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sabato 25 dicembre 2021

Non è più tempo per i Rashomon

The Last Duel, (Ridley Scott, 2021).

Normandia, 1386: si disputa l'ultimo duello giudiziario della storia francese. Il cavaliere Jean de Carrouges accusa l'ex compagno d'armi, Jacques Le Gris, di aver violentato sua moglie, Marguerite. Le Gris sostiene di avere avuto con la moglie di Carrouges un rapporto consensuale. La moglie invece sostiene... no, la moglie non 'sostiene': la moglie dice il vero. Fine. Non è che possiamo metterci lì a mettere in dubbio quel che dice una donna. Non siamo mica nel Medioevo... 

Ma che ci vedono le donne in Adam Driver, bisognerebbe fare una ricerca seria su questa cosa

Caro Babbo Natale, quest'anno vorrei la pace del mondo, la salute per tutti e un film sul Medioevo decente da proiettare in seconda media – prima di sbuffare, prova a dirmene uno. Visto? No, i draghi non valgono, no, nemmeno i cicli arturiani. Un film per mostrare ai ragazzi un mondo vero, che è esistito e che sicuramente era molto diverso dal nostro, ma in un qualche modo funzionava, coerente, verosimile: castelli, armature, servi della gleba, vorrei solo conservare in un angolo del loro immaginario un po' di arnesi medievali perché – non lo so neanche io il perché, ma in un qualche modo non mi sembra onesto lasciare che crescano senza. Non chiedo un capolavoro; anche solo un film a colori che abbia più senso delle Crociate di Ridley Scott, perché davvero lo so anch'io che fa acqua da tutte le parti: ma trovami qualcosa di meglio nella filmografia degli ultimi trent'anni. E lo so bene che Scott si intende poco di Medioevo  – come d'altronde di qualsiasi evo: alla fine per lui è quasi sempre tutto un grande western con la Frontiera e i pistoleri che si vede che patiscono di non poter estrarre il revolver, di doversi vestire di ferro e sguainare ancora scomode spade – ma almeno sa mettere insieme uno spettacolo. Come dici?

Sì Babbo, lo so che ci ha riprovato anche quest'anno, l'ho visto l'Ultimo duello e mi dispiace che sia andato così male, in un qualche modo il Medioevo a Sir Scott porta sfiga ed è strano: di tanti posti dove ambientare un western sembra uno dei più congeniali al suo gusto per la meraviglia. L'abbiamo sempre saputo che per Hollywood la Storia è un fondale per mettere in scena in modo pittoresco i problemi di oggi: non è esattamente l'approccio storico che mi servirebbe, ma ha il pregio di tenere svegli anche gli spettatori che non siano patiti di cavalli e armature. Scott non dà l'aria di interessarsi di politica, eppure più i suoi film sono in costume, più le sceneggiature si ingombrano di ideologie. Il Gladiatore era il film perfetto per l'America imperiale post 11 settembre (è stupefacente che sia uscito l'anno prima); le Crociate per reazione s'intestardivano a immaginare un Regno dei Cieli multietnico e multiconfessionale. The Last Duel, vent'anni dopo, è un film su #meetoo e la rape culture così concentrato sul suo essere un film su #metoo e la rape culture che in certi punti lo spettatore esigente è portato a domandarsi: ma sul serio? Cioè mi stai davvero raccontando questo, in senso non ironico? Ecco: è un film senza ironia, una qualità che a Hollywood sta diventando merce sempre più rara e pericolosa.

The Last Duel vuole dire qualcosa di molto vero e attuale e vuole dirlo senza il minimo rischio di essere frainteso. Lo fa scomodando vicende di un secolo diverso, vissute da persone i cui valori erano molto diversi dai nostri – e pazienza: Hollywood si è sempre comportata così e forse è l'unico modo per portare nel Medioevo un po' di spettatori che non si farebbero attirare da un caso di cronaca medievale. Alla fine chiunque avrà imparato qualcosa: anche solo il fatto che a un certo punto del Medioevo i medici ritenessero l'orgasmo femminile necessario al concepimento ("It's science!": e tutto questo diversi secoli prima che altri medici, tra Sette e Ottocento, negassero la stessa esistenza dell'orgasmo femminile).

