come all'inizio del decennio scorso. Diciamo che i format di dieci anni fa sono stati lasciati a decomporsi, e intorno... non sta succedendo niente. Mancano idee, anche orribili. Ma a volte si ha proprio la sensazione che manchino le persone; la scorsa settimana hanno mostrato la puntata sbagliata di Lost perché nessuno l'aveva pre-visionata. E poi manca il mercato. MTV ha chiuso TRL per quattro mesi. Da gennaio ad aprile, niente TRL. Come se i bimbominchia di colpo non esistessero più, e purtroppo in un certo senso è vero: consumano così poco che non conviene più fare un programma per loro. Già l'offerta degli anni scorsi era quel che era, ci eravamo ridotti a importare rockstar di quarta categoria dalla Repubblica Federale Tedesca, però alle ragazzine comunque andava bene. Sono commoventi in fondo le ragazzine, perché se dai loro Chopin si strusceranno su Chopin, ma se dai loro letame di cammello saranno egualmente entusiaste; il problema è che non conviene nemmeno più raccogliere un po' di letame di cammello: evidentemente non si vendono abbastanza cd e suonerie da convincere MTV a montare il carrozzone. È più triste di quel che sembra.
La cosa diventa eclatante in estate – anche qui, mi direte: ma l'estate non esiste. L'estate della tv in chiaro è una replica di un carosello di repliche di caroselli. Ecco, quest'anno riescono a essere scadenti anche le repliche. Sempre Rai2, che nei mesi scorsi era una heavy rotation di vecchi episodi di NCIS o Criminal minds, in luglio ha finito il fondo del barile e fino a qualche giorno fa programmava Love Boat - adesso è passata agli scarti di magazzino tedeschi. E Un posto al sole estate, dov'è finito? Io lo odiavo di un odio etnico e totalitario, ma era comunque una cosa fatta in Italia, da attori italiani, concepita per l'estate italiana – via, spazzata via.
Perché non è vero che l'estate tv non esistesse, una volta. Almeno fino a luglio qualche cosa c'era, faceva schifo ma c'era. Per esempio Lucignolo, che era tutt'uno con l'estate. Si poteva amare od odiare (io ho varie volte maledetto i suoi autori fino alla settima generazione) ma aveva un suo pubblico, un suo senso. Non c'è più. Ma il pubblico c'è ancora. È questo che ti fa pensare alla crisi. La gente un rotocalco alla Lucignolo se lo vedrebbe ancora, ma si vede che scriverlo e realizzarlo costerebbe già troppo. Al suo posto c'è I mitici anni '80 con Sabrina Salerno. La sovrapposizione è abbastanza chiara: addirittura nelle edicole c'è il calendario dei Mitici Anni '80, con le tipe vestite alla Drive In.
Sui Mitici anni '80 molte cose sono state già scritte: è orribile, forse è la cosa più orribile mai programmata in chiaro, è una riscrittura della nostra storia attraverso le lenti berlusconiane, è l'inno alla berlusconizzazione, ok, tutto vero. Io aggiungo una cosa che mi sembra importante. È un programma poverissimo. In estate è normale fare i programmi con gli scarti, ma qui l'impressione è che siano finiti anche gli scarti commestibili.
Del resto, giudicate voi. Il programma che dovrebbe inneggiare all'edonismo di quel decennio meraviglioso è presentato da una tizia che balla sola in una discoteca buia e vuota. Qualcuno ha avuto l'idea non stupida di vestirla di placche rifrangenti, trasformandola in una palla-che-pende-dal-soffitto-della-disco umana: in pratica una scenografia vivente, che costa molto meno di una scenografia vera. È quel tipo di creatività che nasce nelle privazioni.
La tizia ha un bel da ballare: l'impressione è che se ne siano andati tutti, e da molto. È rimasta lei, che è pur sempre Sabrina Salerno: come si fa a non volerle un po' di bene. Si è mantenuta in forma, ma non importa, rimane imprigionata in un contesto sepolcrale, come una protesi di silicone rimasta intatta in un cadavere in putrefazione.
Mente balla legge il gobbo (e le viene il fiatone). Sul gobbo qualcuno ha scritto cose che Sabrina Salerno di sua sponte non direbbe mai (noi abbiamo la stupida pretesa di conoscerla, Sabrina Salerno). In sostanza tutte le sue frasi sono costituite su questa struttura:
'Negli anni Settanta facevamo cose tristi, poi sono arrivati gli anni Ottanta e ci divertivamo'.
Ad esempio: 'Negli anni Settanta c'era il terrorismo, poi sono arrivati gli anni Ottanta e guardavamo il Drive In'. E va bene. 'Negli anni Settanta c'erano le femministe che rifiutavano di depilarsi, poi negli anni Ottanta sono arrivate le tette'. Fin qui ci siamo. Ma dopo un po' il campionario di cose tristi dei Settanta e di divertimenti degli Ottanta comincia a mostrare la corda. A un certo punto Sabrina Salerno, per ribadire la tristezza dei Settanta, dice: “leggevamo i Quaderni Piacentini”. E il mondo implode. Ma voi ci pensate, che c'è al mondo una persona che si ricorda ancora dei Quaderni Piacentini e che scrive i testi dei Mitici Anni Ottanta? E che persona è? Quanto deve odiare sé stesso e l'umanità? Diventa inevitabile imbastirci un romanzo, lui che ama lei, lei che gli chiede di restare a casa per farle un sunto di un saggio di Fofi sulla questione operaia e nel frattempo si tromba il migliore amico sulla spiaggia, lui che brucia le annate dei Quaderni con i dischi degli Stormy Six e promette di vendicarsi sull'intero genere umano...
Seguono filmati. Non è tutta roba vecchia, ma il repertorio almeno non dovrebbe essere scadente, no? Se puoi pescare da migliaia di ore di girato, pescherai cose buone? Ma a Italia1 è come se fossero rimasti al Betamax. Soprattutto i filmati Rai, sono sgranati come i super8 del matrimonio di papà. Adesso sì che gli anni Ottanta sembrano lontani, a un passo dallo smagnetizzarsi, dal dissolversi in un indistinto sgranato. La gente era felice a quel tempo, adesso c'è Sabrina che ce ne parla in una stanza vuota. La tv italiana in chiaro ultimamente fa paura. Sono lunghissime nozze coi fichi secchi. C'è una frugalità da dopoguerra in Europa dell'Est, salvo che i programmi bulgari o cecoslovacchi, per quanto poveri, non smettevano probabilmente mai di incitare i telespettatori alla speranza nel futuro, nel radioso sole dell'avvenire. Sabrina Salerno no, lei non ci parla di futuro, ma solo di quanto eravamo felici nel passato, delle tette e dei culi che non ci sono più. Balla da sola in un posto buio, ansima, sorride, e non riesce a uscire.
È difficile spiegare a chi non ne guarda. Se scrivo che la tv italiana in chiaro sta facendo schifo, voi penserete vabbè, sai la notizia. Cane morde uomo. Ecco, no. La tv italiana sta facendo molto più schifo del solito. Chihuahua sdentato morde Tyson, una cosa del genere, vi dico che la notizia c'è.
Ma è difficile da tirar fuori perché non è uno schifo eclatante, non sono nati nuovi format schifosi, come all'inizio del decennio scorso. Diciamo che i format di dieci anni fa sono stati lasciati a decomporsi, e intorno... non sta succedendo niente. Mancano idee, anche orribili. Ma a volte si ha proprio la sensazione che manchino le persone; la scorsa settimana hanno mostrato la puntata sbagliata di Lost perché nessuno l'aveva pre-visionata. E poi manca il mercato. MTV ha chiuso TRL per quattro mesi. Da gennaio ad aprile, niente TRL. Come se i bimbominchia di colpo non esistessero più, e purtroppo in un certo senso è vero: consumano così poco che non conviene più fare un programma per loro. Già l'offerta degli anni scorsi era quel che era, ci eravamo ridotti a importare rockstar di quarta categoria dalla Repubblica Federale Tedesca, però alle ragazzine comunque andava bene. Sono commoventi in fondo le ragazzine, perché se dai loro Chopin si strusceranno su Chopin, ma se dai loro letame di cammello saranno egualmente entusiaste; il problema è che non conviene nemmeno più raccogliere un po' di letame di cammello: evidentemente non si vendono abbastanza cd e suonerie da convincere MTV a montare il carrozzone. È più triste di quel che sembra.
La cosa diventa eclatante in estate – anche qui, mi direte: ma l'estate non esiste. L'estate della tv in chiaro è una replica di un carosello di repliche di caroselli. Ecco, quest'anno riescono a essere scadenti anche le repliche. Sempre Rai2, che nei mesi scorsi era una heavy rotation di vecchi episodi di NCIS o Criminal minds, in luglio ha finito il fondo del barile e fino a qualche giorno fa programmava Love Boat - adesso è passata agli scarti di magazzino tedeschi. E Un posto al sole estate, dov'è finito? Io lo odiavo di un odio etnico e totalitario, ma era comunque una cosa fatta in Italia, da attori italiani, concepita per l'estate italiana – via, spazzata via.
Perché non è vero che l'estate tv non esistesse, una volta. Almeno fino a luglio qualche cosa c'era, faceva schifo ma c'era. Per esempio Lucignolo, che era tutt'uno con l'estate. Si poteva amare od odiare (io ho varie volte maledetto i suoi autori fino alla settima generazione) ma aveva un suo pubblico, un suo senso. Non c'è più. Ma il pubblico c'è ancora. È questo che ti fa pensare alla crisi. La gente un rotocalco alla Lucignolo se lo vedrebbe ancora, ma si vede che scriverlo e realizzarlo costerebbe già troppo. Al suo posto c'è I mitici anni '80 con Sabrina Salerno. La sovrapposizione è abbastanza chiara: addirittura nelle edicole c'è il calendario dei Mitici Anni '80, con le tipe vestite alla Drive In.
Sui Mitici anni '80 molte cose sono state già scritte: è orribile, forse è la cosa più orribile mai programmata in chiaro, è una riscrittura della nostra storia attraverso le lenti berlusconiane, è l'inno alla berlusconizzazione, ok, tutto vero. Io aggiungo una cosa che mi sembra importante. È un programma poverissimo. In estate è normale fare i programmi con gli scarti, ma qui l'impressione è che siano finiti anche gli scarti commestibili.
Del resto, giudicate voi. Il programma che dovrebbe inneggiare all'edonismo di quel decennio meraviglioso è presentato da una tizia che balla sola in una discoteca buia e vuota. Qualcuno ha avuto l'idea non stupida di vestirla di placche rifrangenti, trasformandola in una palla-che-pende-dal-soffitto-della-disco umana: in pratica una scenografia vivente, che costa molto meno di una scenografia vera. È quel tipo di creatività che nasce nelle privazioni.
La tizia ha un bel da ballare: l'impressione è che se ne siano andati tutti, e da molto. È rimasta lei, che è pur sempre Sabrina Salerno: come si fa a non volerle un po' di bene. Si è mantenuta in forma, ma non importa, rimane imprigionata in un contesto sepolcrale, come una protesi di silicone rimasta intatta in un cadavere in putrefazione.
Mente balla legge il gobbo (e le viene il fiatone). Sul gobbo qualcuno ha scritto cose che Sabrina Salerno di sua sponte non direbbe mai (noi abbiamo la stupida pretesa di conoscerla, Sabrina Salerno). In sostanza tutte le sue frasi sono costituite su questa struttura:
'Negli anni Settanta facevamo cose tristi, poi sono arrivati gli anni Ottanta e ci divertivamo'.
Ad esempio: 'Negli anni Settanta c'era il terrorismo, poi sono arrivati gli anni Ottanta e guardavamo il Drive In'. E va bene. 'Negli anni Settanta c'erano le femministe che rifiutavano di depilarsi, poi negli anni Ottanta sono arrivate le tette'. Fin qui ci siamo. Ma dopo un po' il campionario di cose tristi dei Settanta e di divertimenti degli Ottanta comincia a mostrare la corda. A un certo punto Sabrina Salerno, per ribadire la tristezza dei Settanta, dice: “leggevamo i Quaderni Piacentini”. E il mondo implode. Ma voi ci pensate, che c'è al mondo una persona che si ricorda ancora dei Quaderni Piacentini e che scrive i testi dei Mitici Anni Ottanta? E che persona è? Quanto deve odiare sé stesso e l'umanità? Diventa inevitabile imbastirci un romanzo, lui che ama lei, lei che gli chiede di restare a casa per farle un sunto di un saggio di Fofi sulla questione operaia e nel frattempo si tromba il migliore amico sulla spiaggia, lui che brucia le annate dei Quaderni con i dischi degli Stormy Six e promette di vendicarsi sull'intero genere umano...
Seguono filmati. Non è tutta roba vecchia, ma il repertorio almeno non dovrebbe essere scadente, no? Se puoi pescare da migliaia di ore di girato, pescherai cose buone? Ma a Italia1 è come se fossero rimasti al Betamax. Soprattutto i filmati Rai, sono sgranati come i super8 del matrimonio di papà. Adesso sì che gli anni Ottanta sembrano lontani, a un passo dallo smagnetizzarsi, dal dissolversi in un indistinto sgranato. La gente era felice a quel tempo, adesso c'è Sabrina che ce ne parla in una stanza vuota. La tv italiana in chiaro ultimamente fa paura. Sono lunghissime nozze coi fichi secchi. C'è una frugalità da dopoguerra in Europa dell'Est, salvo che i programmi bulgari o cecoslovacchi, per quanto poveri, non smettevano probabilmente mai di incitare i telespettatori alla speranza nel futuro, nel radioso sole dell'avvenire. Sabrina Salerno no, lei non ci parla di futuro, ma solo di quanto eravamo felici nel passato, delle tette e dei culi che non ci sono più. Balla da sola in un posto buio, ansima, sorride, e non riesce a uscire.
lunedì 26 luglio 2010
Le catene dell'infamia
Stavolta è sul serio.
