A proposito di complesso di Enrico IV, questa è una piccola storia che ho trovato mentre cercavo tutt'altro.
Il 25 giugno 1982 (38 anni fa) successe qualcosa che, a seconda del punto di vista, è una sciocchezza o un crimine. Siccome non ero presente, cedo la parola a una persona che qualche mese fa l'ha descritta al pubblico inglese (la traduzione è mia).
"C'è una ragione per cui sono scettico sui tentativi della Sinistra europea di terminare il conflitto tra Israele e il mondo arabo. [...]
La ragione per cui non mi fido di loro è davvero molto piccola e bianca. È una bara adatta a un bambino, bianca, che fu lasciata sulle scale della Grande Sinagoga di Roma nel 1982, durante un corteo sindacale.
Una piccola bara. Bianca. Vuota.
Qualche settimana dopo quell'odioso corteo, un commando palestinese attaccò la Grande Sinagoga di Roma. Era Shabbat. Era Shemini Atzeret, il giorno in cui i bambini ricevono una benedizione speciale, secondo la tradizione romana. La sinagoga conteneva trecento fedeli, tra cui cinquanta bambini. I terroristi gettarono bombe e aprirono il fuoco con mitragliatrici. Trentasette persone furono gravemente ferite. Un bambino di due anni, Stefano Taché, fu ucciso. Quella bara bianca, lasciata vuota dai sindacalisti qualche settimana prima, ora era piena".
Ecco il motivo per cui il signore non si fida della sinistra europea. Noi, invece, possiamo fidarci di questo signore che – ora bisogna dirlo – si chiama Andrea Zanardo? Chi in passato si attardava a leggere la sezione commenti di questo blog forse ricorda la sua tendenza, diciamo, a confondere realtà e fantasia. Per un po' di tempo mi sono domandato fino a che punto ne fosse consapevole; poi ho deciso che era una domanda che ha senso soltanto all'interno della sua coscienza, luogo dove non mi compete entrare. Se la sbrigherà lui: il massimo che posso fare io è osservarlo, da fuori, e notare come mescoli ad arte fatti veri a cose inventate per un pubblico selezionato.
Il dubbio che ne sia inconsapevole rimane, perché malgrado tenti con enfasi tipicamente fallaciana di accreditarsi come testimone diretto, alla fine Z. non fa che rielaborare cose rilette in giro: ed è anche stavolta un lettore frettoloso, abbastanza pasticcione. Se c'è disinformazione qui (e ce n'è), ne è insieme vittima e complice.
Z sta indicando nella CGIL il mandante morale dell'attacco alla Sinagoga del 1982: un'accusa (se uno ci riflette un attimo) pazzesca e non sostenuta da nessuna indagine: ma chi ha bisogno di inchieste quando ha una "piccola bara", "bianca", e "vuota"? Magari leggendo quel punto vi siete emozionati (la prosa fallaciana a questo servirebbe: a commuovere, i ragionamenti seguiranno). Insomma, i sindacalisti lasciano una piccola bara bianca, e "qualche settimana dopo" i terroristi la riempiono. Agghiacciante.
Salvo che non è vero.
O meglio, qualcosa di vero c'è: nessuna opera di disinformazione avrebbe successo se non mescolasse vero e falso. La verità più importante di tutte – molto, molto più importante di tutto il resto – è che un bambino è morto davvero, a due anni, vittima di uno spaventoso attentato terroristico. Si chiamava Stefano Taché Gay (in altri articoli ho trovato anche le grafie "Tachè" e "Gaj"). La "piccola bara", "bianca" e "vuota", su cui Zanardo torna ossessivo, si vede distintamente sulle foto del funerale (il ritaglio di una foto correda l'articolo). Anche la manifestazione della CGIL ci fu: Zanardo non dice la data perché, malgrado sostenga che l'episodio gli abbia lasciato un segno indelebile, forse nemmeno la conosce (oppure la conosce e preferisce tacerla, per un motivo che vedremo in seguito). Non importa, ve l'ho detta io: 25 giugno 1982, trentotto anni oggi. In quell'occasione è molto plausibile che un gruppo di dimostranti (non necessariamente tesserati CGIL) abbia inscenato una farsa di funerale davanti alla Sinagoga: dico che è molto plausibile non solo perché ho letto che la CGIL se ne scusò con un comunicato ufficiale, ma anche perché questa forma di contestazione di discutibile gusto è abbastanza tipica delle manifestazioni sindacali. Per rendersene conto è sufficiente googlare "CGIL bara". Io l'ho fatto e ho trovato una bara a una manifestazione anti jobs act del 2014; un'altra bara dedicata all'università di Siena nel 2009; un'altra dei metalmeccanici di Savona nel 2016; nel 2013 un cronista racconta come i lavoratori della Bombardier di Vado Ligure si portino con loro in ogni manifestazione una cassa da morto "ormai inseparabile". E così via.
Prego il lettore di notare il dettaglio: in tutti questi casi, e ne conosciamo decine, i lavoratori usano la bara come un simbolo della loro condizione. Dentro l'"inseparabile" cassa da morto dei dipendenti Bombardier c'è un manichino che rappresenta i dipendenti della Bombardier. Dentro la cassa della manifestazione anti jobs act del 2014 ci sono i "diritti dei lavoratori". Mi sembra che il codice sia chiarissimo: i manifestanti usano la bara per dichiararsi vittime e accusare i loro avversari di un assassinio. Giusta o sbagliata che sia, la bara ai cortei funziona così.
E allora perché Zanardo decide di leggerla in un modo diverso, come un avvertimento di sapore mafioso – nonché una precisa indicazione al commando terrorista: riempiteci una bara così e così? Non è per forza in malafede. Semplicemente vive, da più di vent'anni, in una bolla comunicativa che ha sempre interpretato quella singola bara in quel singolo modo. Facendo la stessa ricerca di prima ("CGIL bara") in effetti troverete anche abbondanza di citazioni dell'episodio di 38 anni fa. Si tratta in dieci casi su dieci di siti sionisti italiani, il che dimostra quando davvero l'episodio abbia lasciato un segno sulla comunità ebraica, e in particolare su quel settore che aderì con molto entusiasmo al neoconservatorismo intransigente post 11 settembre. Sul sito Focus On Israel ci sono addirittura due tag dedicati: 25 Giugno 1982 bara sindacati davanti Sinagoga Roma, bara davanti alla Sinagoga di Roma.
Il che dimostra anche un altro punto che tornerà in seguito, ovvero: scusarsi non serve a nulla. Nel caso in questione la CGIL aveva subito preso le distanze dal gesto con un comunicato. Quasi quarant'anni dopo, il comunicato non si trova più e qualcuno racconta ancora in giro di quando la CGIL portò una bara sui gradini della sinagoga.
E tuttavia quel che si raccontano la maggior parte dei membri di questa bolla non è esattamente una bugia: al limite la possiamo considerare un'interpretazione un po' forzata di un gesto simbolico. Secondo me non era un avvertimento di stampo mafioso, ma appunto, secondo me. Invece per molti lo era, e vabbe', sono opinioni (questo è il motivo per cui ai gesti simbolici preferisco i discorsi, il più possibile circostanziati e con un parchissimo uso di ironia: ma è anche il motivo per cui non faccio il sindacalista e anche come attivista lascio molto a desiderare).
La mia interpretazione si basa forse su un pregiudizio positivo nei confronti del (mio) sindacato? Senz'altro, ma anche su una minima conoscenza del contesto: il modo in cui di solito i manifestanti usano le bare "simboliche"; la situazione dei palestinesi nei Territori Occupati durante la guerra del Libano, alla vigilia delle stragi di Sabra e Shatila, eccetera. Per tutti questi motivi io ritengo che quella bara (comunque esecrabile) non fosse da considerarsi una minaccia; ma d'altro canto posso benissimo capire che qualcuno l'abbia letta così, e lo faccia ancora: i simboli non sarebbero tali se non si offrissero a più interpretazioni.
Zanardo però fa un passo oltre, ed è interessante chiedersi perché lo faccia. Non si limita a fornire dell'episodio l'interpretazione accreditata dalla sua bolla (è come se non gli bastasse): aggiunge dei dettagli che dovrebbero fugare ogni ragionevole dubbio sul fatto che la sua interpretazione sia l'unica possibile. Questi dettagli, prima di lui, non li descriveva nessuno. Il che significa con molta probabilità che se li sta inventando – non necessariamente in modo consapevole.
Per Zanardo la bara era "piccola" e "bianca": su questo dettaglio torna ossessivamente con una foga autolesionista che mi ricorda quella del protagonista del Gatto Nero di Poe, quando davanti ai poliziotti batte col bastone sulla parete proprio nel punto in cui ha nascosto la sua vittima. E in effetti il dettaglio è degno di un racconto di Poe: come facevano i sindacalisti a sapere che l'unica vittima di un assalto condotto con mitragliatrici e granate avrebbe riempito una bara "piccola"?
Non è che Z ci voglia dire che i sindacati abbiano chiesto ai terroristi: uccideteci un bambino, però... però battendo sempre su quel punto vorrebbe che per un attimo lo pensassimo. E magari lo facciamo: un attimo prima di accorgerci che siamo davanti a una fabbricazione di pessimo gusto. Visto che un bambino è davvero morto, e l'operazione di intestarne l'assassinio a un sindacato richiede un livello di cinismo di cui almeno io non credo Z capace. Tutto questo all'interno di un minuscolo resoconto autobiografico: ricordiamo che Z sta spiegando all'ignaro pubblico inglese il motivo per cui da ragazzino ha smesso di fidarsi della sinistra: e quel motivo è una "piccola bara bianca" deposta durante un corteo sindacale che però non era né piccola né bianca: un falso ricordo? Può anche darsi, in fondo la nostra memoria a volte funziona così: a un certo punto la bara in cui fu inumato il piccolo Stefano viene duplicata, e Z ricorda di averla vista anche durante il corteo CGIL, anche se lui non c'era: non importa, se l'è fatto raccontare e adesso lo ricorda probabilmente meglio di molti testimoni oculari.
Un'altra possibilità è la fretta dell'apologeta, quel tipo di pregiudizio cognitivo che gli studiosi di Storia conoscono bene. Quando vuoi difendere una tua ipotesi e cominci a ricordare tutte le cose che hai letto che, in effetti, sosterrebbero proprio la tua ipotesi: salvo che poi le vai a cercare e in molti casi scopri che te le ricordavi un po' distorte, e che a leggerle bene, con calma, non sostengono la tua ipotesi più di quanto non ne sostengano una completamente diversa. Questo succede quando sei uno studioso coscienzioso. Zanardo non è uno studioso, piuttosto un apologeta: non ha un'ipotesi sua personale, ne ha scelta una per così dire preconfezionata; le prove gli interessano soltanto come espedienti retorici da esibire al pubblico: ecco, vedete, questa è una bara bianca, quindi il sindacato ci voleva morti, quindi io non mi fido della sinistra (forse è una tortuosissima excusatio non petita per spiegare che vota qualche altro partito).
D'altro canto, se Zanardo legge in fretta è anche perché all'interno della sua bolla l'episodio ormai viene evocato con una cadenza meccanica, ogni volta che un corteo non solo sindacale accenna a protestare contro l'occupazione israeliana dei Territori. In questo modo si risolve anche l'imbarazzante problema dell'antisemitismo di sinistra, un fantasma che si aggira per l'Europa e che anche in Italia a quanto pare sarebbe fortissimo, secondo alcuni molto più pericoloso dell'antisemitismo di matrice nazifascista... salvo questo piccolo particolare che fin qui non risultano vittime. Invece indicando nella CGIL l'ispiratrice dell'attentato alla Sinagoga di Roma, il bilancio cambia drasticamente. Basta solo immaginare una collusione tra organizzazioni terroristiche palestinesi e sinistra italiana – non ultrasinistra, si badi: tesserati CGIL. Ci vuole molta fantasia, ma le bolle comunicative a questo servono: a creare intorno a me una distorsione della realtà in cui alcuni messaggi diventano progressivamente credibili. È sufficiente reiterarli ed eliminare ogni altra campana – certo, la reiterazione provoca inevitabilmente una semplificazione.
Non so se avete presente la cadenza un po' sbrigativa con cui i ministri di un culto affrontano alcuni passi particolarmente ripetitivi delle rispettive liturgie: ecco, qui Zanardo legge in fretta un canovaccio scritto in fretta da altri che leggevano in fretta. Tanto alla fine è la stessa zuppa, no? Qualcuno protesta per la Palestina? Antisemitismo-di-sinistra, come-la-CGIL, bara-davanti-Sinagoga, attentato-alla-Sinagoga. Sembrano tag ma anche nella nostra testa alla fine le nozioni si organizzano così, intorno a segnalibri molto sommari. Col tempo è fatale saltare un passaggio, o equivocarlo. Credo di aver trovato un bell'esempio del processo in questo post di un blog (titolo: "Il pregiudizio antisraeliano della CGIL: un cancro mai del tutto debellato"), che a sua volta ricopia un intervento del professor Ugo Volli (titolo: "La faccia di tolla della signora Cgil"):
Magari voi penserete che esagero, che in fondo la nostra povera pensionata non va in giro con le cinture esplosive finte alla cintura come usano fare i suoi amichetti palestinesi nelle manifestazioni pro-Hamas. [La CGIL non ha mai appoggiato Hamas, sembra banale ricordarlo ma chissà]. Il fatto è che le profezie della Cgil spesso si avverano. Sono passati poco meno di trent´anni da quanto una manifestazione sindacale a favore della Palestina, il 25 giugno 1982 si fermò davanti al tempio di Roma si fermò per regalare agli ebrei del ghetto una bara simbolica come segno di apprezzamento per l´appoggio della comunità ebraica romana a Israele. E alcuni dopo, il 9 ottobre dello stesso anno, dei terroristi palestinesi, naturalmente provocati dall´”arroganza istituzionale”, fecero un bell´attentato nello stesso posto ammazzando un “arrogante” bambino di due anni, Stefano Gay Tachè.
Come vedete se avete pazienza nel brano c'è già molto di quello che Zanardo riprenderà: la chiara volontà di leggere nell'episodio un intento intimidatorio ("le profezie della Cgil spesso si avverano"). Però c'è anche un'ammissione che Z, lettore frettoloso, si è perso: la bara in quel caso non è definita né piccola né bianca ma"simbolica". Altrove mi sembra di aver letto che fosse di cartone, ma non riesco a trovarlo e forse sono vittima dello stesso pregiudizio che descrivo. E anche voi, non crediate. Probabilmente avete letto in fretta e non avete notato i refusi, che sono un chiaro indizio di rimaneggiamento. Sul serio: avevate notato che dopo la data "il 25 giugno 1982" il predicato "si fermò" compare due volte? In compenso, alla fine del testo in grassetto, manca almeno una parola, perché c'è scritto "E alcuni dopo". Alcuni cosa? Siccome l'attentato si svolse in ottobre, ci viene spontaneo completare con "mesi". Probabilmente veniva spontaneo anche al professor Volli. Salvo che... se davvero scriviamo "mesi" tutto l'impianto accusatorio si smonta un poco. Sentite come comincia a suonar falso? I sindacalisti mettono una "profetica" bara davanti alla Sinagoga, e tre mesi dopo i terroristi di Abu Nidal avverano la profezia. Sarebbe molto meglio scrivere "settimane" al posto di "mesi", se non addirittura "giorni". Qualcuno in seguito l'ha fatto. Ma nel testo che ho citato qui è come se mancasse ancora il coraggio, non so se da parte del professor Volli o del copia-incollatore.
In seguito, leggendo frettolosamente brani composti altrettanto frettolosamente, Z sceglie di scrivere "qualche settimana dopo" ("A few weeks after"). Ora tra il 25 giugno e il 9 ottobre ci sono effettivamente 13 settimane: sono poche? Si possono definire "a few"? Lo lascio alla coscienza di chi è riuscito a leggere fin qui. Sull'argomento avrei ancora altro da segnalare (la leggerezza con cui Z accosta alla figura di Arafat un attentato compiuto dai suoi avversari), ma mi sembra di averla fatta fin troppo lunga per stasera.
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giovedì 25 giugno 2020
mercoledì 24 giugno 2020
Enrico IV e altre maschere
– Un giorno l'imperatore Enrico IV si accorge di non esserlo: di essere il protagonista di una messa in scena, un tizio del XX secolo che ha picchiato la testa dodici anni prima durante una festa in costume in cui si era travestito, appunto, da Enrico IV. E adesso? Fuori il mondo vero è andato avanti, la fidanzata si è messa col migliore amico eccetera. Dentro, per contro la bugia è ancora abbastanza confortevole. La parte la conosci, hai servitori che la sanno reggere, ogni tanto qualcuno ti viene a trovare e a questo punto sarai tu a prendere in giro loro. A conti fatti, conviene restare dentro.
– Mi è ricapitato di pensare all'Enrico IV di Pirandello stamattina, mentre guardavo il video di un trumpista americano che partecipava a una specie di corteo anti-covid – ne fanno anche in Italia. Questo signore candidamente spiegava davanti al microfono di avere già avuto un morto e un ferito in famiglia, a causa del covid. Però forse non la sappiamo tutta, spiegava. Forse conosciamo solo un aspetto della storia (il che è sempre vero: tutti i lati non li conosciamo). E quindi, insomma, un morto e un ferito non gli impedivano di partecipare a un corteo in cui lui aveva un posto, un ruolo. Ci sono tanti motivi per raccontare una bugia: la pressione sociale è uno dei più interessanti.
– Quando è arrivato il virus, abbiamo tutti dovuto scegliere se crederci o no. Quindi abbiamo studiato attentamente la situazione da un punto di vista epidemiologico, e solo a quel punto – ah ah, no. Abbiamo tutti fiutato il vento, scegliendo di chi fidarci e continuando a guardarci attorno con un certo nervosismo perché le campane erano tante e tutte prima o poi suonavano false: compresa la nostra. Col tempo, comunque, le narrazioni hanno cominciato a delinearsi, e saltare dall'una all'altra è diventato socialmente sempre più complicato. Ognuno di noi, oltre a essere un individuo, è il nodo di un tessuto di relazioni che si intessono sempre di più su internet, e questo senz'altro rende la nostra possibilità di cambiare idea ancora più complicata: cambiare narrazione significa sottoporre tutto il reticolo intorno a noi a una torsione fastidiosa – banalmente, ti tocca litigare coi tuoi amici, tradire l'immagine che avevano di te. Si fa molto prima a restare dentro, come Enrico IV. Anche se è una festa in maschera, almeno è la tua festa in maschera. C'è gente che ti segue, che ti ammira, e magari anche loro non ci credono più da un pezzo, ma fa differenza? La coscienza è l'ultimo dei nostri problemi, una vocina che si può mettere a tacere in mille modi: sonniferi, alcool, ideologie.
In questi giorni mi sono capitate davanti alcune bugie interessanti – alcune grandi e alcune minuscole, e vorrei prendere un po' di spazio qui per parlarne. E di Montanelli, ahimè sì, quando finalmente tutti si sono calmati io ci vorrei tornare un po' sopra, spero con punti di vista che non avete ancora letto in giro (lo so che è difficile). Però non subito, prima un altro caso (continua...)
– Mi è ricapitato di pensare all'Enrico IV di Pirandello stamattina, mentre guardavo il video di un trumpista americano che partecipava a una specie di corteo anti-covid – ne fanno anche in Italia. Questo signore candidamente spiegava davanti al microfono di avere già avuto un morto e un ferito in famiglia, a causa del covid. Però forse non la sappiamo tutta, spiegava. Forse conosciamo solo un aspetto della storia (il che è sempre vero: tutti i lati non li conosciamo). E quindi, insomma, un morto e un ferito non gli impedivano di partecipare a un corteo in cui lui aveva un posto, un ruolo. Ci sono tanti motivi per raccontare una bugia: la pressione sociale è uno dei più interessanti.
– Quando è arrivato il virus, abbiamo tutti dovuto scegliere se crederci o no. Quindi abbiamo studiato attentamente la situazione da un punto di vista epidemiologico, e solo a quel punto – ah ah, no. Abbiamo tutti fiutato il vento, scegliendo di chi fidarci e continuando a guardarci attorno con un certo nervosismo perché le campane erano tante e tutte prima o poi suonavano false: compresa la nostra. Col tempo, comunque, le narrazioni hanno cominciato a delinearsi, e saltare dall'una all'altra è diventato socialmente sempre più complicato. Ognuno di noi, oltre a essere un individuo, è il nodo di un tessuto di relazioni che si intessono sempre di più su internet, e questo senz'altro rende la nostra possibilità di cambiare idea ancora più complicata: cambiare narrazione significa sottoporre tutto il reticolo intorno a noi a una torsione fastidiosa – banalmente, ti tocca litigare coi tuoi amici, tradire l'immagine che avevano di te. Si fa molto prima a restare dentro, come Enrico IV. Anche se è una festa in maschera, almeno è la tua festa in maschera. C'è gente che ti segue, che ti ammira, e magari anche loro non ci credono più da un pezzo, ma fa differenza? La coscienza è l'ultimo dei nostri problemi, una vocina che si può mettere a tacere in mille modi: sonniferi, alcool, ideologie.
