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lunedì 30 luglio 2012

In diretta su Fahrenheit?

Ahem, tra pochi minuti, alle 15.00, se non è tutto uno scherzo, sono a una tavola rotonda in diretta a Fahrenheit su Radio3 con la Lipperini, Salvo Intravaia, un esperto della Fondazione Agnelli e altri. Si parla di formazione degli insegnanti, partendo da questo studio. Tenterò di commentare la cosa in diretta nei commenti, oppure forse qui (come viene viene).

(Update: ecco il podcast).

domenica 29 luglio 2012

Gesù e la colf

Santa Marta e San Lazzaro, amici di Gesù, I secolo.

Era tutto ottimo.
Se abbiamo bisogno di qualcos'altro
ti chiamiamo noi, grazie.
Comincia tutto nel vangelo di Luca, con una episodio che sta in cinque versetti (10,38-42): Gesù predica in casa di due sorelle, Marta e Maria. Quest'ultima resta seduta ai suoi piedi ad ascoltarlo, mentre Marta attende ai lavori domestici, finché non sbotta: ehi, Gesù, lo vedi come sono messa? di' a mia sorella che mi aiuti.
Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».
Luca, lo abbiamo visto, è l'evangelista liberal: ha un debole per i poveri, gli extracomunitari, le donne. Forse, come ogni liberal si rispetti, a casa aveva pure dei domestici, che trattava con molta gentilezza, versando i contributi e usando la frusta solo in caso di estrema necessità. Chissà. In ogni caso ogni progressismo ha un limite, e quello di Luca riguarda i lavori domestici: tutti possono seguire Gesù, tutti possono entrare nel Regno dei Cieli, però gli sguatteri in seconda fila, grazie. Non è che il loro lavoro non sia utile, anzi. Però qualcun altro si è scelto la parte migliore: un modo educato per dire che a voi è rimasta la peggiore. Luca non immaginava forse che la religione che stava contribuendo a fondare avrebbe attecchito nelle metropoli proprio presso quel ceto sradicato senza tradizioni e senza prospettive, la servitù. Gli schiavi che venivano comprati e venduti nei porti del mediterraneo si mescolavano tra loro, cercavano un'identità comune e un riscatto almeno ideale: lo trovarono in una fede religiosa che implicava l'uguaglianza di schiavi e padroni davanti a Dio, ma a quel punto l'episodio di Marta cominciò a creare difficoltà. Per ogni vergine che si consacrava alla vita contemplativa, all'estasi e alle rivelazioni mistiche, dovevano esserci una o più Marte che continuassero a rigovernare le case. Tra la sorella incantata ai piedi del Salvatore, e quella indefessa e brontolona che continua ad andare su e giù tra cucina e lavatoio, lo zoccolo duro dei fedeli ha sempre istintivamente tifato per la seconda. Anche personaggi insospettabili, come Agostino e persino Teresa d'Avila, hanno lasciato scritto che la "parte" di Marta è fondamentale, irrinunciabile, complementare a quella di Maria, eccetera. Però alla fine se torniamo alla lettera del vangelo, vediamo che il Gesù di Luca la mette giù molto più semplice e brutale: Marta è una che si agita per molte cose inutili. Nel vangelo c'è scritto così, se non vi va scrivete un altro vangelo. Ciò è stato fatto (continua sul Post...)

giovedì 26 luglio 2012

Arriva la Scossa

In breve: ho scritto un libro in formato digitale sul Terremoto. Lo trovate sul sito di Chiarelettere, costa tre euro. Quel che spetta all'autore verrà devoluto in opere di ricostruzione nel comune di Cavezzo.

Più in lungo: due mesi fa – ma sembrano secoli – i redattori di Chiarelettere mi contattarono per propormi di scrivere un libro in formato digitale (ebook mi fa un po' schifo, scusate). Io mi misi subito a proporre idee, loro dissero che erano interessanti ma... ma non era vero, era una pietosa menzogna, io di solito ho idee troppo bislacche per riuscire a farne un libro (sennò ne avrei già scritti parecchi, a questo punto). Ci stavamo ancora riflettendo, quando la terra si è messa a tremare. Per un po' non ci siamo sentiti, poi su un trenino che mi riportava dalle mie parti mi è suonato il telefono; quel che mi chiedevano lo immaginavo già. Sapevo anche di non esserne capace. Ma mica per modestia, eh.

È che scrivere un libro su una catastrofe naturale è già di per sé un gesto sconsiderato. Ma scriverlo durante la catastrofe naturale, col pavimento che ogni tanto dà una botta e non sai se è l'assestamento quotidiano o la vicina di casa che ha urtato i puntelli con la carrozzina – non è proprio possibile, capite, ti capita di scrivere che il tale campanile ha retto e il giorno dopo magari lo buttano giù. Poi ti sembra di fare lo sciacallo. Ma in realtà, semplicemente, sei in mezzo a una battaglia, e chi è in mezzo a una battaglia non ci capisce nulla, non ha la minima idea di dove stia andando l'avanguardia e dove stia arretrando la retroguardia, non può dirti il numero dei morti e dei feriti, vede solo della gente che spara e della gente che scappa ed è tutto. Però.

Però mi avevano chiesto di scrivere un libro; mi avevano dato un tema, una data di scadenza. È una vita che sogno una situazione così. Io tutto sommato scrivere so, ma non mi è mai chiaro di cosa dovrei scrivere, non sono mai molto sicuro di quel che interessa la gente. Un libro poi non è questa cosa eccezionale, oggi lo si può pubblicare anche in proprio, ma non è che mi interessi molto rifriggere gli sfoghi quotidiani in un altro formato. Quello che mi interessava era avere un committente. Uno che mi dica: questo è interessante, prova a scriverci su, mandami tutto entro il 29. Ho sempre sognato che qualcuno si facesse vivo e me lo chiedesse, e ora potevo dire di no? Ho detto di sì, ci provo. E ho scritto un libro. Il 29 era finito.

Attenzione però. Esce con Chiarelettere, ma non è un'inchiesta. Non credo di essere in grado di farne una, ma anche se lo fossi, era troppo presto: tutto stava ancora succedendo. Ci sono cose molto interessanti su cui ho preferito non scrivere niente, perché ancora non c'è niente di chiaro. Lo abbiamo notato tutti, per esempio, che i capannoni costruiti negli anni Cinquanta hanno retto bene e quelli degli anni Ottanta no; è ormai una nozione condivisa, però... però non potevo esserne sicuro, non c'è ancora disponibile un censimento dei capannoni danneggiati. È una sensazione condivisa, tutto qui, ma molti hanno anche condiviso la sensazione che l'INGV truccasse i dati della magnitudo, e che il transito di Venere davanti al Sole c'entrasse qualcosa. Mi sarebbe piaciuto essere più tecnico, tirare fuori dei numeri veri, ma sui quotidiani ogni giorno c'era una storia diversa; le biblioteche erano tutte chiuse. Di cosa potevo scrivere?

In realtà di cose da scrivere ne avevo fin troppe, come al solito, e anche per questo sono contento che qualcun altro abbia letto e sfoltito e corretto (mi hanno corretto le bozze! È un lusso per me) mettendo a fuoco il tutto. Ho scritto la mia descrizione della battaglia, da un punto di vista qualsiasi: gente che scappa, gente che resta in posizione, gente che attende ordini che non arrivano, e nel frattempo si scambia informazioni. Quasi tutte sballate. Ho scritto un libro sulla gente che parla di Haarp, di fracking, di guerra ambientale americana, di perforazioni che non ci sono mai state, di previsioni di terremoto che vengono pubblicate invariabilmente dopo il terremoto. Ho scritto un po' sull'emilianità, questo concetto inventato l'altro ieri che improvvisamente ha individuato in mezzo alla pianura padana una comunità di persone delle quali viene dato per scontato il coraggio, la tenacia, la capacità organizzativa – mentre qui nel mezzo della battaglia si vedeva gente che piangeva, smadonnava, panicava, eccetera. Ho scritto anche un po' di me, quel poco che serviva a mettere le cose in prospettiva. E ho fatto tutto molto in fretta, volevo che si notasse. Su questo terremoto si scriveranno libri migliori, inchieste coi fiocchi, tra qualche anno sapremo tutto. Mi piacerebbe però che questo rimanesse fresco come rimangono certi taccuini di combattenti, con tutti gli inevitabili errori di prospettiva. Ero troppo vicino per capirci davvero qualcosa, ma qualcun altro leggerà e capirà. Grazie.

mercoledì 25 luglio 2012

Tutti Fallimmo all'Alba

Prima ti fanno studiare. Ti fanno comprare i libri, te li fanno leggere, te li spiegano, ti interrogano: qualche nozione a memoria, ma neanche tante, visto che le date e i nomi ormai non se li ricordano più neanche loro. Ti chiedono qualche concetto vago e se sentono che hai la voce sicura passano subito a interrogare qualcun altro, ché non c'è mai tempo. Ti diplomano, ti laureano, ti spintonano fuori e poi son problemi tuoi.

Poi ti dicono che se davvero t'interessa il mestiere d'insegnante... magari qualche posticino c'è. Con un'abilitazione, un concorso, un tirocinio, un piripacchio, ma soprattutto un bel bonifico. Tu paghi. Loro incassano.

Poi ti squadrano e ti dicono: lo sai, vero, che devi imparare tutto da capo? "Ma come", fai tu, "se è una vita che studio... ho anche la laurea..." Puah, dicono loro. Diplomi, lauree, pezzettini di carta. "Ma me li avete dati voi". Ora salta fuori che non sapete niente. Di niente. Meno di Socrate, lui almeno ammetteva la sua ignoranza, voi no, voi credete di conoscere qualcosa, ma cosa? Le "nozioni". Ma le nozioni non servono a niente, non lo sapevate? Non si va a scuola per imparare le nozioni, non ti paga lo Stato per impartire le nozioni, le nozioni sono inutili e dannose. Nozioni via, nozioni brutto. Come diceva l'immortale pedagogista, Eugenio Finardi, "l'unica cosa che la scuola dovrebbe fare è insegnare a imparare".

Voi ubbidite... (continua sull'Unità, H1t#137).

Voi ubbiditeché tutte queste nozioni poi non vi sembrava di averle imparate, per esempio avete qualche difficoltà a ricordare le opere attribuite a Nevio, e l’anno di pubblicazione dell’Adelchi. Però se buttiamo via le nozioni cosa ci mettiamo al loro posto? Le competenze, ci spiegano. “E cosa sono queste competenze?” Allora cominciano a parlarcene, non la smettono più, le competenze sono bellissime. Sono come dei software, tu le installi sui tuoi studenti e loro imparano a imparare tutto senza bisogno di memorizzare date che non sono importanti, capito? Le date non sono importanti! Ma possibile che abbiate passato vent’anni tra scuola e università a memorizzare date? È una vergogna, è il sintomo del ritardo italiano, nel mondo nessuno più studia le date, eccetera. Voi prendete appunti.
Poi vi dicono che quei posti famosi in realtà non ci sono, perché non ci sono i soldi per mandare in pensione i vostri predecessori. Si tratta di aspettare che abbandonino loro per consunzione. A voi scoppia da ridere, poi vi rendete conto che non è uno scherzo. Ci si risente qualche anno dopo.
Nel frattempo voi questa cosa delle competenze l’avete introiettata, avete studiato anche un po’, ci credete! Viva le competenze, abbasso le nozioni! Soprattutto le date.
A un certo punto si fanno vivi loro, dicono che qualche posto finalmente c’è, però c’è anche una fila spaventosa, bisogna prima fare un bonifico, poi una preammissione, poi un orale, poi uno scritto, poi pagarsi un anno di tirocinio, poi un concorso. Ci state? Voi ci state, si vede che insegnare proprio vi interessa. Fate il bonifico e andate alla preammissione. È un test a crocette. 700 iscritti, solo 100 posti. 60 domande, bisogna azzeccarne almeno 42. La prima è questa…
…A quel punto voi li mandate a vaffinardi.