Stavolta, se passa la legge, siamo fregati. Tutti.
Anche voi, sissignore.
Blog di gattini, tremate. (Ho una teoria #33, sull'Unita.it, si commenta qui).
Certo che noialtri blog siamo sempre così allarmisti. Non è bello poter scrivere quel che ci pare senza responsabilità? E invece no, siamo sempre preoccupati che la pacchia stia per finire. C'è sempre in discussione un decreto, un disegno, un codicillo che minaccia la nostra stessa esistenza. Eppure in un qualche modo ce l'abbiamo sempre fatta, da dieci anni in qua. Cerchiamo di capire cosa rischiamo stavolta con quel comma 29 che l'onorevole Bongiorno non vuole assolutamente modificare.
Allora, mettiamo che io sia una tranquillissima persona con un blog, che aggiorno un paio di volte alla settimana. Un blog di foto di gatti, che ne dite? Più innocuo di così. Io ovviamente sto molto attento a non diffamare mai nessuno, gatti o padroni di gatti. Mettiamo che io venerdì pubblichi la foto del mio gatto in una scatola, prima di partire per il week end.
Il mio blog però è aperto ai commenti: che blog sarebbe, altrimenti. Ora accade che nella mattina di sabato tra i miei commentatori scoppi una polemica virulenta tra i sostenitori di due varietà diverse di cibo per gatti. In particolare c'è un commentatore anonimo che lascia una critica fortissima, anche se un po' campata per aria, nei confronti delle scatolette XYX. Tutto questo avviene mentre io sono in spiaggia a pigliare il sole, e il blog è l'ultimo dei miei pensieri (sì, ci abbronziamo anche noi blogghisti. Non siamo vampiri, non tutti). Le accuse contenute nel commento sono veramente infamanti e arrivano quasi subito sul tavolo dell'ufficio stampa dell'azienda XYX, che in realtà è il signor XYX medesimo, che appena ha cinque minuti liberi va a guglarsi il cognome. Insomma, verso mezzogiorno nella mia casella mail c'è già una richiesta di rettifica. Io nel frattempo sto affrontando un piatto di spaghetti alle vongole, con l'appetito dei giusti. L'ultima cosa che mi può venire in mente è controllare la mia mail per vedere se per caso qualche commentatore non abbia diffamato un'azienda di cibo per gatti a mia insaputa.
La domenica sera arrivo a casa stanco e mi corico senza aver aperto la mail. Lunedì ho la sveglia alle sette, perché lavoro anch'io, cosa credete? I blog di gatti non danno il pane. Alle due, prima di finire la pausa pranzo, finalmente scorro la mail personale. Scopro di essere responsabile di una grave diffamazione ai danni della ditta XYX. Cancello immediatamente il commento anonimo, e in due minuti pubblico la rettifica. Ma è troppo tardi, sono già scadute 48 ore, devo pagare una multa. Quanto fa? Dodicimila euro. Sono sconvolto.
Magari voi pensate che me la sia cercata. Chi me l'ha fatto fare di lasciare i commenti aperti al pubblico? È ammissibile che al giorno d'oggi il responsabile di un blog di gatti non controlli la mail per 48 ore di fila? Forse avete ragione, ma nel frattempo io ho un buco di dodicimila euro. Come lo riempirò?
D'un tratto, un'idea: come un lampo nel buio.
Mi metto a caccia di blog. Devono essere poco importanti, amatoriali come il mio. Scritti da gente che lascia i commenti aperti, ma poi magari non aggiorna per intere settimane. Ce n'è a bizzeffe, ma alla fine scelgo quello del vostro figlio quindicenne metallaro, che non ha mai scritto un post tra il martedì e il giovedì. Proprio la finestra temporale che fa per me. Aspetto fino a martedì sera, e poi colpisco. In fondo a un post di quattro anni fa, scrivo un commento anonimo ferocissimo... su me stesso. Mi autodenuncio come sequestratore e seviziatore di felini. Sì, pare che io abbia un garage pieno di gattini bonsai. E mercoledì mattina, di buon ora, con la mia mail ufficiale, mando a vostro figlio metallaro una richiesta di rettifica. Perché non è possibile che sul suo blog si legga che io sevizio i gatti, ma dico, ma come si permette? Questa è diffamazione bella e buona, non siete d'accordo? Lui comunque la mia mail non la legge, è da due anni che non apre nemmeno la posta, perché tanto coi suoi amici si trova su Facebook. Non importa, dopo una settimana arriva la multa. Dodicimila euro.
Lui ci rimane così male che in un raptus distrugge tutti i vinile dei Sepultura. Si chiude a chiave e non accende più la luce. Cosa starà combinando? Dopo qualche ora sfondate la porta. È al computer. Sta cercando un blog dove autodiffamarsi. Ne ha appena scelto uno tutto cuoricini ed hello kitty. Diabolico!
Il comma 29 della Legge Bavaglio imporrà a qualsiasi autore di blog (anche un quindicenne metallaro, anche una dodicenne hellokittymaniaca) l'obbligo di rettifica entro 48 ore, pena una sanzione fino a 12.500 euro. Se ti sembra un po' esagerato puoi leggere e firmare qui.
venerdì 23 luglio 2010
La libera impresa è fichissima
Lo Stato Liberale
Nel senso che ti cresce con molta libertà. Ma non ti fa mai mancare niente. Ti ho mai fatto mancare niente?
Tesoro, ti vedo un po' patito, ma mangi?
Dai, prendi ancora un po' di questi contributi alle rottamazioni. Senti, mi han detto che a Termini o Pomigliano ci sono sacche di manodopera a basso costo molto saporite, cosa ne pensi? Se vuoi ti pago il viaggio. Ma sì, anche un po' degli stabilimenti, sei uno di famiglia, non te lo devi dimenticare mai. Sì. Adesso però scusami che io Stato ho da fare, devo bombardare Belgrado per una serie di circostanze controverse.
Mi hanno detto che ti ha mollato la GM. Quella lì non ti meritava, sai, io l'ho sempre detto. Ti sei fatto dare una congrua buonuscita, almeno? Bravo. Adesso sai cosa facciamo? Torni a casa da mamma che ti prepara il tuo piatto preferito, una bella scofanata di incentivi, che lo so che ti piacciono tanto.
Manda giù, manda giù, bravo, bravo. Cocco di mamma.
Ah, senti, volevo dirti una cosa. Stacci un po' attento, con quelle polacche.
Non credere, non siamo mica bacchettoni noi, però... quelle sembra che non pretendano niente, all'inizio, ma poi...
E così è deciso, te ne vai a Belgrado. Eh, beh, è chiaro che lì ti danno tutto quel che vuoi per un pezzo di pane, hanno ancora gli stabilimenti bombardati... Ma no, figurati, è giusto così. E' solo che... sembra ieri che muovevi i primi passettini, mi ricordo il Lingotto, Mirafiori... e adesso te ne vai libero per il mondo. Ma è giusto così, largo ai giovani, benvenuti nel duemila e tutto il resto. Cosa dici?
Vuoi che ti compri la tua nuova macchinina?
Tesoro, ormai sei grande, pensavo che avessi capito.
Sei tanto bello e bravo, ma con le macchinine non ci hai mai saputo fare. Te le compravo perché mi facevi compassione, adesso cerca di farne ai polacchi e ai serbi, perché io qui ho già i miei problemi. Largo ai giovani, dai.
Adesso se non ti spiace, sto cambiando badante, devo fare un'audition a una giovane domenicana che mi pare molto... Ma mi vuoi mollare il braccio o no?
Nel senso che ti cresce con molta libertà. Ma non ti fa mai mancare niente. Ti ho mai fatto mancare niente?
Tesoro, ti vedo un po' patito, ma mangi?
Dai, prendi ancora un po' di questi contributi alle rottamazioni. Senti, mi han detto che a Termini o Pomigliano ci sono sacche di manodopera a basso costo molto saporite, cosa ne pensi? Se vuoi ti pago il viaggio. Ma sì, anche un po' degli stabilimenti, sei uno di famiglia, non te lo devi dimenticare mai. Sì. Adesso però scusami che io Stato ho da fare, devo bombardare Belgrado per una serie di circostanze controverse.
***
Mi hanno detto che ti ha mollato la GM. Quella lì non ti meritava, sai, io l'ho sempre detto. Ti sei fatto dare una congrua buonuscita, almeno? Bravo. Adesso sai cosa facciamo? Torni a casa da mamma che ti prepara il tuo piatto preferito, una bella scofanata di incentivi, che lo so che ti piacciono tanto.
Manda giù, manda giù, bravo, bravo. Cocco di mamma.
Ah, senti, volevo dirti una cosa. Stacci un po' attento, con quelle polacche.
Non credere, non siamo mica bacchettoni noi, però... quelle sembra che non pretendano niente, all'inizio, ma poi...
***
E così è deciso, te ne vai a Belgrado. Eh, beh, è chiaro che lì ti danno tutto quel che vuoi per un pezzo di pane, hanno ancora gli stabilimenti bombardati... Ma no, figurati, è giusto così. E' solo che... sembra ieri che muovevi i primi passettini, mi ricordo il Lingotto, Mirafiori... e adesso te ne vai libero per il mondo. Ma è giusto così, largo ai giovani, benvenuti nel duemila e tutto il resto. Cosa dici?
Vuoi che ti compri la tua nuova macchinina?
Tesoro, ormai sei grande, pensavo che avessi capito.
Sei tanto bello e bravo, ma con le macchinine non ci hai mai saputo fare. Te le compravo perché mi facevi compassione, adesso cerca di farne ai polacchi e ai serbi, perché io qui ho già i miei problemi. Largo ai giovani, dai.
Adesso se non ti spiace, sto cambiando badante, devo fare un'audition a una giovane domenicana che mi pare molto... Ma mi vuoi mollare il braccio o no?
giovedì 22 luglio 2010
Gli esami (non iniziano mai)
La società dei praticoni
Avrete sentito dire che il Ministero vuole retribuire noi insegnanti in base al merito. Giusto, no? Mmm.
Siccome comunque soldi in più non ce ne sono, il sospetto è che si tratti di mascherare un taglio: invece di ammettere che ci hanno bloccato la paga, diranno che l'hanno aumentata ai più meritevoli, che ovviamente saranno pochi. Ma lasciamo stare. Fingiamo che a porsi il problema non sia questo ministro e questo governo. È giusto pensare di premiare il merito? Secondo me sì. Il problema è come capire quali siano gli insegnanti meritevoli.
Per molti anni si è voluto pensare che il merito c'entrasse con l'esperienza: quindi gli insegnanti maturavano (e maturano) scatti di anzianità. Più uno è anziano, più conosce il mestiere. In fondo è la naturale conseguenza di un certo modo di considerare la pedagogia in Italia. Ovvero, di non considerarla. All'università non si insegna. Poi ci si stupisce che i neolaureati non siano bravi insegnanti, per cui si organizzano corsi post-universitari propedeutici all'insegnamento in cui... non si insegna pedagogia. L'idea è che il neo-prof debba sbarcare nella classe come un alieno sulla terra, senza nulla sapere dei processi di apprendimento dei suoi studenti, e commettere nei primi anni una caterva impressionante di errori che faranno poi di lui, in seguito, con la pratica, un bravo insegnante. Se resiste. Selezione naturale. Di conseguenza, più uno resiste più uno è bravo. Il bravo maestro in Italia è il maestro praticone. Ha un senso.
Però è anche vero che l'esperienza non è tutto. Soprattutto quella che ti fai dai 55 anni in poi: per quanto l'accumuli, il tempo per metterla a frutto si assottiglia sempre più. E comunque c'è gente che arriva incompetente alla pensione, non è vero? Scommetto che ne conoscete tutti qualcuno. Quindi gli scatti di anzianità non vanno bene. Che fare? Il Ministero ci valuterà in base alle prove Invalsi.
Un test a crocette? Vabbe', meglio che niente – no, aspettate. Non somministreranno un questionario a noi. Lo somministreranno ai nostri studenti. All'inizio e alla fine dell'anno. E dalla differenza dei risultati il Ministero capirà se siamo stati bravi. Bravi a fare cosa? A truccare i risultati delle prove Invalsi, per esempio. Persino negli USA, se vincoli lo stipendio di un insegnante ai risultati dei suoi studenti, il risultato che ottieni è una quantità impressionante di insegnanti disonesti. Oddio, disonesti... voi non suggerireste una risposta a uno studente in difficoltà? Neanche se si mette a piangere? Complimenti, siete proprio tosti. Ma neanche se vi tolgono soldi dalla busta paga? Ecco, vedete.
Quindi trufferemo. Perché non dovremmo farlo? Perché siamo i buoni, gli onesti? Non sta scritto da nessuna parte. Oltre a non aver studiato pedagogia, non abbiamo nemmeno frequentato seminari di etica. Da nessuna parte prima di assumerci ci hanno chiesto se abbiamo un forte senso dello Stato e delle istituzioni. Alcuni lo avranno, altri no. Siamo insegnanti, teniamo alla pagnotta come tutti quanti. E in più c'è un altro problema.
Noi le odiamo, le prove Invalsi.
Questo odio, in parte, è giustificato. Qui ho cercato di spiegare il perché: distribuire test a pallini senza fornire le scuole di lettori ottici, significa pretendere che gli insegnanti italiani (età media 55) si trasformino per 12 ore in scanner umani. Ma ho il sospetto che ci sia di più.
Noi odiamo le prove Invalsi in quanto prove. Verifiche.