In questi giorni mi sono capitate davanti alcune bugie interessanti – alcune grandi e alcune minuscole, e vorrei prendere un po' di spazio qui per parlarne. E di Montanelli, ahimè sì, quando finalmente tutti si sono calmati io ci vorrei tornare un po' sopra, spero con punti di vista che non avete ancora letto in giro (lo so che è difficile). Però non subito, prima un altro caso (continua...)
venerdì 19 giugno 2020
Forse ero giovane, o in Francia
Comunque io mi ricordo che quando ero giovane, in Francia perlomeno, i girasoli facevano davvero quella cosa di girare durante il giorno in direzione del sole. Forse ero giovane io e non mi accorgevo che mi prendevano per il culo e si voltavano appena me ne andavo; o forse ero in Francia e in Francia c'è il sole giusto e l'atteggiamento giusto, mentre qui, sai com'è, o troppo sole o niente, li vedi sempre scazzati ognuno per il suo verso, a fissarsi dei lacci di scarpa immaginari, è avvilente.
mercoledì 17 giugno 2020
Le canzoni dei Beatles (#80-70)
Cinquant'anni fa il mondo restava senza i Beatles: cinquant'anni dopo i fan italiani non riescono a darsi pace per le due date di Paul McCartney saltate a causa della pandemia. Non è solo una questione sentimentale: i biglietti avevano prezzi, ehm, importanti – del resto di membri dei Beatles in circolazione ce n'è sempre meno – e gli organizzatori italiani hanno deciso di rimborsarli mediante voucher da utilizzare per altri concerti nei prossimi 18 mesi. Un espediente a quanto pare perfettamente legale, ma che colpisce i beatlemani italiani nel loro punto debole: che se ne fanno di un voucher di centinaia di euro, se Paul non scende più? Quante date di Sfera Ebbasta di puoi comprare con un voucher del genere, e perché mai al mondo dovrebbe interessarti Sfera Ebbasta se hai comprato il biglietto per un concerto di Paul McCartney? Tra le varie forme di protesta, la più divertente – ma anche toccante – è il video che allego qui sotto, Yesterpay. Anche se a me sarebbe venuto in mente prima You Never Give Me Your Money (you only give me your funny paper)...
Puntate precedenti: (#254-235), (#234-225), (#224-215), (#200-181), (#180-166), (#165-156), (#155-146), (#145-136), (#135-121), (#120-111), (#110-96), (#95-81).
La playlist su Spotify.
80. And I Love Her (Lennon-McCartney, ma quest'ultimo ammette che andrebbe attribuita anche a George Harrison; A Hard Day's Night, 1964).
"L'ho scritta, l'ho portata in studio, l'ho mostrata ai ragazzi e poi George Martin, il produttore, ha detto: sarebbe bello se ci fosse un'intro, qualcosa che facesse partire la canzone, no? Ci siamo seduti a rifletterci e George Harrison ha detto: che ne pensate di du-du-du-dum..."
Come onestamente confessa Paul McCartney nello stesso video, senza quel "du-du-du-dum" non c'è la canzone. Certo, lui l'ha scritta, ma senza quelle quattro semplicissime note di George, non sarebbe valsa la pena registrarla: e Paul McCartney avrebbe di nuovo fallito nella missione di scrivere per i Quattro un pezzo confidenziale. Perché se si toglie l'acerba PS I Love You, lato B di Love Me Do, fino a questo momento era stato John Lennon con This Boy e If I Fell a dimostrare una certa dimestichezza con la materia. Paul quando voleva atteggiarsi a crooner era ancora costretto a ricorrere a canzoni non sue (pescate ai margini estremi del beatleverso, e non esattamente corrispondenti al modello del 'lento ballabile': A Taste of Honey, Till There Was You). Con And I Love Her finalmente fa centro in quello che tutti da qui in poi considereranno un suo reparto: ci riesce abbassando i volumi, mettendo in mano a Ringo bongo e legnetti, imponendo un ritmo vagamente latino (sua antica ossessione), e un attacco con un accordo in fa# minore che ti dà la sensazione di arrivare a canzone già cominciata, come se da qualche parte si fosse perso un Mi maggiore iniziale: che infatti arriva, ma soltanto al culmine della strofa, proprio sulla parola "love her" (non è questa gran coincidenza, c'è un "love" in un verso su due). Paul l'aveva scritta così, in dispregio delle convenzioni musicali (qui rappresentate dal pur ragionevole George Martin) che imponevano un minimo di introduzione. Da questo punto di vista il riff superminimale di George Harrison è un perfetto compromesso, un fragile ponte di note che evoca quel Mi maggiore iniziale fantasma (le prime due note sono proprio Si e Mi, fondamentali componenti dell'accordo in Mi maggiore), per condurre al Fa# minore. Funziona così bene che anche se siete convinti di averlo sentito in tutte le strofe di And I Love Her, in realtà compare appena in due su quattro, alternandosi a quell'arpeggio mandolineggiante, una triade semplice ma di sicuro effetto – in effetti il segreto dell'incanto di And I Love Her è il suo essere un quadro sofisticato fatto di pezzi facili.
Tra i tanti paradossi dei Beatles, vale la pena di notare stavolta quello chitarristico: mentre i riff più fragorosi e sovrabbondanti sono tutti di Lennon, il chitarrista meno tecnico (I Feel Fine, Day Tripper, And Your Bird Can Sing, Dig a Pony), mentre i contributi più chiassosi e rumoristici addirittura sono di McCartney (Taxman, It's All Too Much, Helter Skelter), quelli più essenziali e semplici sono di George, la chitarra solista, colui che più facilmente avrebbe rischiato di sbagliare qualcosa dal vivo – mentre in studio forse John aveva il problema opposto, ovvero dimostrare a sé stesso e ai colleghi di essere alla loro altezza. E può darsi che a sua volta Paul, le rare volte che si trovava una chitarra elettrica in braccio, sentisse un'esigenza complementare: mantenere un po' di credibilità rock, dimostrare di poter essere rumoroso quanto gli altri, anzi il più rumoroso di tutti. La chitarra come una sfida, per tutti e tre: a Paul chiede più confusione creativa, a John più tecnica, a George più disciplina.
La timidezza di George risulta anche dall'assolo, che alla quarta strofa costringe i colleghi a un bizzarro salto di tonalità di appena un semitono. La sua Ramírez acustica non fa molto più che ribadire il languido tema della strofa, condendolo ancora un po' di quella salsa mediterraneo-caraibica che in un disco ancora molto yeh-yeh come A Hard Day's Night poteva risultare un gradevole diversivo . Oggi invece risulta uno degli aspetti più datati: oggi del resto i dischi dei Beatles sono materia di ricerca accademica, nessuno li mette più sul piatto per fare quattro salti e attendendo il brano lento per strusciarsi un poco. Fino all'ultima sorpresa della canzone, quel Re maggiore imprevisto eppure necessario entro il quale ci conviene aver concluso quello che dovevamo concludere, perché la banda sta per ripartire in quarta. Tell Me Why-ay-ay-ay you cry...
79. It Won't Be Long (Lennon-McCartney, With the Beatles, 1963).
La prendo alla lunghissima: dopo aver piazzato qualche promettente cortometraggio a colori, nel 1933 la Walt Disney Production fece il botto con Three Little Pigs, l'esilarante capolavoro dei tre porcellini alle prese con un lupo cattivo con un debole per i travestimenti. La gente andava a rivederlo tutte le sere, non importa che lungometraggio ci fosse in programma: gli otto minuti dei Porcellini valevano il biglietto intero. Dopo un anno era ancora in molti cartelloni. Nel frattempo ovviamente Disney aveva commissionato alle sue maestranze un seguito con i Tre Porcellini, il Lupo sempre più drag, e un ospite d'eccezione: Cappuccetto Rosso. Fu un buon successo... ma non superò il successo di Three Little Pigs. Al che Disney pare che abbia detto l'immortale frase: "You can't top pigs with pigs", non puoi sorpassare i maiali con altri maiali: che è anche il motivo per cui se date un'occhiata al canone dei lungometraggi Disney, vi rendete conto che fino a qualche anno fa i sequel erano estremamente rari (la maggior parte erano sottoprodotti straight-to-video, che non venivano distribuiti nelle sale).
Certo, oggi non si ragiona più così. Oggi ormai ha vinto il modello Lucas, un tale che aveva un'idea per un film che se nel caso avesse funzionato sarebbe stato il quarto capitolo di una saga di nove, e il cinema è pieno di sequel e reboot e sequel dei reboot e reboot dei sequel. Disney ragionava in un altro modo e per più di mezzo secolo ha avuto ragione: i sequel sono per i mediocri. Chi vuole sempre fare di meglio, deve inventarsi qualcosa di nuovo. Lo aveva capito sul campo: proprio come i Beatles, che dopo aver fatto il botto riempiendo una canzone di "yeh yeh" stavano realmente domandandosi se il segreto del successo fosse tutto lì, nella loro capacità di spalmare qualche yeh e qualche woah in tutte le canzoni. Fino all'estremo di It Won't Be Long, il fulmineo attacco del secondo LP, dove "Yeah" viene pronunciato cinquantasei volte in duecentodieci secondi. Se il segreto del successo era il numero di "Yeah", It Won't Be Long avrebbe incendiato le radio. Non andò così. Il brano non fu scelto neanche come singolo – anche perché l'alternativa era I Want to Hold Your Hand.
Questo è forse il motivo per cui è il mio yeh-yeh preferito: non l'ho sentito milioni di volte tra i classici del Disco Rosso, l'ho scoperto più tardi e non me ne sono ancora stancato. Inoltre sono pur sempre un ascoltatore della generazione post-punk, in quella che nel 1963 poteva risultare sfacciataggine nel frattempo riconosco un senso dell'eccesso che sono stato educato ad apprezzare: questa canzone caricata di yeh yeh all'inverosimile, ascoltata magari in cuffia con gli yeh yeh che si fanno eco, è uno sballo, è ipnotica ed euforica allo stesso tempo. Lennon sta cominciando a stancarsi della 50s' progression (il giro di Do: I-VI-IV-V). Nel ritornello fulmineo trattiene soltanto i primi due accordi, li inverte e li ripete (VI-I-VI-I), ottenendo un effetto così moderno che gli ascoltatori dei Franz Ferdinand a metà anni Duemila probabilmente non si stavano accorgendo di ascoltare un pezzo dei nonni (un pezzo che i nonni suonavano più veloce). Nel primo bridge prende l'accordo IV e lo abbassa addirittura di un semitono, una cosa che è l'equivalente sul piano compositivo di afferrare una chitarra e spaccarla sul palco. Il secondo bridge – sì, perché ce ne sono due diversi che si alternano un po' a caso – è meno ardito ma contiene un coro di Paul e George che funziona come contrappunto. Il gioco di parole "be long / belong" conduce a loro insaputa i Beatles a una delle inversioni semantiche più interessanti della loro produzione: per John ritrovare una ragazza equivale ad appartenerle. "Non ci vorrò ancora molto... prima che sarò tuo". Non è nemmeno un rituale di seduzione: i due sono già assieme, ma il maschio si sente derelitto perché lei è lontana, e si gonfia di speranza perché sta tornando a casa! E quando accadrà "sarò buono come so che mi devo comportare". Sembra una gag.
Con la sua struttura insolita It Won't Be Long va dritta nella lista delle grandi hit mancate della Beatlemania, con Every Little Thing e poche altre. Definirli errori di percorso è difficile: sono spuntate al momento sbagliato, all'ombra di altre canzoni che era più facile scegliere come singoli. Probabilmente sarebbero stati anch'esse dei successi, se ci fosse stato il tempo. Eppure è davvero l'ultima canzone puramente "yeh-yeh": di lì a poco l'affermazione tipicamente liverpooliana sarebbe quasi del tutto scomparsa dalle loro canzoni, molto prima di annoiare l'ascoltatore. You can't top yeahs with yeh-yeahs.
78. I'm So Tired (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).
I don't know what to do. Può risultare piuttosto ingenuo, quando parla di politica, John Lennon. Può risultare scorretto quando parla di donne. Ma quando parla di sonno, ecco: sa esattamente di cosa sta parlando. Che tu sia un morto di sonno o viceversa un insonne allo stadio della disperazione, se conosci I'm So Tired sai che è il tuo inno. I'd give you everything I've got for-a little peace of mind!
Lennon la concepì durante quel lungo soggiorno indiano che per lui dovette essere anche un'esperienza di disintossicazione. Niente più acidi, niente alcol (nel finale chiede a un immaginario barman francese di versargli un altro bicchiere), sigarette quante ne basta per maledire in eterno Sir Walter Raleigh che le aveva introdotte in Inghilterra: improvvisamente le notti non finiscono più e il pensiero di quella tizia giapponese diventa ossessivo. You know it's three weeks, I'm goin' insane! Qualche mese dopo, tutto quello che resta di quell'angoscia è una breve canzone che sembra quasi una paginetta di diario infilata tra le pagine del Grande Album Bianco – effetto forse voluto: d'altronde I'm So Tired è credo l'esempio più tipico di come i Beatles hanno lavorato al doppio disco.
Si parte da un progetto molto più articolato di quanto lascerebbe sospettare il prodotto finito, registrato da John su un multitracce e condiviso coi compagni alla riunione di Escher. Dura tre minuti e prevede tre strofe, una parlata – classico espediente del woo-dop, e ancor più delle parodie del doo-wop che Lennon e McCartney facevano sin da quando erano due ragazzini con due chitarre e un registratore. Questa strofa viene presto accantonata, anche perché Lennon ha intenzione di usare lo stesso trucco nella parte finale di Happiness is a Warm Gun. Così tagliato, il brano viene inciso a Abbey Road, e re-inciso, e sovrainciso fino all'esaurimento tutte le otto tracce disponibili, per ottenere un risultato che... sembra registrato da quattro tizi in un garage, uno dei quali sicuramente rimbambito dal debito di sonno. Ma appunto, sembra.
In realtà tutta questa immediatezza, questa apparente grossolanità del risultato finale, è il risultato di un'attenta cura al dettaglio. I'm So Tired somiglia a quelle poesie tornite per anni e anni che gli autori romantici sostenevano di avere composto di getto in una notte di plenilunio. Per rendersene conto è sufficiente confrontarla con l'Escher Demo, in cui risulta chiaro che Lennon ha già in mente quello che vuole esprimere, ma non ha ancora trovato i mezzi giusti per farlo: il ritmo era più lento, la voce più spinta sul falsetto, tutte scelte apparentemente logiche ma, confrontate col risultato finale, meno efficaci.
Il motivo per cui la versione finale di I'm So Tired sembra molto più grezza di quanto non sia sta nella prima impressione che ci fa: appena parte il basso (risalendo la scala appena discesa in Martha My Dear), John attacca "I'm so tired" e noi istintivamente abbiamo già un'idea dell'accordo che sta per suonare: se è partito in La, sta per arrivare il Fa diesis minore. Non può che andare così, lo sanno tutti i peggiori chitarristi. Sarà la solita parodia del doo-wop, la solita 50s' progression. E invece le dita di John si stringono sul capotasto sbagliato, regalandoci un Sol# che persino gli spartiti ufficiali si rifiutano di registrare, eppure è lì, e se non si può dire che stoni troppo con gli accordi successivi e precedenti, senz'altro stona con le nostre legittime attese: e sì che lo sappiamo che non c'è da fidarsi con Lennon e McCartney, che per loro il giro di Do è solo una base da cui scantonare appena qualcuno si distrae. Nel verso successivo del resto John suona davvero un giro standard col Fa# al posto giusto, il che ci rende se possibile ancora più perplessi: siamo noi che non siamo in squadra, o è lui? Siamo noi. Lui è John Lennon e nel 1968, mentre meditava in India, ebbe l'idea di descrivere l'angoscia dell'insonnia modificando un accordo nel giro di La. Il risultato è un brano che perseguita ancora le nostre notti insonni e c'è qualcuno che ha il coraggio di dire che la meditazione non serve. Oh m'sieur m'sieur, m'sieur, posso averne un altro?
77. Lovely Rita (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, 1967).
La canzone più sottovalutata del disco più sopravvalutato? Lovely Rita è una delle canzoni che traccia netto il solco tra ascoltatori occasionali e beatlemaniaci – i primi non se la ricordano, non ci fanno caso: i secondi vorrebbero vederla andare avanti il più possibile, tifano per lei, ma come si tifa per quella squadra che sai già che non può che deluderti. È una canzone fatta di tante cose fantastiche, che però per qualche mistero non riescono a comporre un quadro d'insieme.
La prima cosa fantastica è l'introduzione, uno di quei momenti fortuiti in cui tutto si combina in modo meraviglioso: chitarra, pianoforte, Lennon che vocalizza senza più vergogna per il timbro femmineo della voce, Ringo che scalpita con rullante e tomtom pronto a partire in quinta. Vuoi vedere che finalmente arriva un pezzo rock in Sgt Pepper?
La seconda cosa fantastica è il ritornello di John, anche se tradisce proprio quest'attesa – sembra vagamente un raga, ha un incedere ipnotico e forse in un altro contesto avrebbe funzionato anche come coro da stadio: Lovely Rita meeter maid, Lovely Rita meeter maid.
La terza cosa fantastica è Paul che finalmente prende il controllo, con un certo entusiasmo ma un'idea di canzone completamente diversa da quella che ci eravamo fatti fin qui: un bozzetto spiritoso su un'ausiliaria del traffico che gli fa sesso. Però all'inizio è talmente entusiasta che l'idea par buona. Provate a canticchiare la frase "when it gets dark I tow your heart away" (o "when are you free to take some tea with me"). È una gioiosa cascata di note, forse barocca, che evoca lo squillo di una tromba: è lo stile 'squillante' di Paul, che che illumina qua e là tutto il Concetto di Sgt. Pepper, anche quando la sezione di ottoni non è presente (invece c'è una specie di sezione di kazoo, un suono processato a base di pettini e carta velina che possiamo contare come quarta cosa fantastica).
Come la successiva Good Morning, Rita non è facilmente ricollegabile all'orchestrina dei Cuori Infranti, eppure è una tipica composizione pepperiana, che non si troverebbe al suo posto in qualsiasi altro disco precedente o successivo. E per una volta Paul riesce a mettere giù un testo genuinamente spiritoso, giocando addirittura con la sua figura pubblica di fidanzato d'Inghilterra. Quinta cosa fantastica.
La sesta è l'assolo pianistico di George Martin, molto più misurato dell'inserto barocco di In My Life, su cui riverbera la gioia di vivere espressa da Paul nel brano. E allora perché con tutte queste cose fantastiche il brano non decolla? La sensazione è che al netto di tutti gli effetti sonori, i kazoo e i bisbigli, il gruppo non stia suonando molto più che un quattro quarti lento, con un sottofondo chitarristico un po' involuto – come se la sperimentazione stesse prendendo la mano, e l'attenzione ai dettagli impedisse a Martin e ai ragazzi una vera visione d'insieme. Così il ritornello di John, quando finalmente si fa vivo verso la fine, sembra già molto meno interessante. Poi c'è l'angolo dei rantoli alla Freak Out!, che ai tempi doveva risultare uno dei mezzi minuti più coraggiosi del disco, un'ulteriore conquista per il fronte di liberazione giovanile mondiale, ma oggi la rende al massimo la canzone dei Beatles meno adatta da ascoltare coi bambini. Magari la mia insoddisfazione con Lovely Rita è tutto qui: che senso ha ascoltare i Beatles se non puoi farlo coi bambini?
76. Love Me Do (Lennon-McCartney, lato A del primo singolo Parlophone nel 1962, poi in Please Please Me, 1963).
"Amami un po' / lo sai ti amerò / fedele sarò / per sempre, perciò..." Kate Bush scrisse Wuthering Heights a diciott'anni. Mozart alla stessa età già componeva melodrammi. Lennon e McCartney a vent'anni erano già performer trascinanti, ma come compositori, ecco, diciamo che il loro genio era un segreto ben nascosto, anche a loro stessi. Questo li separa irreparabilmente da tutto il rock che è venuto dopo di loro (ed è venuto grazie a loro), legato in modo così indissolubile al concetto di gruppo-che-incide-le-proprie-canzoni: band fondate da artisti che in molti casi cominciavano a scrivere canzoni molto prima di imparare a suonarle. Ovvero, diciamo che da metà degli anni Sessanta in poi il rock diventerà per prima cosa un'urgenza creativa, un modo per esprimere i propri stati d'animo attraverso progressioni di accordi e testi più o meno ispirati.