Il gigante e il portachiavi

25 luglio - San Cristoforo, cinocefalo, ex patrono degli automobilisti


"Wof".
"Ciao Cristoforo, qual buon vento! Erano secoli che..."
"Taglia corto. Voglio vedere il capo".
"Il... il capo non riceve, mi dispiace".
"Cosa vuol dire che non riceve. Non ha senso. Io gli devo parlare. Adesso".
"Adesso no, Cristoforo, adesso è in... in riunione".
"Ecco. Parliamo di queste riunioni. Cosa sta succedendo là sotto, me lo vuoi spiegare? Cosa stanno combinando?"
"Ma niente... rimettono a posto il calendario, cose che capitano, d'altronde ogni tot secoli una riforma è necessaria, devi pensare che arriva gente nuova in continuazione, e così..."
"E io che c'entro? Forse che ho fatto qualcosa che non va?"
"Ma no Cristoforo, non c'è niente che non vada, però..."
"È vero che mi tolgono il patronato degli automobilisti? Perché? Forse che non li ho protetti?"
"Hai fatto quel che hai potuto, ma..."
"E poi se li tolgono a me a chi li danno, scusa".
"A Sant'Antonio, pare".
"Antonio? L'eremita?"
"Noo. Quello nuovo, il francescano... Antonio di Padova".
"Il ragazzino? E che ha fatto, scusa, che c'entra lui cogli automobilisti".
"L'hanno visto col Bambino in braccio, miracolo attestato in un processo di canonizzazione".
"Col Bambino in braccio? E io allora? Non ce l'ho un affresco col bimbo in spalla in tutte le cattedrali d'Europa?"
"Cristoforo, eddai..."
"In braccio. Quel francescano smagrito. Ma vuoi mettere. Gesù si tiene sulle spalle. Seduto comodo, in posizione frontale, come un automobilista, appunto. Sennò vabbe', capirai, il bimbo in braccio... allora diamolo pure alla Madonna, il patronato degli automobilisti. Ma chi è questo Antonio. È appena arrivato e già fa le scarpe agli anziani".
"È qui da sette secoli, ormai..."
"Appunto. Una matricola. Io lo sai che sono qui da quando hanno messo in piedi la baracca".
"Forse anche da prima".
"Esatto".
"È un po' questo il problema, Cris. Tu sei veramente un po' antico".
"Arf! Che male c'è?"
"Basta vedere gli affreschi più vecchi, il bambino sembra minuscolo sulle tue spalle".
"Sono un gigante, e allora? Cosa c'è di male?"
"C'è che i giganti non esistono, Cristoforo".
"Che ne sai tu. Una volta, magari..."
"Una volta, una volta. Adesso queste cose si sanno. C'è la paleontologia, l'archeologia. I giganti non sono mai esistiti".
"Magari ero un Neanderthal".
"Eddai Cristoforo, non fare il furbo. È saltata fuori questa cosa imbarazzante della cinocefalia".
"Wof, di che parli?"
"Nelle raffigurazioni più antiche avevi la testa di un cane, Cris" (continua sul Post, con Anubi ed Ermete Psicopompo).

lunedì 23 luglio 2012

E staccati, su

22 luglio - Santa Maria Maddalena, non più peccatrice (I secolo).

Non sarò mai la tua Maria Maddalena
 (però tra qualche anno io e te fondiamo gli Enigma
e svoltiamo sul serio).
A Maddalena, che lo vede per prima risorto, Gesù dice una cosa curiosa, che nella versione latina suona Noli me tangere, "non mi toccare". Perché Maddalena non lo può toccare? Eppure più tardi Gesù acconsentirà a farsi tastare le piaghe da Tommaso, l'apostolo incredulo. Forse perché Maddalena è donna? Forse perché ha un passato discutibile? Ma in realtà nell'originale greco si capisce che Maddalena è già riuscito a toccarlo: più che "non mi toccare" è un "lasciami andare", "mollami". Toccarsi insomma era consentito, ma forse Maddalena insisteva troppo, non lo lasciava andare più, mentre Gesù aveva altre cose da fare, un impegno a Emmaus di lì a poche ore, eccetera. Eppure per secoli in occidente i pittori la scena l'hanno dipinta come se tra Gesù risorto e la donna a lui più vicina ci fosse un abisso. È che Maddalena è proprio difficile da maneggiare.

Di solito scrivere un'agiografia, trasformare un peccatore in un santo, consiste nel prendere la vita di un uomo o di una donna, enfatizzare le buone azioni e levare le magagne più grosse. Con Santa Maria Maddalena, che pure è un personaggio di primo piano, la cosa è andata in un modo diverso: è da duemila anni che la consideriamo una ex prostituta, e semplicemente non è vero. Cioè, basta tornare ai vangeli: in nessun punto vi è scritto che Maria di Magdala facesse quel mestiere. C'è poi qualche 'peccatrice', nei vangeli, con le quali Gesù si mostra piuttosto tollerante, ma non è chiaro se siano prostitute o semplicemente adultere. C'è quella che lava i piedi a Gesù con le sue lacrime, glieli asciuga coi capelli (portare i capelli sciolti nella Giudea del tempo era già un segno eloquente di vita non irreprensibile), e forse è la stessa che lo unge davanti a tutti, in quella che un fariseo del tempo avrebbe potuto prendere per una caricatura di un'unzione regale. Il vangelo di Giovanni, che è il più tardo, ma come vedremo ha un rapporto particolare con la figura di Maddalena, chiama questa peccatrice "Maria", e soggiunge che era la sorella di Marta e Lazzaro. Vale la pena di ricordare che il nome "Maria" ("Miriam", la sorella di Mosè) era già al tempo il più diffuso nella zona: basandosi sulle incisioni funerarie, gli archeologi hanno calcolato che il 25% della popolazione femminile portasse quel nome.

Nei vangeli di Marie ce ne sono parecchie, in realtà è impossibile contarle perché è chiaro che gli stessi evangelisti - già piuttosto elusivi sui nomi e i ruoli degli apostoli - semplicemente non ci si raccapezzano. Questo è un dettaglio verosimile: chi si metteva a scrivere dopo decenni di narrazioni orali poteva facilmente confondere le figure femminili che dalla morte di Gesù non avevano più avuto molto peso nel movimento dei cristiani, e stavano invecchiando da qualche parte in Palestina o altrove. Per prima c'è la madre di Gesù (che non in tutti i vangeli è chiamata "Maria"); poi la Maddalena, che non necessariamente si prostituisce ma sicuramente viene esorcizzata da Gesù, che le toglie dal corpo "sette demoni", fa parte del suo entourage più ristretto ed è testimone oculare della resurrezione (il nome forse deriva da un paese sul lago di Tiberiade, Magdala appunto, forse dall'ebraico migdal, "torre", "fortezza"); c'è poi la sorella di Marta e di Lazzaro, detta anche Maria di Betania; e ancora un'altra figura dell'entourage apostolico, Maria madre di Giacomo (il quale a sua volta potrebbe anche essere il fratello di Gesù...) A un certo punto a papa Gregorio le tre Marie non madri devono essere sembrate troppe, visto che si permise in un'omelia di ridurle a una sola; poi, siccome almeno una delle tre, in almeno un Vangelo, era chiamata "peccatrice", se ne dedusse che oltre a una e trina la Maddalena dovesse pure essere prostituta. Più che un venticello, la calunnia è un virus.


D'altro canto è stata una calunnia con qualche conseguenza positiva. Pur restando per tutta l'era antica e il medioevo, fino ai giorni nostri, ai margini della società, le prostitute hanno potuto contare su una protettrice di primo rango, una che a Gesù dava del tu. E il fatto che Cristo risorto preferisse apparire per primo a un'ex puttana, piuttosto che agli undici patriarchi della Chiesa Apostolica, rende il cristianesimo una religione un pelo meno maschilista ed elitaria di altre (anche se l'immagine di un Gesù gioviale frequentatore di meretrici è un'altra proiezione; non le lapida, ma le perdona, purché "non pecchino più"). Nel frattempo i pittori hanno potuto raffigurare, nelle crocefissioni e deposizioni e apparizioni, almeno una donna coi capelli sciolti. Molto presto hanno deciso che doveva averli rossi. La riduzione di una sodale di Gesù a prostituta potrebbe avere avuto semplicemente questo senso: più basso era il peccato, più orribile il mestiere, più gloriosa appariva la redenzione. Un Dio che perdona le puttane è uno che davvero può salvare chiunque, non fa una grinza. Però forse c'è dell'altro. C'è che se le togli quella patina di peccatrice, Maddalena diventa un personaggio un po' più difficile da gestire, per una Chiesa gestita dai maschi.

Alcuni dettagli sono imbarazzanti (continua sul Post, con Dan Brown, James Cameron, Umberto Eco, Martin Scorsese, i merovingi e l'eterno femminino, ma soprattutto con Yvonne Elliman).

domenica 22 luglio 2012

Ma in quattro non avrebbe proprio senso

(Vuoi perché è estate, tempo di repliche; vuoi perché i rudi panni del sensale di compromessi al ribasso mi stanno stretti, il fine settimana... insomma sono andato a riprendere un vecchio pezzo del 2005, cioè del 2025, insomma, la mia proposta utopica ma serissima per risolvere il problema non solo del matrimonio gay, ma anche del matrimonio etero, che è in crisi fissa da anni, al punto che io ho un po' paura che estenderlo ai gay sia rifilar loro una sòla che non si meritano; comunque il pezzo eccolo qui).

Il Trimonio spiegato a mia figlia

"Papà-Mac?"
"Sì?"
"Perché la mamma vuole bene a un altro uomo?"

Non era senz'altro ieri sera che mi sarei messo a spiegare il Trimonio alla mia piccola Leti.
Non mentre le cose sembravano filare lisce, tutto sommato. Assunta non si era presentata a cena con una scusa qualsiasi. Apparecchiando, Concetta aveva annunciato a monosillabi che non avrebbe mangiato, perché aveva mal di testa anzi sonno anzi nausea e si ritirava in camera, e i piatti li avrei lavati io. Leti si era subito offerta di aiutarmi, per il grande amore che porta al profumo del detersivo biologico al limone. Così avevamo stabilito che lei avrebbe risciacquato i piatti che le passavo, e intanto avremmo parlato di come vanno le cose a scuola.

Ma Leti non aveva voglia di parlare della sua scuola. Voleva invece parlare del nostro Trimonio.

"Papà-Mac?"
"Sì?"
"Perché la mamma vuole bene a un altro uomo?"

Anche questa doveva succedere prima o poi, ma proprio ieri sera?

"Tesoro, sono cose che capitano ai grandi. Anche tu, quando-sarai-grande…"
"Papà no, quella frase era vietata. Lo avevi promesso!"
"Hai ragione".
"Tu lo conosci, l'uomo che piace a mamma Sunta?"
"Sì, credo di sì".
"È il dottore, quello da cui siamo andati per il vaccino, te lo ricordi?"
"Certo"

(Assunta aveva deciso d'informarci della sua relazione un giorno d'autunno che pioveva, e Supernet ogni mezz'ora interrompeva le trasmissioni con paurosi bollettini sull'incredibile virulenza del bacillo influenzale in arrivo dalla Corea, mentre Concetta faceva e rifaceva i conti di casa senza trovare i denari per vaccinare la bambina.
"Conosco un uomo all'Ospedale Maggiore", aveva detto.
Un uomo).