Dopodiché, caro Babbo, capisci anche tu che un film sullo stupro con un dibattito processuale sull'orgasmo, in seconda media, non lo posso mostrare. Ma sarei comunque contento di averlo visto. Il problema è un altro e te lo dico, caro Babbo, sir Scott stavolta non c'entra niente. Sì è più cupo del solito, certi tagli sono evidenti, il ritmo non è il massimo, ma gli perdonerei questo e altro. I colpevoli che non riesco a perdonare sono Ben Affleck e Matt Damon, che non paghi di aver voluto tirar fuori da un saggio di Eric Jager un blockbuster militante, hanno anche deciso di scomodare Rashomon. Proprio così, hanno voluto consegnarci il loro Rashomon, e magari sono persino convinti di esserci riusciti: il loro film problematico con tre versioni inconciliabili della stessa storia secondo i punti di vista di tre personaggi in conflitto. E i critici non si sono fatti sfuggire la cosa – anche perché ci sono persino le didascalie prima di ogni versione, insomma basta saper leggere le scritte grosse e alcuni sembra ne siano ancora in grado, sicché abbiamo veramente delle recensioni in cui The Last Duel è paragonato a Rashomon.

Lui però si ritaglia sempre la parte giusta

Ora Babbo capiscimi, non si tratta di snobismo. Non ne faccio una questione tecnica, ma insomma Rashomon è un film che ci vuole dire che la realtà oggettiva non esiste, che ognuno ha la sua e che lo spettatore non necessariamente riuscirà a ricomporne una. È l'esatto contrario di quel che succede nell'Ultimo Duello, dove dopo aver sentito la campana del cavaliere Carrouges e quello di Jacques Le Gris, la didascalia ci avverte che tocca alla signora, e che la sua verità è "La Verità". Non lo dico io, Babbo, c'è proprio scritto così sullo schermo, affinché nessuno possa confondersi sulla morale del film: e la morale è che gli uomini si raccontano tante palle, per orgoglio o per invidia o persino per amore (ma più spesso per orgoglio e per invidia); le donne invece no, le donne dicono sempre la verità, tranne ovviamente quando non mentono per non finire sul rogo arrostite a fuoco lento. Dopodiché Scott può filmare castelli e armature con tutta la maestria che gli compete, ma l'impianto non funziona, e qui suggerisco a chi vuol vedere il film di non leggere oltre, perché... non so prendiamo Le Gris.

Il film ci spiega, con la sua manina leggera, che Le Gris è cresciuto in un sistema di valori che non gli consente di riconoscere uno stupro, nemmeno quando lo commette. Quando nella sua versione Marguerite fa resistenza, Le Gris è convinto che stia recitando un rituale di corteggiamento. E siccome in quel momento stiamo guardando la scena con gli occhi di Le Gris, dovremmo appunto vedere una Marguerite che vuole e non vuole, che civetta un po', una Marguerite cedevole che infine si concede all'amplesso. Se questo film fosse un vero Rashomon, dovremmo appunto assistere a questo: ma la vera notizia che porta al mondo il nuovo film di Ridley Scott è che i Rashomon in America non si possono più fare – e dire che fino a qualche anno fa erano quasi un tropo, molti telefilm avevano la loro puntata-Rashomon, House MD sicuramente ne ha una e persino Saranno Famosi – ma adesso no, adesso se vedessimo Marguerite concedersi e gioire potremmo equivocare. Qualche spettatore/trice sicuramente equivocherebbe, voglio dire, è statistica, e poi i Rashomon implicano appunto questo, che ognuno possa scegliere la versione che preferisce: ma ciò oggi è intollerabile, qualcuno twitterebbe che Ridley Scott ha girato un film che esalta la cultura dello stupro; che Affleck e Damon l'hanno scritto, che Driver l'ha recitato: insomma no, non si può fare, non è più tempo per i Rashomon, e così ci tocca guardare questa scena molto imbarazzante dove Le Gris vive il vertice della sua storia d'amore mentre ansima sulla schiena di una poveretta che nemmeno è riuscito a svestire. Non c'è nulla di veramente problematico qui, non c'è spazio per il dubbio che anzi va scacciato e al massimo individuato nei personaggi come una debolezza da debellare: le vittime sono serie, integerrime e sofferenti, i rei sono patetici. Alla fine il vero colpevole è il Medioevo: e la sua colpa è di non voler credere alle donne. E Babbo io non è che voglia difendere il Medioevo a ogni costo, lo so che era un periodo terribile per le donne, ma i film che condannano il passato in quanto passato ho sempre paura che servano a distogliere dalle responsabilità del presente.