Tutto questo era cominciato coi Beatles – eppure all'inizio i Beatles non erano così. Chiunque cerchi di considerare Lennon e McCartney due geni deve venire ai patti con l'evidenza: le loro primissime canzoni non contengono nulla di manifestamente geniale. L'urgenza creativa fino a tutto il 1962 sembra molto meno impellente di quella di suonare rock'n'roll e ballabili già disponibili nei negozi di dischi. Poi certo, qualche giro di accordi lo avevano già sperimentato, Paul in particolare sin da ragazzino, a volte semplicemente per recuperare una canzone che aveva ascoltato alla radio e di cui non possedeva né disco né spartito: ma senza produrre niente di paragonabile a Wuthering Heights o che lasciasse immaginare in lui il futuro autore di Yesterday. Ad esempio tutto quello che poteva offrire alla Parlophone nel 1962 era Love Me Do: forse il solo brano di Lennon–McCartney che sia Lennon sia McCartney hanno cercato non di attribuirsi ma di scaricarsi a vicenda. Per John era tutta "roba di Paul" e sosteneva di avergliela sentita canticchiare per anni; Paul da canto suo è sicuro che si sia trattata di una collaborazione alla pari, "50/50", e considerando l'importanza che nel brano ha l'armonica cromatica rubata da John sulla via di Amburgo si fa fatica a dargli torto.
All'inizio la voce di John era anche quella solista – nei rari momenti in cui non è prevista l'armonia a due voci; fu George Martin a spostare l'incombenza su Paul, perché John non avrebbe potuto staccare l'armonica in tempo. Ma in generale Love Me Do è l'esempio di scuola di come gli elementi "Lennon" e "McCartney" fossero miscelati nel composto iniziale: è stucchevole come Paul, sguaiato come John. C'è il blues e la polka, l'armonia e la dissonanza, e soprattutto non si può cantare da soli: provateci. Sembra facile, ma il risultato è sempre deludente. Non esiste una Love Me Do per solista: l'unico vero fascino della canzone sta nell'armonia, o meglio nel contrappunto: nella distanza tra le due linee cantate che si divarica e si incrocia in modo inatteso (e sconosciuto ai manuali). Love Me Do ha un senso soltanto se la canti in due. Se i maestri erano gli educati Everly Brothers, i Beatles si dimostrano da subito studenti irrequieti e disattenti: invece di mantenere il classico, everlyano intervallo di terza, John e Paul svirgolano in libertà suggerendo accordi molto più complessi di quelli che sta suonando George Harrison alla chitarra.
Con tutto questo, Love Me Do rimane un brano abbastanza sconcertante: chi di noi sentendolo alla radio per la prima volta, avrebbe scommesso sul futuro della band, e soprattutto degli autori? Tanto più suscita stupore la scelta di George Martin, che in quel brano vedeva qualcosa che oggi non vediamo con tutta la buona volontà del mondo, e coi migliori equipaggiamenti sonori, e mezzo secolo di senno del poi. A differenza di molte canzoni che stiamo ascoltando a quest'altezza della classifica, Love Me Do non è un classico – se per "classico" intendiamo un brano che si riesce ad apprezzare anche ignorando il contesto storico in cui nasce e il pubblico a cui si rivolgeva. Così come ad esempio possiamo apprezzare Don Chisciotte anche senza conoscere altro del siglo de oro, o i drammi di Shakespeare anche se sono concepiti per teatri diversissimi dai nostri. Love Me Do sta così in alto in classifica per motivi storici – per l'affetto che si riserva alle opere prime anche quando non sono un granché; perché una generazione intera si è abituata ad ascoltare i Beatles sui dischi Rosso e Blu, trasformando Love Me Do in una specie di sigla iniziale, a cui si torna sempre con nostalgia, anche se siamo tutti d'accordo che la vera storia inizia subito dopo.
Per capire un brano come Love Me Do, e le motivazioni che convinsero i Beatles e George Martin a preferirla a brani sulla carta più definiti come Hello, Little Girl o How Do You Do It, ci serve appunto conoscere il contesto; capire cosa stavano trasmettendo le radio inglesi in quel 1962. Scoprire per esempio che l'armonica di John, che pure ci sembra così idiosincratica, era un riferimento fin troppo chiaro e commercialmente parassitario al disco che stava vendendo di più in Gran Bretagna in quel preciso momento: I Remember You di Frank Ifield, un cantante anglo-australiano i cui virtuosismi vocali ricordano altri esperimenti tentati da Lennon e McCartney nel periodo. Altrettanto utile è scoprire che il fenomeno più dinamico in quel periodo erano i complessi strumentali alla Shadows – privilegiati dai discografici anche perché potevano essere esportati negli altri mercati europei senza la fatica di trovare un traduttore e una cover band locale. E questo forse potrebbe parzialmente spiegare (non scusare) lo sconfortante minimalismo del primo testo inciso dai Beatles, quella strofa ripetuta quattro volte che in fondo è il loro primo nonsense, anche se purtroppo un senso ce l'ha ed è di una banalità straordinaria persino per le canzonette anni '60; compreso quel terzo verso, "I'll always be true", il più irritante di tutti per la manifesta ipocrisia: come si può credere a un simile impegno proferito da voci così sbarazzine? No, è molto meglio assumere che i Beatles pensassero alle parole di Love Me Do come materiale astratto che consentiva di aprire e chiudere le bocche negli intervalli previsti.
Love Me Do è infine uno dei rari spaccati della preistoria dei Beatles: accanto a qualche fuggevole indizio della loro futura grandezza, contiene tracce di tante cose che stavano per accantonare per sempre. È uno skiffle, probabilmente, con qualche accenno alla polka e chissà, forse al Cavern si ballava pure la polka: la reticenza dei testimoni oculari è comprensibile. È il brano che mandò in crisi Pete Best, il batterista che durante l'audizione alla Decca tutto sommato se l'era cavata dignitosamente e invece su Love Me Do fu un disastro. È il primo brano dei Beatles che Ringo dovette imparare, per scoprire poi ad Abbey Road che George Martin aveva già scritturato un turnista, tale Andy White. Alla fine fu incisa sia una versione con White (con Ringo al tamburello) sia una con Ringo, e i Beatlemani non hanno smesso di discutere quale sia la migliore. I'll always be true, so plea-ea-ea-ease...
75. Golden Slumbers (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).
Una volta c'era un modo di tornare a casa nel sonno. Quanto dev'essere fantastico svegliarsi nei panni di Paul McCartney, con una melodia in testa che magari è Yesterday? Quanto dev'essere angosciante svegliarsi nei panni di Paul McCartney, quando ti accorgi che è da un po' che non ti viene nessuna melodia nuova e magari non te ne verranno mai più, è finita, avevi un dono e qualcuno te l'ha sottratto, forse sei venuto meno a una promessa come i fratelli cattivi delle fiabe, e non lo sai perché è successo dall'altra parte del sogno. E da questa parte c'è la Più Grande Band del Mondo da portare avanti, con la sua corte dei miracoli e un socio in affari che non va d'accordo nemmeno con sé stesso e la colerebbe a picco per capriccio. Se solo ci fosse un modo per tornare a casa in sogno – d'altronde, sei pur sempre nei panni di Paul McCartney. Ti basta sederti al piano di tuo papà, c'è uno spartito di una ninna nanna del Seicento, tu non hai mai voluto imparare a leggere la musica proprio perché meno ne sai, più hai spazio per inventarne: e infatti te la inventi e scrivi... la ninna nanna più assurda di tutte. Soooooogni d'or negli oooocchi tuoooooi! Su Youtube c'è uno sketch di Sesame Street con Bocelli che canta una ninna nanna al recalcitrante pupazzo Elmo, sulle note di Partirò. Proprio quando Elmo comincia a chiudere gli occhietti, Bocelli attacca l'acuto. Ecco, Golden Slumbers fa la stessa cosa ma in questo caso è umorismo involontario, una delle tipiche incongruità di Paul. Come quando canta I'm Down ridendo a trentadue denti, o racconta la storia di un assassino seriale come se fosse una filastrocca divertente e non la è. Lennon racconta che Paul ci sapeva fare coi bambini, compreso suo figlio Julian, molto più di lui. Non c'è motivo per dubitarne ma confrontando le ninne nanne lennoniane del Disco Bianco con quella che Paul scrive per Abbey Road, non c'è dubbio su chi dei due conoscesse realmente l'esperienza di addormentare un bambino.
Con Golden Slumbers il Medley di Abbey Road muove il passo decisivo verso il finale. Se è un carosello finale – e ormai ne ha tutta l'aria – Golden Slumbers è il momento in cui entra l'orchestra, cioè George Martin. Insomma qui a congedarsi è la premiata ditta di Yesterday e Eleonor Rigby, e lo fa con un brano che ne mette in luce i pregi e i difetti: il gusto barocco si perdona volentieri, forse perché si dà dei tempi sempre più brevi. Questo a George Martin bisogna riconoscerglielo: tutte le sue pretese sinfoniche non hanno mai allungato un pezzo dei Beatles più di trenta secondi, di minutaggio ne ha sprecato molto più Lennon con l'avanguardia e col blues. Golden Slumbers può non corrispondere alla tua idea di canzone dei Beatles; McCartney che si tira fuori dal ventre un acuto da Motown in una ninna-nanna sembra l'ideale per svegliare del tutto un bambino sonnacchioso; però è appena un minuto e mezzo, non glielo vuoi lasciare a Paul un minuto e mezzo per salutare gli orchestrali? Ed è commovente, non dite di no. I bambini da addormentare li avremo sempre, ma i Beatles si sono sciolti una volta sola. Un bel peso da portarsi sulle spalle, per un bel po' di tempo.
74. Because (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).
Siccome il mondo gira, mi fa andare su di giri. La prendo un po' lontana: una volta ho sentito dire che Abbey Road è il beatle-disco preferito da Elio. Forse anche dalle Storie Tese. (A rifletterci è ovvio, anche se non è così ovvio da spiegare). Sarà per questo motivo, la prima volta che mi è capitato di ascoltare Ignudi tra i nudisti io avevo già capito il trucco. Hanno rovesciato una canzone, ho pensato. L'ho capito perché Elio aspirava e bofonchiava proprio come i cantanti quando il nastro di una musicassetta si rovesciava; perché il bridge arrivava molto prima del necessario; e la struttura in generale sembrava strana eppure in un qualche modo necessaria, come se ogni nota suonata e cantata mi stesse chiedendo di essere ascoltata in un qualche modo diverso. Ma non ci sono poi molti modi diversi di ascoltare una canzone; un'immagine si sviluppa in uno spazio bidimensionale, puoi inclinarla in vari modi; ma una canzone si muove solo nel tempo, l'unico modo di vederla in un modo diverso è invertire il senso del tempo. O forse l'ho capito al volo perché mi ricordavo che il disco beatle preferito da Elio è Abbey Road, e in Abbey Road c'è Because, e tutti a un certo punto ci siamo convinti che Because fosse nata da una sonata di Beethoven incisa al contrario... salvo che non è vero.
L'equivoco nasce da un appunto di Lewisohn: nello studio Yoko Ono esegue la sonata – dimostrando probabilmente, nell'occasione, una perizia con lo strumento superiore a quella di ciascun Beatle. John, pensoso, le chiede di suonarla al contrario. Yoko esegue, ed ecco Because. Dunque niente nastri invertiti in questo caso – l'inversione è manuale, il che ci pone altri interrogativi: cosa ha rovesciato davvero Yoko? L'ipotesi più convincente la spiega questo signore su Youtube.
Yoko dunque inverte l'arpeggio degli accordi, ma la Because vera e propria nasce soltanto quando Lennon decide di ricombinare l'arpeggio originale con quello invertito: per cui più che di un Beethoven rovesciato bisognerebbe parlare di un Beethoven specchiato e raddoppiato: ecco spiegato il mistero di Because, la sua arcana corrispondenza con una sonata di sue secoli prima. Come molte soluzioni è abbastanza deludente, e ci fa rimpiangere il mistero. Perché abbiamo creduto per tanto tempo che suonando il disco al contrario ci avremmo sentito Beethoven? Perché i Beatles coi nastri invertiti erano stati i primi a giocarci, benché nel 1969 anche questo gioco li avesse stancati; e più in generale perché Because, come e più di Ignudi, si presenta con una struttura ambigua e irrisolta, e ti dà la stessa sensazione che ogni nota debba stare esattamente dove sta, ma debba essere ascoltata in una direzione diversa da quella in cui la stai ascoltando. Sei dal lato sbagliato delle cose.
Siccome il vento fischia, mi fischia la testa. Ho sentito dire che c'è un universo parallelo dove il tempo gira nella direzione contraria alla nostra. Se con gli alieni di quell'universo potessimo vederci in conferenza su Meet, li vedremmo fare magari tutto quel che facciamo noi ma al contrario: e anche se fossimo simili o addirittura identici, non riusciremmo a capirci: all'inizio li saluteremmo dicendo "ciao" e loro ci risponderebbero "addio" perché tutto quello che ci diremo dopo loro ce l'hanno già detto. Non riusciremmo nemmeno a far loro ascoltare i Beatles, tranne forse Because, una canzone che per qualche scherzo dell'entropia faceva parte del loro universo ma è rimasta intrappolata nel nostro, come una manciata di antimateria.
Siccome il cielo è azzurro, mi fa piangere. Ha un che di lugubre, Because: è un esercizio mirabile ma freddo, astratto, e lascia un senso di insoddisfazione che il brano successivo non consola, anzi. Tutti però la trovano incantevole per via dei cori (specie da qualche anno in qua, quando è stata isolata la traccia vocale), tutti fingono di non avvertire che sono cori funebri. Il testo è composto da un trittico di giochi di parole tipicamente lennonniani che in un'altra canzone sarebbero apparsi esilaranti, e invece qui sembrano gli esercizi freddi di un dadaista di laboratorio. Poi arriva un bridge che per un attimo ti convince che la canzone potrebbe finalmente risolversi, e invece no: rimane sospesa, gelosa del suo segreto. Because di solito non viene considerata parte del medley finale di Abbey Road, eppure è un brano che fa sistema come pochi altri: le sue terzine sono una reminiscenza di Here Comes the Sun (anche se l'accordo in maggiore è passato a un minore), che a loro volta preparano l'orecchio all'arpeggio più semplice e marziale che ascoltiamo nella chiusa di You Never Give Me Your Money. Non solo: lo stile vagamente romantico la ricollega al crescendo finale di She's So Heavy, che aveva chiuso il lato precedente. Se George Martin è il principale responsabile di un certo filone barocco nelle canzoni dei Beatles, è curioso pensare che Yoko Ono potrebbe essere l'ispiratrice del filone romantico.
73. Getting Better (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, 1967).
I used to get mad at my school (No I can't complain). Vent'anni fa, quando finalmente uscirono le prime rilevazioni statistiche sulla qualità dell'educazione in Europa, scoprimmo con una certa sorpresa che il metodo educativo migliore era quello... finlandese. Sul serio, non se l'aspettava nessuno. Del resto è per questo che esistono le rilevazioni statistiche, no? Per farci scoprire cose che non ci saremmo mai immaginati. E quindi, cosa aveva di così innovativo la scuola finlandese? Non lo sapevano nemmeno i finlandesi, che peraltro in quel periodo stavano cambiando metodo, abolendo le classi statiche, le lezioni frontali, ecc.. Addirittura smisero di addestrarsi ai test – e sì che erano diventati un modello per il mondo proprio perché i loro studenti erano stati i migliori a fare i test. In effetti da lì in poi sono sempre peggiorati nelle rilevazioni. Non importa, ormai abbiamo deciso che sono i migliori del mondo e continuiamo a invidiarli e cercare (malamente) di copiarli, anche perché abbiamo il sospetto che nelle loro scuole ci si diverta molto. E dunque anche noi stiamo mettendo in discussione le classi statiche, le lezioni frontali, ecc.. E peggioriamo anche noi, più rapidamente dei finlandesi (anche perché partivamo già più in basso). A un certo punto a qualcuno è venuto il sospetto: ma vuoi vedere che in realtà è tutto un equivoco? Che i finlandesi siano diventati un modello non per la scuola che stavano inventando in quel momento, ma per quella che avevano prima, quella con le classi statiche e le lezioni frontali e i professori esigenti e gli studenti suicidi? E se è così, vale proprio la pena di dirlo in giro?
I Beatles, fino al 1967, rappresentavano tutto ciò che c'era di nuovo e di migliore nella prima generazione postbellica. Con tutta la loro svergognata esibizione di talento allo stato brado, a Lennon e McCartney bastava scuotere le chiome in tv per avvertire che l'epoca del rigore era finita, che le vecchie scuole non servivano più a nulla, che gli insegnanti che "ci riempivano di regole" avevano i giorni contati. E in effetti è proprio così. Ma i Beatles quelle scuole le avevano pur fatte... E oggi che ogni briciolo di talento in ciascun alunno è vezzeggiato dall'asilo nido fino alla maturità, oggi che l'idea di restare attenti a una lezione per più di trenta minuti è vista come un abuso di potere, e ogni lezione dovrebbe essere gamificata: oggi ne saltano fuori dalle nostre scuole dei talenti come Lennon e McCartney? Apparentemente no. Ma forse è solo un bias.
Me used to be angry young man. I bias (vorrei tanto che si potesse chiamarli ancora "pregiudizi") sono "pattern sistematici di deviazione dalla norma o dalla razionalità nel giudizio". Uno dei più importanti è il bias del sopravvissuto, e ne soffrono tutti quelli che vogliono diventare youtuber o influencer (compresi molti youtuber o influencer). Ai miei tempi ne soffriva chiunque mettesse in piedi una rock'n'roll band. Insomma, il pregiudizio che perturba la razionalità del nostro giudizio è che vediamo un sacco di gente che ce la fa. Partono da zero e diventano uomini o donne di successo, ai miei tempi diventavano anche dei divi del rock, persino in Italia ne abbiamo avuti tre o quattro che hanno fatto soldi seri. Se tutta quella gente ce le fa, perché non dovremmo farcela anche noi? Perché siamo dei poveri illusi e facciamo caso soltanto a quell'uno su un milione che ce la fa: non ai 999.999 che ricadono a terra malamente.
Quel che è terribile è che anche l'Uno su un milione talvolta soffre dello stesso pregiudizio/bias, ovvero pensa: beh, se ce l'ho fatta io non doveva essere così difficile. E quindi sceglie di ridiscendere tra i suoi simili nelle vesti insopportabili dell'ottimista programmatico, il ragazzo fortunato che invita tutti a "credere nei loro sogni", perché più ci credi più si avverano. È un pattern sistematico di deviazione dalla norma che lo trasforma in un maledetto irresponsabile che manda poveri falliti a sbattere contro il muro della Realtà. I più altruisti creano etichette, sindacati di artisti, enormi bolle di talento inutile che creano effetti indubbiamente artistici quando esplodono. Poi la gente scrive che ce l'ho con Paul McCartney ma è il contrario, provo una sincera pena per lui, per la generosa speranza con cui fondò l'Apple e per come la vide marcire e cadere. Qualcun altro dopo aver sognato la melodia di Yesterday si sarebbe convinto di essere un genio sovrumano, lui tutto il contrario: da bravo babyboomer, era convinto che quel genio ce l'avessero tutti, e che bastava snidarglielo. In fondo fino a quel momento stava andando tutto bene. Stava andando sempre meglio. Tutto sempre meglio, tutto il tempo.
I Beatles sono l'equivalente musicale del bias del sopravvissuto. Li ascoltiamo, li guardiamo e pensiamo: di gruppi così non ne possono esistere più. Vediamo solo loro, non tutti quelli che ci hanno provato nello stesso momento e per qualsiasi motivo non ce l'hanno fatta. Viste le premesse era quasi fatale che dovessero diventare gli alfieri di quell'ottimismo moderatamente socialdemocratico che fino a quel momento animava la società europea e americana degli anni Sessanta. Rilassati, divertiti, sta migliorando tutto. Getting Better è il secondo sguardo all'indietro di Sgt Pepper, dopo With a Little Help (da cui riaffiora lo stesso quattro quarti martellante, una soluzione ritmica platealmente reazionaria rispetto a quelle proposte nel primo brano e in Lucy). Dopo i colori acidi di Lucy, è un ritorno al bianco e nero – te l'immagini suonata dai quattro manichini neri di Madame Tussaud, più che dai loro avatar in carne ossa dai costumi sgargianti. Cosa sarebbe successo ai Beatles se dopo Revolver si fossero detti: torniamo indietro? Siamo solo un gruppo pop-rock con un seguito di ragazze che stanno crescendo e vogliono cominciare ad ascoltare brani cantati da fidanzati ideali con la testa sulle spalle? "Sto facendo del mio meglio, e devo ammettere che sono diventato una persona migliore da quando tu sei mia". Avrebbero potuto accontentarsi di essere questo, i Beatles? Forse sì.
Tranne uno.