"Certo che mi ricordo".
"A me sta simpatico, lo sai?"
"Bene".
"Papà, ma lui non può venire a stare con noi?"
La piccola, ecco dove voleva arrivare… "No, tesoro, no. Lui non può entrare nella nostra famiglia".
"Però la mia compagna di banco, l'Elisabetta, lei ce li ha due papà, e vivono tutti e due insieme con lei".
"E quante mamme ha l'Elisabetta?"
"Una".
"Lo vedi? Lei ha due papà e una mamma: totale, tre. Tu hai già due mamme e un papà: quanto fa?"
"Fa sempre tre".
"Certo, per questo si chiama Trimonio. Ognuno deve avere tre genitori, questa è la regola".
"Ma perché proprio tre?"
"Tesoro, tre è il numero perfetto. Vedi, una volta, quando il Trimonio non c'era, la gente era triste, le famiglie nascevano e morivano in un niente, i papà e le mamme si litigavano i bambini, tutta un'enorme confusione senza senso, mi segui?"
"Sì".
"Finché un giorno un gruppo di persone, che si riuniva in segreto per cercare di risolvere i problemi del mondo, decise di studiare con attenzione la faccenda e cercare di proporre delle soluzioni nuove. Qualcosa a cui nessuno avesse pensato prima".
"Chi c'era questo gruppo di persone?"
"Tesoro, nessuno lo sa. Si trovavano in segreto, appunto".
"Ma tu non c'eri?"
"No, beh, io… andavo e venivo, portavo il carrello con le paste. Ma è stato tanto tempo fa, sai. Insomma, questo gruppo di persone, che sono i fondatori del Teopop, decisero di consultare un uomo molto intelligente. Gli dissero: abbiamo grossi problemi coi rapporti di coppia. Gli uomini e le donne non fanno che litigare, e poi ci sono anche uomini che vogliono stare con altri uomini, e donne che vogliono stare con altre donne, e questi uomini e queste donne vogliono ugualmente crescere dei bambini, il che ci pone altri problemi di natura etica che non abbiamo più voglia di porci, perché sono irresolubili e in definitiva una gran perdita di tempo; potresti risolverci tutte queste complicazioni, e farlo in fretta, per favore? Perché noi tra una settimana facciamo un colpo di stato e andiamo al potere".
"Cosa vuol dire colpo di stato?"
"Scusami, non importa. L'importante è che questo uomo molto intelligente, che si chiamava Arci…"
"Quello che faceva gli esperimenti con te?"
"Proprio lui. Be', lui ci pensò su una mezz’oretta e poi disse: avete mai pensato che forse il problema è la coppia? Perché non proviamo a inventarci qualcos'altro, qualcosa di più stabile? La coppia è un concetto incerto, traballante, come la bicicletta, se non è in movimento cade. Non è molto più stabile il triciclo?"
"Cosa c'entra il triciclo, papà?"
"Era un esempio per spiegare la grande differenza che c'è tra una Coppia e un Trimonio. La Coppia deve sempre sorvegliare il suo equilibrio; il Trimonio invece è stabile, perché è sorretto da tre persone, come le ruote di un triciclo, e se una delle tre persone ha problemi, ce ne sono ancora due su cui si può contare. All'inizio però la gente non ne voleva sapere".
"Perché?"
"Sai, la gente non si fida delle cose nuove. Dicevano: da che mondo e mondo si è sempre fatto in due. E Arci rispondeva: ma guardatevi attorno, signori. Non vi è mai venuto in mente che da che mondo e mondo si è sempre fatto male, che sarebbe ora di provare a fare un po' meglio? Ma loro scuotevano la testa e dicevano: se aumentiamo le persone in una famiglia, aumenteranno anche i litigi".
"E lui cosa rispondeva?"
"Lui spiegava che i litigi di coppia sono i peggiori, perché si è sempre uno contro uno, e nella maggior parte dei casi uno deve cedere di sua spontanea volontà, e questo alla lunga lo avvelena. Mentre quando si è in tre o più, i litigi sono più facili da contenere, perché, per esempio, si può votare, e ci sarà sempre una maggioranza e una minoranza; oppure, molto spesso quando due litigano la terza persona cerca di rimetterli d'accordo".
"Come tu con le mamme?"
"Sì, vedi. Probabilm se avessi una sola mamma, e lei non fosse qui ora, io sarei molto arrabbiato con lei".
"Come mamma Cetta".
"Ma siccome mamma Cetta è già molto arrabbiata, io sono portato a sentirmi meno arrabbiato di lei, perché devo stare nel mezzo. Arci questo lo capiva, ma gli altri non gli credevano. Gli dicevano: non puoi generalizzare queste cose".
"E lui?"
"E lui rispondeva, perché no? Anche voi non fate che generalizzare i rapporti di coppia, perché io non posso generalizzare quelli in tre? Solo perché non si sono ancora visti? Ma appena si vedranno, sembreranno naturali e imperfetti come se fossero sempre esistiti. Altri gli dicevano: ma noi siamo cristiani e la Bibbia non lo permette".
"Davvero?"
"Macché, infatti lui rispondeva: la Bibbia è un libro molto grande, sfogliatelo bene e vedrete che vi permette qualsiasi cosa".

Ora siamo su divano, davanti a noi Supernet mostra il Pontefice che si sbraccia dal balcone di una clinica. Non ho mai capito se giornalisti e spettatori siano solo contenti della guarigione, o se non sperino di assistere di persona a una polmonite fulminante. Dev'essere un ambiguo misto di tutt'e due.
Dall'altra parte di una parete di cartone, so che Concetta mi ascolta. So che ha gli occhi sbarrati e non riesce a dormire.

"Non ho capito, papà. La Bibbia dice che ci si deve sposare in tre?"
"No, però non dice neanche il contrario. E molti personaggi importanti avevano due mogli, come Abramo o Giacobbe".
"E c'erano anche donne con due mariti?"
"No, questo in effetti è un'assoluta novità. Ma non ha creato particolari problemi. Per molti uomini anzi è stata una specie di liberazione, perché... come faccio a spiegarti... si dividevano le donne anche prima, ma dovevano farlo di nascosto".
"Quando sono grande, voglio avere due mariti".
"Hai ancora molto tempo, per fortuna".
"E poi voglio avere un bambino".
"Se ti sposi con due uomini, dovrai averne almeno due".
"Perché due?"
"Ogni Trimonio deve produr mettere alla luce due bambini, è la regola".
"Ma se uno non se la sente?"
"Tesoro, avere bambini è molto importante. Un altro dei motivi per cui fu istituito il Trimonio era il fatto che se ne facevano sempre meno. A un certo punto tutte le coppie facevano solo un bambino, e così nel giro di una generazione i cittadini rischiavano di diventare la metà, mi segui? E questo non andava bene".
"Ma non potevano farne due?"
"No, diventava sempre più faticoso, e sia la mamma che il papà dovevano lavorare".
"E se uno dei due stava a casa?"
"Non c'erano abbastanza denari per crescere i bambini. Ma Arci aveva pensato anche questo. Lui ragionava in questo modo: non c'è nulla di grave se caliamo un po', ma non dobbiamo dimezzarci. Allora possiamo fare così: invece di avere due genitori che produc che fanno un bambino, con un calo demografico del 50%, noi possiamo avere tre genitori che ne fanno due, riducendo il calo del 33%. Questo funziona anche per il lavoro: se chiederemmo a ogni madre di famiglia di stare in casa a badare ai bambini, noi ridurremmo la forza produttiva del Teopop al 50%. Ma col Trimonio, noi possiamo avere due coniugi che lavorano, e il terzo che sta a casa e bada ai due bambini. Risultato: 66% di forza produttiva esterna, 33% di autogestione familiare, e…"
"Papà, noi le percentuali a scuola non le abbiamo ancora fatte".
"Scusa, hai ragione. Ma insomma, il Trimonio risolveva un sacco di problemi".
"A me non sembra tanto".

Ora le cose si fanno difficili. Cerco di abbassare il volume di Supernet, invano. Ultimam il comando del volume non funziona più tanto bene. Spegnere non è il caso, darei una brutta immagine della famiglia, e poi magari la bambina si spaventa.

"Tesoro, non devi pensare soltanto a noi. Arci pensava alla situazione generale, non ai casi particolari".
"C'è una cosa che non ho capito".
"Lo so, ma te la spiego un'altra volta, è ora di lavarsi i denti".
"Però, papà, quando tu eri giovane il Trimonio non esisteva".
"No".
"E adesso ti sembra una cosa normale".
"Certo tesoro, la cosa più normale che c'è".
"E allora quando io sarò grande, ci si potrà sposare in quattro, sembrerà una cosa normale".
"Ancora con questa storia? No, tesoro, non ci si potrà mai sposare in quattro".
"E come fai a saperlo, papà? Conosci il futuro?"
"No, ma… insomma, in quattro non avrebbe proprio senso".
"Invece in tre ha senso".
"Sì, in tre ha senso. È molto meno divertente di quel che credevamo, ed è difficile, ma io sono tanto contento di essere sposato con le due mamme, e di essere tuo papà".
"Papà, io vorrei parlare con Arci".
"Tesoro, è impossibile, Arci è andato via".
"E nessuno sa dove?"
"No, nessuno sa dove. Buonanotte".

giovedì 19 luglio 2012

Il supermarket dei diritti

A un certo punto, non so nemmeno dove, qualcuno ha paragonato il movimento LGBT italiano alla Rifondazione di Bertinotti: quella che fece cadere il primo governo Prodi nel '98. Per quanto bislacco il paragone potrebbe spiegare perché ci stiamo infervorando tanto qui sotto su un argomento - i diritti alle coppie gay - invece che su qualsiasi altro. Quando almeno qui siamo tutti d'accordo: ai gay mancano dei diritti, e questo è anticostituzionale. Bene. E quindi come si fa a realizzare la Costituzione? Come si ottengono questi diritti?

Alla fine non stiamo parlando di omosessualità, non stiamo parlando nemmeno di diritti civili. Tutta questa discussione non sarebbe che la solita, annosa polemica pragmatisti vs massimalisti, durante la quale è di rigore evocare Bertinotti almeno una volta. Lui nel '98, per ottenere una cosa che nessuno si ricorda più cosa fosse (le 36 ore? No, nemmeno) fece cadere il governo Prodi e così ottenne... nulla. Una lezione per tutti i massimalisti del mondo. Il paragone mi sembra infelice, per vari motivi.

Il banale primo motivo è che alcuni partecipanti a questa discussione, secondo me, nel '98, erano ancora molto giovani e forse nemmeno non nati, perlomeno a me piace pensare così. Le analogie si fanno per vivacizzare una discussione, non per virarla al bianco e nero. Si ritorna a Bertinotti '98 come si torna al Mundial '82 o a Italia Germania 4-3, per mancanza di fantasia e di pudore. Primo motivo.

Il secondo motivo è che, se mi pongo dal punto di vista di un rifondarolo (faccio un po' fatica, ma ci provo), Bertinotti '98 non è stata la cosa più brutta che è successa. Lo stesso Bertinotti fece tesoro dell'esperienza, e otto anni dopo portò Rifondazione a sostenere un Prodi II, in una coalizione (l'Unione) dove i rifondaroli furono tra i più disciplinati - giusto qualche mal di pancia quando si trattava di rifinanziare l'Afganistan, e mi pare il minimo. Il risultato di tanto pragmatismo quale fu? Parlo da rifondarolo: il governo rimase in minoranza grazie a uno dei soliti transfughi dell'IdV; lo fece cadere Mastella; si tornò a votare e Rinfondazione sparì dal parlamento. Dopo una storia del genere, una delle più paradossali della pur bizantina politica italiana, io non vado più in giro a lamentarmi coi rifondaroli del loro massimalismo. Ognuno lotta innanzitutto per la propria sopravvivenza, e finché furono massimalisti i rifondaroli sopravvissero alla grande. Fu il pragmatismo a stroncarli: spiace per primo a me, ma andò così.