Rashomon ci chiedeva di accettare che ogni Verità è parziale; l'Ultimo Duello ci nomina giudici onniscienti, davanti a due uomini che hanno deciso di scannarsi per contendersela. Alla fine, caro Babbo, quel che mi lascia è un po' di freddo amaro in bocca, per aver voluto controllare se davvero il cattivo viene punito come nel mio cuore avevo già desiderato. Ci sono anch'io sugli spalti, col sadico re di Francia. Mi dispiace Babbo, perché non è nemmeno un brutto film. Ma non è quello che mi serve.

venerdì 24 dicembre 2021

Auguri di stagione


Buone feste a tutti! Non sono scomparso, sto abbastanza bene, mi sono ri-vaccinato e dopo 12 ore ero a posto, vaccinatevi tutti. Avrei persino tante cose da scrivere ma non riesco a metterle in fila – fino a ieri la priorità era mettere in fila nove insegnanti in nove classi per trenta ore a settimana, pescando tra quelli che non erano a casa malati o in quarantena o in coda per vaccinarsi. 

Non credo di dover ripetere che le scuole non sono un ambiente sicuro, riguardo a un virus aereo: non lo erano l'anno scorso e senz'altro non lo sono diventate quest'anno, visto che non è stato speso un solo euro in più per renderle tali. In compenso da qualche parte tra Governo e Regioni si è stabilito che il vero pericolo per i nostri studenti è la Didattica a Distanza: non so spiegarmi altrimenti il mistero di classi intere che, messe in quarantena qualche giorno fa, sono state riammesse a scuola ieri, ultimo giorno prima delle vacanze: giusto il tempo di abbracciare i compagni nei corridoi e scambiarsi saluti e saliva. L'ultimo giorno, ripeto, con un terzo del personale ormai assente, in una fase in cui in qualsiasi altro mese la curva dei contagi ci avrebbe fatto chiudere da una settimana. A quanto pare salvare il Natale è una necessità sociale che viene molto prima di altre – il diritto alla salute, la butto lì. 

Tanto più mi riesce difficile suonare sincero mentre auguro buone feste a tutti voi: anche quest'anno il Grinch è stato sconfitto, i giornali di destra ci hanno messo un po' a trovarlo ma alla fine sono riusciti a recuperare una direttiva della Commissione europea che consigliava di usare un linguaggio più inclusivo e sconsigliava di definire il nome di battesimo come "Christian Name", e tanto è bastato per rispolverare la minaccia del Presepe assediato dai senzadio. È tutto così rodato, ormai, così automatico, che anche quando provo a intervenire non mi sembra di interagire più con esseri umani: piuttosto giocattoli a molla. Facciamo che me ne sto col caldo buono e le quattro capriole di fumo, e ci risentiamo più in là. 