E a noi le verifiche non piacciono. Siamo convinti che non servano a nulla, con la loro finta oggettività. E infatti gli studenti bravi (quelli che noi abbiamo sempre considerato bravi) a volte le sbagliano. Allora diciamo che si sono emozionati. Invece quelli che non valgono un granché (abbiamo sempre pensato che non valessero un granché) magari le fanno bene. Avranno copiato. Da chi non si sa, visto che i più bravi han sbagliato tutto. Però è impossibile che abbiano capito qualcosa di più degli altri. Come facciamo a saperlo?
Beh, ma è ovvio, li conosciamo. È da anni che stiamo nella stessa aula, sappiamo come si vestono, con chi chiacchierano nel corridoio, cosa ci dicono dietro le spalle – tutto questo significa conoscerli bene.
E poi qualche volta li interroghiamo, e non rispondono come vogliamo. Su questo si basa la scuola italiana: sull'Interrogazione. Un insegnante “che ti conosce” ti fa certe domande e ti valuta per le risposte. È sempre andata così, e funziona bene, no?
No. Non funziona bene per niente. Ma se lo dici rischi di passare per un amico della Gelmini, uno scanner umano. Oltre a saper poco di pedagogia e di etica delle istituzioni, gli insegnanti italiani sono convinti che la valutazione sia un affare del tutto soggettivo. Solo l'insegnante “che ti conosce” può giudicarti. Test a crocette? Non funzioneranno mai. Commissario esterno? Vade retro. In realtà bisognerebbe abolirli proprio, gli esami, perché i ragazzi si emozionano e non danno il loro meglio.
Un mese fa Massimo Gramellini (via Ludik) raccontò la storia (che davvero, sembra inventata), del prof che falsificava la versione di latino agli esami, con tanto di errori commessi appositamente per gli studenti meno meritevoli. Ancor più impressionante della parabola è la reazione dei commentatori. Molti di loro esaltano il prof truffatore come esempio di buon insegnante, che premia i ragazzi perché li conosce davvero, e combatte la sua lotta segreta contro le meccaniche spietate del sistema educativo, i cosiddetti 'esami'. Sono tutti convinti che il prof distribuisse le soluzioni per combattere contro il fattore emotivo. A nessuno viene in mente un'altra semplicissima ipotesi: che quel prof avesse paura. Paura di cosa? Degli esami, anche lui.
Paura di non risultare davvero un buon maestro, malgrado l'esperienza e il rispetto che aveva accumulato. Paura di non esser riuscito a ottenere risultati concreti. E quindi costretto a falsificarli. C'è sempre un nobile motivo per farlo. L'emotività. Dobbiamo combattere l'emotività. E poi in estate fa caldo, come si può pretendere che i nostri studenti traducano Seneca col caldo? Ma io li conosco, li ho visti su Seneca in inverno, garantisco che eran bravi. Del resto gliel'ho spiegato io, che sono un bravo insegnante. Chi ha deciso che sono un bravo insegnante? Ma i miei studenti, i colleghi, i genitori, tutti ne sono convinti...
Il paradosso della scuola italiana è tutto qui: chi ci lavora non crede negli esami. Sono soltanto ostacoli. Se la Gelmini ce ne mette uno in più, faremo il possibile per aggirarlo.
Avrete sentito dire che il Ministero vuole retribuire noi insegnanti in base al merito. Giusto, no? Mmm.
Siccome comunque soldi in più non ce ne sono, il sospetto è che si tratti di mascherare un taglio: invece di ammettere che ci hanno bloccato la paga, diranno che l'hanno aumentata ai più meritevoli, che ovviamente saranno pochi. Ma lasciamo stare. Fingiamo che a porsi il problema non sia questo ministro e questo governo. È giusto pensare di premiare il merito? Secondo me sì. Il problema è come capire quali siano gli insegnanti meritevoli.
Per molti anni si è voluto pensare che il merito c'entrasse con l'esperienza: quindi gli insegnanti maturavano (e maturano) scatti di anzianità. Più uno è anziano, più conosce il mestiere. In fondo è la naturale conseguenza di un certo modo di considerare la pedagogia in Italia. Ovvero, di non considerarla. All'università non si insegna. Poi ci si stupisce che i neolaureati non siano bravi insegnanti, per cui si organizzano corsi post-universitari propedeutici all'insegnamento in cui... non si insegna pedagogia. L'idea è che il neo-prof debba sbarcare nella classe come un alieno sulla terra, senza nulla sapere dei processi di apprendimento dei suoi studenti, e commettere nei primi anni una caterva impressionante di errori che faranno poi di lui, in seguito, con la pratica, un bravo insegnante. Se resiste. Selezione naturale. Di conseguenza, più uno resiste più uno è bravo. Il bravo maestro in Italia è il maestro praticone. Ha un senso.
Però è anche vero che l'esperienza non è tutto. Soprattutto quella che ti fai dai 55 anni in poi: per quanto l'accumuli, il tempo per metterla a frutto si assottiglia sempre più. E comunque c'è gente che arriva incompetente alla pensione, non è vero? Scommetto che ne conoscete tutti qualcuno. Quindi gli scatti di anzianità non vanno bene. Che fare? Il Ministero ci valuterà in base alle prove Invalsi.
Un test a crocette? Vabbe', meglio che niente – no, aspettate. Non somministreranno un questionario a noi. Lo somministreranno ai nostri studenti. All'inizio e alla fine dell'anno. E dalla differenza dei risultati il Ministero capirà se siamo stati bravi. Bravi a fare cosa? A truccare i risultati delle prove Invalsi, per esempio. Persino negli USA, se vincoli lo stipendio di un insegnante ai risultati dei suoi studenti, il risultato che ottieni è una quantità impressionante di insegnanti disonesti. Oddio, disonesti... voi non suggerireste una risposta a uno studente in difficoltà? Neanche se si mette a piangere? Complimenti, siete proprio tosti. Ma neanche se vi tolgono soldi dalla busta paga? Ecco, vedete.
Quindi trufferemo. Perché non dovremmo farlo? Perché siamo i buoni, gli onesti? Non sta scritto da nessuna parte. Oltre a non aver studiato pedagogia, non abbiamo nemmeno frequentato seminari di etica. Da nessuna parte prima di assumerci ci hanno chiesto se abbiamo un forte senso dello Stato e delle istituzioni. Alcuni lo avranno, altri no. Siamo insegnanti, teniamo alla pagnotta come tutti quanti. E in più c'è un altro problema.
Noi le odiamo, le prove Invalsi.
Questo odio, in parte, è giustificato. Qui ho cercato di spiegare il perché: distribuire test a pallini senza fornire le scuole di lettori ottici, significa pretendere che gli insegnanti italiani (età media 55) si trasformino per 12 ore in scanner umani. Ma ho il sospetto che ci sia di più.
Noi odiamo le prove Invalsi in quanto prove. Verifiche.
E a noi le verifiche non piacciono. Siamo convinti che non servano a nulla, con la loro finta oggettività. E infatti gli studenti bravi (quelli che noi abbiamo sempre considerato bravi) a volte le sbagliano. Allora diciamo che si sono emozionati. Invece quelli che non valgono un granché (abbiamo sempre pensato che non valessero un granché) magari le fanno bene. Avranno copiato. Da chi non si sa, visto che i più bravi han sbagliato tutto. Però è impossibile che abbiano capito qualcosa di più degli altri. Come facciamo a saperlo?
Beh, ma è ovvio, li conosciamo. È da anni che stiamo nella stessa aula, sappiamo come si vestono, con chi chiacchierano nel corridoio, cosa ci dicono dietro le spalle – tutto questo significa conoscerli bene.
E poi qualche volta li interroghiamo, e non rispondono come vogliamo. Su questo si basa la scuola italiana: sull'Interrogazione. Un insegnante “che ti conosce” ti fa certe domande e ti valuta per le risposte. È sempre andata così, e funziona bene, no?
No. Non funziona bene per niente. Ma se lo dici rischi di passare per un amico della Gelmini, uno scanner umano. Oltre a saper poco di pedagogia e di etica delle istituzioni, gli insegnanti italiani sono convinti che la valutazione sia un affare del tutto soggettivo. Solo l'insegnante “che ti conosce” può giudicarti. Test a crocette? Non funzioneranno mai. Commissario esterno? Vade retro. In realtà bisognerebbe abolirli proprio, gli esami, perché i ragazzi si emozionano e non danno il loro meglio.
Un mese fa Massimo Gramellini (via Ludik) raccontò la storia (che davvero, sembra inventata), del prof che falsificava la versione di latino agli esami, con tanto di errori commessi appositamente per gli studenti meno meritevoli. Ancor più impressionante della parabola è la reazione dei commentatori. Molti di loro esaltano il prof truffatore come esempio di buon insegnante, che premia i ragazzi perché li conosce davvero, e combatte la sua lotta segreta contro le meccaniche spietate del sistema educativo, i cosiddetti 'esami'. Sono tutti convinti che il prof distribuisse le soluzioni per combattere contro il fattore emotivo. A nessuno viene in mente un'altra semplicissima ipotesi: che quel prof avesse paura. Paura di cosa? Degli esami, anche lui.
Paura di non risultare davvero un buon maestro, malgrado l'esperienza e il rispetto che aveva accumulato. Paura di non esser riuscito a ottenere risultati concreti. E quindi costretto a falsificarli. C'è sempre un nobile motivo per farlo. L'emotività. Dobbiamo combattere l'emotività. E poi in estate fa caldo, come si può pretendere che i nostri studenti traducano Seneca col caldo? Ma io li conosco, li ho visti su Seneca in inverno, garantisco che eran bravi. Del resto gliel'ho spiegato io, che sono un bravo insegnante. Chi ha deciso che sono un bravo insegnante? Ma i miei studenti, i colleghi, i genitori, tutti ne sono convinti...
Il paradosso della scuola italiana è tutto qui: chi ci lavora non crede negli esami. Sono soltanto ostacoli. Se la Gelmini ce ne mette uno in più, faremo il possibile per aggirarlo.
martedì 20 luglio 2010
La Marescialla
Uno a zero per te
Ho pensato spesso alla Marescialla in questi ultimi anni; molto più di quanto lei si meritasse.
Quando cominciai a mettere da parte le Dieci Intercettazioni Che Ci Hanno Fatto Sognare, la immaginavo sul podio, forse al primo posto: forse tutta la commedia della classifica era soltanto una morbosa strategia elaborata dalla mia mente per rimetterla sotto i riflettori, lei che c'era stata per così poco.
Poi il buon senso ha preso il sopravvento: in un qualche modo devo essermi reso conto che la Marescialla è un'ossessione soltanto mia; a un certo punto ho voluto accorgermi che in senso tecnico la sua telefonata non è un'intercettazione. Durante i fatti del g8 la questura di Genova stava registrando le comunicazioni tra agenti e centrale operativa. Immagino sia la prassi. Il fatto è che in quei giorni le forze dell'ordine distruggevano le documentazioni fotografiche e filmate; addirittura irruppero nella scuola Pertini e si portarono via i server del Genoa Social Forum. La volontà di riscrivere la storia di quei giorni sembrava evidente. E allora perché non hanno cancellato i nastri della centrale operativa? Perché hanno lasciato che gli avvocati delle vittime acquisissero le comunicazioni dove si attestavano le violenze della polizia, e soprattutto il caos in cui stava operando? Un sussulto di trasparenza, o un altro caso di disorganizzazione? O ancora il risultato di una lotta tra bande, per cui si erano lasciate filtrare soltanto certe comunicazioni, e altre no... non lo sapremo mai, accontentiamoci di quel che abbiamo. La Marescialla, intrappolata nella sua registrazione come un insetto nell'ambra. Un insetto che ride, scherza, esulta per la morte di un ragazzo (ma anche l'esultanza in fondo è parte dello scherzo).
Di lei non sappiamo nient'altro. A Genova ci abitava, il che le impediva di godersi appieno l'esperienza. Temeva (non a torto) che le sfasciassero la macchina. Non era una violenta, non sentiva l'odore della sfida che in quei giorni impregnava le strade. Era contentissima di trovare riparo dietro le "montagne enormi" del Reparto Mobile di Napoli, gente che per calpestare le zecche era venuta da lontano, magari aveva fatto domanda. Lei invece se le era semplicemente trovate sottocasa e sperava che morissero tutte: vasto programma, ma all'alba di sabato poteva trovare promettente il fatto che ne avessero ammazzata già una. Uno a zero per noi, yeh!
Uno a zero per noi, yeh.
Quand'è che l'ascolto di una conversazione più o meno privata, divulgata via internet o tv, si trasforma in compulsione morbosa? Nel mio caso ha a che fare col lettore mp3, con l'idea di infilare una telefonata in un lettore, e poi, a distanza di mesi e di anni, mentre si è in tutt'altre faccende affaccendati, in coda a un semaforo o in palestra, ritrovarsi a tu per tu con la Marescialla che ripete: Uno a zero per noi, yeh. Amica, amica. Speriamo che muoiano tutti. Maledette zecche del cazzo. È l'odio che mi ha lasciato un promemoria, perché mi conosce, sa che sono pigro in tutte le passioni, compreso il rancore: incapace di odiare tanto a lungo, e invece dovrei. A Genova avrei potuto perdere un occhio, o un dente, o un naso: ad altri è successo, che non erano molto più incoscienti di me. Poteva succedermi, e la Marescialla ne avrebbe riso.