Il terzo motivo è che, per quanto massimalisti, i bertinottiani avevano un'idea abbastanza coerente - anche se un po' virata seppia - del massimalismo: per loro c'era il governo e c'era la lotta. A un certo punto decisero di uscire da un governo (per meglio dire di non appoggiarlo più) per tornare alla lotta. Avrebbero lottato, manifestato, scioperato, fatto tutto quello che compete fare a un movimento politico di base per conquistare consensi e tornare in parlamento più forti di prima. C'era poi probabilmente in alcuni movimentisti quell'idea del "tanto meglio tanto peggio" che tanti danni ha fatto a questo sventurato Paese: riportare Berlusconi al governo poteva essere il modo più spiccio perché i contrasti sociali diventassero più forti, avvantaggiando i movimenti politici più radicali, eccetera. Tutto ciò non è mai successo, ma è facile notarlo col senno del poi (no, era facile anche nel 1998, ma facciamo finta). Era una strategia fuori dal tempo, fuori dal mondo, ma era ancora una strategia.

A me - spero di sbagliare - ma non sembra che il movimento LGBT italiano ne abbia una. Si ritiene umiliante un compromesso: va bene, molti compromessi sono umilianti. Ma poi? Cosa resta da fare? Lo chiedo senza retorica e con molta curiosità.

Ribadisco che qui non si parla di diritti civili, ma di qualcosa di comunque importante. Del modo in cui ci si arriva, ai diritti; che è poi la concezione che ognuno ha della politica. Per me la politica è il proseguimento della lotta di classe con altri mezzi: ci sono classi sociali, ognuna lotta per ottenere una serie di risultati che chiama "diritti", e che quasi sempre vanno a scapito dei privilegi o dei diritti di altre classi sociali. È una concezione un po' veteronovecentesca, non c'è dubbio, ma è la mia. La vostra qual è?

Posso sbagliarmi. Mi sbaglio senz'altro. Ma voi mi sembrate clienti di un supermercato. Il vostro modo di chiedere dei diritti non implica una lotta, lunga o breve che sia: no, voi entrate in un supermercato, vi aspettate che ci sia l'aria condizionata, non c'è, voi allibite. Come non c'è. C'è in tutti gli altri supermercati della zona. C'è in "Germania" e c'è in "Spagna", da qualche tempo in qua c'è persino in un negozietto fuori mano che si chiama "Portogallo", cosa significa che da noi non c'è? È uno scandalo. Non avete tutti i torti. Peraltro senza aria condizionata la merce si guasta molto prima, insomma, sarebbe anche una questione igienica, e di dignità personale. Ma non c'è.

E quindi? Intendete organizzare un movimento di protesta? Incatenarvi ai carrelli? Boicottare la catena? Alcuni queste cose le fanno. Ma mica tanti, e mica molto spesso. Una marcia dimostrativa in estate, va bene. Fine. Nel frattempo, chi ha la possibilità, cambia semplicemente supermercato. Giusto, ma nel frattempo chi vive e lavora in "Italia" continua a sudare tra puzza di carne guasta. Vi siete scandalizzati, va bene, la cosa vi fa onore; però non sta cambiando nulla.

Mi sbaglierò, spero di sbagliarmi, ma dietro c'è un'idea di cittadinanza che a me non piace (omofobo!) Il cittadino-cliente, che fa i confronti tra i volantini dei vari supermercati. Si sveglia una mattina, scopre che non gli sono riconosciuti tot diritti, si lamenta, cambia Paese. È scandaloso anche solo pensare che il riconoscimento dei diritti sia il risultato di una lotta, che può passare attraverso sconfitte e compromessi. No, in California nel 2012 fanno così, perché in Italia no? È uno scandalo. Non ci si preoccupa di studiare come mai in California nel 2012 si è arrivati a fare così: attraverso lotte, sconfitte, compromessi, vittorie. No, hanno già combattuto in California, a noi interessano soltanto i risultati, che devono immediatamente essere estesi a noi. Sennò andiamo in California. E chi può naturalmente lo farà. Ma gli altri?

Poi citate Mandela. Il leader di una lotta armata, arrestato per incitamento allo sciopero e detenuto per 27 anni. Avete intenzione di passare alla lotta armata? Non sopportate un ritardo di 12 anni rispetto alla situazione tedesca e vi riferite a uno che ha aspettato per 27 anni in galera? Citate Martin Luther King: con tutto l'affetto di questo mondo, vi pare che i gay pride italiani abbiano il respiro, le dimensioni, la forza simbolica della marcia su Washington? E poi qualcuno insulta. Sono veramente molto pochi, però è interessante anche questo. Io sono per il matrimonio gay, e l'ho scritto: devo comunque prendermi la mia dose di insulti perché nel 2012 oso proporre quello che in Francia ha funzionato nel 1999 e in Germania nel 2001. Rispetto a Rifondazione - un partito di minoranza che però arrivò quasi al 10%, e che magari si augurava di sfondare le linee e diventare un movimento di massa, il movimento LGBT ha un problema ineludibile: lotta per ottenere i diritti di un gruppo di persone che stanno tra il 5 e il 10% della popolazione. Più di così (e sono numeri ancora fantascientifici in Italia) difficilmente potrà mai ottenere, né col massimalismo né in qualsiasi altro modo - a meno che non si riesce a portare dalla propria parte un bel po' di eterosessuali convinti che ci sia un problema.

Ecco, parlo da eterosessuale: se mi insultate in linea di massima non mi portate dalla vostra parte. Ma magari è un problema solo mio.

martedì 17 luglio 2012

Per sposarsi ci vuole pazienza

Tra qualche giorno l'onorevole Paola Concia festeggerà con la sua partner l'anniversario di quello che tanti qui sulla stampa italiana hanno chiamato matrimonio, e che matrimonio esattamente non è: per la legge tedesca si tratta di Eingetragene Lebenspartnerschaft, "convivenza registrata". Si tratta ormai di una distinzione puramente formale, da quando (ottobre 2009) la Corte federale ha riconosciuto ai conviventi registrati omosessuali tutti i diritti e i doveri dei coniugi. Ma se questa forma di convivenza comporta tutti gli onori e gli oneri di un matrimonio, perché non dovremmo chiamarlo così? E infatti lo chiamiamo così, anche in Italia, e ci lamentiamo che non esista un equivalente nella nostra legislazione: ce ne lamentiamo soprattutto durante e dopo le riunioni del PD, il partito dell'onorevole Paola Concia.

Ce ne lamentiamo a ragione: sui diritti delle coppie omosessuali siamo molto indietro rispetto ai Paesi più avanzati. Quanto indietro? La sentenza della Corte federale tedesca, abbiamo visto, è del 2009. Le "convivenze registrate" esistevano già, dal 2001, ma non riconoscevano il diritto di adozione congiunta. Una notevole differenza. Che a un certo punto è sembrata insopportabile ai tedeschi, e alla loro Corte federale. Però non ci si è arrivati in un giorno. C'è stato un processo graduale: prima si è ammessa una forma di convivenza per partner omosessuali che non dava gli stessi diritti del matrimonio (ed era già il 2001); poi ci si è accorti che questa convivenza di serie B era una discriminazione, e si è rimediato alla cosa (intanto si era fatto il 2009); ancora ci si trattiene dal chiamare il "matrimonio" col suo nome, ma a questo punto è ormai un dettaglio. Raccontata in tre righe sembra senz'altro più semplice di quanto dev'essere stata per i gay tedeschi che hanno convissuto in questi anni: ma almeno la storia ha un lieto fine, oggi hanno gli stessi diritti degli etero. Possiamo fare la stessa cosa in Italia?

Sembra di no. Da una parte chi di coppie gay non vuole sentir parlare (ma sono sempre meno); dall'altra chi vuole il matrimonio subito, la parità subito, e considera tutto il resto un compromesso inaccettabile. In mezzo, ovviamente, il PD... (continua sull'Unità, H1t#136).

 In mezzo, ovviamente, il PD, che sconta in materia una sorta di peccato originale. Non è un partito socialdemocratico, come il PSOE di Zapatero o il PSF di Hollande (che pure al matrimonio c’è arrivato per gradi, dopo un lungo percorso di accettazione dei patti civili di solidarietà, una campagna cominciata negli anni Novanta). Non è un partito euroliberale o “compassionate conservative”, tutte etichette di cui poi bisognerebbe verificare il senso. È, banalmente, un partito di centrosinistra italiano con un robusto innesto di cattolici, che su tante altre materie hanno punti di vista sovrapponibili, ma sul matrimonio e soprattutto sulla famiglia mantengono i cosiddetti valori non negoziabili. Tutto questo non è una novità e non dovrebbe più stupire nessuno.
Considerata la situazione, l’ordine del giorno dell’assemblea del PD che chiedeva un impegno per il riconoscimento delle unioni civili poteva sembrare un buon compromesso: forse il massimo che si può chiedere per ora a questo partito e non a un altro. Non è la parità subito, come in Spagna: del resto il PD non è il PSOE. Ma potrebbe essere un gradino importante, come fu il PACS in Francia nel 1999 (e non fu facile arrivarci), come le Lebenspartnerschaft in Germania nel 2001. Se l’anno prossimo una maggioranza parlamentare guidata dal PD riuscisse a farlo passare, significherebbe che l’Italia è, in questa materia, 12 anni in ritardo rispetto alla Germania. Sono tanti? Sì, tantissimi. Ma non è che possiamo far finta che un ritardo non ci sia, non soltanto a livello di legislazione, ma di mentalità. E non è un ritardo irreparabile: nulla ci vieta, una volta che ci siamo mossi, di bruciare la tappa successiva. Probabilmente la classe dirigente di estrazione cattolica del PD è sul tema più conservatrice della base che crede di rappresentare. E comunque non esiste solo il PD: se Fini, Di Pietro, persino Grillo – al netto delle battute e dei giochi di sponda – sono interessati, una maggioranza trasversale sull’argomento si potrà costruire. Ma più di tutto a mio avviso conterà l’effetto normalità: quando finalmente anche in Italia avremo coppie omosessuali normali, ci accorgeremo, tutti, che non ha senso considerarle di serie b. Ci vorrà qualche anno in più, ma in più di cosa? Litigare sugli ordini del giorno accelera in qualche modo il riconoscimento dei diritti alle coppie gay?
Ivan Scalfarotto, che in seguito si è lamentato della “caciara” scatenata all’Assemblea PD, aveva poche ore chiesto di votare un ordine del giorno sul matrimonio gay spiegando che il PD “non ha nulla da invidiare ai più grandi partiti socialisti e socialdemocratici di tutta Europa” (applausi). Lo dico con rammarico: non credo sia vero. Pensare che il PD possa avere sull’argomento una posizione avanzata quanto quella di PSF o PSOE o New Labour è un errore tattico, che non va commesso nemmeno con le migliori intenzioni al mondo – e sono convinto che quelle di Scalfarotto lo siano. Non è che il PD non si possa cambiare, e senz’altro si può cambiare il Paese, ma serve un po’ di tempo. Il tempo che abbiamo tutti perso negli ultimi vent’anni. http://leonardo.blogspot.com

venerdì 13 luglio 2012

Alla padrona di casa

Quando ti presi, in una piazza nordica dove soffia sempre il vento, un microclima, non eri che una piantina tra tante, un rametto nel germoglio delle mie ambizioni: mi ero appena intestato una casa con terrazzo, e nella mia fantasia il verde urbano rampicava già fino alle tegole. Mi dissero che ero fortunato a trovarti, che sul lungolago eri in via di estinzione, la febbre del mojito portava i baristi a saccheggiare le serre.

