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martedì 30 marzo 2021

Il Principe e il poveretto

[È un pezzo di un mese fa, scritto di getto e gettato via già scritto quando Renzi faceva notizia per via delle sue frequentazioni saudite. Lui però insiste, così ecco qui].


Bisogna parlare di Renzi ma non riesco a concentrarmici, mi viene in mente tutt'altro, per esempio ho letto sul Post che molti influencer non fanno davvero tutte quelle marchette che dicono di fare. A volte mettono l'hashtag #gifted ma in realtà la borsa o la scarpa se la sono comprate in negozio, magari a prezzo pieno. È un mondo alla rovescio: nel nostro devi sempre dimostrare che le marchette non le fai, o se le fai che ti vergogni. Per gli influencer invece riuscire a fare marchette è un punto d'arrivo. Interessante, nevvero? E invece devo parlare di Renzi. 

Renzi fa gli accessi, Renzi attira l'attenzione, la gente viene in blog del genere, se viene, la poca che ancora viene, perché vuole leggere qualche cosa caustica su Renzi, e io non è che non me ne rendo conto; ma che posso scrivere che non sia stato già? Proprio mentre stava trattando per far cadere un governo, accampando accanto a questioni in parte condivisibili anche richieste evidentemente pretestuose (a un certo punto ha buttato lì che avrebbe preso i soldi del MES per il ponte sullo Stretto, che è un po' come fare all in su un tavolo di poker ma coi soldi del Monopoli), proprio in quel frangente Renzi si è fatto immortalare mentre intervistava un principe dell'Arabia Saudita, che di principi ne ha tanti, ma questo probabilmente è proprio quello che ha ordinato di fare a pezzi un giornalista dentro un'ambasciata. La notizia all'inizio l'ha data solo il Fatto Quotidiano, cioè in pratica l'organo degli hater di Renzi, il che ci autorizza a supporre che Renzi non ci tenesse così tanto a divulgare il suo incarico di cicisbeo presso una delle poche vere monarchie assolute rimaste al mondo. Una volta scoperto però Renzi mica poteva tirarsi indietro, e così ha prontamente spiegato che sì, lui adesso di mestiere fa il "public speaker", non è uno scherzo, perlomeno su Linkedin ha scritto così, ed è normale che i suoi public speaking lo portino in giro per il mondo a intervistare tra gli altri anche un principe saudita un po' sanguinario, e a irradiare sulla monarchia saudita un po' del glamour che gli sarebbe rimasto attaccato da Palazzo Chigi, e anche quella fiorentinità che gli serve per evocare un Rinascimento saudita. Tanto più che non lo fa mica per la gloria: per fare questi discorsi o queste interviste nel suo caso bisogna essere membri di un "board". Renzi ci guadagna 80.000 euro l'anno e ci paga le tasse in Italia, il che nella sua testa dovrebbe essere sufficiente a tacitarci. Invece è proprio a questo punto che nella mia testa cominciano ad affollarsi le più disparate considerazioni, ad esempio.

– Ma di cosa ti vanti poveraccio che con 80.000 euro un principe saudita non ci paga neanche la rata della Lamborghini per la concubina di secondo grado. Questo sei tu per lui, manco un autista. L'accompagnatrice dell'autista. Quella di scorta. 

– Ah, il Rinascimento, cioè quel periodo in cui i signorotti arricchiti rilevarono i titoli feudali dei principi medievali, accentrarono su di loro il potere e si misero ad ammazzare senza tanti complimenti chi non avevano a libro paga, col pensoso consenso degli intellettuali che piativano per incarichi a corte e formalizzavano le regole del perfetto cicisbeo. Ok Matteo Renzi, capisco dove vuoi arrivare.

– Renzi perdio l'abbiamo letto pure noi Machiavelli, lo sappiamo di che lagrime gronda e di che sangue lo scettro ai regnatori; che la politica sia sangue e merda ci è molto chiaro, ma questo significa sul serio che puoi sbracciarti con le mani sporche di entrambi, mettendoci la faccia, sei riuscito di nuovo a scrivere questa cosa, che in quel merdaio ci hai messo la faccia? Cioè lo sappiamo tutti che in politica estera bisogna essere amici di boia e tiranni, ma al punto da andarne fieri, dallo spiegare tutti contenti quanto fatturiamo al mese e all'anno col nostro secondo lavoretto presso il tal boia, il tal tiranno? 

– Per questo abbiamo abolito il finanziamento ai partiti: per selezionare finalmente una classe dirigente tutta fiera di mostrarti le sue fantasiose tecniche di fundraising, ad es noi ci facciamo dare totmila euro da un saudita sanguinario in cambio di visibilità, esatto sì, noi la diamo a lui, finché ci casca, certo, a proposito interessa una Fontana di Trevi quasi nuova? Una Battaglia di Anghiari praticamente mai usata?

– Stavi chiedendo la delega ai Servizi, e qualcuno ha avvisato il Fatto che nel frattempo eri in missione privata in Arabia Saudita. Probabilmente non otterrai la delega ai Servizi.

–  Ho letto sul Post che molti influencer non fanno davvero tutte quelle marchette che dicono di fare. Il punto è che la marchetta è proprio quello che vogliono fare da grandi, e nel frattempo per dimostrare le loro capacità le fanno gratis, o comunque per un tozzo di pane, tendendo spesso a esagerare la percentuale di marchetta di quello che fanno. È un mondo così. Un po' triste, però.

lunedì 29 marzo 2021

Gwynllyw, un pirata e un signore

29 marzo – San Gwynllyw (450-529), re e rapinatore, patrono dei pirati gallesi.

Cattedrale di Newport, dove un tempo sorgeva il santuario di Woolos the Warrior. CC BY-SA 2.5.

Il primo quesito di ordine metodologico che incontriamo accostandoci alla pia figura di San Gwynllyw è: come caspita si pronuncia Gwynllyw? Esiste anche una trascrizione del nome in latino (Gundleius), per cui avremmo potuto anche scrivere San Gundleio, ma sarebbe stato meno divertente di immaginare una specie di piratesco ruggito gutturale, hgvüündüüv. Gli anglo-sassoni lo chiamavano "Woolos the Warrior", che è senz'altro un nome ad effetto, e ci fa capire come tutte le loro "W" iniziali, più di un millennio fa, fossero anticipate da una dura "G": che è poi il motivo per cui dal longobardo "werra" è saltato fuori l'italiano "guerra", mentre William the Conqueror in Francia veniva chiamato Guillaume (e da noi Guglielmo). "Gwynllyn" però non è germanico, è gaelico. Credo che "Gwyn" in gallese significhi "bianco".

Gwynllw non è probabilmente mai stato un pirata, come si cominciò a raccontare secoli più tardi. È probabile che quando i pirati del canale di Bristol sentirono l'esigenza di affidarsi a un santo locale e non francese o inglese o irlandese come gli equipaggi delle navi che depredavano, la scelta cadde su questo autoctono re manigoldo del sesto secolo. Un periodo in cui la differenza tra istituzione monarchica e gang di razziatori doveva essere molto labile: in sostanza regnare su una regione significava detenere la liberta di scorrazzarvi in lungo e in largo coi tuoi uomini armati, chiedendo il pizzo alla popolazione in cambio di protezione dalle incursioni di qualche altro manigoldo con qualche altro uomo armato. Questo in parte può spiegare come mai le due fonti che abbiamo sulla sua vita si contraddicano: la Vita di San Cadoc, compilata intorno al 1100, lo descrive come un irresistibile furfante – a maggior gloria del figlio Cadoc che sarebbe poi riuscito a convertirlo. Viceversa la Vita di San Gwynllw, scritta una trentina d'anni dopo, insiste sul fatto che anche prima di convertirsi fosse un sovrano giusto e pio. C'è gente che proprio dei re non riesce a parlar male, neanche di quelli di reami minuscoli e sepolti da secoli – ma in effetti tra essere un buon sovrano per i propri sudditi e un razziatore dei sudditi altrui non c'era tutta questa incompatibilità.