(Ah, nel frattempo su Facebook ho messo in piedi quel torneo di canzoni dei Beatles, un'idea scema che mi ossessionava da tre anni: per chi vuole si trova qui).

venerdì 10 dicembre 2021

S C I O P E R O

 

𝗦𝗖𝗜𝗢𝗣𝗘𝗥𝗜𝗔𝗠𝗢 perché in Legge di Bilancio ci sono 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝟴𝟳 𝗲𝘂𝗿𝗼 di aumento per il nuovo contratto e 12 euro per la valorizzazione del personale docente, legati per di più alla dedizione scolastica. Perchè è di quasi 𝟯𝟱𝟬 𝗲𝘂𝗿𝗼 𝗹𝗮 𝗱𝗶𝗳𝗳𝗲𝗿𝗲𝗻𝘇𝗮 attuale tra il resto del personale della PA con pari titolo e il personale della scuola. Perchè ci sono 𝗭𝗘𝗥𝟬 risorse per la proroga dei contratti ATA sul cosiddetto organico Covid. E 𝗭𝗘𝗥𝟬 risorse per l'incremento degli organici docenti e Ata. Non ci sono misure per la riduzione del numero di alunni per classe. 𝗡𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻 𝗰𝗼𝗻𝗰𝗼𝗿𝘀𝗼 𝗿𝗶𝘀𝗲𝗿𝘃𝗮𝘁𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗶 𝗗𝘀𝗴𝗮 facenti funzioni e assenza di risorse per eliminare le reggenze. Restano i vincoli sui trasferimenti del personale docente e Dsga neo immesso in ruolo. Nessuna misura per lo snellimento amministrativo e burocratico. 𝗡𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻𝗮 𝗶𝗻𝗶𝘇𝗶𝗮𝘁𝗶𝘃𝗮 𝗽𝗲𝗿 𝗱𝗮𝗿𝗲 𝗳𝗶𝗻𝗮𝗹𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝘀𝘁𝗮𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮̀ 𝗮𝗹 𝗹𝗮𝘃𝗼𝗿𝗼, partendo da un sistema strutturale e permanente di abilitazioni partendo da un sistema strutturale e permanente di abilitazioni.

𝗢𝗥𝗔 𝗕𝗔𝗦𝗧𝗔. Il 10 dicembre la scuola si RIBELLA e SCIOPERA

mercoledì 8 dicembre 2021

Nel cervello di un novax, 2: niente spazio per i lupi

(Per chi si fosse perso la puntata precedente: i novax non sono alieni; gran parte dei loro ragionamenti sono coerenti e conseguenti. Studiare quello che pensano è un modo di verificare anche quello che pensiamo noi. Non è che dobbiamo andare d'accordo, ma almeno capire cosa ci divide sul serio).

FALLACIA DEL LUPO (conosciuta anche come paradosso del runner)

We few, we happy few, we band of brothers...


Di questa abbiamo già parlato, perché la trovo la più interessante e anche la più diabolica. Io, devo confessarlo, ho un debole per i vaccini, che il covid mi ha permesso di esprimere senza più pudori: ma li adoravo già prima perché mettono la società davanti alla sua natura comunitaria. Un vaccino, da solo, non serve a niente: il vaccino ci protegge soltanto in quanto gregge, e quindi ci costringe a ragionare da gregge. Al novax questo non va: lui si ritiene un lupo – ma cos'è un lupo? Dal punto di vista del gregge, è un parassita. Il lupo campa finché ci sono greggi. Molti lupi lo sanno benissimo e non hanno obiezioni reali contro i vaccini, finché li fanno gli altri. Lui però non vuole farlo: il gregge lo dovrebbe tutelare in quanto minoranza. Il gregge non ne vuole sapere, e questo lo scandalizza, al punto di portarlo talvolta a invocare un processo di Norimberga contro questo gregge che non ha più rispetto per i legittimi istinti di un lupo. 