Poi venne l'estate e il tuo primo compare ci restò secco. Seccasti anche tu, bastò lasciarvi soli un paio di settimane, in attesa di una pioggia mai arrivata. Quanto a me, la speranza si era seccata già da prima, l'estate quando si presenta sembra vacua e immensa ma poi si riempie subito di cose da fare e insomma ciao, non avevo nemmeno la forza di volontà necessaria a buttarti nella spazzatura. Strappai via tutti i resti secchi che erano stati te, sentii appena una fragranza di chewingum, ti mollai agli elementi dell'autunno. Forse gli adulti devono fare così, chiarire da subito che sono stronzi inaffidabili. Tu alle prime piogge buttasti già fuori le prime foglie, timide, ai bordi del vaso, lontano dal delitto.

Poi venne inverno e la tormenta di neve del secolo: te ne sei accorta? A un altro compare tuo marcirono le radici, tu riprendevi forma. Venne un'altra estate e ci furono di nuovo cose importantissime, emergenze che mi tenevano lontano, e di nuovo eri morta, e di nuovo mi maledissi, ma ormai ti conoscevo, avevi seminato speranza. Staccai i rametti secchi, non ti buttai. A settembre eri già verde di nuovo.

E ancora inverno e neve da spalare. E poi, ai primi caldi, una novità: la terra che trema. Ma le piante di queste cose non si curano, un terremoto per loro val meno di un soffio di vento serio. Le norme antisismiche, le hanno interiorizzate in una fase molto precoce della loro evoluzione, e ora se ne ridono delle magnitudo e dei mercalli. L'unico problema sono i maledetti umani che scappano via e non mandano nessuno a innaffiare, certo dipendere da una specie così pusillanime dev'essere seccante.

Ma tu non ti secchi più, quando tornai mi hai salutato altera, i tuoi quattro rami (tanto vicini al bordo del vaso), oscillanti alla canicola: toh, guarda chi c'è. Regina di un terrazzo abbandonato al nulla, ai fiori di tiglio riarsi che pure le formiche disdegnano.

E io dovrei staccare le tue foglie orgogliose, pestarle col ghiaccio, ammollirle all'alcol dolciastro, io? Ma a che titolo, io nemmeno di annusarti sono più degno. Suggi piuttosto tu di me, ficca le tue radici in queste trippe pavide di profugo e guarda se c'è qualcosa di nutritivo, ma dubito. Del resto hai tutto: diossido e sole in abbondanza, e l'acqua, se proprio ci tiene, verrà. Tu te ne freghi dell'afa e della tempesta e della tormenta, e dei terremoti in particolare. Ben altri padroni meritavi, ben altri coinquilini, ché ormai per usucapione la padrona qui sei tu.

giovedì 12 luglio 2012

Né con Ichino né con lo Stronzio

Attenzione: questo non è un pezzo su Ichino o contro Ichino. Ripeto: questo non è un pezzo contro Ichino. È un pezzo che parla di una tattica retorica che viene spesso adoperata on line per liquidare i propri critici.

In soldoni si tratta di questo: si perlustra la Rete in cerca dello sprovveduto che la spara più grossa (e in Rete, c'è sempre qualcuno che la spara più grossa) lo si identifica, lo si cita, si sottolinea l'assurdità o la pericolosità delle sue sparate, e si lascia intendere che tutti quelli che non la pensano come noi la pensano come lui. Di solito funziona: non solo noi ci convinciamo ancor di più di essere nel giusto e di avere nemici imbecilli, ma anche lo sprovveduto di turno spesso è contento di essere comunque stato citato, linkato, messo alla berlina: che è pur sempre un palcoscenico.

La settimana scorsa sul sito di iMille un tizio contro Ichino ha invocato le BR. Lo ha fatto ironicamente, ha anche soggiunto "tongue-in-cheek", che in inglano credo voglia dire "tana libera tutte le cazzate". In questi casi cosa si fa? Lo dico da gestore di un blog, che forse, dico forse (la legislazione è un po' ambigua al riguardo) è legalmente responsabile delle cazzate pubblicate dai commentatori; io, a seconda dell'orario, dell'umore, delle ore di sonno, della fase digestiva, probabilmente avrei liquidato la faccenda in uno di questi due modi:
1) lasciando il commento dov'è, scrivendo in calce: "mi dissocio. Guarda che se invochi l'intervento di un gruppo armato contro un parlamentare sul mio blog, mi puoi anche mettere nei guai. Non è che tutti gli effettivi della polizia postale siano tenuti a capire la tua ironia".
2) cancellando il commento, scrivendo in calce: "le apologie di terrorismo fatele sui vostri blog, per favore".
3) cancellando, fischiettando, parlando d'altro.

Raoul Minetti, di iMille, ha reagito in un altro modo. Invece di liquidare, ha solidificato. Ha preso l'apologia di terrorismo tongue-in-cheek e l'ha usata come stampino per una statuetta a tutto tondo: la statuetta dell'ichinoclasta che mangia la pizza alla Festa dell'Unità, sembra una brava persona, e invece... fiancheggia il brigatismo!!! No, ma leggete. Perché sennò poi sembra che m'invento le cose:

Le parole sono da brividi, dicevamo. Sono scritte bene, senza errori o farneticazioni. Abbiamo seguito un link per capire chi le ha scritte, e abbiamo trovato un bel blog, di una persona di sinistra chiaramente attenta al – e impegnata nel – dibattito politico sulla rete. E allora i brividi invece di diminuire sono aumentati. Perché sarebbe paradossalmente più facile leggere queste parole se venissero dalle “frange estreme”, sempre presenti nella società italiana e più che mai attive in questo momento di profonda crisi economica e sociale per il nostro paese. Mentre è molto difficile farsi una ragione di queste parole se vengono da un militante della sinistra come tanti, di quei militanti che nelle tranquille sere d’estate partecipano in platea ai dibattiti alla Festa dell’Unità con una pizza in mano e tanta bella passione civile nel corpo.


Io invece il link diciamo che non l'ho seguito. Non m'interessa se il tizio mangia la pizza o di solito scrive cose intelligenti. Mi attengo ai fatti: inneggiare alle BR, anche ironicamente, su un sito pubblico, è in assoluto una delle cose più sceme che si possano fare in Italia: se poi l'oggetto del discorso è Ichino, hai fatto l'en plein. Basta dare un'occhiata alle sentenze, eh? Gli ultimi brigatisti a essere stati condannati, per associazione sovversiva, avevano parlottato al telefono di ammazzare Ichino. In generale, senza scendere in dettagli tecnici. E basta, non è che avessero fatto molto altro: un tentativo fallito di scassinare un bancomat, qualche smitragliata in aperta campagna per tenersi in allenamento, volantini, cose così. Per tutta questa attività criminosa Claudio Latino si è preso undici anni e mezzo (certo, dichiararsi prigionieri politici e inveire contro Ichino dalla gabbia del tribunale aiuta). E gli è andata bene, perché in primo grado volevano anche riconoscergli le finalità terroristiche, quindici anni. Certo, non è nemmeno riuscito a scassare un bancomat, ma quel che conta è l'intenzione. Una tizia che ci aveva parlato una volta è stata in galera due anni con l'accusa di essere l'infiltrata delle BR all'università di Padova; per lei la Boccassini di anni ne aveva chiesti quattro, quindi le è andata bene, dai. Ciò non toglie che, alla luce dei fatti, invocare le BR su un sito internet lasciando a disposizione degli inquirenti le proprie generalità sia un atto profondamente scemo, che ben pochi sarebbero disposti a sottoscrivere - e invece per Minetti alla fine siamo tutti così, noi che alle feste dell'Unità mangiamo la pizza e quando sentiamo Ichino non applaudiamo, anzi, lo accusiamo, con un lessico orribilmente desueto, di "fare il gioco dei padroni". Padroni? Che padroni? Forse che ci sono padroni qui? E c'è un gioco? Tutto ciò turba la grande compostezza di Ichino!

Un caso isolato? Mi va la memoria a due episodi. Uno personale, una mia partecipazione ad un dibattito sul lavoro con Pietro Ichino e Giovanni Bachelet, in una libreria in Trastevere a Roma un paio di anni fa. In platea un nutrito gruppo di lettori e militanti di sinistra, attenti e preparati. Una discussione finale da gelare il sangue. Una persona si alza dalla seconda fila accusando Ichino di “fare il gioco dei padroni”. Pietro Ichino, persona di grande compostezza, è visibilmente turbato.

Io poi un po' in questi giorni di canicola lo invidio Minetti, con tutti questi brividi e questo gelarsi il sangue. Però, caro Minetti, caro Ichino, qui non è che si discuta il vostro riformismo. Ma la provocazione di andare al processo del Partito Comunista Politico-Militare e cercare il "dialogo" con quei poveretti dietro le sbarre; la tattica di rabbrividire al primo commento scemo, di farsi gelare il sangue dal primo slogan un po' vieto, ecco, questa tattica ha un nome preciso ed è: piagnisteo. Avete notizia di minacce serie, concrete, nei confronti di Ichino? Hanno tutti un'e-mail al giorno d'oggi, scommetto che ne ha una anche la procura. C'è un tizio un po' sprovveduto che inneggia alle BR nei commenti? Rispondete, cancellate, mettete nella casella dello spam, fate quel che vi pare, ma non usatelo per allungare un brodo di cultura - non se lo beve nessuno. C'è un sacco di gente a sinistra che non condivide le idee di Ichino, e fino a prova contraria non sono tutti terroristi. O meglio, fino a prova contraria non c'è nessun terrorista: i residui di terrorismo verbale di un commentatore sprovveduto valgono 0,00..., come la percentuale dello stronzio nell'acqua minerale. Io è una vita che ceno con una bottiglia davanti, e quella particella di stronzio la devo ancora trovare. Vuoi vedere che sono tutte nella bottiglia di Ichino.

mercoledì 11 luglio 2012

Tutti figli di Bearzot

Per vincere domani


(È un pezzo di due anni fa, stasera ha un po' di senso).
A vederlo da qui, il Calcio italiano sembra avere avuto due incarnazioni, che per comodità possiamo chiamare “in bianco e nero” e “a colori”. Dunque il calcio in bianco e nero è un mondo di leggende, sacrifici, uomini di poche parole dal destino spesso tragico, magliette a strisce strette e senza scritte, riprese accelerate. Il calcio a colori è un mondo di stelle e stelline, scritte ovunque, indossatori di scarpe, spot di telefoni, risse in campo e sugli spalti, azioni al rallentatore. Al centro di questo grande cambio di paradigma, per un curioso accidente, c'è il Mundial del 1982, e la nazionale di Bearzot, coi suoi uomini che hanno un piede nel mondo antico e uno già in quello moderno, ma non appartengono davvero a nessuno dei due.

Aspettate, aspettate, non cliccate via. Non sono venuto qui a dirvi che il nostro mondiale è stato più bello del vostro; vorrei soltanto cercare di spiegare ai più giovani e ai più anziani che per noi, che eravamo al mondo da nemmeno dieci anni, fu qualcosa di diverso e irripetibile, né una saga in bianco e nero né una fiction a colori. Un romanzo, un incredibile romanzo, il primo vero romanzo che abbiamo visto consumarsi tra la tv e i giornali (quanti giornali! E che titoli! Me ne ricorderò sempre uno, che forse non era nemmeno in prima pagina, in un maiuscoletto che pugnalava il cuore: IL CAMERUN CI FA PAURA).