Il Monmouthsihire, tra Galles e Inghilterra (tra 1600 e 1800 su molti documenti ufficiali compariva la definizione "Galles e Monmouthshire". Malgrado l'intento fosse rimarcare come questa contea facesse parte del Galles, ne uscì rafforzata l'opinione che la contea non fosse più esattamente Galles, ma già Inghilterra. Oggi è generalmente considerata una contea del Galles).

Gli storici britannici li chiamano "petty kingdoms": regnucoli, regnetti: quelli che si spartivano le Isole prima dell'unificazione nel X secolo. Gwynllw ad esempio era re del Gwynllwg, che aveva ereditato dal padre Glywys, fondatore a sua volta del regno del Glywysing, e a tal proposito sempre sia lodato il copia-incolla. Siccome Gwynllyw aveva due fratelli, il già non esteso Glywysing era stato diviso in tre parti e più o meno copriva un'area tra le due contee storiche più tardi note come Glamorgan e Monmouth, affacciate sul Canale di Bristol. Dall'altra parte del Canale c'è il Devon, su cui avrebbe dovuto regnare il fratello, San Petroc, patrono dell'intera Cornovaglia; uso il condizionale perché Petroc più che un re fu un abate e un missionario, uomo di cultura e leggendaria umiltà.

Gwynllyw invece era un furfante. La sua vittima preferita era Brychan, re del Brycheiniog, che forse anche a causa delle ripetute razzie non era incline a consentirgli di fidanzarsi con una dei 24 figli che aveva, la bella Gwladys: da non confondere con Gwawl, che era la madre di Gwynllyw, e d'altro canto se tuo padre si chiama Glywys e tua madre Gwawl e incontri una bella ragazza che si chiama Gwladys, capisci che è tutto scritto nel libro del destino, magari in rune celtiche incomprensibili, ma è scritto. Così un bel giorno Gwynllyw si presentò a casa di Brychan con 300 uomini armati e la portò via, perdendone 200 nella scaramuccia che ne seguì. Il conflitto terminò con la scesa in campo di una guest star di assoluto rilievo: Re Artù, che schierandosi dalla parte di Gwynllyw rese possibile il matrimonio e qui per la prima volta compare menzionato in una vita di santi. Si tratta della Vita di San Cadoc, perché l'autore della successiva Vita di San Gwynllyw insiste sul fatto che non ci fu nessun ratto e nessuna guerra, bensì una meravigliosa cerimonia che vide unirsi nel sacro vincolo del matrimonio consensuale due sposi fortunati e benedetti dalle rispettive famiglie, sì, sì, ma non si diventa patroni dei pirati in questo modo. La gente vuole le avventure, i ratti delle vergini, i festini con la strage sul più bello.

San Cadoc in un bassorilievo bretone. CC BY-SA 3.0

In seguito, per festeggiare la nascita del primogenito Cadoc, Gwynllyw avrebbe portato un po' di amici a rapinare il monastero di Caerwent. Al tempo però il monastero era gestito da San Tathan o Tatheus (erano tempi fortunati, rigogliosi di santità), che inseguì i predoni e chiese loro la restituzione in particolare di una mucca. Gwynllyw rimase così impressionato dalla flemma dell'abate che non solo restituì il capo di bestiame, ma vi aggiunse un bonus: il primogenito. Decise infatti che Cadoc sarebbe stato educato dai monaci di Caerwent, insomma la mucca presa come bottino fu riconvertita in borsa di studio. Cosa non si fa per togliersi i figli dai piedi, sul serio. Sia come sia, Cadoc ebbe la possibilità di crescere in un contesto molto diverso da quello del padre: studiò, viaggiò (Irlanda, Scozia, secondo alcune fonti fece anche un pellegrinaggio a Roma), e una volta adulto non solo rifiutò l'eredità militare del padre, ma ne causò la conversione.

Bisogna dire che è un tratto comune di diversi re-santi, figure tipiche delle terre europee in cui era più radicata l'istituzione monarchica. Oltre al privilegio per ogni famiglia reale di vantare almeno un santo o una santa nell'albero genealogico, c'era anche la necessità di normalizzare la venerazione di alcuni personaggi che avevano fondato luoghi di culto importanti. In questo e in altri casi, la santità molto spesso sopravviene in un secondo momento, è una specie di pensionamento: stanco di regnare (e di razziare) Gwynllyw decide di ritirarsi in campagna con la fedele Gwladys, e in effetti in quanto a campagna c'era solo l'imbarazzo della scelta: ma avendo sognato un bue con una macchia nera sulla fronte, Gwynllyw decise che avrebbe costruito il suo eremo nel luogo dove avesse visto un bue simile. Ne trovò uno dove oggi sorge Newport, la terza città del Galles: la sua costruzione in legno sarebbe stato il nucleo della futura cattedrale di San Woloos, poi distrutta credo dai Normanni. Vi visse ancora diversi anni, mangiando verdure, bevendo acqua da un pozzo miracoloso e beandosi della compagnia della fedele Gwladys. La quale a dire il vero a un certo punto lo piantò per andare a fondare un altro eremo a Pencarn, non troppo lontano (ma neanche troppo vicino). Gli agiografi ci suggeriscono che la separazione fosse necessaria al raggiungimento di un ulteriore livello di santità; noialtri del XXI secolo crediamo di saperla più lunga e non riusciamo a non pensare che forse Gwladys si era stancata del marito vecchio e santo; dopotutto lei aveva sposato un pirata.

giovedì 25 marzo 2021

400 vittime di covid al giorno e voi scrivete che il rischio zero non esiste, siete criminali.

Quando si parla di covid e chiusure, bisognerebbe restare calmi. Lo so che è difficile.

Ma ci si dovrebbe provare: tirare un grosso respiro e ricordare che si tratta di un'emergenza come non c'è mai stata da che siamo al mondo, qualcosa per cui nessuno era davvero preparato; che gran parte degli errori che si sono fatti erano inevitabili; e nondimeno è giusto segnalare chi li fa, specie se in cattiva fede. Alla maggior parte di chi incontriamo, che in cattiva fede non è. 


Per esempio, già da diversi mesi alcuni dei principali gruppi editoriali del Paese stanno esprimendo una forte voglia di riaprire, costi quel che costi (costerà vite umane). Per essere dei gruppi editoriali, bisogna dire che la esprimono male, con interventi mal editati e scomposti che finiscono per squalificare chi li produce e chi li cita sui social network. Al punto che io stesso, che non sarei quel granitico sostenitore del lockdown a oltranza che credete, alla fine non posso che radicalizzarmi nella convinzione che le scuole non siano affatto sicure: perché se ci fosse uno studio serio che dicesse il contrario, a questo punto ad esempio il Corriere lo avrebbe scovato, e pubblicato in prima pagina, e invece no; mese dopo mese continua a buttar fuori materiale di scarto. La ricerca che tutti citano in questi giorni, e che in un primo momento stavo prendendo seriamente anch'io, non è che l'ennesima rifrittura di numeri che Sara Gandini credeva di aver trovato in novembre (e che scomposti per regione ci dicono tutt'altro); adesso è marzo, siamo alla terza ondata, le varianti si dimostrano più virulente anche tra i giovani, e il Corriere è ancora lì che s'affida alla Gandini. Questo come minimo significa che non riesce a trovare niente di meglio; in una situazione in cui davvero qualsiasi ricercatore che riuscisse a torturare i dati fino a dimostrare che le scuole sono sicure otterrebbe l'homepage nel giro di pochi minuti. Ma niente da fare. E però là fuori c'è fior di genitori che ci crede, in quel che dice la Gandini, perché sono ricerche peer-reviewed (ma veramente no), gente che crede alle pillole d'ottimismo, eccetera. 