I used to be cruel to my woman. I beat her and kept her apart from the things that she loved. Così, a secco, senza neanche avvertire – la musica cambia appena un po', si percepisce una vibrazione sinistra che forse è un sitar, e nel bel mezzo del pezzo più pop di un disco pop, un beatle ci informa che era abituato a picchiare la sua donna. E quel beatle, anche se si nasconde dietro la voce serena di Paul, è evidentemente John Lennon. Perché scegliere proprio l'inno alle magnifiche sorti e progressive, per ricordare a tutti di essere un mostro geloso? Perché forse è finita – la stessa Cynthia conferma che l'ingestione quotidiana di LSD aveva posto fine alle violenze domestiche, non ditelo ai servizi sociali. Ma insomma la vita sta migliorando anche per John, e del resto "più di tanto non può peggiorare" (It can't get much worse). Scegliete voi cosa vi irrita di più: il vittimismo esistenziale del milionario John che anche quando si concedeva le sostanze migliori sul mercato continuava a cantare "sono solo ho voglia di morire", o l'ottimismo programmatico di Paul che porterà i Beatles a sfracellarsi commercialmente contro quel monumento alle velleità di una generazione che fu l'Apple Corps. Alla fine è impossibile non compatirli entrambi, in fondo erano due orfani che avevano vinto alla lotteria il ruolo di eroi di una generazione. Non è sorprendente che abbiano buttato via tanti e soldi (e anche molto talento). È incredibile che siano riusciti a resistere per così tanto tempo. E per così tanto tempo, a migliorare. Getting so much better all the time.
72. Yer Blues (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).
Esatto, sono solo e voglio morire. Ma mettetevi un attimo nei Rolling Stones. Nascete suonando blues nell'indifferenza generale, finché qualcuno non ha la pensata di promuovervi come i rivali dei Beatles. L'idea frutta immediata visibilità, ma vi condanna anche a un confronto schiacciante, perché i Beatles non stanno fermi un attimo e anche a voi ora viene richiesta la stessa cosa, un attimo prima eravate un gruppo di blues inglese che cominciava a suonare credibile e un attimo dopo eccovi a strimpellare strumenti rinascimentali e bonghi, ma sempre tenendo un occhio a quello che fa la concorrenza, sempre con l'affanno di inseguire chi è partito prima e non deve imitare nessuno. Finché non ce la fate più – anche perché lo showbiz vi mangia vivi e la polizia non ha con le vostre consuetudini tossiche la stessa tolleranza che ha coi quattro Membri dell'Ordine Britannico. Arriva il punto in cui più che sembrare i lato oscuro dei Beatles sembrate diventati una parodia. L'accoglienza tiepida riservata a Their Satanic Majestic Request muove Jagger e Richards a un ripensamento: basta andare a rimorchio, ritroviamo la nostra identità. Eravamo un gruppo blues, rimettiamoci a suonare il blues. Ottima idea. Probabilmente è quella che ha salvato gli Stones, diciamo per quattro quinti. A dicembre esce un ottimo album, Beggars Banquet – proprio nei giorni in cui il Disco Bianco trionfa nelle radio di tutto il mondo, ma che importa? Non è più una gara, ognuno faccia quel che sa fare: e non c'è dubbio che ormai gli Stones sappiano fare un ottimo blues. Per promuovere il disco hanno un'idea: uno special natalizio per la televisione, proprio come il Magical Mystery beatlesiano dell'anno prima, ma meno immaginifico: un concerto ambientato in un circo, con Mick Jagger vestito da impresario. Ottima idea. E si possono anche invitare gli amici: gli Who, i Jethro Tull (con Tony Iommi!), Taj Mahal, e John Lennon, sì, dice che viene se può portare Yoko Ono. Lo accompagnano Eric Clapton (i Cream si sono già sciolti) e il grandissimo batterista dei Jimi Hendrix Experience, Mitch Mitchell. Un bassista non c'è, ma si presta Keith Richards. È la prima volta in assoluto che Lennon suona in pubblico senza in un gruppo che non siano i Beatles. E cosa suona? Yer Blues, dal disco appena uscito. Dopodiché?
Dopodiché suonano anche gli Stones, ma non ha molta importanza. Il Rock'n'Roll Circus non verrà mai programmato, sono gli stessi Stones ad accantonarlo. Non erano soddisfatti della loro prestazione, avrebbero voluto lavorarci un po', ma poi succedono altre cose. Brian Jones (che si aggirava sotto il tendone già in evidente stato confusionale) viene licenziato e muore poco dopo. Se il Circus è rimasto inedito fino al 1995, girl... you know the reason why. Dopo essere andati vanamente all'inseguimento dei Beatles per tre anni, tre anni in cui dischi ottimi avevano comunque perso la sfida con Revolver e con Sgt Pepper, gli Stones avevano deciso di concentrarsi su quello che sapevano fare meglio: sul rock e sul blues. Ottima idea... poi però arriva in casa John Lennon con la fidanzata matta e due amici, sale sul palco, suona un solo blues e li stende. Non c'è giustizia a questo mondo.
Il gruppo improvvisato in quel pomeriggio si chiamava "Dirty Mac" ("Vecchio sporcaccione"), uno sberleffo all'ultima novità del blues inglese, i Fleetwood Mac di Peter Green appena sbarcati in classifica con Black Magic Woman. Prima di far entrare Yoko fa in tempo a suonare un pezzo solo, ma quel pezzo è Yer Blues, e non c'è gara. Non c'è gara coi Fleetwood Mac e non c'è gara coi Rolling Stones. (Gli unici a non impallidire sono gli Who, ma loro non fanno blues, ormai sono un genere a parte). Nel 1968 lo stato dell'arte del blues inglese è un pezzo dei Beatles – ma com'è possibile? Che siano sempre i migliori, anche quando sono in crisi, anche quando perdono un manager e una direzione artistica? Possibile che a John Lennon in ritiro indiano basti pensare "adesso faccio un blues" per alzare di colpo il livello di tutto il blues inglese? Pure è così.
Anche se magari non sembra. Yer Blues non è invecchiata bene come altri brani del Bianco. In un disco pieno di pastiche in effetti c'è il grosso rischio di non prenderla sul serio. Per Lewisohn è una parodia del blues inglese del periodo. Potrebbe anche darsi – bisognerebbe ascoltare il blues inglese del periodo. I Fleetwood Mac, senz'altro, e ovviamente i Cream, gli Yardbirds di Jeff Beck e Jimmy Page e anche gli Stones di Beggars Banquet. Ecco, chissà se Lennon si è dato pena di ascoltarli. Magari nemmeno. Gli basta intonare "Yes I'm lonely wanna die" per far sembrare tutta la scena una platea di poser. O sciocchi, cosa pensate che sia il blues? un rock'n'roll per esperti, per filologi, per virtuosi della scala pentatonica? Non avete capito niente e non perderò tempo a spiegarvelo. Il blues è disperazione e voglia di morire, il blues è un urlo primordiale. E se non sono già morto, non è grazie al vostro soul di plastica. Nei quattro minuti di Yer Blues Lennon accelera, rallenta, inserisce fraseggi tipici nei posti sbagliati, un assolo di due-note-due, si permette insomma tutte le libertà che un purista inglese del blues nel 1968 avrebbe esecrato: e il risultato è il pezzo più robertjohnsoniano mai inciso in Inghilterra. Non hai bisogno di maestri per suonare il blues (l'unico che Lennon riconosce è il Dylan di Ballad of a Thin Man): basta aver voglia di morire, e John "si sente suicidiario come il mr Jones di Dylan".
Yer Blues va presa sul serio. Fa parte di quel mazzo di brani del Disco Bianco che attestano un precoce desiderio di ritorno alle origini; viene incisa dal vivo, in uno sgabuzzino, da quattro musicisti che vogliono tornare a guardarsi in faccia mentre suonano. I cambi di tempo che Lennon non era riuscito a chiarire con sé stesso nel demo, Ringo e Paul li afferrano al volo. Per quattro minuti i Beatles partecipano al Blues Boom del 1968 e riportano tutto a casa. Per ascoltare un blues inglese altrettanto viscerale e disperato bisognerà aspettare un annetto – il tempo necessario a Jimmy Page per rilevare gli Yardbirds e ribattezzarli Led Zeppelin: il gruppo che nei primi anni Settanta venderà più dischi... dei Rolling Stones. Yer Blues è invecchiata peggio di altri brani del Bianco perché, in effetti, è l'anteprima di quello che diventerà il marchio di fabbrica dei primi LZ: un nuovo genere di blues, ritmicamente imprevedibile, melodrammatico e urlato, sofferto e sanguinante. È abbastanza clamoroso che i pionieri del genere non fossero gli Yardbirds o i Cream o i Fleetwood, ma... gli autori e interpreti di Obladì Obladà.
71. I'm Down (Lennon-McCartney, lato B del singolo Help!, 1965).
"Plastic soul man, plastic soul". Cosa intendeva Paul con questo commento finale alla take 1 (si sente in Anthology 2? Non è chiaro, ma all'inizio del brano aveva affettato un accento americano per esprimere un desiderio: "let's hope this one turns out pretty darn good, huh?" I due commenti racchiudono il brano come due parentesi, o forse due virgolette. Come se Paul pensasse ad I'm Down più come a una performance che a una canzone. All'inizio c'è un misterioso americano che dice: speriamo che funzioni. E alla fine, lo stesso americano scuote la testa, anche se in una direzione ambigua: cosa vuol dire davvero "plastic soul"?
Oggi diamo per scontato che la plastica sia il materiale "finto" per eccellenza, quello che può prendere tutte le forme senza averne nessuna in natura – ma nel 1965 la plastica era ancora qualcosa di entusiasmante che stava migliorando la vita a milioni di persone. Un soul di plastica è necessariamente un soul finto? O piuttosto un soul malleabile, capace di plasmarsi a piacere? I'm Down fu registrata 55 anni fa, in uno dei giorni più interessanti della storia della musica, per via che durante le stesse sessioni Paul registrò anche Yesterday e I've Just Seen a Face. Tre canzoni così diverse, e tutte e tre così felici. Yesterday è dal primo istante uno standard confidenziale, I've Just Seen un post-skiffle irresistibile che Paul si sarebbe portato con sé anche nelle esibizioni live dei Wings, e quanto ad I'm Down... beh, era una mossa quasi obbligata. Persino tardiva. Da sempre i Beatles chiudevano le loro esibizioni con un pezzo urlato, che mandasse a casa il pubblico col sorriso sulle labbra e la voglia di rivederli al più presto. Il più famoso è Twist and Shout, ma molto più spesso avevano usato Long Tall Sally. Sempre cover, in ogni caso: non avevano mai tentato di scrivere un brano così. Finché nel 1965 Paul rompe gli indugi e scrive I'm Down. È anche un modo per inserire nella scaletta dei concerti un brano in più della ditta Lennon/McCartney: ma perché non ci avevano pensato prima? Cosa li tratteneva? È come se urlare una propria canzone non fosse facile come urlare una canzone di qualcun altro. Paul non può più nascondersi in Little Richard: deve essere sé stesso, ma chi è davvero?
Un ragazzo fortunato. Ci sono canzoni performative: Here Comes the Sun è un mattino di sole anche se fuori piove. Help! è davvero un grido di aiuto. I'm Down è esattamente il contrario: la più smaccata bugia mai raccontata da un cantante al microfono. Paul non è mai "down", anzi non è mai stato così felice. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di vedere i filmati delle esibizioni al Sullivan Show o allo Shea Stadium, dove ridono tutti come matti e John si cimenta nel suo assolo di organo Vox col gomito; o quella in Germania dove Paul si ricorda come ringraziare il pubblico in tedesco e poi dimentica le parole della sua stessa canzone, un bel lapsus. Perché assegnare a una canzone così divertente un testo brontolone come I'm Down? Non c'è un vero perché, a volte le canzoni nascono con le prime frasi che ti vengono in mente, e quando provi a cambiarle non trovi niente di meglio. Due sono gli argomenti che non tradiscono mai il paroliere: l'amore e il sentirsi giù, (gli americani lo chiamano "blues"). Non c'è bisogno di inventare niente, le frasi sono già pronte all'uso con le rime già pronte. Del resto non ha la minima importanza: come in Dizzy Miss Lizzy, come in Long Tall Sally, come in Twist and Shout, le parole sono solo un pretesto per urlare. E tuttavia vedere John e George ridersi in faccia mentre si dividono il microfono cantando "I'm down" sembra quasi una presa di posizione. Siamo i Beatles, nessuno ci prenda sul serio. Produciamo oggetti di plastica, i dischi questo sono. Ricicliamo il blues e il rock'n'roll e lo trasformiamo in canzoncine ridanciane, ed è divertente. La cosa vi scandalizza? Ce ne faremo una ragione. Ma sul serio: come potete deprimervi, mentre noi ridiamo?
Puntate precedenti: (#254-235), (#234-225), (#224-215), (#200-181), (#180-166), (#165-156), (#155-146), (#145-136), (#135-121), (#120-111), (#110-96), (#95-81).
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80. And I Love Her (Lennon-McCartney, ma quest'ultimo ammette che andrebbe attribuita anche a George Harrison; A Hard Day's Night, 1964).
"L'ho scritta, l'ho portata in studio, l'ho mostrata ai ragazzi e poi George Martin, il produttore, ha detto: sarebbe bello se ci fosse un'intro, qualcosa che facesse partire la canzone, no? Ci siamo seduti a rifletterci e George Harrison ha detto: che ne pensate di du-du-du-dum..."
Come onestamente confessa Paul McCartney nello stesso video, senza quel "du-du-du-dum" non c'è la canzone. Certo, lui l'ha scritta, ma senza quelle quattro semplicissime note di George, non sarebbe valsa la pena registrarla: e Paul McCartney avrebbe di nuovo fallito nella missione di scrivere per i Quattro un pezzo confidenziale. Perché se si toglie l'acerba PS I Love You, lato B di Love Me Do, fino a questo momento era stato John Lennon con This Boy e If I Fell a dimostrare una certa dimestichezza con la materia. Paul quando voleva atteggiarsi a crooner era ancora costretto a ricorrere a canzoni non sue (pescate ai margini estremi del beatleverso, e non esattamente corrispondenti al modello del 'lento ballabile': A Taste of Honey, Till There Was You). Con And I Love Her finalmente fa centro in quello che tutti da qui in poi considereranno un suo reparto: ci riesce abbassando i volumi, mettendo in mano a Ringo bongo e legnetti, imponendo un ritmo vagamente latino (sua antica ossessione), e un attacco con un accordo in fa# minore che ti dà la sensazione di arrivare a canzone già cominciata, come se da qualche parte si fosse perso un Mi maggiore iniziale: che infatti arriva, ma soltanto al culmine della strofa, proprio sulla parola "love her" (non è questa gran coincidenza, c'è un "love" in un verso su due). Paul l'aveva scritta così, in dispregio delle convenzioni musicali (qui rappresentate dal pur ragionevole George Martin) che imponevano un minimo di introduzione. Da questo punto di vista il riff superminimale di George Harrison è un perfetto compromesso, un fragile ponte di note che evoca quel Mi maggiore iniziale fantasma (le prime due note sono proprio Si e Mi, fondamentali componenti dell'accordo in Mi maggiore), per condurre al Fa# minore. Funziona così bene che anche se siete convinti di averlo sentito in tutte le strofe di And I Love Her, in realtà compare appena in due su quattro, alternandosi a quell'arpeggio mandolineggiante, una triade semplice ma di sicuro effetto – in effetti il segreto dell'incanto di And I Love Her è il suo essere un quadro sofisticato fatto di pezzi facili.
Tra i tanti paradossi dei Beatles, vale la pena di notare stavolta quello chitarristico: mentre i riff più fragorosi e sovrabbondanti sono tutti di Lennon, il chitarrista meno tecnico (I Feel Fine, Day Tripper, And Your Bird Can Sing, Dig a Pony), mentre i contributi più chiassosi e rumoristici addirittura sono di McCartney (Taxman, It's All Too Much, Helter Skelter), quelli più essenziali e semplici sono di George, la chitarra solista, colui che più facilmente avrebbe rischiato di sbagliare qualcosa dal vivo – mentre in studio forse John aveva il problema opposto, ovvero dimostrare a sé stesso e ai colleghi di essere alla loro altezza. E può darsi che a sua volta Paul, le rare volte che si trovava una chitarra elettrica in braccio, sentisse un'esigenza complementare: mantenere un po' di credibilità rock, dimostrare di poter essere rumoroso quanto gli altri, anzi il più rumoroso di tutti. La chitarra come una sfida, per tutti e tre: a Paul chiede più confusione creativa, a John più tecnica, a George più disciplina.
La timidezza di George risulta anche dall'assolo, che alla quarta strofa costringe i colleghi a un bizzarro salto di tonalità di appena un semitono. La sua Ramírez acustica non fa molto più che ribadire il languido tema della strofa, condendolo ancora un po' di quella salsa mediterraneo-caraibica che in un disco ancora molto yeh-yeh come A Hard Day's Night poteva risultare un gradevole diversivo . Oggi invece risulta uno degli aspetti più datati: oggi del resto i dischi dei Beatles sono materia di ricerca accademica, nessuno li mette più sul piatto per fare quattro salti e attendendo il brano lento per strusciarsi un poco. Fino all'ultima sorpresa della canzone, quel Re maggiore imprevisto eppure necessario entro il quale ci conviene aver concluso quello che dovevamo concludere, perché la banda sta per ripartire in quarta. Tell Me Why-ay-ay-ay you cry...
79. It Won't Be Long (Lennon-McCartney, With the Beatles, 1963).
La prendo alla lunghissima: dopo aver piazzato qualche promettente cortometraggio a colori, nel 1933 la Walt Disney Production fece il botto con Three Little Pigs, l'esilarante capolavoro dei tre porcellini alle prese con un lupo cattivo con un debole per i travestimenti. La gente andava a rivederlo tutte le sere, non importa che lungometraggio ci fosse in programma: gli otto minuti dei Porcellini valevano il biglietto intero. Dopo un anno era ancora in molti cartelloni. Nel frattempo ovviamente Disney aveva commissionato alle sue maestranze un seguito con i Tre Porcellini, il Lupo sempre più drag, e un ospite d'eccezione: Cappuccetto Rosso. Fu un buon successo... ma non superò il successo di Three Little Pigs. Al che Disney pare che abbia detto l'immortale frase: "You can't top pigs with pigs", non puoi sorpassare i maiali con altri maiali: che è anche il motivo per cui se date un'occhiata al canone dei lungometraggi Disney, vi rendete conto che fino a qualche anno fa i sequel erano estremamente rari (la maggior parte erano sottoprodotti straight-to-video, che non venivano distribuiti nelle sale).
Certo, oggi non si ragiona più così. Oggi ormai ha vinto il modello Lucas, un tale che aveva un'idea per un film che se nel caso avesse funzionato sarebbe stato il quarto capitolo di una saga di nove, e il cinema è pieno di sequel e reboot e sequel dei reboot e reboot dei sequel. Disney ragionava in un altro modo e per più di mezzo secolo ha avuto ragione: i sequel sono per i mediocri. Chi vuole sempre fare di meglio, deve inventarsi qualcosa di nuovo. Lo aveva capito sul campo: proprio come i Beatles, che dopo aver fatto il botto riempiendo una canzone di "yeh yeh" stavano realmente domandandosi se il segreto del successo fosse tutto lì, nella loro capacità di spalmare qualche yeh e qualche woah in tutte le canzoni. Fino all'estremo di It Won't Be Long, il fulmineo attacco del secondo LP, dove "Yeah" viene pronunciato cinquantasei volte in duecentodieci secondi. Se il segreto del successo era il numero di "Yeah", It Won't Be Long avrebbe incendiato le radio. Non andò così. Il brano non fu scelto neanche come singolo – anche perché l'alternativa era I Want to Hold Your Hand.
Questo è forse il motivo per cui è il mio yeh-yeh preferito: non l'ho sentito milioni di volte tra i classici del Disco Rosso, l'ho scoperto più tardi e non me ne sono ancora stancato. Inoltre sono pur sempre un ascoltatore della generazione post-punk, in quella che nel 1963 poteva risultare sfacciataggine nel frattempo riconosco un senso dell'eccesso che sono stato educato ad apprezzare: questa canzone caricata di yeh yeh all'inverosimile, ascoltata magari in cuffia con gli yeh yeh che si fanno eco, è uno sballo, è ipnotica ed euforica allo stesso tempo. Lennon sta cominciando a stancarsi della 50s' progression (il giro di Do: I-VI-IV-V). Nel ritornello fulmineo trattiene soltanto i primi due accordi, li inverte e li ripete (VI-I-VI-I), ottenendo un effetto così moderno che gli ascoltatori dei Franz Ferdinand a metà anni Duemila probabilmente non si stavano accorgendo di ascoltare un pezzo dei nonni (un pezzo che i nonni suonavano più veloce). Nel primo bridge prende l'accordo IV e lo abbassa addirittura di un semitono, una cosa che è l'equivalente sul piano compositivo di afferrare una chitarra e spaccarla sul palco. Il secondo bridge – sì, perché ce ne sono due diversi che si alternano un po' a caso – è meno ardito ma contiene un coro di Paul e George che funziona come contrappunto. Il gioco di parole "be long / belong" conduce a loro insaputa i Beatles a una delle inversioni semantiche più interessanti della loro produzione: per John ritrovare una ragazza equivale ad appartenerle. "Non ci vorrò ancora molto... prima che sarò tuo". Non è nemmeno un rituale di seduzione: i due sono già assieme, ma il maschio si sente derelitto perché lei è lontana, e si gonfia di speranza perché sta tornando a casa! E quando accadrà "sarò buono come so che mi devo comportare". Sembra una gag.