Vorrei spiegare che prima di tutti i grandi romanzi di formazione degli anni Ottanta, prima di Pat Morita che ti fa dare la cera e togliere la cera, prima di Rocky che spacca la legna, persino prima dei napoletani che sfidano a football gli yankees della base Nato e ovviamente si fanno massacrare, finché Bud “Bulldozer” Spencer non si rompe i coglioni ed entra in campo, prima che qualcuno dicesse “coniglio” a Michael J. Fox, insomma, prima di ogni cosa, ci fu quella nazionale pesante, che non riusciva a giocare contro la Polonia, non riusciva a battere il Perù; quella nazionale criticata da tutti che aveva paura del Camerun, quella nazionale passata al secondo turno per una pietosa differenza reti, quella nazionale che quando si ritrovò in un girone a tre con Brasile e Argentina fu data per spacciata dai nostri saggi padri.

Noi invece, non sapendo davvero nulla di calcio, che altro potevamo fare se non sperare, pregare, sognare che i potentissimi sudamericani si liquefacessero come nella Bibbia accade agli empi nemici di Israele. E così fu: il Dio della nostra infanzia ascoltò le querule preghiere dei suoi figli piccoli e quella nazionale, già vergogna delle italiche genti, si rialzò sferragliante come Mazinga prima che gli diano il colpo di grazia, e sconfisse l'Argentina di Maradona, trionfò sul Brasile di Zico e Falcao, passeggiò sulle spoglie della Germania di Muller e Rummenigge, e ci diede il primo vero lieto fine della nostra vita; non una semplice vittoria: una crescita, un riscatto. Lo avevamo sognato, ora il sogno era realtà. Ed era appropriato che i protagonisti di questa avventura avessero nomi bizzarri, da romanzo ungherese: Zoff, Bearzot (anche se poi chi segnava i gol portava cognomi più rassicuranti: Rossi, Tardelli).

L'allenatore, in particolare, fu immediatamente assunto nel nostro olimpo di nonni rassicuranti, con Pertini ed Enzo Ferrari (che per me a nove anni avevano davvero il volto intercambiabile): uomini saggi che tenevano dritto il timone, incuranti delle sconfitte passeggere, essi vegliavano sui nostri sonni e ovviavano ai disastri dei nostri genitori. Senza di loro, Gilles Villeneuve non sarebbe stato che un locale campione d'autoscontro. Erano loro ad aver pescato Paolo Rossi dal vortice del calcioscommesse; ad aver creduto in lui per quattro lunghe partite mentre si aggirava per l'area avversaria struggendosi nel tentativo di rammentarsi le regole del giuoco. E i nostri saggi padri lo fischiavano, maledicendo Bearzot e chi ce l'aveva mandato, e l'Argentina '78 era un'altra cosa, per tacer del Messico.

Come poteva non scattare l'immedesimazione, come potevamo non sentirci tutt'uno con quel Paolo Rossi timido, incapace, distrutto dalle critiche, che a un certo punto si sblocca e piazza tre gol ai brasiliani? Era ovvio che prima o poi sarebbe successo anche a noi: ci saremmo sbloccati. Avremmo spiccato il volo e superato in elevazione tutte le difficoltà. Non è escluso che da qualche parte, nella nostra testa, ci crediamo ancora: ci sbloccheremo prima o poi, la faremo vedere a tutti. Forse sarebbe bastato trovare un saggio maestro, un nonno partigiano, un Bearzot che credesse in noi.

Non ci furono sequel al romanzo: chiusa la copertina Bearzot tornò immediatamente un comune mortale, il selezionatore di nazionali mediocri, che non si qualificarono agli Europei e uscirono agli ottavi in Messico. Ci furono altri mondiali, e anche se non abbiamo mai smesso di tifare per gli azzurri, da qualche parte nel nostro cuore c'era come una resistenza, l'idea che nessuna fiaba sarebbe mai stata bella come quella di Bearzot. Magari piangemmo persino nel '90, quando la cavalcata trionfale di Baggio e Schillaci si schiantò sulla più bituminosa Argentina mai vista: piangemmo, ma qualcosa dentro di noi diceva meglio così, ci sta bene, abbiamo voluto vincere tutte le partite e ci siamo dimenticati che non c'è vera gloria senza sofferenza.

Soffrimmo di più per l'Italia di Sacchi, che in partenza poteva sembrare ancora più arrogante di quella di quattro anni prima, ma poi fu messa in ginocchio da infortuni e squalifiche che la resero un'armata brancaleone, trascinata di peso da Baggio fino al malinconico finale. In seguito i calciatori diventarono sempre meno simpatici, eppure avevano un modo di mettersi nei guai che ti costringeva a credere in loro, a sperare nel riscatto, a cercare nel fondo del nostro cuore il Dio delle vittorie assurde che avevamo pregato nel 1982. Persino l'europeo di Grecia diventò interessante soltanto quando Totti si fece cacciare, e Cassano scese in campo e segnò, ma Svezia e Danimarca fecero melina e allora pianse: sì, Cassano pianse. Due anni dopo, in pieno scandalo Moggi, era di nuovo una questione di riscatto: i nostri gladiatori pompati e tatuati dovevano dimostrare di essere professionisti all'altezza, e forse ce la fecero, ma poi.

Poi, l'ho scritto, almeno in me qualcosa si è rotto – qualcosa, credo, tra la testata di Zidane e la scenetta odiosa di Totti con la coppa in mano. Non riesco più ad appassionarmi, mi sembro una donna che vede ventidue idioti a spasso per un prato e cambia canale. Non capisco - se mai l'ho capito - che senso abbia far giocare miliardi di budget contro milioni di debiti, non riesco più a trovare motivi d'interesse. Non posso nemmeno dire che rimpiango il calcio che fu: se riguardo al Mundial dell'82 con gli occhi di oggi, mi rendo conto che fu una bella impresa, sì, ma come tante altre, nulla di davvero eccezionale: non ci voleva un genio a capire che quel Brasile non sapeva difendersi, e Bearzot probabilmente non era un genio.

L'unica cosa che mi porto dentro, alla quale non voglio rinunciare, è il mio concetto di vittoria, che è quello dei film degli anni Ottanta dove Rocky deve sempre prima andare al tappeto, sanguinare, vedere doppio, spaccare la legna, mettere la cera, togliere la cera... per vincere domani. Il mio concetto di vittoria è che la vittoria in sé non m'interessa. Non voglio essere il più forte, non trovo nessuna gloria nel nascere Maradona. Non ci sarebbe gloria nemmeno nel battere il Brasile, se prima non hai avuto paura del Camerun. Per me l'unica vittoria che abbia senso è la vittoria di Paolo Rossi, che sbeffeggiato dal mondo intero spicca il volo, supera due ciclopi brasiliani in elevazione e la mette dentro. Perciò mi troverete sempre coi perdenti: non perché mi piaccia perdere, ma perché sto aspettando l'unica vittoria che mi farebbe godere realmente: la vittoria di Davide su Golia, di Bearzot sui mostri del calcio, di Pertini sui fascisti i nazisti e i democristiani. Voi tifate pure per la vostra squadra miliardaria: mica vi giudico, e mi fareste un piacere se non giudicaste me. Siamo semplicemente diversi, abbiamo avuto educazioni diverse, ci siamo letti romanzi diversi negli anni in cui leggere i romanzi ci serviva davvero. Adesso per capirsi forse è tardi, voi state da una parte, io dall'altra, e non m'importa quante palle mi mettete dentro: l'importante è la sola palla che un giorno metteremo noi. Ne basterà una sola, a un certo punto ci sbloccheremo, scenderà Bulldozer, il signore degli Eserciti, vi faremo un culo così, la palla schiacciata in meta scoppierà e non ne verranno fabbricate altre, non ci saranno rivincite, il mio romanzo finirà in quel momento.

martedì 10 luglio 2012

Un dibattito provinciale

Si riparla di abolire le province, o perlomeno di accorparle. Se ne riparla come l'anno scorso in estate, e forse l'argomento si presta più di altri al dibattito sotto l'ombrellone; le province sappiamo tutti più o meno cosa sono (la nostalgia per le sillabe iniziali delle vecchie targhe), siamo tutti più o meno convinti di sapere a cosa servono (a poco), abbiamo tutti un'idea di come risistemarle: se Monza vada riaccorpata a Milano o annessa a Varese; quale sarò il capoluogo di Imperia-Savona? Meglio Rovigo-Ferrara o Rovigo-Padova? Eccetera. Peraltro la chiacchiera è sterile per definizione: sappiamo tutti che alla fine Monti deciderà senza consultarci.

E tuttavia qualche considerazione non banale sulle province, sul senso di una suddivisione secolare del territorio, si potrebbe anche fare. Sarebbe bello che nei giornali si riuscisse a parlarne lasciando perdere i campanilismi, non perché non esistano (accorpare Pisa e Livorno è senz'altro uno choc), ma perché tutto sommato hanno ben poco a che vedere col problema. Reggiani e modenesi continueranno a sfottersi anche se la provincia diventa una sola. Ma il motivo per cui molti pesaresi non sarebbero contenti di un'eventuale annessione alla provincia di Ancona non è una questione culturale o linguistica, addirittura, come ha scritto qualcuno. Più spesso di tratta di problemi pratici: se nevica sulle strade provinciali di Urbino, bisognerà attendere un sì da Ancona per spargere il sale? Che senso ha centralizzare gli uffici, se poi occorrerà immediatamente aprire sedi distaccate?

Alla base di molte chiacchiere c'è una competenza geografica data per scontata e che invece tante volte scontata non è (continua sull'Unità, H1t#135).

 Così ci si scandalizza del fatto che un piccolo centro, Sondrio, continui a esercitare prerogative da capoluogo, ignorando il fatto che per quanto Sondrio possa essere piccolo, il territorio a cui fa capo (la Valtellina) è immenso, e separato dal resto della Lombardia da confini naturali. Non è che non si possano trasferire uffici e competenze a Bergamo, ma rimane da stabilire se sia un risparmio. Per il Tesoro magari sì, almeno nell’immediato; ma per i cittadini? I tagli hanno di buono che sul bilancio si vedono subito: le magagne, i disastri “naturali” che possono derivare da una gestione miope e lontana del territorio, all’inizio non si vedono, e comunque a calcolarli servono mesi, a volte anni. Monti e il suo governo saranno già lontani.
Molto spesso poi chi parla di abolire le province mostra di non riconoscere che un Paese non è soltanto una comunità di persone, ma è anche il territorio in cui queste persone vivono. Il fatto che alcune province, anche vaste, siano poco popolate, non dovrebbe costituire di per sé un motivo sufficiente per eliminarle. La gestione dei fiumi, delle valli, delle strade, deve essere efficace: la risposta alle emergenze deve essere pronta, anche se in quel territorio abitano poche migliaia di persone. Si sa che in altri Paesi i territori poco popolati sono compensati, in sede istituzionale, da una maggior rappresentatività: negli USA anche i grandi Stati del Midwest hanno i loro due seggi al Senato, anche se la loro popolazione è molto inferiore a quella degli Stati sulla costa. È un metodo, certo non perfetto, di riequilibrare grandi territori poco popolati e piccoli Stati fortemente urbanizzati.