Questa fallacia si esprime di solito in forme ormai riconoscibili a distanza: non solo perché la maggior parte dei novax (e dei loro interlocutori) non fa che scambiarsi argomenti già prefabbricati, meme quasi intercambiabili, ma anche perché, con tutta la più buona volontà di essere originali, dopo un anno che milioni di persone parlano della stessa cosa è chiaro che ormai l'artigianato argomentativo ha ceduto il passo alla produzione industriale in serie. 

a) Selezione mirata delle informazioni: il novax/lupo da mesi continua a ripetere che il vaccino protegge dai sintomi ma non riduce il contagio. Questa nozione così controintuitiva (la gente dovrebbe continuare a essere contagiosa come prima anche se contrae il virus in forma asintomatica e guarisce più rapidamente) è in parte causata dalla fallacia del bicchiere, ovvero se anche provi a spiegargli che il vaccino ha una copertura del 60/80% nei confronti del contagio, lui non capisce o finge di non capire, per lui 80%=0%. Ma la sua testardaggine in tal senso deriva anche dal fatto che ragiona per individui, e quindi anche quando si immagina il vaccino, ne ha una concezione per così dire corpuscolare: si tratta di un rimedio che risolve un problema a tutti gli individui che lo assumono: quindi perché non se ne stanno contenti e ci lasciano vivere la nostra vita? Il fatto che questo rimedio abbia anche un'efficacia complessiva, comunitaria, di gregge, è una cosa che gli sfugge o che non vuole accettare. 

b) Rivendicazione orgogliosa della propria esistenza controcorrente: ed è qui che molto presto è nato il meme del lupo (a tal proposito, sarei sinceramente curioso di conoscere la percentuale di motociclisti novax: secondo me è altissima, ma può darsi che io sia vittima di un pregiudizio).

c) Incapacità di immaginare i propri comportamenti moltiplicati per l'umanità circostante: da cui il famoso lamento del runner, o del tizio che non capisce perché non può entrare in un parco vuoto. Ecco, qui mi pare che non si replichi mai abbastanza, come se anche molti oppositori dei novax condividessero la stessa difficoltà. Se a me salta agli occhi forse è per deformazione professionale: non posso aprire il parco a te, lo posso aprire soltanto a tutti: i diritti e gli spazi pubblici sono di tutti e (quel che è più difficile affermare e accettare), se non possono essere aperti a tutti, è meglio chiuderli a tutti che aprirli soltanto per qualcuno

d) Rivendicazione rancorosa di uno status di minoranza perseguitata: in un mondo in cui le comunità minoritarie reclamano sempre più i propri diritti, il novax si ritrova il sentiero già tracciato ed è quasi inevitabile che paragoni il suo status di oppresso a quello degli ebrei, degli omosessuali, ecc. A questo punto l'interlocutore ribatterà che questi paragoni sono fuori luogo, già: ma perché sono fuori luogo?

    d1) se l'interlocutore li ritiene fuori luogo perché eccessivi, sta comunque ammettendo che abbiano un senso; a quel punto il novax obietterà che ogni tipo di oppressione totalitaria si installa per gradi – insomma oggi mi togli la possibilità di recarmi sul luogo di lavoro, domani mi manderai al forno. E in questo caso il punto è suo, perché non si può negare che la pressione in questi mesi stia salendo: ieri il green pass, oggi il super green pass, domani l'obbligo vaccinale, ecc.


    d2) l'interlocutore può obiettare che ebrei e omosessuali non possono smettere di essere ebrei e omosessuali – o perlomeno nella concezione razziale dei nazisti l'ebraismo era una condizione di natura, e secondo la nostra idea dell'omosessualità, gay si nasce (decenni fa la pensavamo in modo diverso e chissà come la penseranno tra qualche decennio, ma adesso insomma la pensiamo così). Il novax invece può in qualsiasi momento smettere di essere novax: già, ma è appunto quello che non vuole fare. Credo che visto da fuori un sistema che ti convince a ritrattare le tue posizioni sia persino più minaccioso di un sistema che ti elimina e basta. In sostanza staremmo replicando al novax: guarda che ti sbagli, noi non siamo il nazismo, al massimo siamo l'Inquisizione...