Con la sua struttura insolita It Won't Be Long va dritta nella lista delle grandi hit mancate della Beatlemania, con Every Little Thing e poche altre. Definirli errori di percorso è difficile: sono spuntate al momento sbagliato, all'ombra di altre canzoni che era più facile scegliere come singoli. Probabilmente sarebbero stati anch'esse dei successi, se ci fosse stato il tempo. Eppure è davvero l'ultima canzone puramente "yeh-yeh": di lì a poco l'affermazione tipicamente liverpooliana sarebbe quasi del tutto scomparsa dalle loro canzoni, molto prima di annoiare l'ascoltatore. You can't top yeahs with yeh-yeahs.
78. I'm So Tired (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).
I don't know what to do. Può risultare piuttosto ingenuo, quando parla di politica, John Lennon. Può risultare scorretto quando parla di donne. Ma quando parla di sonno, ecco: sa esattamente di cosa sta parlando. Che tu sia un morto di sonno o viceversa un insonne allo stadio della disperazione, se conosci I'm So Tired sai che è il tuo inno. I'd give you everything I've got for-a little peace of mind!
Lennon la concepì durante quel lungo soggiorno indiano che per lui dovette essere anche un'esperienza di disintossicazione. Niente più acidi, niente alcol (nel finale chiede a un immaginario barman francese di versargli un altro bicchiere), sigarette quante ne basta per maledire in eterno Sir Walter Raleigh che le aveva introdotte in Inghilterra: improvvisamente le notti non finiscono più e il pensiero di quella tizia giapponese diventa ossessivo. You know it's three weeks, I'm goin' insane! Qualche mese dopo, tutto quello che resta di quell'angoscia è una breve canzone che sembra quasi una paginetta di diario infilata tra le pagine del Grande Album Bianco – effetto forse voluto: d'altronde I'm So Tired è credo l'esempio più tipico di come i Beatles hanno lavorato al doppio disco.
Si parte da un progetto molto più articolato di quanto lascerebbe sospettare il prodotto finito, registrato da John su un multitracce e condiviso coi compagni alla riunione di Escher. Dura tre minuti e prevede tre strofe, una parlata – classico espediente del woo-dop, e ancor più delle parodie del doo-wop che Lennon e McCartney facevano sin da quando erano due ragazzini con due chitarre e un registratore. Questa strofa viene presto accantonata, anche perché Lennon ha intenzione di usare lo stesso trucco nella parte finale di Happiness is a Warm Gun. Così tagliato, il brano viene inciso a Abbey Road, e re-inciso, e sovrainciso fino all'esaurimento tutte le otto tracce disponibili, per ottenere un risultato che... sembra registrato da quattro tizi in un garage, uno dei quali sicuramente rimbambito dal debito di sonno. Ma appunto, sembra.
In realtà tutta questa immediatezza, questa apparente grossolanità del risultato finale, è il risultato di un'attenta cura al dettaglio. I'm So Tired somiglia a quelle poesie tornite per anni e anni che gli autori romantici sostenevano di avere composto di getto in una notte di plenilunio. Per rendersene conto è sufficiente confrontarla con l'Escher Demo, in cui risulta chiaro che Lennon ha già in mente quello che vuole esprimere, ma non ha ancora trovato i mezzi giusti per farlo: il ritmo era più lento, la voce più spinta sul falsetto, tutte scelte apparentemente logiche ma, confrontate col risultato finale, meno efficaci.
Il motivo per cui la versione finale di I'm So Tired sembra molto più grezza di quanto non sia sta nella prima impressione che ci fa: appena parte il basso (risalendo la scala appena discesa in Martha My Dear), John attacca "I'm so tired" e noi istintivamente abbiamo già un'idea dell'accordo che sta per suonare: se è partito in La, sta per arrivare il Fa diesis minore. Non può che andare così, lo sanno tutti i peggiori chitarristi. Sarà la solita parodia del doo-wop, la solita 50s' progression. E invece le dita di John si stringono sul capotasto sbagliato, regalandoci un Sol# che persino gli spartiti ufficiali si rifiutano di registrare, eppure è lì, e se non si può dire che stoni troppo con gli accordi successivi e precedenti, senz'altro stona con le nostre legittime attese: e sì che lo sappiamo che non c'è da fidarsi con Lennon e McCartney, che per loro il giro di Do è solo una base da cui scantonare appena qualcuno si distrae. Nel verso successivo del resto John suona davvero un giro standard col Fa# al posto giusto, il che ci rende se possibile ancora più perplessi: siamo noi che non siamo in squadra, o è lui? Siamo noi. Lui è John Lennon e nel 1968, mentre meditava in India, ebbe l'idea di descrivere l'angoscia dell'insonnia modificando un accordo nel giro di La. Il risultato è un brano che perseguita ancora le nostre notti insonni e c'è qualcuno che ha il coraggio di dire che la meditazione non serve. Oh m'sieur m'sieur, m'sieur, posso averne un altro?
77. Lovely Rita (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, 1967).
La canzone più sottovalutata del disco più sopravvalutato? Lovely Rita è una delle canzoni che traccia netto il solco tra ascoltatori occasionali e beatlemaniaci – i primi non se la ricordano, non ci fanno caso: i secondi vorrebbero vederla andare avanti il più possibile, tifano per lei, ma come si tifa per quella squadra che sai già che non può che deluderti. È una canzone fatta di tante cose fantastiche, che però per qualche mistero non riescono a comporre un quadro d'insieme.
La prima cosa fantastica è l'introduzione, uno di quei momenti fortuiti in cui tutto si combina in modo meraviglioso: chitarra, pianoforte, Lennon che vocalizza senza più vergogna per il timbro femmineo della voce, Ringo che scalpita con rullante e tomtom pronto a partire in quinta. Vuoi vedere che finalmente arriva un pezzo rock in Sgt Pepper?
La seconda cosa fantastica è il ritornello di John, anche se tradisce proprio quest'attesa – sembra vagamente un raga, ha un incedere ipnotico e forse in un altro contesto avrebbe funzionato anche come coro da stadio: Lovely Rita meeter maid, Lovely Rita meeter maid.
La terza cosa fantastica è Paul che finalmente prende il controllo, con un certo entusiasmo ma un'idea di canzone completamente diversa da quella che ci eravamo fatti fin qui: un bozzetto spiritoso su un'ausiliaria del traffico che gli fa sesso. Però all'inizio è talmente entusiasta che l'idea par buona. Provate a canticchiare la frase "when it gets dark I tow your heart away" (o "when are you free to take some tea with me"). È una gioiosa cascata di note, forse barocca, che evoca lo squillo di una tromba: è lo stile 'squillante' di Paul, che che illumina qua e là tutto il Concetto di Sgt. Pepper, anche quando la sezione di ottoni non è presente (invece c'è una specie di sezione di kazoo, un suono processato a base di pettini e carta velina che possiamo contare come quarta cosa fantastica).
Come la successiva Good Morning, Rita non è facilmente ricollegabile all'orchestrina dei Cuori Infranti, eppure è una tipica composizione pepperiana, che non si troverebbe al suo posto in qualsiasi altro disco precedente o successivo. E per una volta Paul riesce a mettere giù un testo genuinamente spiritoso, giocando addirittura con la sua figura pubblica di fidanzato d'Inghilterra. Quinta cosa fantastica.
La sesta è l'assolo pianistico di George Martin, molto più misurato dell'inserto barocco di In My Life, su cui riverbera la gioia di vivere espressa da Paul nel brano. E allora perché con tutte queste cose fantastiche il brano non decolla? La sensazione è che al netto di tutti gli effetti sonori, i kazoo e i bisbigli, il gruppo non stia suonando molto più che un quattro quarti lento, con un sottofondo chitarristico un po' involuto – come se la sperimentazione stesse prendendo la mano, e l'attenzione ai dettagli impedisse a Martin e ai ragazzi una vera visione d'insieme. Così il ritornello di John, quando finalmente si fa vivo verso la fine, sembra già molto meno interessante. Poi c'è l'angolo dei rantoli alla Freak Out!, che ai tempi doveva risultare uno dei mezzi minuti più coraggiosi del disco, un'ulteriore conquista per il fronte di liberazione giovanile mondiale, ma oggi la rende al massimo la canzone dei Beatles meno adatta da ascoltare coi bambini. Magari la mia insoddisfazione con Lovely Rita è tutto qui: che senso ha ascoltare i Beatles se non puoi farlo coi bambini?
76. Love Me Do (Lennon-McCartney, lato A del primo singolo Parlophone nel 1962, poi in Please Please Me, 1963).
"Amami un po' / lo sai ti amerò / fedele sarò / per sempre, perciò..." Kate Bush scrisse Wuthering Heights a diciott'anni. Mozart alla stessa età già componeva melodrammi. Lennon e McCartney a vent'anni erano già performer trascinanti, ma come compositori, ecco, diciamo che il loro genio era un segreto ben nascosto, anche a loro stessi. Questo li separa irreparabilmente da tutto il rock che è venuto dopo di loro (ed è venuto grazie a loro), legato in modo così indissolubile al concetto di gruppo-che-incide-le-proprie-canzoni: band fondate da artisti che in molti casi cominciavano a scrivere canzoni molto prima di imparare a suonarle. Ovvero, diciamo che da metà degli anni Sessanta in poi il rock diventerà per prima cosa un'urgenza creativa, un modo per esprimere i propri stati d'animo attraverso progressioni di accordi e testi più o meno ispirati.
Tutto questo era cominciato coi Beatles – eppure all'inizio i Beatles non erano così. Chiunque cerchi di considerare Lennon e McCartney due geni deve venire ai patti con l'evidenza: le loro primissime canzoni non contengono nulla di manifestamente geniale. L'urgenza creativa fino a tutto il 1962 sembra molto meno impellente di quella di suonare rock'n'roll e ballabili già disponibili nei negozi di dischi. Poi certo, qualche giro di accordi lo avevano già sperimentato, Paul in particolare sin da ragazzino, a volte semplicemente per recuperare una canzone che aveva ascoltato alla radio e di cui non possedeva né disco né spartito: ma senza produrre niente di paragonabile a Wuthering Heights o che lasciasse immaginare in lui il futuro autore di Yesterday. Ad esempio tutto quello che poteva offrire alla Parlophone nel 1962 era Love Me Do: forse il solo brano di Lennon–McCartney che sia Lennon sia McCartney hanno cercato non di attribuirsi ma di scaricarsi a vicenda. Per John era tutta "roba di Paul" e sosteneva di avergliela sentita canticchiare per anni; Paul da canto suo è sicuro che si sia trattata di una collaborazione alla pari, "50/50", e considerando l'importanza che nel brano ha l'armonica cromatica rubata da John sulla via di Amburgo si fa fatica a dargli torto.
All'inizio la voce di John era anche quella solista – nei rari momenti in cui non è prevista l'armonia a due voci; fu George Martin a spostare l'incombenza su Paul, perché John non avrebbe potuto staccare l'armonica in tempo. Ma in generale Love Me Do è l'esempio di scuola di come gli elementi "Lennon" e "McCartney" fossero miscelati nel composto iniziale: è stucchevole come Paul, sguaiato come John. C'è il blues e la polka, l'armonia e la dissonanza, e soprattutto non si può cantare da soli: provateci. Sembra facile, ma il risultato è sempre deludente. Non esiste una Love Me Do per solista: l'unico vero fascino della canzone sta nell'armonia, o meglio nel contrappunto: nella distanza tra le due linee cantate che si divarica e si incrocia in modo inatteso (e sconosciuto ai manuali). Love Me Do ha un senso soltanto se la canti in due. Se i maestri erano gli educati Everly Brothers, i Beatles si dimostrano da subito studenti irrequieti e disattenti: invece di mantenere il classico, everlyano intervallo di terza, John e Paul svirgolano in libertà suggerendo accordi molto più complessi di quelli che sta suonando George Harrison alla chitarra.
Con tutto questo, Love Me Do rimane un brano abbastanza sconcertante: chi di noi sentendolo alla radio per la prima volta, avrebbe scommesso sul futuro della band, e soprattutto degli autori? Tanto più suscita stupore la scelta di George Martin, che in quel brano vedeva qualcosa che oggi non vediamo con tutta la buona volontà del mondo, e coi migliori equipaggiamenti sonori, e mezzo secolo di senno del poi. A differenza di molte canzoni che stiamo ascoltando a quest'altezza della classifica, Love Me Do non è un classico – se per "classico" intendiamo un brano che si riesce ad apprezzare anche ignorando il contesto storico in cui nasce e il pubblico a cui si rivolgeva. Così come ad esempio possiamo apprezzare Don Chisciotte anche senza conoscere altro del siglo de oro, o i drammi di Shakespeare anche se sono concepiti per teatri diversissimi dai nostri. Love Me Do sta così in alto in classifica per motivi storici – per l'affetto che si riserva alle opere prime anche quando non sono un granché; perché una generazione intera si è abituata ad ascoltare i Beatles sui dischi Rosso e Blu, trasformando Love Me Do in una specie di sigla iniziale, a cui si torna sempre con nostalgia, anche se siamo tutti d'accordo che la vera storia inizia subito dopo.
Per capire un brano come Love Me Do, e le motivazioni che convinsero i Beatles e George Martin a preferirla a brani sulla carta più definiti come Hello, Little Girl o How Do You Do It, ci serve appunto conoscere il contesto; capire cosa stavano trasmettendo le radio inglesi in quel 1962. Scoprire per esempio che l'armonica di John, che pure ci sembra così idiosincratica, era un riferimento fin troppo chiaro e commercialmente parassitario al disco che stava vendendo di più in Gran Bretagna in quel preciso momento: I Remember You di Frank Ifield, un cantante anglo-australiano i cui virtuosismi vocali ricordano altri esperimenti tentati da Lennon e McCartney nel periodo. Altrettanto utile è scoprire che il fenomeno più dinamico in quel periodo erano i complessi strumentali alla Shadows – privilegiati dai discografici anche perché potevano essere esportati negli altri mercati europei senza la fatica di trovare un traduttore e una cover band locale. E questo forse potrebbe parzialmente spiegare (non scusare) lo sconfortante minimalismo del primo testo inciso dai Beatles, quella strofa ripetuta quattro volte che in fondo è il loro primo nonsense, anche se purtroppo un senso ce l'ha ed è di una banalità straordinaria persino per le canzonette anni '60; compreso quel terzo verso, "I'll always be true", il più irritante di tutti per la manifesta ipocrisia: come si può credere a un simile impegno proferito da voci così sbarazzine? No, è molto meglio assumere che i Beatles pensassero alle parole di Love Me Do come materiale astratto che consentiva di aprire e chiudere le bocche negli intervalli previsti.
Love Me Do è infine uno dei rari spaccati della preistoria dei Beatles: accanto a qualche fuggevole indizio della loro futura grandezza, contiene tracce di tante cose che stavano per accantonare per sempre. È uno skiffle, probabilmente, con qualche accenno alla polka e chissà, forse al Cavern si ballava pure la polka: la reticenza dei testimoni oculari è comprensibile. È il brano che mandò in crisi Pete Best, il batterista che durante l'audizione alla Decca tutto sommato se l'era cavata dignitosamente e invece su Love Me Do fu un disastro. È il primo brano dei Beatles che Ringo dovette imparare, per scoprire poi ad Abbey Road che George Martin aveva già scritturato un turnista, tale Andy White. Alla fine fu incisa sia una versione con White (con Ringo al tamburello) sia una con Ringo, e i Beatlemani non hanno smesso di discutere quale sia la migliore. I'll always be true, so plea-ea-ea-ease...
75. Golden Slumbers (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).
Una volta c'era un modo di tornare a casa nel sonno. Quanto dev'essere fantastico svegliarsi nei panni di Paul McCartney, con una melodia in testa che magari è Yesterday? Quanto dev'essere angosciante svegliarsi nei panni di Paul McCartney, quando ti accorgi che è da un po' che non ti viene nessuna melodia nuova e magari non te ne verranno mai più, è finita, avevi un dono e qualcuno te l'ha sottratto, forse sei venuto meno a una promessa come i fratelli cattivi delle fiabe, e non lo sai perché è successo dall'altra parte del sogno. E da questa parte c'è la Più Grande Band del Mondo da portare avanti, con la sua corte dei miracoli e un socio in affari che non va d'accordo nemmeno con sé stesso e la colerebbe a picco per capriccio. Se solo ci fosse un modo per tornare a casa in sogno – d'altronde, sei pur sempre nei panni di Paul McCartney. Ti basta sederti al piano di tuo papà, c'è uno spartito di una ninna nanna del Seicento, tu non hai mai voluto imparare a leggere la musica proprio perché meno ne sai, più hai spazio per inventarne: e infatti te la inventi e scrivi... la ninna nanna più assurda di tutte. Soooooogni d'or negli oooocchi tuoooooi! Su Youtube c'è uno sketch di Sesame Street con Bocelli che canta una ninna nanna al recalcitrante pupazzo Elmo, sulle note di Partirò. Proprio quando Elmo comincia a chiudere gli occhietti, Bocelli attacca l'acuto. Ecco, Golden Slumbers fa la stessa cosa ma in questo caso è umorismo involontario, una delle tipiche incongruità di Paul. Come quando canta I'm Down ridendo a trentadue denti, o racconta la storia di un assassino seriale come se fosse una filastrocca divertente e non la è. Lennon racconta che Paul ci sapeva fare coi bambini, compreso suo figlio Julian, molto più di lui. Non c'è motivo per dubitarne ma confrontando le ninne nanne lennoniane del Disco Bianco con quella che Paul scrive per Abbey Road, non c'è dubbio su chi dei due conoscesse realmente l'esperienza di addormentare un bambino.
Con Golden Slumbers il Medley di Abbey Road muove il passo decisivo verso il finale. Se è un carosello finale – e ormai ne ha tutta l'aria – Golden Slumbers è il momento in cui entra l'orchestra, cioè George Martin. Insomma qui a congedarsi è la premiata ditta di Yesterday e Eleonor Rigby, e lo fa con un brano che ne mette in luce i pregi e i difetti: il gusto barocco si perdona volentieri, forse perché si dà dei tempi sempre più brevi. Questo a George Martin bisogna riconoscerglielo: tutte le sue pretese sinfoniche non hanno mai allungato un pezzo dei Beatles più di trenta secondi, di minutaggio ne ha sprecato molto più Lennon con l'avanguardia e col blues. Golden Slumbers può non corrispondere alla tua idea di canzone dei Beatles; McCartney che si tira fuori dal ventre un acuto da Motown in una ninna-nanna sembra l'ideale per svegliare del tutto un bambino sonnacchioso; però è appena un minuto e mezzo, non glielo vuoi lasciare a Paul un minuto e mezzo per salutare gli orchestrali? Ed è commovente, non dite di no. I bambini da addormentare li avremo sempre, ma i Beatles si sono sciolti una volta sola. Un bel peso da portarsi sulle spalle, per un bel po' di tempo.
74. Because (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).
Siccome il mondo gira, mi fa andare su di giri. La prendo un po' lontana: una volta ho sentito dire che Abbey Road è il beatle-disco preferito da Elio. Forse anche dalle Storie Tese. (A rifletterci è ovvio, anche se non è così ovvio da spiegare). Sarà per questo motivo, la prima volta che mi è capitato di ascoltare Ignudi tra i nudisti io avevo già capito il trucco. Hanno rovesciato una canzone, ho pensato. L'ho capito perché Elio aspirava e bofonchiava proprio come i cantanti quando il nastro di una musicassetta si rovesciava; perché il bridge arrivava molto prima del necessario; e la struttura in generale sembrava strana eppure in un qualche modo necessaria, come se ogni nota suonata e cantata mi stesse chiedendo di essere ascoltata in un qualche modo diverso. Ma non ci sono poi molti modi diversi di ascoltare una canzone; un'immagine si sviluppa in uno spazio bidimensionale, puoi inclinarla in vari modi; ma una canzone si muove solo nel tempo, l'unico modo di vederla in un modo diverso è invertire il senso del tempo. O forse l'ho capito al volo perché mi ricordavo che il disco beatle preferito da Elio è Abbey Road, e in Abbey Road c'è Because, e tutti a un certo punto ci siamo convinti che Because fosse nata da una sonata di Beethoven incisa al contrario... salvo che non è vero.