La distribuzione della popolazione, in Italia, è molto diversa. Ma spesso chi ritiene inutili le province vive in grandi centri, come Milano o Roma o Napoli, dove a conti fatti la provincia è davvero un doppione, la cui abolizione non sarà affatto rimpianta. Però la stragrande maggioranza degli italiani non vive in questi grandi centri, ma in territori diversificati dove l’organizzazione provinciale dei trasporti pubblici o delle scuole superiori ha ancora un senso. Di queste cose sarebbe bello discutere, non soltanto sotto l’ombrellone, mentre aspettiamo che Monti & co. ci mostrino la nuova cartina delle province italiane. Più che delle risse di cortile, dell’angoscia dei materani costretti a mescolarsi ai potentini, eccetera eccetera.http://leonardo.blogspot.com

Ma zio che ci fai nel Mucchio Selvaggio

Per chi ha cominciato a impratichirsi di cinema guardandolo con un occhio solo nei beati dopocena dell'infanzia, armeggiando nel frattempo coi lego sul tappeto, Ernest Borgnine c'era sempre stato. Come certi rassicuranti Immortali che non vivono nell'olimpo, ma più spesso nel tuo paesino, e a parte l'immortalità sono proprio persone normali che non hanno nessun desiderio di emergere in qualche modo dal paesaggio umano circostante: spesso fanno i bidelli, i fornai, i postini; sei convinto di conoscerli perché li saluti da quando hai imparato a salutare. Ma l'unica cosa che veramente sai di loro è che ci saranno sempre, e la loro faccia non smetterai mai di riconoscerla. Ora che l'ho scritto mi ci vuole poco a immaginare Ernest Borgnine bidello, fornaio, postino. Ma quando dico "Borgnine bidello", dico proprio che riesco a immaginarmelo mentre mi becca nel ripostiglio della palestra mentre armeggio intorno a pericolosissimi strumenti di sollevamento pesi, e mi solleva, lui, manovrando il lobo del mio orecchio destro. No, in realtà non aveva la faccia di Borgnine. Ma appicicare la faccia di Borgnine alle comparse dei propri ricordi d'infanzia è facilissimo. Provate. Visto? Quella faccia era incredibile.


Date un'occhiata per esempio alla galleria pubblicata ieri dal Post, in cui compaiono tra l'altro quasi tutte le sue buffe mogli, e altri uomini celebri, e donne anche belle; ma non c'è niente da fare. Se nella foto c'è lui, la foto è sua. Il punctum se lo mangia, Ernest Borgnine, probabilmente gli rimane incastrato tra i denti. Se dovete spiegare a qualcuno cosa sia la fotogenia, mostrategli Ernest Borgnine. Un attore molto bello (o un po' brutto) può senz'altro ipnotizzarci per un po', ma Borgnine era uno dei pochi che poteva convincerci in qualsiasi momento di essere nostro zio, di esserlo sempre stato, ehi zio! Scusa che non ti ho fatto gli auguri a Natale. Al punto che viene il dubbio che non fosse nemmeno un grande attore, così come un camaleonte non è un esperto pittore: forse la sua espressività irradiata dalle rughe sottociliari era un caso particolarissimo di pareidolia; forse Borgnine non ha mai fatto altro che mostrare la sua faccia, e tutte le emozioni ce le mettevamo noi. Però, accidenti, funzionava. Borgnine ti metteva a tuo agio, anche quando ti trovavi a 24 ore dall'Apocalisse in una Manhattan popolata esclusivamente da mostri e criminali... ma quando hai visto lui hai tirato fiato: va bene, ci saranno i mostri e i criminali, ma c'è anche lo zio che guida il taxi, non può finire troppo male. Non c'era nemmeno bisogno di fargli imparare troppe battute, bastava metterlo in un angolino e la scena, qualsiasi scena, acquistava più realismo e naturalezza: per forza, c'è lo zio. Bisogna anche dire che una delle rare volte che ha fatto il protagonista, ha portato a casa un Oscar, quindi il professionismo c'era. Ma soprattutto c'era quella faccia.

La faccia dei nostri zii, dei nostri nonni. Dentature sgraziate, ma bianchissime di speranza. Una generazione che non è mai stata veramente giovane, tranne forse qualche mese durante la guerra, il tempo per posare in bianco e nero con l'uniforme e la brillantina. Fino agli anni Sessanta di giovani, anche nei film d'azione, non ce ne sono mica tanti. Anche nei film di guerra hanno pance, rughe, passati da rimproverarsi. Alla bruttezza classica del suo tempo, Borgnine aggiungeva un pizzico di esotismo che però (come nell'altro caso eclatante di Charles Bronson) non tradiva nessuna provenienza geografica specifica: Borgnine non era proprio l'americano medio, ma poteva essere qualsiasi esponente di qualsiasi minoranza in qualsiasi momento: dal capo indiano al capoclan di camorra; e i cheyenne e i borsaneristi di Poggioreale avrebbero invariabilmente esclamato: ehi, zio! Per dire, venerdì pomeriggio mentre la creatura giocava col tappeto la tv mostrava un film degli anni Settanta ambientato in Israele: e rieccoli entrambi, Bronson nell'IDF e Borgnine burocrate in un qualche ministero, coi baffoni e la camicia spiegazzata, zio! Ma sei pure ebreo e non mi avevi detto niente? (chiedo scusa, in quel film in realtà non c'è, boh).

Borgnine in realtà era di Hamden, Connecticut; però la mamma era nata a Carpi. Non so quanto questo c'entri col fatto che di tutti i caratteristi del cinema americano '50-'60-'70 è l'unico di cui ho sempre saputo il nome, sempre, fin dai lontani tempi del lego sul tappeto. È pur vero che mi sembra una faccia familiare, ma credo che mi sembrerebbe così anche se fossi vissuto nel Delta del Mississippi; anzi, se socchiudo gli occhi e ci penso tre secondi, riesco a immaginarmi anche Borgnine afroamericano, sputato! Che suona la tromba in qualche vecchio film in B/N, giusto una comparsata mentre Satchmo si terge la fronte.

Non so se il cinema di oggi sia migliore, davvero non lo so, tra l'altro non vado al cinema da così tanto tempo che potrebbe anche essere risorto e rimorto, il cinema. Di sicuro mancano facce come la sua. Certo, se ci voleva un conflitto mondiale a produrle, se ne può anche fare a meno. Però la tranquillità di poter trovare il mio bidello, il mio macellaio in una sequenza - anche in un ruolo di psicopatico, va bene - quella tranquillità che ti trattiene dal cambiare il canale, nei pigri pomeriggi o a tarda notte, quella non mi torna più. Gli attori della mia età non mi mettono a mio agio, molti di loro hanno deciso di non invecchiare e la cosa comincia a inquietarmi. Magari i bambini che giocano sul tappeto al giorno d'oggi li troveranno amabili zii ugualmente. Ci spero; nel frattempo uno come Borgnine mi manca.

domenica 8 luglio 2012

Il glande di Papa Sisto

Va volutamente a casaccio.

Ieri su Repubblica si sono incrociati due fenomeni che da qualche anno seguo con una certa attenzione, non so nemmeno io perché: il dibattito sull'abolizione delle province e la prosa di Francesco Merlo. Il risultato lo definirei clamoroso, ma forse per riuscire a cogliere l'infinita assurdità del tutto bisogna essere dei maniaci come me.

Comunque provo a spiegare. La parola "provincia", come tante parole della nobile ma non ricchissima lingua italiana, ha diversi significati. Ogni vocabolario ne riporta almeno tre o quattro, ma i più importanti sono i primi due. Vedi ad esempio il Sabatini Colletti:
  • 1 Circoscrizione territoriale amministrativa in cui si suddividono le regioni dello stato italiano e che raggruppa insieme più comuni limitrofi; (anche con iniziale maiusc.) ente amministrativo con competenza su tale territorio:presidente della p.; sede di tale ente: andare in P.
  • 2 In contrapposizione alla capitale o ai grandi centri urbani, il complesso delle città e dei paesi minori: abitare in p. || fig. di p., tranquillo, monotono, oppure retrogrado, ristretto (con riferimento a una presunta arretratezza sociale e culturale della p.): vita, mentalità di p.
Ora, quando il governo anticipa che ha intenzione di abolire e accorpare delle "province", il contesto dovrebbe rendere chiaro oltre ogni possibilità di dubbio che il significato della parola è il numero 1: circoscrizioni territoriali amministrative, di cui possono far parte sia grandi e grandissimi centri, sia la campagna disabitata. Secondo alcuni di queste circoscrizioni ne esistono troppe (anche secondo me) e quindi ridurle potrebbe portare a un risparmio senza una riduzione significativa dei servizi offerti. Io poi da anni continuo a notare che chi ne discute ha spessissimo scarsa nozione di cosa sia questo tipo di circoscrizione e che tipo di servizi offra al cittadino. Però questo non è il problema di Merlo.

Merlo è oltre. Merlo ieri su Repubblica ha scritto una paginata sul significato numero 2. Per tre colonne ha continuato a strascicare l'equivoco; ha chiesto al lettore di sospendere la credibilità e di assumere che Mario Monti volesse abolire "il complesso delle città e dei paesi minori", "con riferimento a una presunta arretratezza sociale e culturale della p.": basta con il tedio di vivere in provincia, tutti metropolitani d'ora in poi. Per capirsi, è come se di fianco alla notizia di un restauro della cappella sistina un editorialista scrivesse tre colonne sul glande di un pontefice del Rinascimento. E per favore non traducete più "inquinamento" con "polluzione", anche se i vocabolari lo consentono, perché se Merlo se ne accorge ti fa una pagina sui sogni bagnati della sua, della nostra ruggente pubertà.

Poi uno si domanda: perché crollano le vendite dei giornali? Perché? Io ieri su Repubblica ho letto un titolo, ho visto una cartina, sembrava che Monti volesse abolire la mia pur ricca e popolosa e vasta provincia. Leggo sotto e scopro che non è proprio così: può darsi che si vada a un accorpamento con un'altra provincia, anche lei ricca e popolosa e tra l'altro ci ho dei parenti,e in generale mi sembra gente con la testa quadra sulle spalle, quindi non è un dramma; però a quel punto cosa vorrei da un quotidiano? Vorrei che mi spiegasse perché un accorpamento di questo tipo conviene. Non solo delle informazioni, che tutto sommato ho trovato, ma degli scenari: come potrebbero cambiare i confini? Conviene far gestire le scuole superiori a livello comunale o regionale? Secondo me no, ma discutiamone. Tutto questo io vorrei da un quotidiano, e su Repubblica queste cose un po' ci sono, ma in poco spazio. Di fianco però c'è una paginata di Merlo sul glande di Papa Sisto. No, in realtà sul provincialismo come fenomeno dell'italianità (il severgninometro s'impenna): ma non è che faccia molta differenza. Alla fine Merlo potrebbe parlare di qualsiasi cosa, non è per la sua attinenza ai fatti del giorno che lo leggiamo.

Lo leggiamo perché ormai ci offre scorci inediti, lussureggianti, sulla cultura di un intellettuale che dorme. Senza offesa, non voglio dire che Merlo stia dormendo quando scrive, però il modo in cui si concatenano le immagini, nel suo flusso di incoscienza, ti dà l'impressione di un sogno. Il sogno di una persona che ha letto molto, che conosce tante cose, e di notte se le ripassa saltabeccando da qua a là per associazione di idee, se le conta come le pecorelle, cos'è la provincia per Merlo? C'è dentro Sciascia, Keynes, Jimmy Fontana, Pasolini, Giorgio Bocca, il latte di capra, le melanzane, e ho letto soltanto le prime dieci righe. Però io ormai ho un'età, qualche riferimento insomma riesco a coglierlo: mi domando che effetto possa fare tutta questa roba a un lettore di venti - io ne avevo meno quando cominciai a leggere Repubblica - uno a cui gli immortali versi di Jimmy Fontana non dicono niente, uno che Keynes vorrebbe prima sapere chi era, non è che si possa andare su google ogni tre righe. O meglio: se costringi il tuo lettore ad andare su google ogni tre righe, lui va a finire che su google ci rimane, scopre il tasto "news" e smette di comprarti. Secondo me. Poi fate voi.

A un certo punto c'è un inciso commovente: mentre prosegue in una burchiellesca lista di provinciali di successo (che avrebbero avuto successo anche se le circoscrizioni territoriali di cui si stava parlando fossero state disegnate in un altro modo), Merlo lo scrive: "vado volutamente a casaccio". Ecco.

sabato 7 luglio 2012

Scampato alle Diaz


un pezzo del 2007. Non aggiungo più niente, ho già scritto troppo). 