    d3) l'interlocutore può osservare che il novax non è una minoranza oppressa come le altre perché, a differenza dell'ebreo o del gay (chiedo scusa per usare sempre questi due esempi spicci), la sua esistenza è una reale minaccia per la comunità. Il gregge non può avere rispetto per il lupo perché il lupo danneggia oggettivamente il gregge. Qui però si scopre un punto cruciale, perché anche i nazisti erano convinti che gli ebrei fossero una minaccia per il popolo ariano, e a tutt'oggi un sacco di gente è convinta che l'omosessualità sia una piaga che rammollisce la nostra gioventù. Il novax si sente perseguitato e l'interlocutore gli deve concedere che sì, entro certi limiti lo sta davvero perseguitando, per gli ottimi motivi che nei secoli il persecutore ha sempre esibito a chi perseguitava. Chi a questo punto invoca una Norimberga ci sta semplicemente ricordando che tutto passa e anche le nostre ragioni, prima o poi, saranno soppesate da giurie che le vedranno in prospettiva.

martedì 7 dicembre 2021

Il cervello di un novax (è più o meno il nostro)

Se a questo punto della pandemia non avete ancora litigato con un novax, siete evidentemente un novax, e in questo caso ti saluto: ciao, vengo in pace. So che probabilmente mi ritieni un emissario di una dittatura sanitaria che forse anche tu paragoni al nazismo; io al contrario sono incline a considerarti un irresponsabile, disinformato ed egoista, in certi casi anche un po' untore – anche se magari ti tamponi ogni 48 ore e a questo punto il tuo green pass è più attendibile del mio che ancora aspetto la terza dose. Queste cose ce le siamo dette, andiamo avanti. In questi mesi il novax è diventato l'obiettivo polemico più facile: non importa che si tratti di un fenomeno relativamente contenuto, i media ci tenevano a mostrarli, ovviamente nelle forme più grottesche possibili. Persino qualche intellettuale si è prestato al gioco, per vanità e per convinzione. Per quanto grotteschi, confesso che preferivo leggere loro che i loro avversari: questi ultimi li ho trovati troppo spesso moralisti e ridondanti (nel senso che mi sento già abbastanza moralista io mentre mi parlo addosso). A un certo punto però c'è un intervento che ha lasciato il segno, pensate che me lo ricordo a quasi un mese di distanza. È questo paragrafo di Emanuele Trevi, sul Corriere della Sera:

Dovessi campare mille anni, leggendo e analizzando una per una le argomentazioni contro i vaccini e contro quel loro necessario complemento che sono i green pass, non riuscirei ad assimilare nemmeno un minimo frammento di quella maniera di pensare e di comportarsi. Come alla stragrande maggioranza dei miei simili, più di ogni singola polemica, più di ogni manipolazione dei dati, più di ogni infantile enormità stile «dittatura sanitaria» e «grande reset» è il tono di questa gente, capace di negare anche i numeri dei morti pur di godersi un posticino nel sole del dibattito, che mi infastidisce profondamente...