L'equivoco nasce da un appunto di Lewisohn: nello studio Yoko Ono esegue la sonata – dimostrando probabilmente, nell'occasione, una perizia con lo strumento superiore a quella di ciascun Beatle. John, pensoso, le chiede di suonarla al contrario. Yoko esegue, ed ecco Because. Dunque niente nastri invertiti in questo caso – l'inversione è manuale, il che ci pone altri interrogativi: cosa ha rovesciato davvero Yoko? L'ipotesi più convincente la spiega questo signore su Youtube.
Yoko dunque inverte l'arpeggio degli accordi, ma la Because vera e propria nasce soltanto quando Lennon decide di ricombinare l'arpeggio originale con quello invertito: per cui più che di un Beethoven rovesciato bisognerebbe parlare di un Beethoven specchiato e raddoppiato: ecco spiegato il mistero di Because, la sua arcana corrispondenza con una sonata di sue secoli prima. Come molte soluzioni è abbastanza deludente, e ci fa rimpiangere il mistero. Perché abbiamo creduto per tanto tempo che suonando il disco al contrario ci avremmo sentito Beethoven? Perché i Beatles coi nastri invertiti erano stati i primi a giocarci, benché nel 1969 anche questo gioco li avesse stancati; e più in generale perché Because, come e più di Ignudi, si presenta con una struttura ambigua e irrisolta, e ti dà la stessa sensazione che ogni nota debba stare esattamente dove sta, ma debba essere ascoltata in una direzione diversa da quella in cui la stai ascoltando. Sei dal lato sbagliato delle cose.
Siccome il vento fischia, mi fischia la testa. Ho sentito dire che c'è un universo parallelo dove il tempo gira nella direzione contraria alla nostra. Se con gli alieni di quell'universo potessimo vederci in conferenza su Meet, li vedremmo fare magari tutto quel che facciamo noi ma al contrario: e anche se fossimo simili o addirittura identici, non riusciremmo a capirci: all'inizio li saluteremmo dicendo "ciao" e loro ci risponderebbero "addio" perché tutto quello che ci diremo dopo loro ce l'hanno già detto. Non riusciremmo nemmeno a far loro ascoltare i Beatles, tranne forse Because, una canzone che per qualche scherzo dell'entropia faceva parte del loro universo ma è rimasta intrappolata nel nostro, come una manciata di antimateria.
Siccome il cielo è azzurro, mi fa piangere. Ha un che di lugubre, Because: è un esercizio mirabile ma freddo, astratto, e lascia un senso di insoddisfazione che il brano successivo non consola, anzi. Tutti però la trovano incantevole per via dei cori (specie da qualche anno in qua, quando è stata isolata la traccia vocale), tutti fingono di non avvertire che sono cori funebri. Il testo è composto da un trittico di giochi di parole tipicamente lennonniani che in un'altra canzone sarebbero apparsi esilaranti, e invece qui sembrano gli esercizi freddi di un dadaista di laboratorio. Poi arriva un bridge che per un attimo ti convince che la canzone potrebbe finalmente risolversi, e invece no: rimane sospesa, gelosa del suo segreto. Because di solito non viene considerata parte del medley finale di Abbey Road, eppure è un brano che fa sistema come pochi altri: le sue terzine sono una reminiscenza di Here Comes the Sun (anche se l'accordo in maggiore è passato a un minore), che a loro volta preparano l'orecchio all'arpeggio più semplice e marziale che ascoltiamo nella chiusa di You Never Give Me Your Money. Non solo: lo stile vagamente romantico la ricollega al crescendo finale di She's So Heavy, che aveva chiuso il lato precedente. Se George Martin è il principale responsabile di un certo filone barocco nelle canzoni dei Beatles, è curioso pensare che Yoko Ono potrebbe essere l'ispiratrice del filone romantico.
73. Getting Better (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, 1967).
I used to get mad at my school (No I can't complain). Vent'anni fa, quando finalmente uscirono le prime rilevazioni statistiche sulla qualità dell'educazione in Europa, scoprimmo con una certa sorpresa che il metodo educativo migliore era quello... finlandese. Sul serio, non se l'aspettava nessuno. Del resto è per questo che esistono le rilevazioni statistiche, no? Per farci scoprire cose che non ci saremmo mai immaginati. E quindi, cosa aveva di così innovativo la scuola finlandese? Non lo sapevano nemmeno i finlandesi, che peraltro in quel periodo stavano cambiando metodo, abolendo le classi statiche, le lezioni frontali, ecc.. Addirittura smisero di addestrarsi ai test – e sì che erano diventati un modello per il mondo proprio perché i loro studenti erano stati i migliori a fare i test. In effetti da lì in poi sono sempre peggiorati nelle rilevazioni. Non importa, ormai abbiamo deciso che sono i migliori del mondo e continuiamo a invidiarli e cercare (malamente) di copiarli, anche perché abbiamo il sospetto che nelle loro scuole ci si diverta molto. E dunque anche noi stiamo mettendo in discussione le classi statiche, le lezioni frontali, ecc.. E peggioriamo anche noi, più rapidamente dei finlandesi (anche perché partivamo già più in basso). A un certo punto a qualcuno è venuto il sospetto: ma vuoi vedere che in realtà è tutto un equivoco? Che i finlandesi siano diventati un modello non per la scuola che stavano inventando in quel momento, ma per quella che avevano prima, quella con le classi statiche e le lezioni frontali e i professori esigenti e gli studenti suicidi? E se è così, vale proprio la pena di dirlo in giro?
I Beatles, fino al 1967, rappresentavano tutto ciò che c'era di nuovo e di migliore nella prima generazione postbellica. Con tutta la loro svergognata esibizione di talento allo stato brado, a Lennon e McCartney bastava scuotere le chiome in tv per avvertire che l'epoca del rigore era finita, che le vecchie scuole non servivano più a nulla, che gli insegnanti che "ci riempivano di regole" avevano i giorni contati. E in effetti è proprio così. Ma i Beatles quelle scuole le avevano pur fatte... E oggi che ogni briciolo di talento in ciascun alunno è vezzeggiato dall'asilo nido fino alla maturità, oggi che l'idea di restare attenti a una lezione per più di trenta minuti è vista come un abuso di potere, e ogni lezione dovrebbe essere gamificata: oggi ne saltano fuori dalle nostre scuole dei talenti come Lennon e McCartney? Apparentemente no. Ma forse è solo un bias.
Me used to be angry young man. I bias (vorrei tanto che si potesse chiamarli ancora "pregiudizi") sono "pattern sistematici di deviazione dalla norma o dalla razionalità nel giudizio". Uno dei più importanti è il bias del sopravvissuto, e ne soffrono tutti quelli che vogliono diventare youtuber o influencer (compresi molti youtuber o influencer). Ai miei tempi ne soffriva chiunque mettesse in piedi una rock'n'roll band. Insomma, il pregiudizio che perturba la razionalità del nostro giudizio è che vediamo un sacco di gente che ce la fa. Partono da zero e diventano uomini o donne di successo, ai miei tempi diventavano anche dei divi del rock, persino in Italia ne abbiamo avuti tre o quattro che hanno fatto soldi seri. Se tutta quella gente ce le fa, perché non dovremmo farcela anche noi? Perché siamo dei poveri illusi e facciamo caso soltanto a quell'uno su un milione che ce la fa: non ai 999.999 che ricadono a terra malamente.
Quel che è terribile è che anche l'Uno su un milione talvolta soffre dello stesso pregiudizio/bias, ovvero pensa: beh, se ce l'ho fatta io non doveva essere così difficile. E quindi sceglie di ridiscendere tra i suoi simili nelle vesti insopportabili dell'ottimista programmatico, il ragazzo fortunato che invita tutti a "credere nei loro sogni", perché più ci credi più si avverano. È un pattern sistematico di deviazione dalla norma che lo trasforma in un maledetto irresponsabile che manda poveri falliti a sbattere contro il muro della Realtà. I più altruisti creano etichette, sindacati di artisti, enormi bolle di talento inutile che creano effetti indubbiamente artistici quando esplodono. Poi la gente scrive che ce l'ho con Paul McCartney ma è il contrario, provo una sincera pena per lui, per la generosa speranza con cui fondò l'Apple e per come la vide marcire e cadere. Qualcun altro dopo aver sognato la melodia di Yesterday si sarebbe convinto di essere un genio sovrumano, lui tutto il contrario: da bravo babyboomer, era convinto che quel genio ce l'avessero tutti, e che bastava snidarglielo. In fondo fino a quel momento stava andando tutto bene. Stava andando sempre meglio. Tutto sempre meglio, tutto il tempo.
I Beatles sono l'equivalente musicale del bias del sopravvissuto. Li ascoltiamo, li guardiamo e pensiamo: di gruppi così non ne possono esistere più. Vediamo solo loro, non tutti quelli che ci hanno provato nello stesso momento e per qualsiasi motivo non ce l'hanno fatta. Viste le premesse era quasi fatale che dovessero diventare gli alfieri di quell'ottimismo moderatamente socialdemocratico che fino a quel momento animava la società europea e americana degli anni Sessanta. Rilassati, divertiti, sta migliorando tutto. Getting Better è il secondo sguardo all'indietro di Sgt Pepper, dopo With a Little Help (da cui riaffiora lo stesso quattro quarti martellante, una soluzione ritmica platealmente reazionaria rispetto a quelle proposte nel primo brano e in Lucy). Dopo i colori acidi di Lucy, è un ritorno al bianco e nero – te l'immagini suonata dai quattro manichini neri di Madame Tussaud, più che dai loro avatar in carne ossa dai costumi sgargianti. Cosa sarebbe successo ai Beatles se dopo Revolver si fossero detti: torniamo indietro? Siamo solo un gruppo pop-rock con un seguito di ragazze che stanno crescendo e vogliono cominciare ad ascoltare brani cantati da fidanzati ideali con la testa sulle spalle? "Sto facendo del mio meglio, e devo ammettere che sono diventato una persona migliore da quando tu sei mia". Avrebbero potuto accontentarsi di essere questo, i Beatles? Forse sì.
Tranne uno.
I used to be cruel to my woman. I beat her and kept her apart from the things that she loved. Così, a secco, senza neanche avvertire – la musica cambia appena un po', si percepisce una vibrazione sinistra che forse è un sitar, e nel bel mezzo del pezzo più pop di un disco pop, un beatle ci informa che era abituato a picchiare la sua donna. E quel beatle, anche se si nasconde dietro la voce serena di Paul, è evidentemente John Lennon. Perché scegliere proprio l'inno alle magnifiche sorti e progressive, per ricordare a tutti di essere un mostro geloso? Perché forse è finita – la stessa Cynthia conferma che l'ingestione quotidiana di LSD aveva posto fine alle violenze domestiche, non ditelo ai servizi sociali. Ma insomma la vita sta migliorando anche per John, e del resto "più di tanto non può peggiorare" (It can't get much worse). Scegliete voi cosa vi irrita di più: il vittimismo esistenziale del milionario John che anche quando si concedeva le sostanze migliori sul mercato continuava a cantare "sono solo ho voglia di morire", o l'ottimismo programmatico di Paul che porterà i Beatles a sfracellarsi commercialmente contro quel monumento alle velleità di una generazione che fu l'Apple Corps. Alla fine è impossibile non compatirli entrambi, in fondo erano due orfani che avevano vinto alla lotteria il ruolo di eroi di una generazione. Non è sorprendente che abbiano buttato via tanti e soldi (e anche molto talento). È incredibile che siano riusciti a resistere per così tanto tempo. E per così tanto tempo, a migliorare. Getting so much better all the time.
72. Yer Blues (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).
Esatto, sono solo e voglio morire. Ma mettetevi un attimo nei Rolling Stones. Nascete suonando blues nell'indifferenza generale, finché qualcuno non ha la pensata di promuovervi come i rivali dei Beatles. L'idea frutta immediata visibilità, ma vi condanna anche a un confronto schiacciante, perché i Beatles non stanno fermi un attimo e anche a voi ora viene richiesta la stessa cosa, un attimo prima eravate un gruppo di blues inglese che cominciava a suonare credibile e un attimo dopo eccovi a strimpellare strumenti rinascimentali e bonghi, ma sempre tenendo un occhio a quello che fa la concorrenza, sempre con l'affanno di inseguire chi è partito prima e non deve imitare nessuno. Finché non ce la fate più – anche perché lo showbiz vi mangia vivi e la polizia non ha con le vostre consuetudini tossiche la stessa tolleranza che ha coi quattro Membri dell'Ordine Britannico. Arriva il punto in cui più che sembrare i lato oscuro dei Beatles sembrate diventati una parodia. L'accoglienza tiepida riservata a Their Satanic Majestic Request muove Jagger e Richards a un ripensamento: basta andare a rimorchio, ritroviamo la nostra identità. Eravamo un gruppo blues, rimettiamoci a suonare il blues. Ottima idea. Probabilmente è quella che ha salvato gli Stones, diciamo per quattro quinti. A dicembre esce un ottimo album, Beggars Banquet – proprio nei giorni in cui il Disco Bianco trionfa nelle radio di tutto il mondo, ma che importa? Non è più una gara, ognuno faccia quel che sa fare: e non c'è dubbio che ormai gli Stones sappiano fare un ottimo blues. Per promuovere il disco hanno un'idea: uno special natalizio per la televisione, proprio come il Magical Mystery beatlesiano dell'anno prima, ma meno immaginifico: un concerto ambientato in un circo, con Mick Jagger vestito da impresario. Ottima idea. E si possono anche invitare gli amici: gli Who, i Jethro Tull (con Tony Iommi!), Taj Mahal, e John Lennon, sì, dice che viene se può portare Yoko Ono. Lo accompagnano Eric Clapton (i Cream si sono già sciolti) e il grandissimo batterista dei Jimi Hendrix Experience, Mitch Mitchell. Un bassista non c'è, ma si presta Keith Richards. È la prima volta in assoluto che Lennon suona in pubblico senza in un gruppo che non siano i Beatles. E cosa suona? Yer Blues, dal disco appena uscito. Dopodiché?
Dopodiché suonano anche gli Stones, ma non ha molta importanza. Il Rock'n'Roll Circus non verrà mai programmato, sono gli stessi Stones ad accantonarlo. Non erano soddisfatti della loro prestazione, avrebbero voluto lavorarci un po', ma poi succedono altre cose. Brian Jones (che si aggirava sotto il tendone già in evidente stato confusionale) viene licenziato e muore poco dopo. Se il Circus è rimasto inedito fino al 1995, girl... you know the reason why. Dopo essere andati vanamente all'inseguimento dei Beatles per tre anni, tre anni in cui dischi ottimi avevano comunque perso la sfida con Revolver e con Sgt Pepper, gli Stones avevano deciso di concentrarsi su quello che sapevano fare meglio: sul rock e sul blues. Ottima idea... poi però arriva in casa John Lennon con la fidanzata matta e due amici, sale sul palco, suona un solo blues e li stende. Non c'è giustizia a questo mondo.
Il gruppo improvvisato in quel pomeriggio si chiamava "Dirty Mac" ("Vecchio sporcaccione"), uno sberleffo all'ultima novità del blues inglese, i Fleetwood Mac di Peter Green appena sbarcati in classifica con Black Magic Woman. Prima di far entrare Yoko fa in tempo a suonare un pezzo solo, ma quel pezzo è Yer Blues, e non c'è gara. Non c'è gara coi Fleetwood Mac e non c'è gara coi Rolling Stones. (Gli unici a non impallidire sono gli Who, ma loro non fanno blues, ormai sono un genere a parte). Nel 1968 lo stato dell'arte del blues inglese è un pezzo dei Beatles – ma com'è possibile? Che siano sempre i migliori, anche quando sono in crisi, anche quando perdono un manager e una direzione artistica? Possibile che a John Lennon in ritiro indiano basti pensare "adesso faccio un blues" per alzare di colpo il livello di tutto il blues inglese? Pure è così.
Anche se magari non sembra. Yer Blues non è invecchiata bene come altri brani del Bianco. In un disco pieno di pastiche in effetti c'è il grosso rischio di non prenderla sul serio. Per Lewisohn è una parodia del blues inglese del periodo. Potrebbe anche darsi – bisognerebbe ascoltare il blues inglese del periodo. I Fleetwood Mac, senz'altro, e ovviamente i Cream, gli Yardbirds di Jeff Beck e Jimmy Page e anche gli Stones di Beggars Banquet. Ecco, chissà se Lennon si è dato pena di ascoltarli. Magari nemmeno. Gli basta intonare "Yes I'm lonely wanna die" per far sembrare tutta la scena una platea di poser. O sciocchi, cosa pensate che sia il blues? un rock'n'roll per esperti, per filologi, per virtuosi della scala pentatonica? Non avete capito niente e non perderò tempo a spiegarvelo. Il blues è disperazione e voglia di morire, il blues è un urlo primordiale. E se non sono già morto, non è grazie al vostro soul di plastica. Nei quattro minuti di Yer Blues Lennon accelera, rallenta, inserisce fraseggi tipici nei posti sbagliati, un assolo di due-note-due, si permette insomma tutte le libertà che un purista inglese del blues nel 1968 avrebbe esecrato: e il risultato è il pezzo più robertjohnsoniano mai inciso in Inghilterra. Non hai bisogno di maestri per suonare il blues (l'unico che Lennon riconosce è il Dylan di Ballad of a Thin Man): basta aver voglia di morire, e John "si sente suicidiario come il mr Jones di Dylan".
Yer Blues va presa sul serio. Fa parte di quel mazzo di brani del Disco Bianco che attestano un precoce desiderio di ritorno alle origini; viene incisa dal vivo, in uno sgabuzzino, da quattro musicisti che vogliono tornare a guardarsi in faccia mentre suonano. I cambi di tempo che Lennon non era riuscito a chiarire con sé stesso nel demo, Ringo e Paul li afferrano al volo. Per quattro minuti i Beatles partecipano al Blues Boom del 1968 e riportano tutto a casa. Per ascoltare un blues inglese altrettanto viscerale e disperato bisognerà aspettare un annetto – il tempo necessario a Jimmy Page per rilevare gli Yardbirds e ribattezzarli Led Zeppelin: il gruppo che nei primi anni Settanta venderà più dischi... dei Rolling Stones. Yer Blues è invecchiata peggio di altri brani del Bianco perché, in effetti, è l'anteprima di quello che diventerà il marchio di fabbrica dei primi LZ: un nuovo genere di blues, ritmicamente imprevedibile, melodrammatico e urlato, sofferto e sanguinante. È abbastanza clamoroso che i pionieri del genere non fossero gli Yardbirds o i Cream o i Fleetwood, ma... gli autori e interpreti di Obladì Obladà.
71. I'm Down (Lennon-McCartney, lato B del singolo Help!, 1965).
"Plastic soul man, plastic soul". Cosa intendeva Paul con questo commento finale alla take 1 (si sente in Anthology 2? Non è chiaro, ma all'inizio del brano aveva affettato un accento americano per esprimere un desiderio: "let's hope this one turns out pretty darn good, huh?" I due commenti racchiudono il brano come due parentesi, o forse due virgolette. Come se Paul pensasse ad I'm Down più come a una performance che a una canzone. All'inizio c'è un misterioso americano che dice: speriamo che funzioni. E alla fine, lo stesso americano scuote la testa, anche se in una direzione ambigua: cosa vuol dire davvero "plastic soul"?
Oggi diamo per scontato che la plastica sia il materiale "finto" per eccellenza, quello che può prendere tutte le forme senza averne nessuna in natura – ma nel 1965 la plastica era ancora qualcosa di entusiasmante che stava migliorando la vita a milioni di persone. Un soul di plastica è necessariamente un soul finto? O piuttosto un soul malleabile, capace di plasmarsi a piacere? I'm Down fu registrata 55 anni fa, in uno dei giorni più interessanti della storia della musica, per via che durante le stesse sessioni Paul registrò anche Yesterday e I've Just Seen a Face. Tre canzoni così diverse, e tutte e tre così felici. Yesterday è dal primo istante uno standard confidenziale, I've Just Seen un post-skiffle irresistibile che Paul si sarebbe portato con sé anche nelle esibizioni live dei Wings, e quanto ad I'm Down... beh, era una mossa quasi obbligata. Persino tardiva. Da sempre i Beatles chiudevano le loro esibizioni con un pezzo urlato, che mandasse a casa il pubblico col sorriso sulle labbra e la voglia di rivederli al più presto. Il più famoso è Twist and Shout, ma molto più spesso avevano usato Long Tall Sally. Sempre cover, in ogni caso: non avevano mai tentato di scrivere un brano così. Finché nel 1965 Paul rompe gli indugi e scrive I'm Down. È anche un modo per inserire nella scaletta dei concerti un brano in più della ditta Lennon/McCartney: ma perché non ci avevano pensato prima? Cosa li tratteneva? È come se urlare una propria canzone non fosse facile come urlare una canzone di qualcun altro. Paul non può più nascondersi in Little Richard: deve essere sé stesso, ma chi è davvero?