In sostanza quel che fa il Corriere non è diverso da quello che facevano le Iene ai tempi di Vannoni, salvo che lo fanno in una situazione di emergenza nazionale: stanno apertamente fomentando con informazioni tendenziose una frustrazione sociale che è lì lì per diventare una rivolta civile: ve lo sareste aspettati anche solo un anno fa? che un governo a trazione M5S avrebbe tentato il possibile per proteggerci da una pandemia, mentre Repubblica e Corriere avrebbero diffuso fake news sulle scuole e sui vaccini?; che nel momento della crisi il partito della biowashball e dei chip sottopelle avrebbe mantenuto la barra un po' meglio degli organi di stampa del ceto medio riflessivo? Pure è andata così, teniamocelo per detto. 

Non so se sia stato il gruppo della Gandini (un gruppo che neanche un anno fa negava la virulenza del virus) a coniare a un certo punto il nuovo slogan che vedo sempre più impugnato da chi vuole riaprire a ogni costo: "il rischio zero non esiste". Che è insieme una banalità – chi ha mai preteso un rischio zero? – e un'enormità, nel momento in cui in Italia muoiono più di quattrocento persone al giorno. Un po' come Baricco quando ravvedeva un "There Is No Alternative" quando l'alternativa si vede benissimo ed è: facciamo morire un po' più gente, l'economia ne avrebbe bisogno. 


Qui vediamo invece Massimo Cacciari in una delle sue più riuscite interpretazioni dell'Uomo Anziano che Impreca al Cielo, mentre senza nessuna difficoltà si lascia mettere in bocca lo slogan da un operatore Mediaset: a riprova che si può essere tra i più brillanti intellettuali di una generazione e farsi suonare come trombette. Ai piani alti hanno fatto due conti e deciso che conviene che moriamo di più, e Cacciari è già in favore di videocamere pronto a spiegarci che morire per la patria bisogna, e sono abbastanza sicuro che nemmeno lo pagano, sarebbe volgare, lui un servizietto così te lo fa gratis, lo baratta con quella misera visibilità televisiva che alla sua età evidentemente lo solletica ancora, ma davvero ci si deve ritrovare così? A chiedere più morti pur di stare in favore di videocamera? Io davvero non

Quando si parla di covid e chiusure, bisognerebbe restare calmi. Lo so che è difficile.

Con un piccolo sforzo possiamo capire che tutti i punti di vista sono ragionevoli. Io stesso, che qui sopra assumo il ruolo di difensore del lockdown e delle chiusure scolastiche, appena metto il piede fuori da questa stanza comincio ad avere qualche tentennamento; percorro il corridoio, e vengo invaso dai dubbi; arrivo alla camera dei bambini, e ho già abbracciato un'opinione completamente opposta. Questo per ribadire che trovo l'angoscia dei genitori perfettamente comprensibile; conosco la loro sofferenza, e anche il disagio degli studenti non mi è così alieno. Più in generale, lo so benissimo che l'economia sta affondando; casa mia non è un'isola, anzi. E tuttavia, in coscienza: se mi chiedete se la scuola dell'obbligo sia sicura, non posso rispondere che no; se mi chiedete se è vero che il contagio non passa dalla scuola o si limita a costeggiare la sala insegnanti, scrive il Corriere, la mia risposta per quel che mi è stato dato di osservare è no; se mi chiedete se davvero gli studenti siano bravissimi a mantenere mascherine sul naso, disciplinatissimi nel distanziamento, e tendenzialmente suicidi dopo un mese di didattica a distanza, anche qui la mia limitata risposta è: no, no, no. 

Questa è la mia coscienza; invece il mio mestiere è quello dell'insegnante e in quanto insegnante faccio parte di una catena di comando. Sono andato a scuola ininterrottamente da settembre a tutto febbraio; ho distribuito mascherine scrause (ho dovuto dar due carichi anche oggi, con la macchina, la mia); non ho fatto un giorno di ferie o malattie; appena mi ordineranno di tornare a scuola, ci tornerò – mi piacerebbe che l'ordine partisse da un ponderato studio dei dati a disposizione e non da una campagna mediatica cialtrona e assassina, ma ci tornerò lo stesso, perché è il mio mestiere e mi sono anche vaccinato. Anche per questo motivo, se proprio volete replicare a questo intervento cercate di non darmi del parassita o del fifone, perché per quanto possa capire il vostro punto di vista – quante altre volte vi capita di trovare un interlocutore pacifico come me, che tutta la violenza la sublima in parole e non verrà mai a trovarvi sotto casa per prendervi a ceffoni? – ciò non toglie che quei ceffoni su un piano teorico sarebbero assolutamente meritati. Invece io vi voglio bene (e non voglio che vi contagino), vostro L.

mercoledì 24 marzo 2021

Simonino, il martire che non c'era

Un anno fa la vita era già abbastanza complicata, così potreste esservi persi lo scandalo: sulla bacheca Facebook di un pittore barese di una certa fama, Giovanni Gasparro, comparve brevemente un quadro agghiacciante che non poteva non fare discutere. Raffigurava un bambino piangente, la testa rischiarata da una specie di aureola, circondato da una folla di “ebrei, brutti, sporchi e molto cattivi”, come li definì il Sito Ufficiale della comunità ebraica di Milano, vestiti nei costumi di diverse epoche e culture, ma quasi tutti con un mano un pugnale, tutti oscenamente allegri. Il bambino strilla e già sanguina. Il tema del dipinto è l’infanticidio rituale, la più infamante delle dicerie spacciate sugli ebrei dai predicatori cristiani in epoca medievale e moderna. In particolare, il quadro sarebbe ispirato a uno dei casi più famosi: il cosiddetto martirio di Simonino di Trento.

24 marzo. Simonino da Trento (1472-1475), fake news antisemita



Martirio del Beato Simonino, di Francesco Oradini (XVIII secolo), Palazzo Salvadori, Trento. Foto di Andreas Caranti, CC BY-SA 2.0


Simonino non aveva ancora tre anni quando viene ritrovato morto dagli ebrei della piccola comunità askenazita di Trento, nel canale adiacente alle loro abitazioni. È Salomone di Norimberga, il capo della comunità, ad avvertire le autorità del ritrovamento del figlio di Andrea Lomferdorm, il conciapelle, che aveva denunciato lo smarrimento due giorni prima, la sera del Giovedì Santo. Salomone non sospettava evidentemente la sciagura che stava per attirare su di sé e sui correligionari, che di lì a poco sarebbero stati arrestati, torturati e costretti ad autoaccusarsi di aver rapito e ucciso il bambino. I rei confessi sarebbero poi stati arsi sul rogo, tranne quelli che accettarono di convertirsi al cristianesimo, che furono più umanamente decapitati.