Stasera non avrei scritto niente, se non che prima di coricarmi, passando davanti allo specchio, ho visto la faccia di uno che ha scampato le Diaz per pura botta di culo.
Siccome un pensiero tira l'altro, mi sono anche domandato che faccia avrei. Un po' più sbattuta di certo: magari un dente in meno (qualcuno lasciò un dente sulle scale). Forse più calvo, chi lo sa, più rugoso e interessante. Io non voglio passare per un reduce – è ridicolo, Genova furono tre giorni – però capisco perfettamente la gente che va in guerra, la scampa e poi si sente in colpa per tutta la vita. È un senso di colpa strano, misto a una curiosa invidia, e alla voglia di contar balle ai ragazzini al bar.

Io alle Diaz in quel momento avrei voluto esserci. Nel senso che avevo una gran voglia di andarci, venti minuti prima che le Diaz passassero alla Storia. Suona buffo, ma era tutta una questione di blog. Volevo aggiornare il blog, che poi era un modo di avvertire una ventina di persone che l'avevano letto fino a poche ore prima che ero salvo e stavo bene. Era tutto puerile e terribilmente serio allo stesso tempo. Le scuole cablate erano due, una di fronte all'altra: la più grande aveva la Sala Stampa e i server, ma i computer giravano con un cacchio di sistema operativo alternativo che s'inchiodava continuamente. Nelle Diaz invece c'era il vecchio stramaledetto windows duemila. Io dunque, mentre stavo in fila per accedere al sospirato blogger, avevo una gran voglia di provare se lì di fianco c'era meno fila. La Diaz, fino a quel momento, la conoscevano in pochi, tra cui io; io che due sere prima mi ero coricato con le chiavi della Diaz in tasca, perché nel cosiddetto servizio d'ordine del Movimento dei Movimenti si faceva carriera rapidissimamente, bastava continuare a preoccuparsi mentre la gente andava a dormire.

Io dunque ero indeciso se restare lì o andare alle Diaz. Se ci fossi andato, forse oggi passerei i miei pomeriggi a fissare il muro o a guardare i manga, magari soffrirei la depressione e peserei 120 chili; oppure mi sarei liberato di ogni borghese inibizione, come quelli che scampano un disastro aereo e non hanno più paura di nulla, e lavorerei sulle impalcature dei grattacieli, chi lo sa. Se invece fossi rimasto lì in fila, di lì a cinque minuti i carabinieri mi avrebbero semplicemente convinto ad accucciarmi al muro con le mani alzate, mentre sequestravano i server con un sacco di immagini compromettenti (compromettenti per loro, visto che in tutti questi anni non risulta le abbiano usate per incriminare chicchessia). Ma non feci nulla di tutto questo, perché passò Glauco a dirmi che andavano a prendere una birra lì all'angolo e io dissi ma sì, chi se ne frega. Era tutto molto serio, e allo stesso tempo no.

Come Buzzati, quando la sera tornava a casa dal grande giornale e scriveva su un quadernetto il Deserto dei Tartari; come Fenoglio quando da bambino montava sui tetti e s'immaginava di sparare agli invasori, anch'io probabilmente nel mio piccolo pensavo che ci sarebbe stata una guerra prima o poi, almeno una Battaglia, e che solo la Battaglia mi avrebbe fatto uomo. La guerra però non arrivava mai e così ho provato ad arrangiarmi con Genova.
A Genova le cose erano estremamente serie, in effetti, e allo stesso tempo restare seri era spesso difficile: tutto rischiava di diventare puerile da un momento all'altro. La cosa di cui sono più fiero è il servizio d'ordine al concerto di Manu Chao, quelle quattro ore spese a sgolarsi per avvertire i ragazzini di non oltrepassare la linea rossa della corsia ambulanze, e per cortesia di non rompersi l'osso del collo sugli scogli. Mercoledì sera, prima di ritirarmi al campeggio, avevo lungamente cercato di mettere pace tra due skin francesi impasticcati che se le davano in piazzale Kennedy, e non avevano l'età di mio fratello. Poi mi ero scocciato: ero un adulto, non Madre Teresa.

In seguito ci furono le cariche di venerdì, e bamboccioni se n'erano visti molti, in uniforme e in tenuta da movimento. Noi stessi, soliti modenesi, ondeggiavamo da una piazza tematica all'altra, cercando di mantenere un distacco critico, ma anche annusando a pieni polmoni la voglia di mettersi nei guai, il profumo con cui la troia Guerra seduce tutti i ragazzini. Poi era corsa voce di un morto, anzi di due, di tre; dalla città salivano fili di fumo e tutto sembrava allo stesso tempo serio e patetico, e per quanto non fossimo allegri eravamo più che mai fieri di essere lì piuttosto che altrove. Sabato ci eravamo svegliati con la sensazione di essere più che mai nel giusto, e le cariche e la lunga anabasi per i quartieri della città scoscesa in fondo li avevamo vissuti con lo spirito giusto: che era lo spirito d'avventura. All'ora in cui Glauco mi invitò a bere una birra tutto sembrava finito, la tensione era scesa di molto; e l'ansia di aggiornare il blog (l'unico blog a Genova!) poteva sembrare una cosa puerile.

La birreria stava dietro l'angolo e faceva affari d'oro, perché era l'unica rimasta aperta in quel quadrante della città. C'incontrammo una ex compagna di classe di Glauco che si era trasferita in Belgio e faceva teatro e tornava in Italia solo per le rivoluzioni. Quella birra non l'ho mai bevuta – ma la storia credo di averla già raccontata, o no? Ma qui c'è un sacco di gente che forse non l'ha ancora sentita, e allora sedetevi ragazzuoli, che vi spiego. Ci fu un frastuono di sirene, e quando uscimmo a vedere, restammo molto stupiti che non fossero i soliti CC o PS o GdF o Forestali, ma una colonna di ambulanze e Croce Rosse. Magari le aveva chiamate proprio Fournier, che ringrazio. Ho sempre pensato che fossero state molto tempestive, come se i picchiatori delle Diaz le avessero chiamate ancora prima di irrompere.

Voi, com'è giusto, la storia la conoscete dalla A alla Z: il poliziotto che si graffia il giubbotto con un coltello e poi lancia l'allarme (hanno cercato di accoltellarmi), i carabinieri e i poliziotti che entrano, le ambulanze che arrivano, le barelle che escono, il questore il giorno dopo in conferenza stampa che mostra le prove della resistenza armata della Diaz: un piccone fregato al cantiere di fianco, le molotov che poi qualche poliziotto confessò di avere fabbricato, e che in seguito sono misteriosamente scomparse, un sacco di coltellini svizzeri e pacchetti di kleenex da non sottovalutare (se si pensa che la principale fobia dei ragazzini in uniforme da poliziotto erano i fantomatici "palloncini di sangue infetto"). A raccontarlo sembra una comica, col sangue finto e i pugni per finta che fanno saltare i denti per finta.

Quando però le vivi, certe situazioni, ti trovi come nel mezzo della battaglia: non hai la minima idea di quello che sta succedendo. Dopo esserci nascosti per un quarto d'ora dietro la saracinesca della birreria, alla fine cedemmo alla tentazione di andare a vedere cosa succedeva. Non si capiva nulla, e non c'era nessuno che ti raccontasse la stessa cosa. Siccome nessuno mi aveva spiegato che i server avevano preso il volo, io mi fiondai subito all'ufficio stampa per aggiornare il blog, che ora mi sembrava la cosa più adulta da fare; stavo inutilmente cliccando il tasto refresh quando sentii un boato d'umana indignazione che mi scaraventò di nuovo fuori, e mi fece arrampicare sulla cancellata di fronte alle Diaz. Cosa stava succedendo?
"Portano via un morto".

Il morto in realtà era una barella carica delle famose munizioni di cui sopra, ma coperte da un telo verde impermeabile, che faceva un effetto body bag orribile a vedersi. Rimasi appeso alla cancellata per un tempo che mi sembrò interminabile, fregandomi del blog e probabilmente inveendo e fischiando a poliziotti e infermieri, ben sapendo che non era la cosa più adulta da fare.

Più tardi sono entrato, come altri cento, e ho visto le cose che avevano già visto altri cento: ma le ho viste male, in fretta, sicché quando le rifanno vedere in tv (molto di rado) non le riconosco, oppure confondo ricordi televisivi e reali, e mi vergogno. La sensazione di trovarsi al centro delle cose, che ci aveva aiutato a drizzare le antenne per tre giorni, stava svanendo. Ricordo sempre quella porta dei bagni forata da un colpo secco di manganello: m'immagino sempre di trovarmi lì, di chiudermi in bagno, di sentire le botte di manganello e poi di vedere la mano del poliziotto che si sbuca dal foro, trova la maniglia e la apre. Ma non ero lì, per cui in fondo il mio è solo un film come un altro.

Genova mi ha fatto paura, bisogna dirlo: quando tornai a casa continuavo a sentire le sirene, di giorno, di notte, per una settimana. Poi mi è passata.
Genova mi ha dato la scossa, e per alcuni mesi mi ha spinto a fare cose serie; ma in mezzo alle cose serie continuavano a esserci molte storie buffe, ridicole e apparentemente inadeguate, che col tempo hanno preso il sopravvento. Ho concluso che la vita è così, seria e ridicola insieme, che il bambino egotico e curioso che mi porto dentro non deve per forza morire in seguito a una battaglia: può restarsene lì, a patto che non rompa troppo.
Adesso vivo in una città ancora più piccola, davvero una miniatura; continuo ad aggiornare il blog per un motivo o per un altro e non racconto balle da reduce ai ragazzini, perché un reduce non sono.
I ragazzini poi sono terribili, perché ogni anno ne arrivano di nuovi, e non c'è cura migliore alle nostalgie sciocche di una nuova infornata di allegri ignoranti. Questi che stamattina han fatto l'esame sono del Novantatré, cosa vuoi che gli freghi di un tafferuglio che scoppiò a 9 anni? Quello che gli fa drizzare le antenne sono gli argentini torturati sotto lo stadio e lanciati dagli aeroplani senza paracadute. Il desaparecido volante è un enigma che coinvolge Storia, Geografia e Scienze: da che altezza venivano lanciati? Che velocità raggiungevano durante la caduta? Cadevano in moto uniforme o con un'accelerazione costante? Morivano asfissiati, inceneriti come le meteore, o annegavano? Questi sono misteri intriganti per un ragazzino.

Io non vorrei dover aggiungere misteri alla Storia del dopoguerra, che già ne sovrabbonda. Crescendo i miei ragazzini dovranno prendere appunti sull'Italicus, sulla Stazione di Bologna, su Ustica, Piazza Fontana... io vorrei che almeno si risparmiassero le Diaz. In fondo sono un mistero minore, che con un piccolo sforzo da parte dei carabinieri e dei poliziotti onesti si potrebbe archiviare in breve. Non era mica la guerra, anche se "Diaz" ha sempre avuto un suono sinistro (i giornalisti non avrebbero potuto inventarsi di meglio). Si disse subito che era l'Argentina, il Cile. No: erano le Diaz, nemmeno una scuola vera, una piccola palestra in cui le forze dell'ordine dello Stato repubblicano persero del tutto l'autocontrollo, e ancora aspettiamo che ci spieghino il perché.
Dovrebbero farlo. Sarebbe un bene per loro, per il Senso dello Stato dei nostri ragazzini, e anche per me. Personalmente non ho voglia di rivedermi tra cinque o dieci anni in un documentario sgranato, mentre mi appendo all'inferriata come un deficiente. Non vorrei perdere tempo a spiegare a mio figlio perché ero lì. Ero lì perché in quel momento non avrei sopportato di essere altrove: fine.