Un ragazzo fortunato. Ci sono canzoni performative: Here Comes the Sun è un mattino di sole anche se fuori piove. Help! è davvero un grido di aiuto. I'm Down è esattamente il contrario: la più smaccata bugia mai raccontata da un cantante al microfono. Paul non è mai "down", anzi non è mai stato così felice. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di vedere i filmati delle esibizioni al Sullivan Show o allo Shea Stadium, dove ridono tutti come matti e John si cimenta nel suo assolo di organo Vox col gomito; o quella in Germania dove Paul si ricorda come ringraziare il pubblico in tedesco e poi dimentica le parole della sua stessa canzone, un bel lapsus. Perché assegnare a una canzone così divertente un testo brontolone come I'm Down? Non c'è un vero perché, a volte le canzoni nascono con le prime frasi che ti vengono in mente, e quando provi a cambiarle non trovi niente di meglio. Due sono gli argomenti che non tradiscono mai il paroliere: l'amore e il sentirsi giù, (gli americani lo chiamano "blues"). Non c'è bisogno di inventare niente, le frasi sono già pronte all'uso con le rime già pronte. Del resto non ha la minima importanza: come in Dizzy Miss Lizzy, come in Long Tall Sally, come in Twist and Shout, le parole sono solo un pretesto per urlare. E tuttavia vedere John e George ridersi in faccia mentre si dividono il microfono cantando "I'm down" sembra quasi una presa di posizione. Siamo i Beatles, nessuno ci prenda sul serio. Produciamo oggetti di plastica, i dischi questo sono. Ricicliamo il blues e il rock'n'roll e lo trasformiamo in canzoncine ridanciane, ed è divertente. La cosa vi scandalizza? Ce ne faremo una ragione. Ma sul serio: come potete deprimervi, mentre noi ridiamo?
sabato 13 giugno 2020
Il juke-box dell'indignazione (appunti)
In questi giorni si parla di nuovo di statue giuste e ingiuste. Se ne parlerà ancora magari per una mezza giornata, poi ci annoieremo e non se ne parlerà più per qualche mese o un anno: finché ci accorgeremo che in qualche altro Paese le buttano giù. Allora ci rimetteremo anche noi a parlarne, senza nessun motivo che non sia che appunto, ne parlano altrove: c'è un hashtag che arriva da New York, c'è un video su Instagram che viene dalla California, e quello di cui discutiamo dipende soprattutto da questo. Per certi versi siamo più succubi del dibattito americano oggi che venti o trent'anni fa.
Lo trovo buffo perché gli USA per tanti versi mi sembrano molto più lontani oggi che venti o trent'anni fa. Il primo esempio che mi viene è la musica: chi segue le classifiche dei brani più venduti e ascoltati sa che quella italiana da qualche anno è quasi completamente autarchica. Dei divi pop americani e inglesi sentiamo ancora parlare molto sui media ma le loro canzoni le ascoltiamo sempre meno – soprattutto i più giovani. C'entra anche il fatto che le canzoni sono sempre meno originali da un punto di vista musicale e sempre più parlate, il che porta non solo gli italiani a preferire il prodotto realizzato nella lingua madre, per quanto ricalcato sui modelli americani. Il che significa anche: rispetto a vent'anni fa magari li copiamo di più ma li capiamo di meno. E anche chi l'inglese in teoria lo sa, lo legge, lo ascolta sottotitolato nelle serie in streaming – non può a volta fare a meno di domandarsi se quel che succede a noi ha un senso o è solo un calco troppo letterale di cose che non capiamo del tutto.
Ad esempio: negli USA un crimine di polizia risveglia il movimento Black Lives Matter, e noi improvvisamente cominciamo a inginocchiarci per la minoranza afroamericana – per carità tutto giusto, ma non potremmo cominciare dalle nostre minoranze, quelle che restano più spesso vittima del nostro razzismo e dei crimini delle nostre forze di polizia? Domanda abbastanza retorica, scusate. Poi scopriamo che negli USA i manifestanti se la prendono con una statua di uno schiavista o di un esploratore e improvvisamente anche noi ci rimettiamo a discutere di una statua – col piccolo problema che statue di schiavisti non ne abbiamo. Ne abbiamo anche poche dei fascisti (del periodo c'è rimasta più architettura che statuaria, e quella è più problematica da rimuovere). E quindi?
E quindi tiriamo fuori il solito Montanelli. Sul quale non ho molto da aggiungere a quanto ho scritto un anno fa, salvo che nel frattempo Severgnini mi ha convinto: quella statua va proprio abbattuta. Non che io abbia letto tutto il pezzo di Severgnini eh? Mi dispiace, dev'esserci un paywall. Mi è bastato il boato delle reazioni, e in generale non apprezzo questa cosa di mandar fuori Severgnini a minimizzare crimini di guerra, manco fosse la Fallaci in stadio terminale: non credo che sarà ricordata come una pagina gloriosa del giornalismo italiano: facciamo che almeno sia l'ultima, buttiamo via il bronzo e non pensiamoci più. Altrimenti tra dieci mesi, un anno, saremo di nuovo lì, sapete? E la prossima volta chi immoleranno? Galli della Loggia? Panebianco? Tiratela giù, date retta. Mettiamola così: o tirate giù una statua che sta diventando un'autocelebrazione insensata del giornalismo italiano (che nessuno a parte i giornalisti italiani sentono la necessità di celebrare), o almeno tirate giù quei paywall che tra un po' nessuno vorrà darsi la pena di scavalcare legalmente.
Rimane il fastidio per una questione che si ripresenta a ondate, e le ondate partono sempre da quel posto oltreatlantico la cui musica ci interessa sempre meno, ma l'indignazione, ehi, con l'indignazione stiamo negli anni '50, è come se avessimo i juke-box coi dischi d'importazione: questa settimana vogliono tutti indignarsi per lo schiavismo, qualche tempo fa non si parlava che di abusi sessuali ecc. ecc. Ora non vorrei essere frainteso (ma so che è inevitabile): sono tutte questioni gravi di cui è sacrosanto parlare, però sarebbe bello che l'agenda ce la scrivessimo da soli, con le nostre scadenze e le nostre necessità, senza andare a rimorchio di hashtag, senza complessi di inferiorità per una civiltà che non è la nostra, e a volte semplicemente non capiamo.
Che è poi il principale guaio con gli americani: siamo così abituati a vederli sugli schermi che li troviamo familiari – molto più di cinesi, indiani, ma persino tedeschi – salvo che è una falsa familiarità. Ad esempio, quando parlano di statue, loro fanno riferimento a un paesaggio urbano e a un modello sociale molto diverso dal nostro. Loro hanno davvero migliaia di statue che rappresentano schiavisti o altre figure controverse. E le hanno perché la loro società nasce dall'incontro/scontro tra diverse comunità che in momenti diversi hanno deciso hobbesianamente di venire a patti invece di ammazzarsi. Lungi dal rappresentare una "storia condivisa", i loro monumenti sono una prosecuzione della guerra civile con altri mezzi. Così i bianchi del sud innalzano statue ai condottieri sconfitti della Confederazione, i nativi americani conservano il sogno di un Crazy Horse Memorial che superi in altezza il Monte Rushmore, e gli italoamericani si erano scelti Colombo. È una guerra fredda civile che si è estesa anche al linguaggio: il "politically correct" non è un codice imposto da una casta di altezzosi intellettuali, ma un protocollo di armistizio perpetuamente in discussione: una minoranza chiede che una parola sia considerata inaccettabile, le altre comunità decidono di accettare la cosa e il protocollo viene aggiornato. Il dibattito non passa per il dipartimento linguistica perché è una questione politica, appunto, non linguistica.
È il concetto nordamericano di tolleranza: almeno chi si riempiva la bocca di Tocqueville ai tempi dell'Esportazione della Democrazia dovrebbe averne notato le differenze rispetto a quello dell'Europa continentale – dove vige, tutto sommato, la logica giacobina per cui chi vince una rivoluzione si prende tutto lo spazio monumentale, abbatte tutto quello che non riesce a riconvertire e fa spazio per monumenti nuovi, mentre chi perde sta fermo un giro e aspetta la rivoluzione successiva. (L'ho chiamata "giacobina" ma forse è una logica più antica, se la Chiesa a un certo punto riconvertì pure il Colosseo). Questo non significa che non abbiamo monumenti discutibili, ma ne abbiamo molti meno e la loro funzione identitaria è più sfumata. Per contro, vivendo intorno a centri urbani di origine medievale, siamo forse ossessionati dalla durata, e ci basta un secchio di vernice su una statua per paventare una damnatio memoriae. Non credo che Montanelli verrà dimenticato se gli tirano giù la statua, anche se confesso di provare una certa nostalgia per quando era un essere vivente che si poteva criticare per le sue opinioni e non un feticcio da condannare per crimini di guerra di mezzo secolo prima ripescati da un dossierino. Poi ripeto: credo che sarebbe utile distinguere la pedofilia (che è un orientamento sessuale) dalla mentalità razzista e criminale dei membri dell'esercito coloniale italiano. Ma sembra sia una distinzione troppo raffinata per l'internet, pare che non sia il momento per i sottili distinguo, bisogna tutti indignarsi e abbattere statue. Potrei anche accettarlo, eh? I movimenti alla fine sono così, spontanei e sommari.
Poi dopodomani in America qualcuno libera un campo di concentramento di visoni, e alè, tutti spontaneamente e sommariamente a liberare i visoni. E se non ne abbiamo? Cessate la caccia alle nutrie! come abbiamo potuto tollerare fino a ieri questa barbara usanza?
Lo trovo buffo perché gli USA per tanti versi mi sembrano molto più lontani oggi che venti o trent'anni fa. Il primo esempio che mi viene è la musica: chi segue le classifiche dei brani più venduti e ascoltati sa che quella italiana da qualche anno è quasi completamente autarchica. Dei divi pop americani e inglesi sentiamo ancora parlare molto sui media ma le loro canzoni le ascoltiamo sempre meno – soprattutto i più giovani. C'entra anche il fatto che le canzoni sono sempre meno originali da un punto di vista musicale e sempre più parlate, il che porta non solo gli italiani a preferire il prodotto realizzato nella lingua madre, per quanto ricalcato sui modelli americani. Il che significa anche: rispetto a vent'anni fa magari li copiamo di più ma li capiamo di meno. E anche chi l'inglese in teoria lo sa, lo legge, lo ascolta sottotitolato nelle serie in streaming – non può a volta fare a meno di domandarsi se quel che succede a noi ha un senso o è solo un calco troppo letterale di cose che non capiamo del tutto.
Ad esempio: negli USA un crimine di polizia risveglia il movimento Black Lives Matter, e noi improvvisamente cominciamo a inginocchiarci per la minoranza afroamericana – per carità tutto giusto, ma non potremmo cominciare dalle nostre minoranze, quelle che restano più spesso vittima del nostro razzismo e dei crimini delle nostre forze di polizia? Domanda abbastanza retorica, scusate. Poi scopriamo che negli USA i manifestanti se la prendono con una statua di uno schiavista o di un esploratore e improvvisamente anche noi ci rimettiamo a discutere di una statua – col piccolo problema che statue di schiavisti non ne abbiamo. Ne abbiamo anche poche dei fascisti (del periodo c'è rimasta più architettura che statuaria, e quella è più problematica da rimuovere). E quindi?
E quindi tiriamo fuori il solito Montanelli. Sul quale non ho molto da aggiungere a quanto ho scritto un anno fa, salvo che nel frattempo Severgnini mi ha convinto: quella statua va proprio abbattuta. Non che io abbia letto tutto il pezzo di Severgnini eh? Mi dispiace, dev'esserci un paywall. Mi è bastato il boato delle reazioni, e in generale non apprezzo questa cosa di mandar fuori Severgnini a minimizzare crimini di guerra, manco fosse la Fallaci in stadio terminale: non credo che sarà ricordata come una pagina gloriosa del giornalismo italiano: facciamo che almeno sia l'ultima, buttiamo via il bronzo e non pensiamoci più. Altrimenti tra dieci mesi, un anno, saremo di nuovo lì, sapete? E la prossima volta chi immoleranno? Galli della Loggia? Panebianco? Tiratela giù, date retta. Mettiamola così: o tirate giù una statua che sta diventando un'autocelebrazione insensata del giornalismo italiano (che nessuno a parte i giornalisti italiani sentono la necessità di celebrare), o almeno tirate giù quei paywall che tra un po' nessuno vorrà darsi la pena di scavalcare legalmente.
Rimane il fastidio per una questione che si ripresenta a ondate, e le ondate partono sempre da quel posto oltreatlantico la cui musica ci interessa sempre meno, ma l'indignazione, ehi, con l'indignazione stiamo negli anni '50, è come se avessimo i juke-box coi dischi d'importazione: questa settimana vogliono tutti indignarsi per lo schiavismo, qualche tempo fa non si parlava che di abusi sessuali ecc. ecc. Ora non vorrei essere frainteso (ma so che è inevitabile): sono tutte questioni gravi di cui è sacrosanto parlare, però sarebbe bello che l'agenda ce la scrivessimo da soli, con le nostre scadenze e le nostre necessità, senza andare a rimorchio di hashtag, senza complessi di inferiorità per una civiltà che non è la nostra, e a volte semplicemente non capiamo.
Che è poi il principale guaio con gli americani: siamo così abituati a vederli sugli schermi che li troviamo familiari – molto più di cinesi, indiani, ma persino tedeschi – salvo che è una falsa familiarità. Ad esempio, quando parlano di statue, loro fanno riferimento a un paesaggio urbano e a un modello sociale molto diverso dal nostro. Loro hanno davvero migliaia di statue che rappresentano schiavisti o altre figure controverse. E le hanno perché la loro società nasce dall'incontro/scontro tra diverse comunità che in momenti diversi hanno deciso hobbesianamente di venire a patti invece di ammazzarsi. Lungi dal rappresentare una "storia condivisa", i loro monumenti sono una prosecuzione della guerra civile con altri mezzi. Così i bianchi del sud innalzano statue ai condottieri sconfitti della Confederazione, i nativi americani conservano il sogno di un Crazy Horse Memorial che superi in altezza il Monte Rushmore, e gli italoamericani si erano scelti Colombo. È una guerra fredda civile che si è estesa anche al linguaggio: il "politically correct" non è un codice imposto da una casta di altezzosi intellettuali, ma un protocollo di armistizio perpetuamente in discussione: una minoranza chiede che una parola sia considerata inaccettabile, le altre comunità decidono di accettare la cosa e il protocollo viene aggiornato. Il dibattito non passa per il dipartimento linguistica perché è una questione politica, appunto, non linguistica.
È il concetto nordamericano di tolleranza: almeno chi si riempiva la bocca di Tocqueville ai tempi dell'Esportazione della Democrazia dovrebbe averne notato le differenze rispetto a quello dell'Europa continentale – dove vige, tutto sommato, la logica giacobina per cui chi vince una rivoluzione si prende tutto lo spazio monumentale, abbatte tutto quello che non riesce a riconvertire e fa spazio per monumenti nuovi, mentre chi perde sta fermo un giro e aspetta la rivoluzione successiva. (L'ho chiamata "giacobina" ma forse è una logica più antica, se la Chiesa a un certo punto riconvertì pure il Colosseo). Questo non significa che non abbiamo monumenti discutibili, ma ne abbiamo molti meno e la loro funzione identitaria è più sfumata. Per contro, vivendo intorno a centri urbani di origine medievale, siamo forse ossessionati dalla durata, e ci basta un secchio di vernice su una statua per paventare una damnatio memoriae. Non credo che Montanelli verrà dimenticato se gli tirano giù la statua, anche se confesso di provare una certa nostalgia per quando era un essere vivente che si poteva criticare per le sue opinioni e non un feticcio da condannare per crimini di guerra di mezzo secolo prima ripescati da un dossierino. Poi ripeto: credo che sarebbe utile distinguere la pedofilia (che è un orientamento sessuale) dalla mentalità razzista e criminale dei membri dell'esercito coloniale italiano. Ma sembra sia una distinzione troppo raffinata per l'internet, pare che non sia il momento per i sottili distinguo, bisogna tutti indignarsi e abbattere statue. Potrei anche accettarlo, eh? I movimenti alla fine sono così, spontanei e sommari.
Poi dopodomani in America qualcuno libera un campo di concentramento di visoni, e alè, tutti spontaneamente e sommariamente a liberare i visoni. E se non ne abbiamo? Cessate la caccia alle nutrie! come abbiamo potuto tollerare fino a ieri questa barbara usanza?
giovedì 11 giugno 2020
Se stessi vedendo cadaveri
Supponi di essere una persona qualsiasi che scrive per i fatti suoi; ogni tanto qualcuno passa e dice: non male. C'è gente che scrive peggio e li pagano. All'inizio lo prendi come un complimento, ci metti un po' a capire.
Comunque è incontestabile: c'è gente che scrive peggio, e li pagano.
Finché un giorno finalmente non appare qualcuno che ti fa la proposta: scritti in cambio di soldi. Non molti soldi in realtà, ma non importa, l'importante è smettere di fare questa figura del fesso. Gli stringi la mano e intanto pensi: lo sto fregando, per lui scriverei anche gratis. È come se mi pagasse per respirare, ah ah, il colpo del secolo. La tua mano in effetti puzzerà di zolfo per alcune settimane. Ma da quel momento cominci a scrivere per soldi.
All'inizio non cambia niente.
Quando scrivi per soldi, non è che ci credi davvero. Sono talmente pochi soldi che è quasi uno scherzo. È solo un trucco, in realtà tu continui a scrivere per passione. Chiamano dal soggiorno: vieni a giocare papà? Tesoro non posso, sto lavorando. Tecnicamente è vero, scrivere adesso è un lavoro. È anche una scusa per saltare una sessione di gioco dei mimi. Un giorno scoprirà quanto prendevo a cartella e verrà sul mio tombino a strappare i crisantemi.
Quando scrivi per soldi, non è che ti metti a scrivere subito così di quel che ti viene. Sfogli le notizie e intanto pensi: che tipo di opinione posso farmi venire, che tipo di storia posso scrivere, che mi cambino in soldi? Ovviamente non te ne viene neanche una, cominci a pensare ad altro e poi magari sotto la doccia comincia a pensare a un pezzo per il blog, che è da un po' che non ci scrivi niente. Una cosa veloce, che in mezz'ora la scrivi e la posti, perché no? Ma stai già infilando l'accappatoio mentre rifletti che in fondo quella mezz'ora potresti anche provare a fartela pagare, dopotutto lo spunto è interessante. Così invece di scrivere un pezzo veloce sul blog scrivi una mail, scrivi un pitch, scrivi una cosa che per tre giorni nessuno si legge.
Il quarto giorno rispondono: ci dispiace, non c'interessa. Fa lo stesso, ormai non interessa nemmeno più a me. In effetti non ricordo neanche cosa volevo scrivere. Se l'avessi messo subito sul blog sarebbe anche stata una cosa divertente, ma non l'ho scritta. E nessuno mi ha pagato. Quando scrivi per soldi, scrivi meno.
(Che comunque è un risultato).
Quando scrivi per soldi a volte invece è fantastico. Ti pagano pochissimo ma puntuali e non gli frega niente se non guardi il film e poi lo recensisci in forma di dialogo leopardiano. Va bene qualsiasi giorno della settimana, va bene anche se salti la settimana, va bene anche se ne scrivi tre, basta che scrivi e ti tieni i nostri cazzo di soldi. Ok. Ah quasi dimenticavo: il mese prossimo chiudiamo. Per le ferie? No, no chiudiamo proprio. Ok.
Quando scrivi per soldi a volte proponi un pezzo sull'antilope maculata, ti rispondono: grazie non c'interessa. Eppure ne stanno parlando tutti, boh, forse sono arrivato un po' lungo, vabbe', e della tigre ghepardata? È una cosa più originale. "Grazie, non c'interessa". Ma come non v'interessa, lo state facendo apposta? E se vi proponessi una giraffa tigrata? "Ecco, la giraffa tigrata sì". Oddio io in realtà scherzavo, non ne so un cazzo di tigraffa girata, di giraffa tigrata. Seguono tre giorni disperati a documentarsi sulle giraffe, e a camminare in circolo tra la cucina e il gabinetto e a maledire il giorno che ho detto di sì allo scrivere per soldi. Nel frattempo in homepage è arrivato un pezzo sull'antilope maculata, maledette antilopi, voi e chi vi insegue.
Quando scrivi per soldi ti mettono in contatto con gli editor, e tu pensi è fatta, è fatta, mai più mi farò compatire con errori imbarazzanti, siamo adulti adesso, adesso ci correggono le bozze. Mandi il tuo primo pezzo, te lo restituiscono con tutti i tuoi errori più quelli che hanno aggiunto loro, ce n'è di fantastici. Però hanno tolto l'accento su sé stesso, a quello ci tengono da matti, dev'essere un punto fondamentale, ci saranno master apposta.