Ho citato fin troppo. Trevi si dice disgustato da un certo "tono", ed è buffo perché la sua eloquenza qui mi ricorda proprio quello di alcuni novax. Ma le righe che mi hanno lasciato il segno sono le prime tre. Trevi è sicuro che non potrebbe assimilare la mentalità novax, campasse mill'anni. Questo mi sorprende perché per me è l'inverso. Mi basta leggere poche righe di un novax per riconoscermi nella sua mentalità. Questo è il motivo per cui tra i miei perversi passatempi in questi mesi c'è stato quello di confrontarmi con loro: mi succede soltanto con persone in cui intravedo una profonda affinità di pensiero, anche se le nostre scelte di fede (o di ideologia, se preferite) ci hanno portato lontano. In tanti anni di antiberlusconismo non mi è mai capitato davvero di dialogare con un berlusconiano – con radicali e liberali sì. Coi sionisti sì, coi fascisti mai: non sono più coincidenze, ormai anche su internet di fascisti disposti a discutere delle loro idee c'è abbondanza, ma manca un terreno comune. Ormai ho capito che le persone con cui litigo davvero sono persone che in un altro secolo avrebbero preso la tessera del mio stesso partito, o si sarebbero affiliati alla mia stessa setta segreta, o avrebbero frequentato la mia stessa confraternita religiosa – fino alla dolorosa secessione che ci avrebbe portato a inseguirci pugnale in mano in qualche vicolo, o a scomunicarci a vicenda. I novax mi solleticano perché, al contrario di Trevi, la pensano in modo sinistramente simile a me – eppure ho deciso che sbagliano completamente. Il che significa che gli errori che commettono avrei potuto commetterli anch'io, e magari li commetto anch'io in tante altre discussioni senza accorgermene: la lotta contro l'eresia comincia in casa, comincia nella propria coscienza. Il cervello di un novax è il mio cervello, anche se il suo è più pratico da sezionare. Vediamo quali errori commette più frequentemente.


FALLACIA DEL BICCHIERE: Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno...

Il novax sembra aver rinunciato a ogni logica fuzzy. In un mondo in cui siamo abituati sin da piccoli a ragionare in termini di probabilità e percentuali, lui ha deciso che una cosa può solo essere Vera o Non Vera. Il vaccino non protegge dal contagio, dice. È così. Lo dicono anche gli esperti. Gli esperti veramente dicono che il vaccino può avere una copertura variabile dal 50% all'80%, numeri che ci costringono a mantenere alta la guardia, ma senz'altro superiori allo 0%... ecco, il novax non ha intenzione di seguirci su questa china statistica. I suoi circuiti sono molto più basici: possono essere soltanto chiusi aut aperti. Forse che un bicchiere può essere contemporaneamente vuoto e pieno? No, al massimo sarà un po' pieno, ma il novax misconosce il concetto di "un po'": non vede più mezze misure, un bicchiere è completamente vuoto finché non è pieno, o viceversa. Il vaccino copre o non copre? Evidentemente non copre, perché i vaccinati possono ammalarsi. Quindi i vaccini non funzionano. Non solo, ma si può morire di vaccino? Su milioni di vaccinati al mondo qualcuno potrebbe davvero essere morto di vaccino. È una percentuale ragionevole ma... no, stop, non esistono le percentuali. È morto qualcuno, quindi il vaccino è un veleno. La stessa fallacia determina le deformazioni grottesche che ormai conosciamo bene: il green pass è discriminatorio? In una certa misura sì, ma... no, non esiste una "certa misura": qualsiasi azione discriminatoria è il nazismo, e quindi il greenpass è nazismo. 

Alcuni – i più sofisticati del mazzo – sanno benissimo che per arrivare a conclusioni così nitide occorre rinunciare a parecchie sfumature, e lo rivendicano: le percentuali, ci spiegano, sono roba buona per gli scienziati, ma questa è Etica, e l'Etica non può scendere a compromessi. Magari è Kant, o qualche analogo parruccone. Non lo so. Alla fine un novax è semplicemente una persona che ha deciso che non cede a un determinato compromesso. Non è l'alieno che Trevi non potrebbe capire in mille anni: siamo tutti abbastanza allergici ai compromessi (non sarebbero compromessi, altrimenti). Quantomeno dovremmo ricordare che non si dà compromesso senza contrattazione, e che si tratta di una misura delicata che richiede una continua vigilanza. Il novax ha deciso che non ci sta, probabilmente intuisce che non riuscirebbe a vigilare così bene e ha calcolato che gli conviene chiamarsi subito fuori. Noi invece che ci riteniamo più furbi e smaliziati, siamo sicuri di aver controllato quanta acqua nel bicchiere era rimasta l'ultima volta che l'abbiamo dichiarato mezzo pieno? 