Ciao Marescialla. Mi chiedo a volte dove sei in questo momento. Non che abbia la minima importanza. In questi nove anni sarai cresciuta anche tu, come tutti noi (meno uno). Avrai avuto le tue gioie e i tuoi dolori, facile che abbia messo su famiglia, magari proprio con Nicoula. Nel 2007, riascoltando la tua voce su internet, avrai probabilmente avuto pena di te stessa. Non ti sarai voluta riconoscere in quell'allegria, quel sorriso congelato nell'ambra, una smorfia che non ti rappresenta. Tu non sei più così, ormai è come se non lo fossi mai stata. Siamo tutti migliori di come ci intercettano. Ti sarai sentita presa di mira, esposta alla rabbia di milioni di zecche, non più coperta dall'ala protettiva del Repartomobbile, tu che in fondo stavi soltanto dicendo belinate a un collega, come se ne dicono in tutti gli ambienti di lavoro.
Ciao Marescialla, da una zecca del tempo che fu. Uno che non avrebbe mai sfasciato la macchina a nessuno - prima di averti ascoltato: dopo, due bottarelle al tuo cofano le avrebbe assestate volentieri. C'è stato un periodo in cui ti ascoltavo apposta, mi davi la carica. Quando mi sentivo troppo buono, caricavo il tuo nastro e poi ero pronto a dar calci contro il muro. Ma è passata anche quella fase. Alla fine, sai cos'è successo? Che mi sono affezionato. Lo so che c'è gente come te nelle centrali operative di tutti gli abusi di potere del mondo, che si fa quattro risate mentre passa le comunicazioni tra assassini. Però alla fine non ha senso prendersela con te. E poi mi sono accorto che t'invidio.
Non t'invidio l'allegria, né senz'altro il mestiere. T'invidio Genova, che è una città di cui mi sono preso in un modo difficile da spiegare. Forse perché nessun'altra mai mi aveva tenuto fuori, con tanto di transenne e un muro di container: e allora sai come sono i maschi, certe volte s'incapricciano. Ogni tanto mi capita di rivederla alla tv, e mi sembra mia, non so perché. È come certe storie che durano una notte o due, poi ognuno per la sua strada: c'è chi non se ne ricorda più, c'è chi se le tiene dentro per tutta la vita. Genova non si ricorda più di me, lo so, la capisco. Io invece continuo ad ascoltarti perché mi fai pensare a lei. Buona vita Marescialla, e scusa se mi sono preso la tua città per un paio di notti. Ti giuro che mi piaceva, mi piaceva sul serio.
Ho pensato spesso alla Marescialla in questi ultimi anni; molto più di quanto lei si meritasse.
Quando cominciai a mettere da parte le Dieci Intercettazioni Che Ci Hanno Fatto Sognare, la immaginavo sul podio, forse al primo posto: forse tutta la commedia della classifica era soltanto una morbosa strategia elaborata dalla mia mente per rimetterla sotto i riflettori, lei che c'era stata per così poco.
Poi il buon senso ha preso il sopravvento: in un qualche modo devo essermi reso conto che la Marescialla è un'ossessione soltanto mia; a un certo punto ho voluto accorgermi che in senso tecnico la sua telefonata non è un'intercettazione. Durante i fatti del g8 la questura di Genova stava registrando le comunicazioni tra agenti e centrale operativa. Immagino sia la prassi. Il fatto è che in quei giorni le forze dell'ordine distruggevano le documentazioni fotografiche e filmate; addirittura irruppero nella scuola Pertini e si portarono via i server del Genoa Social Forum. La volontà di riscrivere la storia di quei giorni sembrava evidente. E allora perché non hanno cancellato i nastri della centrale operativa? Perché hanno lasciato che gli avvocati delle vittime acquisissero le comunicazioni dove si attestavano le violenze della polizia, e soprattutto il caos in cui stava operando? Un sussulto di trasparenza, o un altro caso di disorganizzazione? O ancora il risultato di una lotta tra bande, per cui si erano lasciate filtrare soltanto certe comunicazioni, e altre no... non lo sapremo mai, accontentiamoci di quel che abbiamo. La Marescialla, intrappolata nella sua registrazione come un insetto nell'ambra. Un insetto che ride, scherza, esulta per la morte di un ragazzo (ma anche l'esultanza in fondo è parte dello scherzo).
Di lei non sappiamo nient'altro. A Genova ci abitava, il che le impediva di godersi appieno l'esperienza. Temeva (non a torto) che le sfasciassero la macchina. Non era una violenta, non sentiva l'odore della sfida che in quei giorni impregnava le strade. Era contentissima di trovare riparo dietro le "montagne enormi" del Reparto Mobile di Napoli, gente che per calpestare le zecche era venuta da lontano, magari aveva fatto domanda. Lei invece se le era semplicemente trovate sottocasa e sperava che morissero tutte: vasto programma, ma all'alba di sabato poteva trovare promettente il fatto che ne avessero ammazzata già una. Uno a zero per noi, yeh!
Uno a zero per noi, yeh.
Quand'è che l'ascolto di una conversazione più o meno privata, divulgata via internet o tv, si trasforma in compulsione morbosa? Nel mio caso ha a che fare col lettore mp3, con l'idea di infilare una telefonata in un lettore, e poi, a distanza di mesi e di anni, mentre si è in tutt'altre faccende affaccendati, in coda a un semaforo o in palestra, ritrovarsi a tu per tu con la Marescialla che ripete: Uno a zero per noi, yeh. Amica, amica. Speriamo che muoiano tutti. Maledette zecche del cazzo. È l'odio che mi ha lasciato un promemoria, perché mi conosce, sa che sono pigro in tutte le passioni, compreso il rancore: incapace di odiare tanto a lungo, e invece dovrei. A Genova avrei potuto perdere un occhio, o un dente, o un naso: ad altri è successo, che non erano molto più incoscienti di me. Poteva succedermi, e la Marescialla ne avrebbe riso.
Ciao Marescialla. Mi chiedo a volte dove sei in questo momento. Non che abbia la minima importanza. In questi nove anni sarai cresciuta anche tu, come tutti noi (meno uno). Avrai avuto le tue gioie e i tuoi dolori, facile che abbia messo su famiglia, magari proprio con Nicoula. Nel 2007, riascoltando la tua voce su internet, avrai probabilmente avuto pena di te stessa. Non ti sarai voluta riconoscere in quell'allegria, quel sorriso congelato nell'ambra, una smorfia che non ti rappresenta. Tu non sei più così, ormai è come se non lo fossi mai stata. Siamo tutti migliori di come ci intercettano. Ti sarai sentita presa di mira, esposta alla rabbia di milioni di zecche, non più coperta dall'ala protettiva del Repartomobbile, tu che in fondo stavi soltanto dicendo belinate a un collega, come se ne dicono in tutti gli ambienti di lavoro.
Ciao Marescialla, da una zecca del tempo che fu. Uno che non avrebbe mai sfasciato la macchina a nessuno - prima di averti ascoltato: dopo, due bottarelle al tuo cofano le avrebbe assestate volentieri. C'è stato un periodo in cui ti ascoltavo apposta, mi davi la carica. Quando mi sentivo troppo buono, caricavo il tuo nastro e poi ero pronto a dar calci contro il muro. Ma è passata anche quella fase. Alla fine, sai cos'è successo? Che mi sono affezionato. Lo so che c'è gente come te nelle centrali operative di tutti gli abusi di potere del mondo, che si fa quattro risate mentre passa le comunicazioni tra assassini. Però alla fine non ha senso prendersela con te. E poi mi sono accorto che t'invidio.
Non t'invidio l'allegria, né senz'altro il mestiere. T'invidio Genova, che è una città di cui mi sono preso in un modo difficile da spiegare. Forse perché nessun'altra mai mi aveva tenuto fuori, con tanto di transenne e un muro di container: e allora sai come sono i maschi, certe volte s'incapricciano. Ogni tanto mi capita di rivederla alla tv, e mi sembra mia, non so perché. È come certe storie che durano una notte o due, poi ognuno per la sua strada: c'è chi non se ne ricorda più, c'è chi se le tiene dentro per tutta la vita. Genova non si ricorda più di me, lo so, la capisco. Io invece continuo ad ascoltarti perché mi fai pensare a lei. Buona vita Marescialla, e scusa se mi sono preso la tua città per un paio di notti. Ti giuro che mi piaceva, mi piaceva sul serio.
lunedì 19 luglio 2010
Il blog degli errori
Sull'Unita.it si parla di abusi satanici rituali. Speriamo bene.
Nei commenti si potrebbero materializzare creature subdole. Le riconoscerete dai quattro puntini di sospensione.
(Nel frattempo Il giustiziere ha aperto un nuovo blog. In bocca al lupo!)
Non aveva idea del guaio in cui si stava cacciando. Quando Stefano Zanetti aprì un blog non poteva certo immaginare che tre anni dopo quella paginetta elettronica sarebbe diventata così importante da meritare un sequestro giudiziario. Aveva cominciato a scrivere on line come facciamo tutti: senza impegno, un po' per gioco, un po' per togliersi dalle scarpe quei sassolini raccolti sul luogo di lavoro. Nel suo caso i sassolini si erano accumulati nelle aule di tribunale: Zanetti, sociologo, lavora in una comunità terapeutica che si occupa di reinserimento dei detenuti.
I guai cominciano nell'estate del 2007, quando gli italiani apprendono sbalorditi che nella cittadina di Rignano Flaminio operava una setta pedofila costituita per lo più da maestre di scuola dell'infanzia, un benzinaio cingalese e un autore televisivo. In tv e sui giornali si parla di filmati e altre prove schiaccianti che inchioderebbero i sospettati: nel frattempo su blog e forum l'indignazione degli utenti prende le forme del linciaggio verbale. L'idea generale è che accuse così gravi non possono essere state inventate: soprattutto se sono basate su testimonianze di bambini, che "non mentono mai".
Zanetti ha un altro parere. Il caso di Rignano gli sembra curiosamente simile a quello scoppiato qualche anno prima in due scuole materne di Brescia, dove dopo un lungo iter giudiziario le maestre indagate erano state tutte prosciolte (l'assoluzione definitiva della Cassazione per tutti gli indagati della scuola Sorelli è arrivata soltanto due mesi fa). Una semplice ricerca su internet lo porta a scoprire il trait d'union tra i due casi: la presenza di un'associazione di “lotta alla pedofilia”, la Prometeo, che aveva offerto un servizio di consulenza ai genitori dei bambini sia a Brescia che a Rignano Flaminio. La Prometeo s'ispira esplicitamente alle teorie del controverso criminologo britannico Ray Wyre, fermamente persuaso dell'esistenza di una lobby pedofila internazionale dedita ad abusi satanici rituali. Per i suoi detrattori Wyre (scomparso nel 2008) ha importato in Gran Bretagna quella psicosi collettiva nota come “Satanic panic” o “satanic ritual abuse hoax” (“la bufala degli abusi satanici rituali”), che negli anni '80 divampò negli USA, provocando lunghissime inchieste che si conclusero sconfessando i teorici del satanismo pedofilo. Fuori dagli USA però la psicosi continua.
Zanetti scopre inoltre che il fondatore e presidente di Prometeo, Massimiliano Frassi, ha un blog, proprio come lui. Anche Frassi lo intende come un luogo di sfogo; salvo che la sua frustrazione è quella di un uomo impegnato in una lotta impari, accerchiato da una lobby mondiale di pedofili decisa a rendere vano ogni suo sforzo. E di conseguenza, nel blog, non va tanto per il sottile, anzi. Testi urlati in caratteri di scatola, spesso ironici (o, per diretta ammissione "cinici"), e immagini tratte dai film dell'orrore (vampiri, zombies, eccetera). Addirittura Frassi non si fa scrupolo a pubblicare le foto di indagati, senza nessuna preoccupazione per la loro privacy, e ad accostare arbitrariamente immagini choc di bambini feriti e abusati, che non sono esibite come prove (né a Brescia né a Rignano Flaminio sono mai state scattate foto del genere), ma sono funzionali a inorridire il lettore, a commuoverlo e infuriarlo. In tanti anni di assidua frequentazione di Internet non mi era mai capitato di vedere foto di bambini lividi e sanguinanti, prima di capitare in questo blog di “lotta alla pedofilia” che mira allo stomaco, più che al cervello del lettore.
Dal 2007 in poi siamo stati tanti ad occuparci del “caso” Frassi, che è anche un esempio di come si può usare il blog come cassa di risonanza: mentre il sito ufficiale dell'associazione Prometeo ha un approccio più diplomatico, il blog di Frassi è definito dal suo stesso autore un “bar”, dove tutto è consentito: immagini choc, l'attacco diretto e indiretto agli avversari, le minacce e gli sfottò, la presunzione di colpevolezza nei confronti di qualsiasi indagato (e anche di alcuni assolti). È il caso delle due suore Orsoline accusate di aver commesso abusi sessuali tra il 1999 e il 2000 in un asilo del bergamasco: anche in quel caso i genitori, prima di sporgere denuncia, si erano avvalsi della consulenza della Prometeo. Condannate in primo grado, le due religiose sono poi state assolte in Appello con formula piena: ma nel blog di Frassi i loro nomi e le loro foto sono ancora archiviate alla voce “Suore Pedofile Bergamo”. Eppure, malgrado i casi di Brescia e Bergamo si siano risolti, dopo molti anni e molte sofferenze, con assoluzioni, Frassi continua a essere invitato a trasmissioni tv in quanto esperto di pedofilia, e a procedere sul doppio binario di serio consulente e di agitatore telematico. Siamo stati in tanti a lanciare l'allarme, ma Zanetti sui blog è stato il primo. Senza di lui ci avremmo messo molto più tempo ad accorgercene. Nel frattempo però il suo blog non c'è più. Un GIP ha ottenuto dal gestore americano (Google) la rimozione (anzi, il “sequestro”) preventivo dell'intero sito, in attesa che sia dimostrato in sede processuale che alcuni suoi articoli offendono la reputazione di Frassi.