Quando scrivi per soldi, per fare un esempio, tu butti lì che la giraffa è tigrata per scopi mimetici ma questa cosa l'ufficio legale non te la fa passare, vuole delle pezze d'appoggio, non è che si possa affermare impunemente che la giraffa è tigrata per scopi mimetici. Per fortuna tu in casa hai questa cosa magica, cioè Google, e in trenta secondi trovi un'intervista a una giraffa tigrata che spiega le funzioni mimetiche della sua tigritudine, gliele mandi, loro ti dicono ok, passano due giorni e finalmente il pezzo viene pubblicato e invece di giraffe tigrate c'è scritto tigri giraffate. Lo stanno già cliccando tutti, su fb centinaia di commenti, per fortuna litigano tra lori così forte che non hanno il tempo per leggerlo davvero e accorgersi dell'orribile sfondone. Appena arrivi a casa scrivi una mail, per favore, correggete, c'è il mio nome e il mio cognome sopra, avevo anche una reputazione una volta. Il giorno dopo al posto di tigri giraffate c'è scritto tigri tigrate. Però. Però ovunque scrivi sé stesso con l'accento, loro lo troveranno. Il sé stesso con l'accento non passerà mai! Mai!
Quando scrivi per soldi con alcuni è imbarazzante. Perché magari con loro all'inizio non scrivevi per soldi, ma per... per passione, sì, e per amicizia, e un po' anche perché era figo scrivere per loro, ti faceva stare bene, non è solo una questione di visibilità, c'è anche un senso di godimento che – è imbarazzante, appunto. Poi succede che magari gli affari per un po' vanno bene, e a volte sono proprio loro a dirti dai, resta ancora un po', da qui in poi ti pago. Mi paghi? Ma posso ancora scrivere quelle cose strane che – ma sì dai. Però fa un po' strano, sapete, e soprattutto chi ha il pelo di controllare se ogni volta lascia i 50 euro sul comodino. Per tre mesi non lo fa, tu pensi che vabbe', stava scherzando, poi una notte arriva e pum! 500 in una botta, festa grande. Poi per un anno più niente, ma magari c'è anche una crisi del settore, e poi diciamolo perché dovrebbe pagarmi per quelle inezie, ces petits riens, mi sembra anche un po' preoccupato, lasciamo perdere. E un bel giorno arriva Ehi, ma scusa, ma sul serio mi sono dimenticato un anno di paga? Eh, boh, sì, può darsi. Oh scusa, scusa, beccati questi mille sull'unghia. Grazie, grazie, non dovevi. Sì ma non possiamo continuare a vederci così.
Quando scrivi per soldi, sono sempre così pochi che impegnarsi ti sembra sbagliato. Passi un paio d'ore a controllare un'affermazione, un lato della tua testa dice: queste due ore non me le stanno pagando abbastanza. Non me le stanno pagando proprio. Ormai sono io che sto pagando loro. L'altro lato risponde: prendere in giro sé stessi non è un buon motivo per prendere in giro i lettori. E comunque è colpa tua, perdi troppo tempo a girare tra la cucina e il bagno. Vieni a giocare papà? Chiama una collega, domani starà a casa, serve un sostituto. Quando scrivi per soldi, ma perché cazzo scrivi. Con tutto il lavoro vero che ci sarebbe da fare.
Quando scrivi per soldi a volte stabilisci che non te ne fotte un – mamma che robaccia che uscirà stavolta ma chissenefrega, stringi i denti e pensa al bonifico, pensa solo al bonifico. Altre volte proprio il contrario, pensi che no, non puoi farti pagare della roba così, stavolta no, questa non gliela mandi, trovi una scusa, ti sarà morto il cane, ma proprio in quel momento suona il citofono, è una raccomandata dal comune di Sorridi all'Autovelox, oh cazzo cazzo cazzo, in data tale la tua macchina circolava ai novantacinque all'ora che ridotti del cinque per cento ai sensi della legge fanno comunque che è meglio se stringi i denti e mandi a pubblicare il tuo pezzo, anche perché poi l'hai pagato il bollo? la rata dell'assicurazione? la mensa della creatura? Stringi i denti. A proposito ti ha scritto il dentista, dice che se non hai niente in contrario si prende le buste di agosto e settembre. Stai stringendo quei cazzo di denti?
Quando scrivi per soldi, all'improvviso diventa tutto più difficile. Avevi in mente un inizio fulminante, ma se scrivi per soldi non fulmina più nessuno. Per aggiungere sapore volevi aggiungere una spolverata di cazzi tuoi, ma a chi interessano i cazzi di un poveraccio che scrive per soldi, manteniamo un basso profilo che è meglio. Leggi i tuoi colleghi, loro sì che sanno scrivere per soldi, che bravura, professionisti altroché. Chissà se un giorno sarai capace di.
Quando scrivi per soldi, fai due conti e pensi: dai, in un anno metto assieme una quattordicesima. La buttiamo via? Quindi se in linea assolutamente teorica uno volesse vivere di quel che scrivo io, dovrebbe mandare un pezzo al giorno. Ah ah, cosa vado a pensare. Ma ce la farei a scrivere un pezzo al giorno? Forse sì. Non avendo altro da fare, con l'opzione di essere intrattabile 6 ore su 24, potrei farcela. Ma chi lo pubblicherebbe un mio pezzo al giorno? Mi servirebbero tre o quattro testate diverse, degli pseudonimi. Forse qualcuno lo sta già facendo. Ma soprattutto: chi se lo leggerebbe, un mio pezzo al giorno? Io da solo esaurirei tutto il mio ecosistema. Diciamo che per campare avrei bisogno di mille lettori quotidiani: non esistono. Forse millecinquecento disposti a leggere un mio pezzo ogni due giorni. Forse. Ma mille al giorno oggi ma manco Buzzati. Hai per caso visto un Buzzati qui intorno? No, niente Buzzati qui, fine della storia.
Quando scrivi per soldi a volte ti rileggi e vorresti morire. Ma anche una volta morto quella roba lì resterà sull'internet col tuo nome e il tuo cognome – e i tuoi figli e nipoti ti malediranno. Figlioli, lo facevo solo per portare a casa i s – quaranta euro a cartella papà ma vaffanculo, perché non ti sei messo a dare lezioni di latino come tutti. Rosa rosae rosae, non ti si apre già la mente? Senza neanche fatturare.
Quando scrivi per soldi a volte ti riconsegnano un pezzo che dice le stesse cose che volevi dire tu, e non le dice nemmeno in modo sbagliato ma – è una sensazione strana, è come se – cioè hanno preso il tuo pezzo e sono riusciti a togliere completamente la tua personalità, una cosa che non riusciresti a fare in mille anni. È come osservare il proprio cadavere. Quello non sono più io. Non sono mai stato io. Ok era il mio corpo, ma non lo è più – impossibile da spiegare. Tanto a voi non capiterà mai, non vedrete mai voi stessi morti. Se non vi mettete a scrivere per soldi. Non mettetevici.
Quando scrivi per soldi a un certo punto ti guardi attorno e noti che sono tutti molto più giovani. Ecco perché certe battute devi spiegarle, ecco perché su certe cose è meglio non scherzare. Ok, ma a voi invece pagano davvero? Perché io ci camperei un mese all'anno, voi cosa fate negli altri undici? Genitori generosi? Scrivete i romanzi di Elena Ferrante? Ripulite gli appartamenti, vi prostituite? In quest'ultimo caso, qual è la cosa più umiliante che si possa fare in trenta minuti: toccare uno sconosciuto maleodorante o copiare un mio pezzo del 2013 immagini incluse? Perché a volte il dubbio mi viene – scusate, so che non si deve scherzare su questo argomento, è sensibile, lo capisco.
Quando scrivi per soldi pensi che magari tutto questo cambierà, in fondo sei ancora alle prime armi, è da così poco che ti pagano, è da... dieci anni. Ah però.
Supponi di essere una persona qualsiasi che scrive per i fatti suoi; ogni tanto qualcuno passa e dice: non male. C'è gente che scrive peggio: e li pagano.
Gente come me.
Io che a volte avrei ben altro, ma me lo chiedono e dico lo stesso di sì.
E non è per i soldi, sono una sciocchezza i soldi.
È per evitare che diano lo stesso pezzo a un giovane, così non si illude.
Trovati un lavoro onesto, dai.
Tra un po' avrai anche dei figli, di te cosa penseranno.
Comunque è incontestabile: c'è gente che scrive peggio, e li pagano.
Finché un giorno finalmente non appare qualcuno che ti fa la proposta: scritti in cambio di soldi. Non molti soldi in realtà, ma non importa, l'importante è smettere di fare questa figura del fesso. Gli stringi la mano e intanto pensi: lo sto fregando, per lui scriverei anche gratis. È come se mi pagasse per respirare, ah ah, il colpo del secolo. La tua mano in effetti puzzerà di zolfo per alcune settimane. Ma da quel momento cominci a scrivere per soldi.
All'inizio non cambia niente.
Quando scrivi per soldi, non è che ci credi davvero. Sono talmente pochi soldi che è quasi uno scherzo. È solo un trucco, in realtà tu continui a scrivere per passione. Chiamano dal soggiorno: vieni a giocare papà? Tesoro non posso, sto lavorando. Tecnicamente è vero, scrivere adesso è un lavoro. È anche una scusa per saltare una sessione di gioco dei mimi. Un giorno scoprirà quanto prendevo a cartella e verrà sul mio tombino a strappare i crisantemi.
Quando scrivi per soldi, non è che ti metti a scrivere subito così di quel che ti viene. Sfogli le notizie e intanto pensi: che tipo di opinione posso farmi venire, che tipo di storia posso scrivere, che mi cambino in soldi? Ovviamente non te ne viene neanche una, cominci a pensare ad altro e poi magari sotto la doccia comincia a pensare a un pezzo per il blog, che è da un po' che non ci scrivi niente. Una cosa veloce, che in mezz'ora la scrivi e la posti, perché no? Ma stai già infilando l'accappatoio mentre rifletti che in fondo quella mezz'ora potresti anche provare a fartela pagare, dopotutto lo spunto è interessante. Così invece di scrivere un pezzo veloce sul blog scrivi una mail, scrivi un pitch, scrivi una cosa che per tre giorni nessuno si legge.
Il quarto giorno rispondono: ci dispiace, non c'interessa. Fa lo stesso, ormai non interessa nemmeno più a me. In effetti non ricordo neanche cosa volevo scrivere. Se l'avessi messo subito sul blog sarebbe anche stata una cosa divertente, ma non l'ho scritta. E nessuno mi ha pagato. Quando scrivi per soldi, scrivi meno.
(Che comunque è un risultato).
Quando scrivi per soldi a volte invece è fantastico. Ti pagano pochissimo ma puntuali e non gli frega niente se non guardi il film e poi lo recensisci in forma di dialogo leopardiano. Va bene qualsiasi giorno della settimana, va bene anche se salti la settimana, va bene anche se ne scrivi tre, basta che scrivi e ti tieni i nostri cazzo di soldi. Ok. Ah quasi dimenticavo: il mese prossimo chiudiamo. Per le ferie? No, no chiudiamo proprio. Ok.
Quando scrivi per soldi a volte proponi un pezzo sull'antilope maculata, ti rispondono: grazie non c'interessa. Eppure ne stanno parlando tutti, boh, forse sono arrivato un po' lungo, vabbe', e della tigre ghepardata? È una cosa più originale. "Grazie, non c'interessa". Ma come non v'interessa, lo state facendo apposta? E se vi proponessi una giraffa tigrata? "Ecco, la giraffa tigrata sì". Oddio io in realtà scherzavo, non ne so un cazzo di tigraffa girata, di giraffa tigrata. Seguono tre giorni disperati a documentarsi sulle giraffe, e a camminare in circolo tra la cucina e il gabinetto e a maledire il giorno che ho detto di sì allo scrivere per soldi. Nel frattempo in homepage è arrivato un pezzo sull'antilope maculata, maledette antilopi, voi e chi vi insegue.
Quando scrivi per soldi ti mettono in contatto con gli editor, e tu pensi è fatta, è fatta, mai più mi farò compatire con errori imbarazzanti, siamo adulti adesso, adesso ci correggono le bozze. Mandi il tuo primo pezzo, te lo restituiscono con tutti i tuoi errori più quelli che hanno aggiunto loro, ce n'è di fantastici. Però hanno tolto l'accento su sé stesso, a quello ci tengono da matti, dev'essere un punto fondamentale, ci saranno master apposta.
Quando scrivi per soldi, per fare un esempio, tu butti lì che la giraffa è tigrata per scopi mimetici ma questa cosa l'ufficio legale non te la fa passare, vuole delle pezze d'appoggio, non è che si possa affermare impunemente che la giraffa è tigrata per scopi mimetici. Per fortuna tu in casa hai questa cosa magica, cioè Google, e in trenta secondi trovi un'intervista a una giraffa tigrata che spiega le funzioni mimetiche della sua tigritudine, gliele mandi, loro ti dicono ok, passano due giorni e finalmente il pezzo viene pubblicato e invece di giraffe tigrate c'è scritto tigri giraffate. Lo stanno già cliccando tutti, su fb centinaia di commenti, per fortuna litigano tra lori così forte che non hanno il tempo per leggerlo davvero e accorgersi dell'orribile sfondone. Appena arrivi a casa scrivi una mail, per favore, correggete, c'è il mio nome e il mio cognome sopra, avevo anche una reputazione una volta. Il giorno dopo al posto di tigri giraffate c'è scritto tigri tigrate. Però. Però ovunque scrivi sé stesso con l'accento, loro lo troveranno. Il sé stesso con l'accento non passerà mai! Mai!
Quando scrivi per soldi con alcuni è imbarazzante. Perché magari con loro all'inizio non scrivevi per soldi, ma per... per passione, sì, e per amicizia, e un po' anche perché era figo scrivere per loro, ti faceva stare bene, non è solo una questione di visibilità, c'è anche un senso di godimento che – è imbarazzante, appunto. Poi succede che magari gli affari per un po' vanno bene, e a volte sono proprio loro a dirti dai, resta ancora un po', da qui in poi ti pago. Mi paghi? Ma posso ancora scrivere quelle cose strane che – ma sì dai. Però fa un po' strano, sapete, e soprattutto chi ha il pelo di controllare se ogni volta lascia i 50 euro sul comodino. Per tre mesi non lo fa, tu pensi che vabbe', stava scherzando, poi una notte arriva e pum! 500 in una botta, festa grande. Poi per un anno più niente, ma magari c'è anche una crisi del settore, e poi diciamolo perché dovrebbe pagarmi per quelle inezie, ces petits riens, mi sembra anche un po' preoccupato, lasciamo perdere. E un bel giorno arriva Ehi, ma scusa, ma sul serio mi sono dimenticato un anno di paga? Eh, boh, sì, può darsi. Oh scusa, scusa, beccati questi mille sull'unghia. Grazie, grazie, non dovevi. Sì ma non possiamo continuare a vederci così.
Quando scrivi per soldi, sono sempre così pochi che impegnarsi ti sembra sbagliato. Passi un paio d'ore a controllare un'affermazione, un lato della tua testa dice: queste due ore non me le stanno pagando abbastanza. Non me le stanno pagando proprio. Ormai sono io che sto pagando loro. L'altro lato risponde: prendere in giro sé stessi non è un buon motivo per prendere in giro i lettori. E comunque è colpa tua, perdi troppo tempo a girare tra la cucina e il bagno. Vieni a giocare papà? Chiama una collega, domani starà a casa, serve un sostituto. Quando scrivi per soldi, ma perché cazzo scrivi. Con tutto il lavoro vero che ci sarebbe da fare.
Quando scrivi per soldi a volte stabilisci che non te ne fotte un – mamma che robaccia che uscirà stavolta ma chissenefrega, stringi i denti e pensa al bonifico, pensa solo al bonifico. Altre volte proprio il contrario, pensi che no, non puoi farti pagare della roba così, stavolta no, questa non gliela mandi, trovi una scusa, ti sarà morto il cane, ma proprio in quel momento suona il citofono, è una raccomandata dal comune di Sorridi all'Autovelox, oh cazzo cazzo cazzo, in data tale la tua macchina circolava ai novantacinque all'ora che ridotti del cinque per cento ai sensi della legge fanno comunque che è meglio se stringi i denti e mandi a pubblicare il tuo pezzo, anche perché poi l'hai pagato il bollo? la rata dell'assicurazione? la mensa della creatura? Stringi i denti. A proposito ti ha scritto il dentista, dice che se non hai niente in contrario si prende le buste di agosto e settembre. Stai stringendo quei cazzo di denti?
Quando scrivi per soldi, all'improvviso diventa tutto più difficile. Avevi in mente un inizio fulminante, ma se scrivi per soldi non fulmina più nessuno. Per aggiungere sapore volevi aggiungere una spolverata di cazzi tuoi, ma a chi interessano i cazzi di un poveraccio che scrive per soldi, manteniamo un basso profilo che è meglio. Leggi i tuoi colleghi, loro sì che sanno scrivere per soldi, che bravura, professionisti altroché. Chissà se un giorno sarai capace di.
Quando scrivi per soldi, fai due conti e pensi: dai, in un anno metto assieme una quattordicesima. La buttiamo via? Quindi se in linea assolutamente teorica uno volesse vivere di quel che scrivo io, dovrebbe mandare un pezzo al giorno. Ah ah, cosa vado a pensare. Ma ce la farei a scrivere un pezzo al giorno? Forse sì. Non avendo altro da fare, con l'opzione di essere intrattabile 6 ore su 24, potrei farcela. Ma chi lo pubblicherebbe un mio pezzo al giorno? Mi servirebbero tre o quattro testate diverse, degli pseudonimi. Forse qualcuno lo sta già facendo. Ma soprattutto: chi se lo leggerebbe, un mio pezzo al giorno? Io da solo esaurirei tutto il mio ecosistema. Diciamo che per campare avrei bisogno di mille lettori quotidiani: non esistono. Forse millecinquecento disposti a leggere un mio pezzo ogni due giorni. Forse. Ma mille al giorno oggi ma manco Buzzati. Hai per caso visto un Buzzati qui intorno? No, niente Buzzati qui, fine della storia.
Quando scrivi per soldi a volte ti rileggi e vorresti morire. Ma anche una volta morto quella roba lì resterà sull'internet col tuo nome e il tuo cognome – e i tuoi figli e nipoti ti malediranno. Figlioli, lo facevo solo per portare a casa i s – quaranta euro a cartella papà ma vaffanculo, perché non ti sei messo a dare lezioni di latino come tutti. Rosa rosae rosae, non ti si apre già la mente? Senza neanche fatturare.
Quando scrivi per soldi a volte ti riconsegnano un pezzo che dice le stesse cose che volevi dire tu, e non le dice nemmeno in modo sbagliato ma – è una sensazione strana, è come se – cioè hanno preso il tuo pezzo e sono riusciti a togliere completamente la tua personalità, una cosa che non riusciresti a fare in mille anni. È come osservare il proprio cadavere. Quello non sono più io. Non sono mai stato io. Ok era il mio corpo, ma non lo è più – impossibile da spiegare. Tanto a voi non capiterà mai, non vedrete mai voi stessi morti. Se non vi mettete a scrivere per soldi. Non mettetevici.
Quando scrivi per soldi a un certo punto ti guardi attorno e noti che sono tutti molto più giovani. Ecco perché certe battute devi spiegarle, ecco perché su certe cose è meglio non scherzare. Ok, ma a voi invece pagano davvero? Perché io ci camperei un mese all'anno, voi cosa fate negli altri undici? Genitori generosi? Scrivete i romanzi di Elena Ferrante? Ripulite gli appartamenti, vi prostituite? In quest'ultimo caso, qual è la cosa più umiliante che si possa fare in trenta minuti: toccare uno sconosciuto maleodorante o copiare un mio pezzo del 2013 immagini incluse? Perché a volte il dubbio mi viene – scusate, so che non si deve scherzare su questo argomento, è sensibile, lo capisco.
Quando scrivi per soldi pensi che magari tutto questo cambierà, in fondo sei ancora alle prime armi, è da così poco che ti pagano, è da... dieci anni. Ah però.
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Supponi di essere una persona qualsiasi che scrive per i fatti suoi; ogni tanto qualcuno passa e dice: non male. C'è gente che scrive peggio: e li pagano.
Gente come me.
Io che a volte avrei ben altro, ma me lo chiedono e dico lo stesso di sì.
E non è per i soldi, sono una sciocchezza i soldi.
È per evitare che diano lo stesso pezzo a un giovane, così non si illude.
Trovati un lavoro onesto, dai.
Tra un po' avrai anche dei figli, di te cosa penseranno.