I moventi e i dettagli del crimine seguono uno schema che si era via via definito dal Medioevo, arricchendosi da un processo all’altro dei dettagli aggiunti dall’immaginazione dei torturati e dei torturatori-suggeritori. Ciò che rende particolare l’episodio di Trento è che qui tutto viene verbalizzato con una minuzia agghiacciante: della passione di Simonino (parodia di quella di Gesù, secondo la volontà dei suoi sedicenti torturatori) conosciamo dettagli minimi, di un realismo insostenibile. I verbalisti addirittura si adoperano a trascrivere le maledizioni in yiddish che uomini e donne avrebbero pronunciato durante il rito. Si tratterebbe insomma di un documento di straordinario interesse antropologico, se fosse vero e non il prodotto della fantasia di aguzzini fanatici e vittime disperate. Certo qualsiasi fantasia contiene una sua verità, almeno da un punto di vista psicanalitico, e il massimo di verità che possiamo ricavare dalle confessioni estorte a Salomone e ai suoi correligionari è la spaventosa diffidenza reciproca tra cristiani ed ebrei, in cui le accuse di infanticidio si rifrangono come in un gioco di specchi deformanti. I cristiani erano convinti che gli ebrei immolassero ogni anno a Pasqua un bambino cristiano, prima circoncidendolo per renderlo più simile a Gesù e poi crocifiggendolo come era stato crocifisso Gesù; impastando poi il suo sangue nei pani azzimi della Pasqua, e conservando parte dello stesso sangue, essiccato in polvere anche per scopi medicinali. Gli ebrei dal canto loro provavano probabilmente un sacro ribrezzo alla sola idea di mangiare il sangue, qualcosa che andava contro i più severi divieti delle Scritture; ma pungolati a compiacere la fantasia sanguinaria dei loro torturatori, recuperavano dalle loro leggende le scene più granguignolesche, come l’immagine (conservata in molti codici) del Faraone che si cura la lebbra in una vasca di sangue di bambini ebrei. Così con la forza della disperazione corredavano il fatto di sangue con una serie di dettagli raccapriccianti che l’immaginario occidentale non avrebbe più dimenticato, fino al pieno Novecento, ai libelli nazisti e al cinema horror.

E i verbalisti prendevano nota. Si capisce che la crisi stavolta non è gestita da una folla di linciatori impressionabili, ma da una regia sapiente con priorità precise. Il vescovo-principe di Trento Giovanni Hinderbach non vuole semplicemente scacciare gli askenaziti da Trento (e incamerare i loro beni): è determinato a creare un precedente importante, a fissare per iscritto un episodio cruciale a cui effettivamente si rifaranno da lì in poi tutti i casi di infanticidi rituali a sud e a nord delle Alpi. Per ottenere questo risultato non esita a sfidare l’autorità degli Asburgo e quella del Papa, che a fasi alterne cercano di bloccare il processo: perché il caso di Simonino non si verifica negli anni foschi della Controriforma, ma in un secolo più aperto in cui ecclesiastici e governanti risultano generalmente tutt’altro che inclini ad assecondare una caccia alle streghe (e sensibili al lobbying delle comunità ebraiche, che cercavano con ogni mezzo di contrastare il propagarsi di leggende nere pericolosissime). Quando però il processo sarà terminato, e i testimoni arsi vivi o decapitati e gli atti pubblicati, anche le autorità dovranno fare un passo indietro nei confronti del risultato ottenuto dal vescovo: nel 1588 (in piena Controriforma) papa Sisto V autorizza la venerazione di San Simonino martire. A Trento vengono costruite in suo onore due cappelle, una nel luogo del rapimento e l’altra nel luogo dell’uccisione. Ancora nel nel 1760 il cardinale Lorenzo Ganganelli, poi papa Clemente XIV, cita il processo Simonino come uno dei rarissimi casi in cui gli ebrei non potevano essere scagionati dall’accusa di omicidio rituale: un evento assolutamente eccezionale, che non doveva diventare il pretesto per accuse generalizzate, ma pur sempre un evento storico reale. Bisognerà attendere la seconda metà del Novecento, perché le autorità ecclesiastiche, stimolate dagli studi di Gemma Volli, riprendano gli incartamenti e giungano alla conclusione che oggi ci appare come scontata: si era trattato di un processo farsa, Salomone e i suoi compagni erano le vittime sacrificali di un rito antisemita. L’ultima processione ufficiale a Trento si svolse nel 1955; la venerazione per Simonino fu ufficialmente abolita dalla Chiesa nel 1965, al culmine della stagione conciliare.


Martirio di Simonino da Trento, chiesa di Santa Maria Rotonda, Pian Camuno (BS). Foto di Di Luca Giarelli – CC BY-SA 3.0.


Oggi viviamo in una stagione molto diversa, anche se forse la sensazione che esista un movimento vetero-cattolico che sfida papa Francesco da destra è ingigantita da internet, e dalla prospettiva che ci offre su tutti i mattoidi in circolazione – c’è gente che vende libri sulla Terra Piatta e organizza manifestazioni sulle scie chimiche; vuoi che non ci sia anche qualcuno che crede ancora ai pani azzimi impastati col sangue dei bambini? Qualcuno dev’esserci, se ha commissionato a Gasparro almeno un quadro.

Prendiamo un sito – non lo linkerò, ma è uno dei primi risultati se si cerca il quadro di Gasparro on line. Leggiamo che l’opera avrebbe scatenato l'”ira degli ebrei” (e vorrei anche vedere) che si sarebbe concretizzata in diverse “minacce di morte” che però non vengono esibite, a differenza del crimine infamante reso da Gasparro nel suo tipico stile da madonnaro allucinato. Leggiamo ancora: “Diversi storici ebrei ritengono attendibile l’omicidio rituale ebraico dei bambini cristiani, da parte di ebrei aschenaziti e sefarditi. Teoria sostenuta in primis dal professor Ariel Toaff, figlio dell ex capo rabbino di Roma Elio Toaff, nella prima edizione del libro, censurato subito dopo la pubblicazione: “Pasque di Sangue”.

Quante inesattezze in una frase sola? Si fa prima a trovare quel poco che c’è di vero. Per esempio Ariel Toaff è davvero figlio di Elio Toaff e ha realmente pubblicato nel 2007 un volume dedicato all’omicidio di Simonino e più in generale alla leggenda dell’omicidio rituale. La prima edizione del volume (Il Mulino, 2007) non è stata “censurata”, ma ritirata dal commercio dopo un’aspra polemica che vide confrontarsi diversi storici. Il libro fu ristampato poco dopo con una prefazione che doveva chiarire la posizione dell’autore – e forse non si è mai chiari abbastanza, quando si affrontano argomenti tanto delicati. Toaff ritiene “attendibile l’omicidio rituale ebraico dei bambini cristiani, da parte di ebrei aschenaziti e sefarditi”? Per quanto riguarda i sefarditi, assolutamente no: anzi uno degli argomenti da lui esibiti è che di queste leggende non sussistesse alcuna traccia nei luoghi abitati da ebrei sefarditi, o italiani, od orientali. Solo nelle zone raggiunte dagli askenaziti periodicamente gli ebrei venivano accusati di macellare un bambino che quasi sempre dopo qualche giorno si ritrovava vivo e vegeto. Quasi sempre, ma a volte no. Del resto tuttora, appena scompare un bambino in una spiaggia, la prima cosa che si fa è arrestare i soliti sospetti: venditori ambulanti, nomadi, immigrati. Nel Quattrocento si cominciava dagli ebrei.