In questa storia, per ora, ci perdono tutti. Zanetti ha perso un luogo dove sfogarsi, e la reputazione di Frassi non ha ottenuto alcun miglioramento: i blog che lo criticano per i suoi modi e i suoi metodi sono tanti, e non si possono sequestrare tutti. Io poi ho una teoria: quello più offensivo nei confronti della sua reputazione, quello più urlato, più volgare, quello che contiene le immagini più violente e censurabili... è ancora il suo.
mercoledì 14 luglio 2010
Ritorno del Coccodrillo à Pois
Copiare è ok, ma
In margine al pezzo già lunghissimo di venerdì, alcune osservazioni:
1. Per chi non l'abbia letto (vi capisco): in sintesi, gli articoli 'in memoria' di Lelio Luttazzi pubblicati dai quotidiani all'indomani della sua scomparsa erano tutti troppo simili. Identiche le informazioni (e fin qui non ci sarebbe nulla di male), identiche le imprecisioni, i modi di dire, persino gli errori di ortografia. Si parla di dozzine di organi di informazione. Gran parte riceve dallo Stato i contributi per l'editoria. Gran parte etichetta le sue pagine con la dicitura © riproduzione riservata.
2. La fonte principale degli scopiazzamenti erano due agenzie di stampa. Nei commenti è stato fatto presente che è normale per i quotidiani attingere dalle agenzie; che pagano per farlo: insomma, la riproduzione è “riservata” a loro. Giustissimo. Purtroppo anche le due agenzie sembrano essersi scopiazzate a vicenda. Il problema è alla radice. Se è normale che i giornalisti peschino dalle agenzie, da dove pescano le agenzie?
Nel caso di Luttazzi è a questo livello che è successo un guaio, perché l'agenzia ha diffuso una frase che lasciava intendere che il personaggio non fosse stato completamente scagionato da una “vicenda di droga”. Luttazzi invece da quella vicenda è saltato fuori pulito, malgrado i venti giorni in galera abbiano contribuito ad allontanarlo dai palcoscenici tv. A poche ore dalla sua scomparsa, i quotidiani di tutt'Italia hanno scritto che la vicenda aveva dei contorni “mai chiariti” (???) e che le colpe “non erano tutte sue”. Perché lo avevano letto sull'agenzia. Ma l'agenzia da chi lo aveva saputo? Se n'è accorto DestraLab: la fonte della frase incriminata sarebbe un pezzo di Repubblica del 2003, dove si legge identica (e nello stesso pezzo, finalmente! c'è l'accento giusto su rentrée). Ricapitolando: un quotidiano scrive un'inesattezza, l'agenzia la ricopia, tutti i quotidiani copiano l'agenzia (e hanno il diritto di farlo), Luttazzi viene infamato per l'ennesima volta. Se succedesse a me non sarei contento.
3. Di chi è la colpa? Un'agenzia non è un'enciclopedia: il suo ruolo era quello di dare succintamente la notizia che Luttazzi era morto. Poi, per spiegare chi fosse questo signore, ha aggiunto un profilo biografico: ma siccome non è un'enciclopedia, ha messo insieme informazioni trovate on line alla bell'e meglio, tanto poi i quotidiani le avrebbero vagliate. Ma era già giovedì, e venerdì si scioperava; faceva caldo; di questo tal Luttazzi non si ricordava bene nessuno... insomma, è andata così. Magari di solito va meglio. Magari. Perché poi è inutile lamentarsi che nessuno compra i giornali. Per quale motivo l'utente medio dovrebbe voler spendere per leggere la copia non corretta di qualcosa che è già gratis on line? Qual è il valore aggiunto?
4. Un giornalista che copia così, o ha molta fretta (troppa), oppure è convinto che nessuno se ne accorgerà. Si comporta come se il tasto “cerca” di Google fosse suo esclusivo privilegio, quando ormai sta nella homepage di vecchi e bambini. I giornalisti forse non hanno capito che con internet non cambia soltanto la paginazione, ma anche il rapporto coi lettori. Il lettore del cartaceo ha scelto proprio quel quotidiano, e difficilmente può sfogliarne un altro per accorgersi che i contenuti sono identici. Il lettore via internet ha un approccio diverso. Non necessariamente più intellettuale. Ma provate a pensare agli utenti di youtube. Come si comportano? Quando trovano un video interessante, ne cercano di simili. Se ne trovano uno identico, lo riconoscono subito e cliccano oltre. Non sono intellettuali, sono nonni o bambini, e a volte siamo noi. Su internet ci comportiamo così. Il lettore che trova un articolo interessante su Luttazzi può rimanere incuriosito dalla vicenda e cercarne altri che la illustrino meglio. Ci mette pochi secondi, e ancora meno ad accorgersi che i testi sono simili o identici. Un quotidiano su carta può permettersi di copiare, ma un quotidiano on line che copia così è spacciato.
5. Con un po' di tempo sui quotidiani sono arrivate anche i famosi contenuti di qualità: per esempio l'Unità di sabato aveva un bel ricordo di Fazio. Nel frattempo il Corriere pubblicava questo pezzo di Grasso, che ci dice una cosa interessante: Luttazzi ogni tanto querelava (vincendo) quelli che lo davano ancora per implicato nel famoso scandalo. Avrebbe quindi querelato anche il Corriere di due giorni prima? Ma dunque i quotidiani hanno le risorse per fare informazione di qualità: il problema è che non sono tempestivi, ovvero, non sono abbastanza “quotidiani”. Può anche darsi che lo sciopero di venerdì abbia complicato le cose: in ogni caso il mio quotidiano ideale è quello che a cadavere caldo ha già nel cassetto il pezzo di Grasso. Il caro vecchio coccodrillo, esatto.
6. Se la prendono in tanti col Post perché molti suoi articoli sono semplicemente citazioni da altri organi di stampa: ma al Post non fanno altro che rendere esplicito il meccanismo con cui tutti i quotidiani producono i loro “contenuti”.
7. Il problema non è che i quotidiani copiano. Continueranno a farlo, perché è troppo facile, e l'alternativa (produrre contenuti originali) troppo costosa. Il problema è che il sistema permette la diffusione di notizie incontrollate, come l'infamia su Luttazzi. Quello che vorrei dai quotidiani è il cosiddetto fact-checking: copiate pure le agenzie, ma verificate ogni singola affermazione che fanno (e già che ci siete, sì, anche un controllo all'ortografia). Quando un'informazione non si riesce a verificare (non era certo il caso della fedina penale di Luttazzi), è meglio fare come al Post: citare la fonte.
8. Venerdì citavo Wikipedia. In realtà l'articolo su Luttazzi di su Wikipedia Italia è ben lontano dall'essere perfetto. Non si tratta di allungare la polemica tra contenuti liberi amatoriali (wiki) e contenuti professionali coperti da copyright. Wikipedia per me è soprattutto un metodo. Nei primi anni ci rovesciavamo dentro tutto quello che sapevamo, senza preoccuparci troppo di spiegare perché lo sapevamo, chi ce l'aveva insegnato. Col tempo Wiki ci ha insegnato l'importanza delle fonti. In teoria (ed è una teoria ancora lontana dalla realtà, ma non importa) tutte le informazioni inserite su Wiki dovrebbero rimandare a una fonte. Questo rende a tutt'oggi Wiki una risorsa impagabile: non per i contenuti, che possono essere scarsini, ma per le fonti a cui punta. Per esempio, io non riuscivo a capire come si conciliava la “caduta in disgrazia” di Luttazzi dopo lo scandalo del 1970 col fatto che continuasse a lavorare in Rai fino al 1976. Nessun quotidiano me lo spiegava. Invece nella pagina di discussione su Wiki qualcuno ha spiegato che a partire dal 1970 Luttazzi smise di essere un personaggio tv: il varietà che aveva condotto fino all'anno prima cambiò conduttore. Ma quel che è importante, è che questa affermazione puntava a una fonte: una pagina della Rai con l'organigramma dei varietà dal 1954 al 2006. Ecco, questa è un'informazione verificata. Questa si può copiare.
9. Perché il problema non è copiare. Copiare è ok. Il problema è copiare le cose giuste. Sapere dove trovarle e sapere come verificarle. A quel punto copiare diventa così impegnativo che l'alternativa – produrre contenuti originali – diventa quasi preferibile.
In margine al pezzo già lunghissimo di venerdì, alcune osservazioni:
1. Per chi non l'abbia letto (vi capisco): in sintesi, gli articoli 'in memoria' di Lelio Luttazzi pubblicati dai quotidiani all'indomani della sua scomparsa erano tutti troppo simili. Identiche le informazioni (e fin qui non ci sarebbe nulla di male), identiche le imprecisioni, i modi di dire, persino gli errori di ortografia. Si parla di dozzine di organi di informazione. Gran parte riceve dallo Stato i contributi per l'editoria. Gran parte etichetta le sue pagine con la dicitura © riproduzione riservata.
2. La fonte principale degli scopiazzamenti erano due agenzie di stampa. Nei commenti è stato fatto presente che è normale per i quotidiani attingere dalle agenzie; che pagano per farlo: insomma, la riproduzione è “riservata” a loro. Giustissimo. Purtroppo anche le due agenzie sembrano essersi scopiazzate a vicenda. Il problema è alla radice. Se è normale che i giornalisti peschino dalle agenzie, da dove pescano le agenzie?
Nel caso di Luttazzi è a questo livello che è successo un guaio, perché l'agenzia ha diffuso una frase che lasciava intendere che il personaggio non fosse stato completamente scagionato da una “vicenda di droga”. Luttazzi invece da quella vicenda è saltato fuori pulito, malgrado i venti giorni in galera abbiano contribuito ad allontanarlo dai palcoscenici tv. A poche ore dalla sua scomparsa, i quotidiani di tutt'Italia hanno scritto che la vicenda aveva dei contorni “mai chiariti” (???) e che le colpe “non erano tutte sue”. Perché lo avevano letto sull'agenzia. Ma l'agenzia da chi lo aveva saputo? Se n'è accorto DestraLab: la fonte della frase incriminata sarebbe un pezzo di Repubblica del 2003, dove si legge identica (e nello stesso pezzo, finalmente! c'è l'accento giusto su rentrée). Ricapitolando: un quotidiano scrive un'inesattezza, l'agenzia la ricopia, tutti i quotidiani copiano l'agenzia (e hanno il diritto di farlo), Luttazzi viene infamato per l'ennesima volta. Se succedesse a me non sarei contento.
3. Di chi è la colpa? Un'agenzia non è un'enciclopedia: il suo ruolo era quello di dare succintamente la notizia che Luttazzi era morto. Poi, per spiegare chi fosse questo signore, ha aggiunto un profilo biografico: ma siccome non è un'enciclopedia, ha messo insieme informazioni trovate on line alla bell'e meglio, tanto poi i quotidiani le avrebbero vagliate. Ma era già giovedì, e venerdì si scioperava; faceva caldo; di questo tal Luttazzi non si ricordava bene nessuno... insomma, è andata così. Magari di solito va meglio. Magari. Perché poi è inutile lamentarsi che nessuno compra i giornali. Per quale motivo l'utente medio dovrebbe voler spendere per leggere la copia non corretta di qualcosa che è già gratis on line? Qual è il valore aggiunto?
4. Un giornalista che copia così, o ha molta fretta (troppa), oppure è convinto che nessuno se ne accorgerà. Si comporta come se il tasto “cerca” di Google fosse suo esclusivo privilegio, quando ormai sta nella homepage di vecchi e bambini. I giornalisti forse non hanno capito che con internet non cambia soltanto la paginazione, ma anche il rapporto coi lettori. Il lettore del cartaceo ha scelto proprio quel quotidiano, e difficilmente può sfogliarne un altro per accorgersi che i contenuti sono identici. Il lettore via internet ha un approccio diverso. Non necessariamente più intellettuale. Ma provate a pensare agli utenti di youtube. Come si comportano? Quando trovano un video interessante, ne cercano di simili. Se ne trovano uno identico, lo riconoscono subito e cliccano oltre. Non sono intellettuali, sono nonni o bambini, e a volte siamo noi. Su internet ci comportiamo così. Il lettore che trova un articolo interessante su Luttazzi può rimanere incuriosito dalla vicenda e cercarne altri che la illustrino meglio. Ci mette pochi secondi, e ancora meno ad accorgersi che i testi sono simili o identici. Un quotidiano su carta può permettersi di copiare, ma un quotidiano on line che copia così è spacciato.
5. Con un po' di tempo sui quotidiani sono arrivate anche i famosi contenuti di qualità: per esempio l'Unità di sabato aveva un bel ricordo di Fazio. Nel frattempo il Corriere pubblicava questo pezzo di Grasso, che ci dice una cosa interessante: Luttazzi ogni tanto querelava (vincendo) quelli che lo davano ancora per implicato nel famoso scandalo. Avrebbe quindi querelato anche il Corriere di due giorni prima? Ma dunque i quotidiani hanno le risorse per fare informazione di qualità: il problema è che non sono tempestivi, ovvero, non sono abbastanza “quotidiani”. Può anche darsi che lo sciopero di venerdì abbia complicato le cose: in ogni caso il mio quotidiano ideale è quello che a cadavere caldo ha già nel cassetto il pezzo di Grasso. Il caro vecchio coccodrillo, esatto.
6. Se la prendono in tanti col Post perché molti suoi articoli sono semplicemente citazioni da altri organi di stampa: ma al Post non fanno altro che rendere esplicito il meccanismo con cui tutti i quotidiani producono i loro “contenuti”.
7. Il problema non è che i quotidiani copiano. Continueranno a farlo, perché è troppo facile, e l'alternativa (produrre contenuti originali) troppo costosa. Il problema è che il sistema permette la diffusione di notizie incontrollate, come l'infamia su Luttazzi. Quello che vorrei dai quotidiani è il cosiddetto fact-checking: copiate pure le agenzie, ma verificate ogni singola affermazione che fanno (e già che ci siete, sì, anche un controllo all'ortografia). Quando un'informazione non si riesce a verificare (non era certo il caso della fedina penale di Luttazzi), è meglio fare come al Post: citare la fonte.
8. Venerdì citavo Wikipedia. In realtà l'articolo su Luttazzi di su Wikipedia Italia è ben lontano dall'essere perfetto. Non si tratta di allungare la polemica tra contenuti liberi amatoriali (wiki) e contenuti professionali coperti da copyright. Wikipedia per me è soprattutto un metodo. Nei primi anni ci rovesciavamo dentro tutto quello che sapevamo, senza preoccuparci troppo di spiegare perché lo sapevamo, chi ce l'aveva insegnato. Col tempo Wiki ci ha insegnato l'importanza delle fonti. In teoria (ed è una teoria ancora lontana dalla realtà, ma non importa) tutte le informazioni inserite su Wiki dovrebbero rimandare a una fonte. Questo rende a tutt'oggi Wiki una risorsa impagabile: non per i contenuti, che possono essere scarsini, ma per le fonti a cui punta. Per esempio, io non riuscivo a capire come si conciliava la “caduta in disgrazia” di Luttazzi dopo lo scandalo del 1970 col fatto che continuasse a lavorare in Rai fino al 1976. Nessun quotidiano me lo spiegava. Invece nella pagina di discussione su Wiki qualcuno ha spiegato che a partire dal 1970 Luttazzi smise di essere un personaggio tv: il varietà che aveva condotto fino all'anno prima cambiò conduttore. Ma quel che è importante, è che questa affermazione puntava a una fonte: una pagina della Rai con l'organigramma dei varietà dal 1954 al 2006. Ecco, questa è un'informazione verificata. Questa si può copiare.
9. Perché il problema non è copiare. Copiare è ok. Il problema è copiare le cose giuste. Sapere dove trovarle e sapere come verificarle. A quel punto copiare diventa così impegnativo che l'alternativa – produrre contenuti originali – diventa quasi preferibile.
lunedì 12 luglio 2010
Dinasty
Non so voi, ma io mi sarei anche stancato di parlare sempre solo di Berlusconi.
E Berlusconi qui e Berlusconi là, e Berlusconi Berlusconi Berlusconi.
Come se in Italia ci fosse solo lui, come se ci fosse un solo Berlusconi.
Mentre invece
ce ne sono altri cinque.
Ho una teoria #31, è sull'Unità.it, e si commenta lì.
Ci sono cascato un'altra volta. Domenica scorsa mi ero inventato un Berlusconi rinunciatario, disposto a una ritirata strategica sul caso Brancher. La mia, più che un'analisi, era una fantasia proibita, destinata a infrangersi alle luci dell'alba di lunedì. Berlusconi non molla mai, al limite manda al macello i suoi uomini. E questo ci porta a un altro problema. Se Berlusconi non riesce a darsi un limite, nessun altro ormai è in grado di imporglielo. Con un po' di tempo, e un bombardamento mediatico adeguato, SB può venire a capo di qualsiasi avversario o arbitro. Salirà al Quirinale, riscriverà la Costituzione: non ha più limiti, se non quelli che sono imposti a ciascuno di noi dalla natura. In effetti, SB non è più nel fiore degli anni. Questo in teoria dovrebbe provocare convulsioni ai vertici del suo partito, là dove sarebbe più naturale immaginare una lotta tra aspiranti papabili.
Ma come ben sanno le farfalle Fini e Casini, chi si avvicina troppo al ruolo di probabile successore è destinato a bruciarsi le ali. Berlusconi dal canto suo sostiene che grazie ai prodigi di Scapagnini arriverà fino ai 120 anni, o giù di lì: un modo per tranquillizzare i seguaci, che se non fossero abbagliati dall'astro di Arcore non faticherebbero a rendersi conto che dopo di lui c'è il diluvio. Estromesso Fini, chi resta? Solo figure di terzo piano, splendenti di luce riflessa, senza un grano del carisma di SB. Tremonti può piacere a qualche padroncino del nord, ma tagli o tasse lo renderebbero subito impopolare. Al Vaticano piace Casini, ma si è già visto quanto poco valga senza i voti di Berlusconi. Insomma, a tutt'oggi il dopo-Berlusconi è un salto del vuoto. Eppure non si tratta di un'ipotesi così remota. Presto o tardi SB non ci sarà più. Chi ne prenderà il posto? Indovinate un po', ho una teoria (e c'è da sperare che sia sballata come al solito).
Per rispondere alla domanda dobbiamo allargare il quadro. Berlusconi non ci lascia soltanto un'Italia impoverita e ipnotizzata, in mano a una classe dirigente mediocre. Berlusconi ci lascia tutto questo, ma anche un'azienda fiorente, salvata più volte da debiti e processi: il gruppo Mediaset. Forse la chiave di tutto è lì. Perché se invece di guardare la Repubblica Italiana osserviamo Canale5, Mondadori, Publitalia, il Milan... ci rendiamo conto che l'invincibile SB, così restio a mettersi da parte quando si tratta degli interessi nazionali, in realtà dagli affari che più gli stanno a cuore si è ritirato da un pezzo: consapevole, forse, di non avere più la lucidità e la spinta dei suoi anni ruggenti. Quindi Berlusconi sa cedere il potere, quando vuole. E il più delle volte preferisce cederlo ai figli. Perché non dovrebbe succedere la stessa cosa anche in politica?
Berlusconi potrebbe essere ricordato, tra un secolo, come il fondatore di una dinastia. In effetti il culto della personalità su cui è fondato il suo partito ha una sola logica conseguenza: la stessa della Corea del Nord, della Siria o della Repubblica democratica del Congo. Le smentite dei figli contano poco: anche SB negava di voler entrare in politica fino al '94. Il fatto è che l'impero Mediaset non può prosperare senza legislatori e giudici benevolenti, e senza il controllo indiretto del concorrente di Stato. Mediaset cominciò a colonizzare la politica ben prima del '94. È un organismo che sopravviverà a Berlusconi, e lotterà per non cedere i privilegi che ha raggiunto e che sono necessari alla sua sopravvivenza. L'eventuale successore di Berlusconi, insomma, non va cercato nelle opache adunate dei notabili di partito, ma nei consigli d'amministrazione, dove siedono i suoi delfini. Sono giovani, competenti, di bell'aspetto. Ma soprattutto hanno quel cognome che fa tutta la differenza.
L'ipotesi dinastica porta alcune complicazioni. Silvio è uno solo, i figli sono tanti. Alcuni di loro non li conosciamo ancora bene, anche se la stampa ha cercato per quanto possibile di metterli sotto i riflettori, esagerando contrasti che forse non sono nemmeno esistiti. È possibile che essi abbiano piani diversi? In parole povere: potrebbe, all'indomani da un ritiro di SB dalle scene, scoppiare una lotta di successione? Come i soldati inglesi, reduci da cent'anni di guerra in Francia, una volta tornati nella loro isola non trovarono di meglio che organizzare quella faida intestina conosciuta come Guerra delle Due Rose, anche noi italiani, alla scomparsa di SB, dovremo trovare nuovi idoli da appoggiare o da sputacchiare. Gli eredi di Berlusconi appaiono piuttosto adatti alla bisogna. Ognuno di loro sembra incarnare un modello diverso di berlusconità. Non ci resta che scegliere il più adatto alle nostre esigenze. Vediamo.
Maria Elvira, detta Marina
Nata nel 1966, è già succeduta al padre alla presidenza di Fininvest. Se gli subentrasse anche a Palazzo Chigi, entrerebbe nella Storia come prima donna a capo di un governo in Italia (sarebbe anche ora). Si tratta tuttavia di una scelta che lascerebbe freddi molti berlusconiani, e non per una questione di genere. Il fatto è che Marina è il volto che la famiglia ha usato quando si trattava di annunciare notizie impopolari, in primis il ridimensionamento del parco giocatori del Milan. In realtà Marina non è responsabile della cessione di Kakà: ha solo osato dichiarare che “le societa' di calcio non si possono sottrarre alle regole della buona gestione, puntando all'equilibrio costi-ricavi”. Parole di buon senso che però suonano rivoluzionarie in Italia: la Storia del calcio italiano è fatta di squadre foraggiate dai capitani d'industria, incuranti di qualsiasi equilibrio costi-ricavi... compresa quella messa insieme da papà. Se a Silvio succedesse Marina, sarebbe come se alle favole sgargianti degli anni Ottanta subentrasse il principio di realtà, il pareggio del bilancio, l'austerità. Forse, più che Palazzo Chigi, il suo destino è il dicastero dell'Economia.
Pier Silvio
Nato nel 1969, Pier Silvio sembra il naturale successore del padre. A ben vedere già nell'opuscolo distribuito in occasione delle elezioni del 2001 la sua stringatissima biografia virava nella leggenda: (“dopo un terribile incidente stradale alle Bermuda si è ricostruito con lo sport uno straordinario fisico da atleta”). Varcata la soglia dei quarant'anni, PSB sembra incarnare tutto quello che SB non riesce più a essere: un imprenditore di successo, di bell'aspetto, felicemente accompagnato (ma non sposato – del resto i Berlusconi di seconda generazione sembrano allergici al matrimonio). Cosa gli manca per diventare il nuovo sposo mistico dell'Italia? Forse quei piccoli grandi difetti che umanizzano il padre. Certo, non gli si può chiedere di mettersi il cerone o di frequentare donnine allegre. Ma se ogni tanto si facesse scappare qualche barzelletta idiota, ecco, probabilmente l'Italia sarebbe sua. Anche se noi non lo voteremmo, certo. Più facilmente opteremmo per...
Barbara (1984)
Quello di una Barbara antiberlusconiana è un mito (un po' come quello di Veronica Lario che non votava per il marito). Però la politica si fa anche coi miti, specie qui da noi. L'unico indizio appurato è che Barbara non ha dato ai suoi figli i nomi che piacerebbero a Silvio: il che dimostrerebbe un certo anelito all'indipendenza. In fondo, crescendo in una scuola steineriana, deve aver guardato pochissima tv, il che la rende meno berlusconiana di tutti noi. Con un po' di buona volontà possiamo anche immaginare che il suo desiderio di lavorare in Mondadori sia un'implicita critica del modo in cui la sorellastra Marina gestisce il braccio culturale dell'impero. Ci vuole comunque un grande sforzo di fantasia per immaginare la giovane Barbara come una leader dell'opposizione. Ma noi di sinistra siamo capaci di qualsiasi sforzo: se a un certo punto Veltroni voleva arruolare sua madre... e in fondo, se abbiamo creduto in Veltroni...
Eleonora (1986)
Dei cinque eredi è finora quella rimasta meno sotto i riflettori. Quel poco che si sa di lei fa ben sperare: si è appena laureata negli USA, il che significa che (1) ha studiato; (2) ha viaggiato. Forse l'Italia non ha bisogno di un Berlusconi, ma dovendo conviverci, ha assolutamente bisogno di un Berlusconi che parli un inglese non ridicolo. In più, è opinione diffusa che sia impossibile restare berlusconiani dopo un soggiorno di appena qualche mese all'estero. Ma Eleonora potrebbe anche diventare una specie di ambasciatrice della berlusconità nel mondo civile, una Ranja di Giordania de noantri. Potrebbe tornarci molto utile.
Luigi (1988)
Il tratto distintivo dell'ultimogenito sembra essere una profonda religiosità: non si tratta di una novità in famiglia, ma potrebbe assumere una particolare importanza nel momento in cui il Vaticano rinunciasse a puntare su Casini e al miraggio di una nuova DC che non decolla mai. A quel punto non resterebbe ai porporati che appoggiare il più pio tra i delfini di Silvio, cercando di arruolarlo alle cause che più stanno a cuore alla curia (fondi alle scuole private, antiabortisti nei consultori, no a qualsiasi patto civile, blindatura dell'otto per mille, eccetera).
Ecco qui cinque delfini, cinque probabili protagonisti della politica italiana. Non resta che scegliere. Sono pochi? Sempre meglio di uno solo. E poi si tratta di semplicemente di aspettare la terza generazione: per ora i nipoti sono sei, ma aumenteranno... http://leonardo.blogspot.com
venerdì 9 luglio 2010
Coccodrillo à pois
E invece sei più cinico di me!
Salve, sono Leonardo, e per molti di voi sono un fenomeno. No, magari per te che stai leggendo in questo momento sono solo un poveretto, ma ti garantisco che qui passa gente convinta che io potrei subentrare a Eugenio Scalfari da un momento all'altro, e se non lo faccio è soltanto perché sono troppo timido io, oppure per via che in Italia non c'è la meritocrazia eccetera... Balle. Chi mi conosce veramente lo sa. Io non sarei un bravo editorialista, in effetti non lo sono. La verità è assai più prosaica.
Io ero nato per scrivere i coccodrilli.
Lo sapete cosa sono i coccodrilli, no? Quei pezzi che si scrivono in morte del tal personaggio famoso... quando però il personaggio è ancora in vita. Dove si finge tristezza, quando in realtà ci si sta soltanto portando avanti col lavoro. A dire il vero i miei non sono veri coccodrilli: mi è capitato soltanto una volta di mettermi avanti, e non ne vado fiero. Di solito scrivo a corpo già freddino.