Dando forse per scontato che l’ostilità nei confronti degli ebrei fosse uniforme in tutta l’Europa cristiana, Toaff era portato a concludere che la leggenda nera sugli infanticidi non potesse che scaturire da qualche particolarità della cultura askenazita, e di conseguenza a ricercare negli archivi tutti i dettagli che avrebbero potuto giustificare un’evoluzione così truculenta e contraria ai più basilari costumi dell’ebraismo. Poi si sa come va con gli storici: se si mettono in testa di cercare qualcosa, prima o poi la trovano: e la quantità di dettagli scovata da Toaff nel suo libro è impressionante, e restituisce l’immagine di una comunità chiusa su sé stessa, portata a diffidare anche delle altre comunità ebraiche, ispirata da un anticristianesimo fanatico temprato dalle violente persecuzioni subite nei secoli precedenti in Europa centrale. Non solo, ma Toaff non può impedirsi di scrivere quello che abbiamo in tanti pensato a un certo punto, ovvero che gli psicopatici esistono, e che se il loro immaginario è fatto di bambini sgozzati prima o poi qualche bambino ci resta secco davvero. Possiamo escludere che a Trento o altrove non sia successo qualcosa del genere? Che qualche psicopatico magari esacerbato dal recente passaggio di un predicatore antisemita come Bernardino da Feltre non abbia deciso di calarsi nel ruolo che i cristiani avevano predisposto per lui?

L’altro argomento invocato da Toaff è la minuziosità dei verbali. Toaff sembra a tratti soggiogato dalla generosità della documentazione che il vescovo mise a disposizione, e nota più volte come esso contenga dettagli preziosi sui riti ebraici che i torturatori non potevano certo conoscere: il che secondo lui proverebbe che gli imputati non parlavano sotto dettatura, ma stavano realmente condividendo con gli inquisitori la loro negletta cultura. Persino le parolacce in yiddish, in un processo a Trento! Qui è facile obiettare come ogni confessione mendace, ogni depistaggio, perché funzioni davvero debba sempre contenere verità e finzione, in dosi non troppo squilibrate. Nel suo entusiasmo – che poi è quello prezioso del ricercatore quando ha la sensazione di ritrovare un tesoro di testimonianze credute perse o neglette – Toaff si dilunga senza risparmio sui dettagli del crimine e non si preoccupa pagina dopo pagina di premettere quali gli sembrino plausibili e quali inventati.

Si sa che mille indizi non fanno una prova – in giurisprudenza, almeno. In storiografia la situazione è diversa: tanto per cominciare, non si rischia di condannare nessun vivente; e poi al massimo quello che si consegna all’editore è un’ipotesi interessante, non la Verità. Mentre accumulava i suoi indizi, Toaff aveva in mente un pubblico di studenti e accademici, dai quali giustamente pretendeva lo sforzo di recepire una tesi provocatoria ma degna di discussione. Gli sfuggiva forse che un tema così controverso avrebbe interessato un pubblico assai più vasto, composto di lettori meno tecnici che davvero avrebbero potuto scambiare alcuni capitoli di Pasque di sangue per un agile sunto moderno di tutti i libelli antiebraici; al punto che non è difficile pensare che Gasparro abbia usato proprio il libro di Toaff come fonte per il suo quadro. Alla fine l’errore forse è stato credere che tra adulti si possa discutere serenamente di tutto, compreso di bambini scomparsi e forse uccisi. Non era così, fino al 2007 almeno – vediamo come va nel 2021.

giovedì 18 marzo 2021

Cavati le putrelle dagli occhi, Baricco: poi parliamo di scuola

Più o meno un anno fa, quando la mia scuola era già in lockdown da un paio di settimane, preparai un tutorial per i colleghi di istituto (primarie e secondarie di primo grado) che volevano sottoporre rapidi test on line ai loro studenti. Già che c'ero lo misi anche qui. Non che fosse un gran tutorial, e mi sono ben guardato dal reclamizzarlo in giro; ciononostante in un anno è stato letto più di 35mila volte, diventando il contenuto in assoluto più letto su questo vecchissimo sito. 

Questo potrebbe anche non significare nulla; al limite che esiste un insegnante particolarmente rintronato che ha letto lo stesso tutorial trentamila volte e continua a tornarci perché non è ancora proprio sicuro; ipotizziamo invece che chiunque lo legga ci torni due o tre volte in media ed ecco, abbiamo diecimila insegnanti che in un anno hanno cercato di usare uno strumento on line che prima non conoscevano assolutamente. 

Questo è un po' più di nulla, specie se lo associo a tante altre esperienze cui ho assistito nell'ultimo anno; insegnanti che non avevano mai acceso una webcam che sono diventati di punto in bianco esperti intrattenitori video; maestre che non sapevano accendere il tablet e dopo un mese montavano contenuti multimediali; non che sia tutto filato liscio, anzi, ma chi si poteva immaginare una cosa del genere, anche solo una settimana prima? La Didattica a Distanza nel marzo 2020 non esisteva, nell'aprile dello stesso anno era già una serie di pratiche condivise; e tutto questo era successo, attenzione, senza nessun supporto dall'alto. Il ministero non aveva nessuna idea di cosa farci fare (né mi pare che se la sia fatta venire nel frattempo); se in giro c'erano esperti di didattica e di digitale ansiosi di condividere le loro esperienze io ammetto di non averli visti, ero troppo preoccupato a spiegare come usare Classroom mentre imparavo a usarlo anch'io. 

Del resto la scuola è così, no? Quanto tempo ci abbiamo messo ad abituarci al registro digitale? Nessun tempo, un anno era fantascienza e l'anno dopo lo usavamo tutti. Insomma per essere un pachiderma – e non c'è dubbio che lo sia – la scuola italiana ha dimostrato una certa elasticità, e dei riflessi notevoli: del resto anche gli elefanti, quand'è ora di scattare lo fanno, e in quei casi è meglio non trovarseli davanti. È successo qualcosa di eccezionale in questi mesi, che non ha paragoni con nessun altro settore: persino il personale sanitario, il cui sforzo è stato senz'altro superiore a quello dei docenti, non ha dovuto imparare di punto in bianco un nuovo modo di fare il proprio mestiere. Noi insegnanti sì, e sarebbe stata una notizia se ci fossimo riusciti senza incidenti – ma aspetta, tutto sommato di incidenti ce ne sono stati abbastanza pochi. Quindi il bilancio è positivo, dai. 

Non resta che avvisare Baricco. 

Secondo Baricco infatti la scuola ha dimostrato, nell'occasione della pandemia, i suoi tragici limiti novecenteschi. Bisogna premettere che da qualche libro a questa parte Bar ha deciso che lui è già nel secolo successivo (del resto già abbondantemente iniziato), e quindi lui la scuola non la critica come un Galli Della Loggia qualunque, no, no, lui ha una visione contemporanea, lui critica i fenomeni statici in nome di un perenne divenire che pare faccia molto Secolo Vigesimoprimo, e quindi... e quindi quando critica la scuola non ha in mente quella che in dodici mesi ha fatto un pazzesco balzo in avanti tecnico e organizzativo senza che nessuno lo sollecitasse tranne studenti e genitori, no: lui quella non l'ha neanche vista. Lui ha in mente la fottuta scuola gentiliana di Galli Della Loggia, quella che ha frequentato lui con le declinazioni e le equazioni che negli anni '60 lo annoiavano e quella noia ancora se la ricorda. 