Però non ne sbaglio uno. Personaggi di reality, poeti di neoavanguardia, presentatori senza scrupoli, attori decrepiti, musicisti dimenticati (forse giustamente), fumettisti oscuri, tenori strampalati, ciclisti tossicomani, io riesco a spremere una lacrimuccia per tutti. Sarà che più si diventa vecchi... Ma no, è proprio un dono di natura. Che comunque va esercitato.
Il problema è che di Lelio Luttazzi io so pochissimo, giusto qualche antica canzone e ricordi confusi di repliche in bianco e nero. Le poche cose che so, tra l'altro, non combaciano: da qualche parte ho letto che condusse Hit Parade in radio per tantissimi anni, fino a metà dei '70. Ma da qualche parte ho appreso che proprio nel 1970 fu coinvolto in uno scandalo di droga, e che la sua carriera s'interruppe bruscamente. Eppure non smette di condurre Hit Parade, com'è possibile? La verità è che non ne so niente. In quel periodo ero molto impegnato a venire al mondo.
Comunque non è un problema. Questione di mezza giornata, il tempo che serve alle redazioni per tirare fuori i loro veri coccodrilli, a stamparli e poi metterli on line. Nel giro di poche ore la rete sarà piena di informazioni sulla vita di Lelio Luttazzi, e saranno tutte notizie sicure, messe insieme da giornalisti seri, che hanno avuto il tempo di prepararsi e che possono accedere ad archivi importanti. Meno male che esistono, questi giornalisti. Altrimenti non saremmo mai sicuri di niente. Sarebbe tutto un enorme sentito dire. V'immaginate che caos?
Lascio passare dunque una mezza giornata, e poi consulto il Corriere (Luttazzi m'ispira Corriere, saranno i doppiopetti).
Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la «sua» Trieste) il 27 aprile del 1923: aveva compiuto 87 anni. È stato uno dei personaggi di maggior successo della canzone italiana degli anni '50 e '60 ma soprattutto un protagonista della televisione, dell'epoca d'oro di Studio Uno, della radio e del cinema. Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre "swingato"...
Vabbè, fin qui ci siamo.
Probabilmente l'apice della popolarità lo ha toccato grazie ad «Hit Parade» uno dei più longevi programmi radiofonici, uno dei primi esempi italiani di trasmissione dedicata alle classifiche trattate con lo spirito del varietà. L'annuncio con il titolo dilatato ('Hiiiiiit Parade!!) come in uno spettacolo di Broadway è rimasto nella memoria del pubblico italiano che seguiva la radio negli anni '60-'70.
Ahimè, non nella mia. Ma quella storia dello scandalo?
...ha visto interrompersi bruscamente la sua parabola artistica quando è rimasto coinvolto in una vicenda di droga dai contorni mai chiariti della quale è risultato in un primo tempo responsabile di colpe che non erano tutte sue. Questo episodio, insieme all'atteggiamento di alcuni colleghi che gli erano più vicini e che certo non lo hanno aiutato in quel momento così difficile, hanno spinto Luttazzi ad una volontà di esilio da quale è uscito soltanto raramente per qualche piccolo spettacolo con alcuni musicisti amici.
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Fine dell'articolo. Non dice molto. Notate quante ambiguità: “Contorni mai chiariti”, “colpe che non erano tutte sue” (quindi aveva alcune colpe? Quali?), “alcuni colleghi” (chi?) È il classico pezzo di qualcuno che non ha accesso a informazioni di prima mano e non vuole sbilanciarsi (me ne intendo). Insomma, non è un vero coccodrillo. Non è stato scritto mesi fa, e poi chiuso in un cassetto in attesa che venisse utile. È stato buttato giù in fretta da qualcuno che non aveva tempo per documentarsi.
Cosa pensare? I coccodrilli sono cinici, ma professionali. E se smettono di essere cinici i giornalisti, dove lo trovo io il materiale per fare un pezzo empatico e straziante? Mi sarebbe piaciuto leggere un bel pezzo documentato sulle traversie giudiziarie di Luttazzi, magari piagnucolare un po' sul modo ingiusto in cui si è interrotta la sua carriera. Ma in realtà non sono ancora sicuro che si sia interrotta bruscamente, o in modo ingiusto. Non ne so niente.
Vabbè, mi dico, il Corriere ha bucato. Proviamo la Stampa.
Il maestro e compositore Lelio Luttazzi è morto la scorsa notte nella sua casa, a Trieste. Lo si è appreso dal suo amico e agente, Roberto Podio, portavoce della famiglia. Aveva 87 anni e soffriva da tempo di una neuropatia. È stato uno dei personaggi di maggior successo della canzone italiana degli anni '50 e '60 ma soprattutto un protagonista della televisione, dell'epoca d'oro di Studio Uno, della radio e del cinema. Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre 'swingato'...
Ehi ehi, un momento. L'ho già letto, questo pezzo.
...ha visto interrompersi bruscamente la sua parabola artistica quando è rimasto coinvolto in una vicenda di droga dai contorni mai chiariti della quale è risultato in un primo tempo responsabile di colpe che non erano tutte sue. Questo episodio, insieme all' atteggiamento di alcuni colleghi che gli erano più vicini e che certo non lo hanno aiutato in quel momento così difficile, hanno spinto Luttazzi ad una volontà di esilio da quale è uscito soltanto raramente per qualche piccola rentreè con alcuni musicisti amici.
Oddio, qualche differenza c'è: per esempio, nella versione della Stampa al posto di “spettacolo” c'è “rentrée” (con un errore di ortografia, ma passi). Ma al Corriere lo sanno che la Stampa li scopiazza così? E se fosse la Stampa che scopiazza il Corriere? Tanto comunque ne sanno poco entrambi. Che fare?
Proviamo la stampa locale. Una cosa che ho capito è che Luttazzi è nato e morto a Trieste. (La "sua" Trieste). Figurati se al Piccolo non gli hanno preparato un coccodrillo decente...
Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la "sua" Trieste)...
No. Anche il Piccolo no.
Ora, io lo so che scrivere profili biografici è molto meno facile di quanto sembri. Mi è capitato di farlo per lavoro, e il mio lavoro consisteva esattamente in questo: scopiazzare informazioni a destra e manca. Però mi hanno insegnato che oltre a copiarle devo cambiarle un po', lavorare di sinonimi, rimescolare la sbobba... sennò non sono più un pubblicista. Non sono neanche più un essere umano, sono un software semantico neanche troppo elaborato. È la seconda volta in due necrologi che leggo “la «sua» Trieste”. È un inciso ridondante, la prima cosa che un essere umano taglierebbe per dissimulare il furto di contenuto. Ma qui non c'è più nessuna umanità, a parte quella che serve a premere ctrl+c e ctrl+v.
L'annuncio con il titolo dilatato ('Hiiiiiit Parade!!) come in uno spettacolo di Broadway è rimasto nella memoria del pubblico italiano che seguiva la radio negli anni '60-'70.
Sì, e anche nella mia: è la terza volta che leggo lo stesso necrologio. Contro questa epidemia di contenuti scadenti non mi resta che usare l'arma finale: Google. Lo faccio anche coi ragazzini che mi portano tutti orgogliosi una ricerca stampata al pc: prendo una frase un po' strana, la virgoletto, la butto su google, e in 0,3 secondi trovo la fonte del copione. Vediamo un po' quanti giornalisti hanno scritto la stessa frase:
329 risultati.
No, aspetta, 329?
Vabbè, non sono tutti giornalisti: molti sono blogger che scopiazzano i contenuti professionali dei giornalisti senza nessun rispetto per la proprietà intellettuale, quei felloni. E tuttavia... Avvenire. Il Sole 24 Ore. Il Mattino. L'Unità, ahimè. Il Corriere Adriatico. Il Velino. Il Gazzettino. Il Giornale. Radio KissKiss. Tgcom. RaiNews24. Il Messaggero. La Gazzetta di Parma. È l'elenco di tutte le testate che non hanno ritenuto nemmeno necessario cambiare il numero di “i” della parola “Hiiiiiit”: si vede che Luttazzi ne pronunciava esattamente sei, né una di più né una di meno. E ancora: il Nuovo Quotidiano di Puglia. Leggo On Line. Agi. Alt! Ho scritto Agi? Forse ci sono, ho trovato la fonte. L'Agi è un'agenzia: fornisce le notizie di prima mano ai quotidiani. Il suo articolo mi pare di averlo già letto una mezza dozzina di volte, ma mancano due elementi che ormai mi sto allenando a riconoscere: la “sua” Trieste e la parola rentrée. A questo punto mi viene la curiosità di guardare la concorrenza, ovvero l'Ansa. Molto interessante:
Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la ''sua" Trieste) il 27 aprile del 1923: aveva compiuto 87 anni.
© Copyright ANSA - Tutti i diritti riservati
Bingo!
Dunque forse ho capito: i quotidiani non fanno più i coccodrilli. Quando muore qualche personaggio importante prendono le schede delle agenzie e le pasticciano un po'... però, aspetta.
Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre 'swingato'
Questo c'era anche nella scheda dell'Agi, maledizione. Quindi anche le Agenzie si pasticciano le informazioni tra loro?
C'è un altro dettaglio interessante. Nella versione Ansa compare la parola rentrée Ma è scritta in un modo diverso. Comunque sbagliato, ma diverso. Controllo in giro: trovo tre versioni diverse (rentreé, rentree', rentreè). Tutte e tre sbagliate, dannazione – e va bene, il francese è ormai una lingua esotica. Però il dettaglio getta una luce inquietante su tutta la faccenda: questo è un errore di copiatura. Un errore che un ctrl+c e un ctrl+v non potrebbero mai commettere.
Dunque questi non sono pezzi copia-incollati all'ultimo momento. Sono stati scritti a mano. Sbagliare un accento è una prerogativa umana. Insomma: qualcuno ha perso ore e fatica, per ottenere alla fine dei pezzi che sono più o meno scopiazzature reciproche. E se ci sono degli errori, difficilmente li avrà corretti. Al massimo ne ha aggiunti. Questo mi ricorda qualcosa.
Una delle discipline più interessanti che ho studiato da giovane è l'ecdotica. È la scienza – forse è meglio considerarla un'arte – che si occupa di restaurare per quanto possibile le versioni originali dei testi. Specialmente quelli che ci sono stati tramandati lungo il medioevo, quando il software più elaborato era un monaco con pennino tra le mani e neanche un paio d'occhiali decentemente graduati. Questi monaci, non ci credereste, facevano tantissimi errori. Ma era proprio grazie agli errori che si poteva risalire in qualche modo al testo originale. L'idea è che ogni copiatura aumenti il numero di errori contenuti in un testo. Quindi la versione più vicina a quella originale è quella che contiene il minor numero di errori. Insomma, se ci fosse anche una sola versione del coccodrillo di Luttazzi con la parola rentrée scritta correttamente, forse avrei trovato l'originale. Poi ci sono le lectio facilior, le situazioni in cui il copista si trova davanti una parola che non riesce a capire e a copiare, e la sostituisce con una più semplice. È il caso del copista del Corriere, che si è trovato davanti a rentreé o rentreè, ha capito che il rischio di sbagliare accento era altissimo, e ha tagliato la testa al toro scrivendo “spettacolo”. Una lectio facilior che dimostra che il testo del Corriere non è quello originale.
Errori e banalizzazioni permettono di raggruppare le versioni in famiglie. Se cinque manoscritti contengono lo stesso errore, o la stessa lectio facilior, probabilmente derivano da un manoscritto solo, e così via. In questo modo i filologi riescono a costruire l'albero genealogico delle versioni manoscritte dello stesso testo, e a recuperare un'immagine il più possibile precisa di come doveva essere la versione originale.
Ecco, avendo una vita a disposizione mi piacerebbe diventare il filologo di questa roba. Sul serio, mi piacerebbe capire chi ha copiato chi e chi ha aggiunto cosa. L'idea che mi sono fatto è che esistano due coccodrilli originali, entrambi piuttosto reticenti sui trascorsi giudiziari di Luttazzi. Il primo contiene l'urlo di guerra “Hiiiiiit Parade”; l'altro insiste sulla “sua” Trieste e parla di una rentrée. I giornalisti li hanno smontati e rimontati a piacimento, quasi sempre senza usare il copia-incolla automatico. I più scrupolosi hanno aggiunto informazioni prese da altre fonti; alcuni hanno semplicemente giustapposto i due articoli, riscrivendo due volte le stesse informazioni.
A proposito, pare che Luttazzi sia stato incastrato da un'intercettazione telefonica: fu arrestato con Walter Chiari e Franco Califano per detenzione e spaccio. Si fece 27 giorni in prigione, durante i quali Hit Parade fu condotta da Giancarlo Guardabassi. Però poi tornò, completamente scagionato, e continuò a condurla per altri sei anni: insomma, di una carriera troncata di netto non si può parlare. È vero tuttavia che non condusse più “Ieri e oggi” in tv: fu sostituito da Arnoldo Foà. Sapete da dove ho preso queste informazioni, alla fine? Esatto. Wikipedia.
Il bello è che sono le uniche informazioni che avrei potuto copiare e incollare senza temere complicazioni.
Tutti gli altri brani che ho citato sono coperti da copyright.
(Ps: ma chi è il vero re dello swing? Luttazzi batte Arigliano 25.300 a 3.930!)
Salve, sono Leonardo, e per molti di voi sono un fenomeno. No, magari per te che stai leggendo in questo momento sono solo un poveretto, ma ti garantisco che qui passa gente convinta che io potrei subentrare a Eugenio Scalfari da un momento all'altro, e se non lo faccio è soltanto perché sono troppo timido io, oppure per via che in Italia non c'è la meritocrazia eccetera... Balle. Chi mi conosce veramente lo sa. Io non sarei un bravo editorialista, in effetti non lo sono. La verità è assai più prosaica.
Io ero nato per scrivere i coccodrilli.
Lo sapete cosa sono i coccodrilli, no? Quei pezzi che si scrivono in morte del tal personaggio famoso... quando però il personaggio è ancora in vita. Dove si finge tristezza, quando in realtà ci si sta soltanto portando avanti col lavoro. A dire il vero i miei non sono veri coccodrilli: mi è capitato soltanto una volta di mettermi avanti, e non ne vado fiero. Di solito scrivo a corpo già freddino.
Però non ne sbaglio uno. Personaggi di reality, poeti di neoavanguardia, presentatori senza scrupoli, attori decrepiti, musicisti dimenticati (forse giustamente), fumettisti oscuri, tenori strampalati, ciclisti tossicomani, io riesco a spremere una lacrimuccia per tutti. Sarà che più si diventa vecchi... Ma no, è proprio un dono di natura. Che comunque va esercitato.
Il problema è che di Lelio Luttazzi io so pochissimo, giusto qualche antica canzone e ricordi confusi di repliche in bianco e nero. Le poche cose che so, tra l'altro, non combaciano: da qualche parte ho letto che condusse Hit Parade in radio per tantissimi anni, fino a metà dei '70. Ma da qualche parte ho appreso che proprio nel 1970 fu coinvolto in uno scandalo di droga, e che la sua carriera s'interruppe bruscamente. Eppure non smette di condurre Hit Parade, com'è possibile? La verità è che non ne so niente. In quel periodo ero molto impegnato a venire al mondo.
Comunque non è un problema. Questione di mezza giornata, il tempo che serve alle redazioni per tirare fuori i loro veri coccodrilli, a stamparli e poi metterli on line. Nel giro di poche ore la rete sarà piena di informazioni sulla vita di Lelio Luttazzi, e saranno tutte notizie sicure, messe insieme da giornalisti seri, che hanno avuto il tempo di prepararsi e che possono accedere ad archivi importanti. Meno male che esistono, questi giornalisti. Altrimenti non saremmo mai sicuri di niente. Sarebbe tutto un enorme sentito dire. V'immaginate che caos?
Lascio passare dunque una mezza giornata, e poi consulto il Corriere (Luttazzi m'ispira Corriere, saranno i doppiopetti).
Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la «sua» Trieste) il 27 aprile del 1923: aveva compiuto 87 anni. È stato uno dei personaggi di maggior successo della canzone italiana degli anni '50 e '60 ma soprattutto un protagonista della televisione, dell'epoca d'oro di Studio Uno, della radio e del cinema. Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre "swingato"...
Vabbè, fin qui ci siamo.
Probabilmente l'apice della popolarità lo ha toccato grazie ad «Hit Parade» uno dei più longevi programmi radiofonici, uno dei primi esempi italiani di trasmissione dedicata alle classifiche trattate con lo spirito del varietà. L'annuncio con il titolo dilatato ('Hiiiiiit Parade!!) come in uno spettacolo di Broadway è rimasto nella memoria del pubblico italiano che seguiva la radio negli anni '60-'70.
Ahimè, non nella mia. Ma quella storia dello scandalo?
...ha visto interrompersi bruscamente la sua parabola artistica quando è rimasto coinvolto in una vicenda di droga dai contorni mai chiariti della quale è risultato in un primo tempo responsabile di colpe che non erano tutte sue. Questo episodio, insieme all'atteggiamento di alcuni colleghi che gli erano più vicini e che certo non lo hanno aiutato in quel momento così difficile, hanno spinto Luttazzi ad una volontà di esilio da quale è uscito soltanto raramente per qualche piccolo spettacolo con alcuni musicisti amici.
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Fine dell'articolo. Non dice molto. Notate quante ambiguità: “Contorni mai chiariti”, “colpe che non erano tutte sue” (quindi aveva alcune colpe? Quali?), “alcuni colleghi” (chi?) È il classico pezzo di qualcuno che non ha accesso a informazioni di prima mano e non vuole sbilanciarsi (me ne intendo). Insomma, non è un vero coccodrillo. Non è stato scritto mesi fa, e poi chiuso in un cassetto in attesa che venisse utile. È stato buttato giù in fretta da qualcuno che non aveva tempo per documentarsi.
Cosa pensare? I coccodrilli sono cinici, ma professionali. E se smettono di essere cinici i giornalisti, dove lo trovo io il materiale per fare un pezzo empatico e straziante? Mi sarebbe piaciuto leggere un bel pezzo documentato sulle traversie giudiziarie di Luttazzi, magari piagnucolare un po' sul modo ingiusto in cui si è interrotta la sua carriera. Ma in realtà non sono ancora sicuro che si sia interrotta bruscamente, o in modo ingiusto. Non ne so niente.
Vabbè, mi dico, il Corriere ha bucato. Proviamo la Stampa.
Il maestro e compositore Lelio Luttazzi è morto la scorsa notte nella sua casa, a Trieste. Lo si è appreso dal suo amico e agente, Roberto Podio, portavoce della famiglia. Aveva 87 anni e soffriva da tempo di una neuropatia. È stato uno dei personaggi di maggior successo della canzone italiana degli anni '50 e '60 ma soprattutto un protagonista della televisione, dell'epoca d'oro di Studio Uno, della radio e del cinema. Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre 'swingato'...
Ehi ehi, un momento. L'ho già letto, questo pezzo.
...ha visto interrompersi bruscamente la sua parabola artistica quando è rimasto coinvolto in una vicenda di droga dai contorni mai chiariti della quale è risultato in un primo tempo responsabile di colpe che non erano tutte sue. Questo episodio, insieme all' atteggiamento di alcuni colleghi che gli erano più vicini e che certo non lo hanno aiutato in quel momento così difficile, hanno spinto Luttazzi ad una volontà di esilio da quale è uscito soltanto raramente per qualche piccola rentreè con alcuni musicisti amici.
Oddio, qualche differenza c'è: per esempio, nella versione della Stampa al posto di “spettacolo” c'è “rentrée” (con un errore di ortografia, ma passi). Ma al Corriere lo sanno che la Stampa li scopiazza così? E se fosse la Stampa che scopiazza il Corriere? Tanto comunque ne sanno poco entrambi. Che fare?
Proviamo la stampa locale. Una cosa che ho capito è che Luttazzi è nato e morto a Trieste. (La "sua" Trieste). Figurati se al Piccolo non gli hanno preparato un coccodrillo decente...
Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la "sua" Trieste)...
No. Anche il Piccolo no.
Ora, io lo so che scrivere profili biografici è molto meno facile di quanto sembri. Mi è capitato di farlo per lavoro, e il mio lavoro consisteva esattamente in questo: scopiazzare informazioni a destra e manca. Però mi hanno insegnato che oltre a copiarle devo cambiarle un po', lavorare di sinonimi, rimescolare la sbobba... sennò non sono più un pubblicista. Non sono neanche più un essere umano, sono un software semantico neanche troppo elaborato. È la seconda volta in due necrologi che leggo “la «sua» Trieste”. È un inciso ridondante, la prima cosa che un essere umano taglierebbe per dissimulare il furto di contenuto. Ma qui non c'è più nessuna umanità, a parte quella che serve a premere ctrl+c e ctrl+v.
L'annuncio con il titolo dilatato ('Hiiiiiit Parade!!) come in uno spettacolo di Broadway è rimasto nella memoria del pubblico italiano che seguiva la radio negli anni '60-'70.
Sì, e anche nella mia: è la terza volta che leggo lo stesso necrologio. Contro questa epidemia di contenuti scadenti non mi resta che usare l'arma finale: Google. Lo faccio anche coi ragazzini che mi portano tutti orgogliosi una ricerca stampata al pc: prendo una frase un po' strana, la virgoletto, la butto su google, e in 0,3 secondi trovo la fonte del copione. Vediamo un po' quanti giornalisti hanno scritto la stessa frase:
329 risultati.
No, aspetta, 329?
Vabbè, non sono tutti giornalisti: molti sono blogger che scopiazzano i contenuti professionali dei giornalisti senza nessun rispetto per la proprietà intellettuale, quei felloni. E tuttavia... Avvenire. Il Sole 24 Ore. Il Mattino. L'Unità, ahimè. Il Corriere Adriatico. Il Velino. Il Gazzettino. Il Giornale. Radio KissKiss. Tgcom. RaiNews24. Il Messaggero. La Gazzetta di Parma. È l'elenco di tutte le testate che non hanno ritenuto nemmeno necessario cambiare il numero di “i” della parola “Hiiiiiit”: si vede che Luttazzi ne pronunciava esattamente sei, né una di più né una di meno. E ancora: il Nuovo Quotidiano di Puglia. Leggo On Line. Agi. Alt! Ho scritto Agi? Forse ci sono, ho trovato la fonte. L'Agi è un'agenzia: fornisce le notizie di prima mano ai quotidiani. Il suo articolo mi pare di averlo già letto una mezza dozzina di volte, ma mancano due elementi che ormai mi sto allenando a riconoscere: la “sua” Trieste e la parola rentrée. A questo punto mi viene la curiosità di guardare la concorrenza, ovvero l'Ansa. Molto interessante:
Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la ''sua" Trieste) il 27 aprile del 1923: aveva compiuto 87 anni.
© Copyright ANSA - Tutti i diritti riservati
Bingo!
Dunque forse ho capito: i quotidiani non fanno più i coccodrilli. Quando muore qualche personaggio importante prendono le schede delle agenzie e le pasticciano un po'... però, aspetta.
Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre 'swingato'
Questo c'era anche nella scheda dell'Agi, maledizione. Quindi anche le Agenzie si pasticciano le informazioni tra loro?
C'è un altro dettaglio interessante. Nella versione Ansa compare la parola rentrée Ma è scritta in un modo diverso. Comunque sbagliato, ma diverso. Controllo in giro: trovo tre versioni diverse (rentreé, rentree', rentreè). Tutte e tre sbagliate, dannazione – e va bene, il francese è ormai una lingua esotica. Però il dettaglio getta una luce inquietante su tutta la faccenda: questo è un errore di copiatura. Un errore che un ctrl+c e un ctrl+v non potrebbero mai commettere.
Dunque questi non sono pezzi copia-incollati all'ultimo momento. Sono stati scritti a mano. Sbagliare un accento è una prerogativa umana. Insomma: qualcuno ha perso ore e fatica, per ottenere alla fine dei pezzi che sono più o meno scopiazzature reciproche. E se ci sono degli errori, difficilmente li avrà corretti. Al massimo ne ha aggiunti. Questo mi ricorda qualcosa.
Una delle discipline più interessanti che ho studiato da giovane è l'ecdotica. È la scienza – forse è meglio considerarla un'arte – che si occupa di restaurare per quanto possibile le versioni originali dei testi. Specialmente quelli che ci sono stati tramandati lungo il medioevo, quando il software più elaborato era un monaco con pennino tra le mani e neanche un paio d'occhiali decentemente graduati. Questi monaci, non ci credereste, facevano tantissimi errori. Ma era proprio grazie agli errori che si poteva risalire in qualche modo al testo originale. L'idea è che ogni copiatura aumenti il numero di errori contenuti in un testo. Quindi la versione più vicina a quella originale è quella che contiene il minor numero di errori. Insomma, se ci fosse anche una sola versione del coccodrillo di Luttazzi con la parola rentrée scritta correttamente, forse avrei trovato l'originale. Poi ci sono le lectio facilior, le situazioni in cui il copista si trova davanti una parola che non riesce a capire e a copiare, e la sostituisce con una più semplice. È il caso del copista del Corriere, che si è trovato davanti a rentreé o rentreè, ha capito che il rischio di sbagliare accento era altissimo, e ha tagliato la testa al toro scrivendo “spettacolo”. Una lectio facilior che dimostra che il testo del Corriere non è quello originale.
Errori e banalizzazioni permettono di raggruppare le versioni in famiglie. Se cinque manoscritti contengono lo stesso errore, o la stessa lectio facilior, probabilmente derivano da un manoscritto solo, e così via. In questo modo i filologi riescono a costruire l'albero genealogico delle versioni manoscritte dello stesso testo, e a recuperare un'immagine il più possibile precisa di come doveva essere la versione originale.
Ecco, avendo una vita a disposizione mi piacerebbe diventare il filologo di questa roba. Sul serio, mi piacerebbe capire chi ha copiato chi e chi ha aggiunto cosa. L'idea che mi sono fatto è che esistano due coccodrilli originali, entrambi piuttosto reticenti sui trascorsi giudiziari di Luttazzi. Il primo contiene l'urlo di guerra “Hiiiiiit Parade”; l'altro insiste sulla “sua” Trieste e parla di una rentrée. I giornalisti li hanno smontati e rimontati a piacimento, quasi sempre senza usare il copia-incolla automatico. I più scrupolosi hanno aggiunto informazioni prese da altre fonti; alcuni hanno semplicemente giustapposto i due articoli, riscrivendo due volte le stesse informazioni.
A proposito, pare che Luttazzi sia stato incastrato da un'intercettazione telefonica: fu arrestato con Walter Chiari e Franco Califano per detenzione e spaccio. Si fece 27 giorni in prigione, durante i quali Hit Parade fu condotta da Giancarlo Guardabassi. Però poi tornò, completamente scagionato, e continuò a condurla per altri sei anni: insomma, di una carriera troncata di netto non si può parlare. È vero tuttavia che non condusse più “Ieri e oggi” in tv: fu sostituito da Arnoldo Foà. Sapete da dove ho preso queste informazioni, alla fine? Esatto. Wikipedia.
Il bello è che sono le uniche informazioni che avrei potuto copiare e incollare senza temere complicazioni.
Tutti gli altri brani che ho citato sono coperti da copyright.
(Ps: ma chi è il vero re dello swing? Luttazzi batte Arigliano 25.300 a 3.930!)