Per dimostrare questa cosa basta usare la solita cartina al tornasole, sempre la stessa: Baricco ha un'idea di scuola così aggiornata che se la prende coi programmi ministeriali, signore dio, Baricco è l'ennesimo intellettuale che prima di pubblicare il suo fervorino sulla scuola non si preoccupa di controllare se putacaso questi programmi esistano o no, e per l'ennesima volta tocca rispondere a vuoto che no, signori, in questa cosa che voi vorreste riformare sistematicamente da vent'anni ci lavoro da altrettanti venti e i programmi ministeriali non li ho mai visti, dal momento che sono stati aboliti ancora prima; tutto il perenne divenire che Baricco si immagina ancora da realizzare (e quindi fighissimo) esiste da più di trent'anni e si chiama autonomia scolastica, per un po' si è chiamato POF, adesso invece si chiama PTOF e in effetti non suona affatto fighissimo, come capita del resto a qualsiasi rivoluzione quando si realizza.

Se poi Baricco ci voleva dire che il latino del liceo ha un po' stancato, per carità: sfonda una porta aperta (non perché il latino non sia una degna materia, ma perché al liceo non lo insegnano un granché). Ma il motivo per cui si fanno determinati argomenti in determinati mesi dell'anno non sta scritto in nessun documento ministeriale. È semplicemente una prassi, che deriva dall'abitudine dell'insegnante che ogni anno si misura con le difficoltà degli studenti, le attese dei genitori e le proposte dei libri di testo (i quali non fanno che rielaborare le stesse prassi consolidate). Ovvero nella maggior parte dei casi il motivo per cui si insegna la tal cosa piuttosto che un'altra è che funziona, e che se a un certo punto funzionasse qualcosa di diverso i primi a farlo notare sarebbero gli studenti, non Galli Della Loggia; i primi ad accorgersene sarebbero gli insegnanti, non Baricco; e anche i libri di testo arriverebbero molto più svelti perché c'è una certa concorrenza nell'ambiente (non è mica quella intellettualosfera sonnacchiosa dove prosperano Galli Della Loggia o Baricco). 

Se per un attimo qualche eroico XXIriformatore della scuola si abbassasse a orecchiare i discorsi che effettivamente nelle scuole si fanno, scoprirebbe che è tutto molto meno cementato di come se lo immagina lui; che il cemento e le putrelle sono più negli occhi di chi guarda. Ad esempio negli ultimi anni tra primarie e secondarie non si fa che parlare di coding, tutti vogliono insegnare e imparare il coding. Vent'anni fa non è che non ci fosse la stessa esigenza (anche se si chiamava forse "programmazione"). E probabilmente la maggior parte del coding che si insegna in questo momento a scuola, scopriremo tra qualche anno, non è nemmeno utile: è quel che succede con le mode. Il che però significa che le mode ci sono, che a scuola si cerca continuamente di adattarsi al nuovo, commettendo milioni di errori che se fossimo davvero così cementati almeno non commetteremmo. Se ne potrebbe parlare all'infinito, di quanto sia volubile la sostanza dei dibattiti sulla didattica: se quella per competenze costruisca davvero competenze, eccetera. Questo dibattito al massimo ce lo facciamo tra noi insegnanti, perché appena arriva un'onda lunga all'opinionista lui si mette sempre a travisare tutto; togliamo i voti alle elementari, lui capisce che abbiamo messo le faccine; adoperiamo un test per la valutazione nazionale, lui capisce che stiamo valutando gli insegnanti; capitasse mai una volta sola un tizio sul giornale con delle idee sulla scuola che non risalgano al massimo al 1988, cioè quando la frequentavo io e probabilmente anche lui.

Noi nel frattempo siamo qui che ci industriamo con la più grande emergenza mai vissuta da quando è nato il sistema educativo nazionale: abbiamo tenuto aperto le scuole dell'obbligo per cinque mesi malgrado non fossero sicure, e ora che abbiamo dovuto chiuderle stiamo letteralmente smontando i computer dalla aule per prestarle ad alunni che non hanno hardware in casa; continuiamo a cambiare gli orari per adattarli alle esigenze di studenti e genitori; continuiamo a far lezione malgrado tutto. Per Baricco siamo in agonia strutturale, ma per favore. Lui non capisce come mai si faccia educazione fisica a distanza. Probabilmente ai suoi tempi educazione fisica era la partita a calcetto; vagli a spiegare che da anni alle medie il prof di educazione fisica ti interroga sui regimi alimentari. Se solo avesse gli occhi sgombri da putrelle potrebbe contemplare lo spettacolo di un'istituzione di dimensioni nazionali che si sforza con ogni sua energia ad adattarsi a una società che cambia, ma siccome non è fighissima come nei suoi sogni... non va bene. Ok Baricco, fattene una tutta tua, falla supercool e vendila ai tuoi lettori benestanti. Sono onestamente curioso di vedere cosa insegneranno di più elastico ed efficace della matematica. Ora scusa mi scrivono su Classroom.

mercoledì 17 marzo 2021

Un aviatore irlandese intravede la morte



E so che il mio destino ho da incontrare
lassù, fra i nembi del cielo profondo:
quelli che attacco, io non li so odiare,
né posso amare quelli che difendo.

Kiltartan Cross, la mia sola bandiera;
la plebe di Kiltartan, la mia gente:
se vinco non la renderò più fiera;
perdendo, non la spoglierò di niente.

Non lotto per la legge o per dovere,
non seguo un duce, né folle plaudenti;
un solitario impulso di piacere 
mi guida in cielo a quei combattimenti.

Tutto ho rivisto, tutto ho soppesato:
mi parve spreco d'aria la mia sorte,
un grande spreco d'aria il mio passato,
davanti a questa vita, a questa morte.

martedì 16 marzo 2021

Il Partito-Bomba di Enrico Letta

Il PD non è il primo partito nato intorno a un paradosso, e neanche il più interessante: abbiamo avuto partiti rivoluzionari e istituzionali, partiti socialisti e nazionalisti, di lotta e di governo, moderati ma eversivi. Col PD ci è toccato più banalmente un partito a vocazione maggioritaria che governa l'Italia, e continuerà a farlo, soltanto fin quando il maggioritario in Italia non ci sarà. Nel momento in cui si verificherà finalmente la Rivelazione tanto invocata a partire (ahimè) da Romano Prodi, il PD verrà sconfitto per sempre. Alcuni suoi leader in particolare sembrano aver dato per scontato che la loro missione fosse condurre il PD a quel sacrificio finale: Renzi, lo stesso Zingaretti, sono parsi a volte succubi di un vero e proprio cupio dissolvi – è come se nella stanza dei bottoni ci fosse una bomba che ticchetta da anni. Chiunque entra dentro, qualsiasi concezione della politica si porti da casa, a un certo punto sembra soltanto desiderare che arrivi il bang finale, che cessi lo straziante ticchettio. Adesso tocca a Enrico Letta, uno che non si può neanche dire che passasse di lì per caso – no, no, aveva addirittura cambiato Paese, e sono andati a riprenderselo. Perché proprio lui? 

Sono quelle domande che non ha senso porre a un conclave. Magari all'inizio un'idea c'era – ma mancava l'uomo – poi hanno iniziato a far la conta degli uomini e nel frattempo l'idea è sfumata. Nota che in teoria questo dovrebbe essere il grande partito del centrosinistra a vocazione maggioritaria, nota che in teoria dovrebbe essere un apparato leggero, in sostanza il comitato elettorale di un grande leader carismatico, e che proprio per questo motivo lo statuto prevedeva l'acclamazione del segretario mediante primarie. Le facciamo le primarie per acclamare il carisma di Enrico Letta? No, probabilmente siamo ancora esausti dall'entusiasmo con cui abbiamo acclamato il carisma del fratello di Zingaretti, e inoltre un codicillo dello stesso statuto stabilisce che se il Grande Leader Carismatico a un certo punto non se la sente più, la palla passa a un organo nazionale anch'esso in teoria eletto durante le primarie ma ehm, alzi la mano chi si era reso conto che lo stava eleggendo, insomma il paradosso regna: il PD è un partito maggioritario che però appena cade il paravento del leader svela una più sobria e ragionevole carrozzeria proporzionale – Letta lo hanno eletto le correnti, che in teoria non ci sono e in pratica sono l'unica cosa che tiene ancora assieme il PD, come gli odi intestini e le alleanze tra nemici dei nemici sono l'unica cosa che riunisce certe famiglie per le feste comandate. Questo non sarebbe nemmeno un grande problema, senonché è previsto che Letta abbia delle idee, una visione: e questo nonostante nessun elettore del PD abbia previsto negli ultimi cinque anni (ma anche prima...) di affidarsi alle idee e alla visione di Enrico Letta.


Curiosamente queste idee e questa visione Enrico Letta ce le ha, non deve pescarle dal solito repertorio di luoghi comuni. E quindi potrei parlare di queste, e spiegare le affinità e le divergenze fra il compagno Letta e me. Non posso non dimenticare che fu lui il primo e l'unico ad avere il coraggio di promuovere i diritti di cittadinanza dei nuovi italiani non solo a parole, ma nominando una ministra italoafricana, Cécile Kyenge. Da quel momento Letta diventa per l'opinione pubblica italiana l'uomo dello ius soli, un destino dal quale non si è sottratto neanche col suo discorso d'insediamento (questo malgrado negli ultimi anni la stessa Kyenge avesse cambiato formula, parlando di "ius soli temperato" o di "ius culturae"). Si trattava di una riforma necessaria, che il successore di Letta non ebbe il coraggio e il senno di portare a termine. Oggi la vita di molti nostri concittadini sarebbe migliore, e gli stessi sproloqui di un Salvini o di una Meloni sarebbero più guardinghi, perché alla fine i voti dei neoitaliani farebbero gola anche a loro. Oggi la situazione è molto cambiata riparlare di ius soli sa ormai di provocazione: ciò non toglie che il principio sia giusto e dovrebbe bastare a fare di me un convinto enricolettiano. 

Ma poi c'è quella sciocchezza del voto a sedici anni. 

Sulla quale io in realtà non ho nemmeno un'opinione così forte – non mi sembra il caso, tutto qui, non ne vedo la necessità; se evitassimo di rendere i licei un campo di battaglia elettorale ci faremmo tutti quanti un favore perché non so se vi ricordate, ma quando Salvini parlava di mettere le videocamere a scuola, non intendeva garantire che nessuna merendina fosse più estorta, ma voleva vigilare sui discorsi degli insegnanti ai ragazzi. Ma il punto non è tanto questo: il punto è che... perché dobbiamo parlarne? Una cosa che non interessava a nessuno all'improvviso deve tornare a essere dibattuta perché è un pallino di un tizio eletto durante un faticoso conclave di correnti? Praticamente abbiamo preso il peggio dal sistema maggioritario (il leader che impone le sue idee) e il peggio del proporzionale (la farraginosità dei meccanismi con cui persone rimaste ai margini tornano all'improvviso alla ribalta, e ci va grassa che Forlani non fosse più disponibile). 

Poi c'è il due per mille.

Voi ve lo siete dimenticati, ma io no. Enrico Letta è stato il capo del governo che ha in sostanza abolito il finanziamento ai partiti, trasformandolo in un un obolo che il contribuente può decidere se offrire o non offrire – indovinate cosa sceglie di fare la maggioranza della popolazione. La stessa maggioranza della popolazione che poi si lamenterà dell'inconsistenza del ceto politico e dell'opacità con cui si sostiene. Se un Matteo Renzi non ci vede neanche più niente di male a finanziarsi adulando sovrani sanguinari, è anche merito di Enrico Letta che condivideva questa idea così affascinante nei primi anni Dieci, del politico abile fundraiser che si muove saltellando tra fondazioni e board e consulenze e aiuti degli amici, sempre in teoria trasparentissimi ("è tutto on line!") Nel frattempo il partito vero continua a perdere dipendenti e strutture e non ha neanche i soldi per stampare i manifesti ma non importa, tanto ormai le campagne si fanno coi tweet, perlomeno quelle disastrose. Enrico Letta è l'ennesimo leader convinto che in questa situazione il Pd possa giocarsi le elezioni contro partiti fondati e/o sostenuti da potenti gruppi finanziari: e ovviamente le elezioni devono essere maggioritarie, magari col mattarellum che a Enrico Letta piaceva molto. Invece alla Corte costituzionale risultava incostituzionale, ma cosa volete che ne sappiano. Nel frattempo il parlamento è cambiato, ha perso tantissimi seggi, il che renderebbe la distorsione maggioritaria ancora più sensibile (e disastrosa per il Pd), ma Letta è l'ennesimo leader che da quell'orecchio non ci sente, vien da pensare che li selezionino con un esame audiometrico. Oppure sta già sentendo la bomba ticchettare, sta già pensando quale cavo tagliare per farla finita prima. 

domenica 14 marzo 2021

Il giornalista italiano è lo scemo sull'aereo che grida: Moriremo tutti

Due giorni fa ho ricevuto una telefonata della mia medica di base, che con molta serenità e molto tatto mi avvisava di essere uno dei centomila e più vaccinati a cui era stata inoculata una dose di Astrazeneca del lotto sotto indagine in seguito ad alcuni decessi. Mi chiedeva se avessi avuto qualche sintomo: io in effetti avevo patito un mal di testa il mattino dopo, ma bisogna anche dire che era la settimana di Sanremo. 

Preso da qui. La "paura in Europa" che nei principali quotidiani europei non esiste.


Mi spiegava che a dispetto dell'allarmismo suscitato dai media, non c'era molto di cui aver paura, e mi ha fatto piacere, perché un po' di paura ne avevo. Non per una trombosi che a quel punto sicuramente non avevo avuto (mi ero vaccinato una settimana prima), ma che il vaccino fosse difettoso e che quindi dovessi rifarlo; 

e dell'umore di mia madre che già da qualche giorno era in pensiero per me a causa dell'allarmismo sprigionato dalla tv; 

e per le migliaia di italiani (tra cui molti miei colleghi) vittima della stessa preoccupazione, che nel frattempo stavano decidendo di non vaccinarsi. 

Ancora più in generale, ero preoccupato di vivere in una nazione in cui giornali e telegiornali non conoscono più altro modello che non sia quello dei peggiori tabloid, e che in un'emergenza del genere insistono a recitare il ruolo del tizio sull'aereo che urla: moriremo tutti. 

(Particolarmente avvilente il destino del quotidiano che era Repubblica). 

Prima o poi finirà questa epidemia, perché le epidemie prima o poi finiscono – se la gente fosse incoraggiata a vaccinarsi finirebbe prima, e in altri Paesi moderni sarà così. Prima o poi finirà anche da noi: ma i giornalisti, quelli li avremo sempre. In teoria ne avremmo persino bisogno. Forse è ozioso continuare a domandarsi di chi è la colpa: un po' di tutti, forse di Berlusconi più che di altri, ma non sarà il caso di cominciare a porsi il problema: cosa ce ne facciamo di una mediasfera così? Una cosa che ci dà più emozioni che informazioni, e anche le emozioni sono tutte cattive? Esiste una cura, un vaccino da somministrare a persone convinte di essere giornalisti e non pubblicitari alla giornata – oggi paga Johnson & Johnson, domani si vedrà? Con chi le sostituiamo? Eccetera. È un problema enorme, ma se non lo risolveremo staremo più male e moriremo di più.

martedì 9 marzo 2021

L'annosa questione del dentisto

Io poi lo so che il patriarcato è esistito e tuttora resiste, e negarlo, oltre che ipocrita, sarebbe anche di pessimo gusto; e tuttavia a volte mi sembra un bersaglio troppo facile – ma non è neanche questo il problema, non c'è niente di male a indicare bersagli facili – ma se in alcuni casi fosse il bersaglio sbagliato?

La Repubblica. Che poi spaccare i social mi sembra sempre una cosa ottima.

So anche che molti maschi su questi argomenti non ragionano. Cominciano a veder rosso, a indignarsi a caso, a fabbricarsi competenze linguistiche raccattate sonnecchiando al liceo. I peggiori fanno le battute, e sono sempre le stesse battute da quando ero piccolo. Ero piccolo nel secolo scorso e già "dentisto" non faceva ridere, cogliono, "dentista" è già maschile. Lo so. 

Quante cose che so. 

Lavoro da tanti anni e ho avuto tanti capi. Alcuni uomini, altri erano donne. Con gli uomini è semplicissimo, si chiamano dirigenti. Se volevo sottoporre qualcosa alla loro cortese attenzione, era sempre la cortese attenzione del dirigente. Facile, naturale, svelto. 

Con le donne c'è sempre il piccolo problema. Che per carità, è un'inezia davvero. Ma proprio perché è un'inezia, non si risolve mai, come quel piccolo bottone scucito. 

Il dirigente o la dirigente? E fin qui, basta chiedere. (E infatti glielo chiedi, ma siccome è un'inezia dopo un po' ti scordi come ti ha risposto. Ma non osi richiedere, e vivi nell'angoscia. Cioè non è vero, magari fossero questi i motivi per angosciarsi al suo cospetto. Ma c'è sempre questo disagio, questo bottone che non è al suo posto e lo sai, e preghi che non ci facciano caso).

(Dirigenta non fa ridere, cogliono).

Ma senti questa: fino a qualche anno fa, d'estate al/alla dirigente subentrava il presidente della commissione d'esame, che spesso era una donna, e quindi: egregio presidente, egregia presidente, o egregia presidentessa? Lo so che è una sciocchezza, ma insomma, quale usare per non dare una cattiva impressione?

A questo punto lo so cosa mi state per rispondere: basta chiedere. Ma certo, ma infatti, che male c'è. Ho forse paura in quanto maschio di chiedere a una superiore donna (superiora?) come vuole essere chiamata? No, in coscienza no, passo la vita a chiedere cose alle donne che stanno sopra, sotto, intorno, non è un problema chiedere. Ma ecco, il problema è che chiedere alla volta diventa pretendere. Abbiamo questo problema del genere dei sostantivi professionali e vogliamo che siano le donne a decidere. Tante volte mi sono sentito pensare: le donne dovrebbero finalmente mettersi d'accordo. Facciano la loro assemblea generale, la costituente, decidano una volta per tutte se il rettore o la rettore o la rettrice o la rettora. Insomma si mettano d'accordo e decida il matriarcato, almeno su questo specifico argomento.

Ma perché dovrebbero mettersi d'accordo? Perché dovrebbero avere sull'argomento opinioni meno contrastanti di quelle dei maschi? Abbiamo mai preteso dai maschi una simile compattezza? Abbiamo mai chiesto a un pilota se preferiva chiamarsi piloto, come se il fatto di essere bravo a guidare un'automobile gli conferisse una qualche autorità linguistica(*)? No, i maschi si sono trovati la lingua già tagliata a loro misura. Invece appena una donna si fa strada nella sua categoria, pretendiamo che s'improvvisi linguista. Ecco, se c'è ancora qualcosa di davvero patriarcale, in tutta questa faccenda, forse è la nostra pretesa di avere una risposta precisa, da un'entità collettiva femminile che dovrebbe cucinarci e servirci una soluzione bella e pronta, qualsiasi soluzione andrebbe bene. E quindi insomma donne, rispondete: il direttore, la direttore o la direttrice? (direttora non fa ridere), (e comunque il femminile di cantore è davvero cantora). 

Le donne però non sempre ne hanno voglia – è un problema? Ti rispondono: faccia lei. 

È una risposta tremenda. 

"Commissario o commissaria?" "Faccia lei".

Ma cosa devo fare, scusi. Perché mi tocca decidere una cosa così. Su che fondamenta linguistiche o storiche o sociali devo decidere lì per lì se sei un commissario o una commissaria, una figura che poi io spero sempre d'incontrare poche volte all'anno, mentre lei è commissaria/o molto più spesso, non può deciderlo lei? Anzi, non potete decidervi una volta per tutte?

No. 

No perché?

Perché non è così che funziona la lingua. Specie in Italia. Non c'è nessun parlamento che legifera, nessuna corte suprema che sentenzia. La lingua è libera, la gente s'immagina da qualche parte un consesso di grammatici occhialuti che borbotta su che misure adottare per respingere petaloso, e invece è tutto il contrario, i grammatici sono naturalisti estrosi in giro per i prati ad acchiappare neologismi effimeri e pittoreschi col retino di farfalle. Ti verrebbe voglia di agguantarne uno per il collo, senta adesso lei mi dice se il mio boss è un dirigente o una dirigente, e se mi denunzia mi devo trovare un avvocato o un'avvocato con l'apostrofo o un'avvocata o un'avvocatessa. Ma niente, quelli alzano le spalle, non spetta a noi, sarà l'uso a prevalere come sempre, e cioè?

Cioè continueremo a litigare su questa cosa per generazioni e generazioni, e a usare questo argomento come pretesto polemico persino quando a Sanremo non c'è un Morgan a dare di matto. E qualcuno continuerà a scrivere "dentisto" 🤣🤣🤣🤣 voglio morire. 

E quindi, ricapitolando: il femminile di direttore non può deciderlo una donna tra tante (con che autorità?), e sarebbe ingiusto pretendere che lo decidesse una comunità femminile (forse che abbiamo aspettato che si riunisse una comunità maschile per i nomi maschili)? Si può chiedere ogni volta a ogni singola professionista come vuole essere chiamata, ma è faticoso per noi e anche per lei, anzi è proprio quella piccola fatica che ti fa sospettare che il mondo del lavoro non sia a misura delle donne, come le forbici non sono a misura dei mancini. C'è una soluzione? Continuare a discuterne finché un'opinione prevarrà sulle altre. Sì, ma quale opinione dobbiamo avere noi? Quale opinione devo difendere io?

Non lo so. 

Mai detto di sapere tutto, eh.


(*) "Un'automobile" a quanto pare si scrive in italiano con l'apostrofo perché Agnelli non sapeva bene come scriverlo e lo chiese a D'Annunzio, il quale lì per lì decise che siccome il pilota è un uomo, l'automobile aveva da esser femmina; ecco, di tutte le persone al mondo alle quali potevamo concedere di legiferare in materia linguistica, proprio Agnelli e D'Annunzio, certe volte io dico "macchina" dalla rabbia.