(Continua)

venerdì 3 dicembre 2021

Get Back sembra vero (ma non lo è)

C'è una scena del nuovo Get Back di Peter Jackson che ha già conquistato critici e spettatori: durante la prima puntata, mentre gli altri tre aspettano John Lennon cronicamente in ritardo, Paul si mette a improvvisare un brano su due accordi, che all'inizio non è niente e nel giro di qualche minuto diventa appunto Get Back. Il brano ci metterà ancora parecchio ad assumere la forma che conosciamo, passando attraverso numerose evoluzioni e ripensamenti (a un certo punto rischiò di diventare un brano 'politico' antirazzista, poi il timore di essere fraintesi mentre cantavano "want no Pakistani" li convinse a tornare a un più confortevole nonsense). Ma tutto sommato la melodia di Get Back è quella che prende forma in quei pochi minuti in cui Paul strimpella col basso e gli altri due lo seguono e annuiscono. Questo sembrerebbe fantastico anche se le immagini fossero quelle un po' sgranate della pellicola originale, e non rielaborate digitalmente per farci sembrare Paul George e Ringo veri come gli amici che abbiamo fotografato sabato scorso col telefono. Stiamo veramente vedendo dei geni al lavoro, mentre inventano qualcosa che prima non c'era e dopo sarà impossibile dimenticare. È tutto così vicino e limpido, è un miracolo.

È anche un trucco.

Non credeteci troppo.

Ovvero, sì: per una volta potrebbe davvero essere andata così: la melodia di Get Back potrebbe pure essere nata in quel momento. Anche in questo caso, la sensazione di essere lì con loro è del tutto illusoria. A un certo punto c'è uno stacco, la melodia prima non c'era, dopo c'è, in mezzo chissà quanti minuti sono passati. Get Back è un documentario lunghissimo e a quanto leggo i suoi meriti starebbero proprio nella sua lunghezza: si tratterebbe di una garanzia di autenticità. Quelli che vediamo dovrebbero essere davvero i Beatles catturati senza filtri, come in un reality show. Ma se i reality show ci hanno insegnato qualcosa è a diffidare di qualsiasi montaggio: la realtà è sempre più confusa dello show, nella realtà gli amici litigano e si riconciliano centinaia di volte, raccontando sciocchezze e ritrattandole immediatamente – nei reality sono i montatori a decidere quale sciocchezza diventa fondamentale, quale litigio diventa la frattura cruciale, chi è il buono chi è il cattivo e chi resta sullo sfondo. Nel gennaio del 1969 il regista Michael Lindsey-Hogg girò centinaia di ore di filmato, di cui solo pochi rulli fino a questo momento erano stati divulgati (su Youtube comparivano e scomparivano). Jackson ha selezionato cinquecento minuti: sono tanti, ma anche lui ha dovuto scegliere cosa salvare e cosa sacrificare od occultare. Inoltre, per realizzare il documentario ha dovuto ottenere il permesso dei Beatles viventi, e in particolare del Beatle che fino a quel momento si era sempre opposto a rimettere in circolazione il film del 1970: Paul McCartney. Il ri-montaggio dà a McCartney la possibilità di riscrivere un momento doloroso, se non traumatico, della sua carriera: negli studios cinematografici di Twickenham stava cercando di salvare i Beatles: non ci riuscì, anzi forse ne accelerò la disgregazione, e da allora con questa consapevolezza ha dovuto conviverci. Alzi la mano chi non approfitterebbe dell'opportunità di rimontare qualche episodio difficile del proprio passato, eliminando una parola di troppo, o un'intera frase, o un litigio, con la stessa artificiale facilità con cui qualche anno fa Paul ha tolto i violini da The Long and Winding Road.

Col tempo McCartney è diventato un sapiente narratore del suo passato. Ciò che lo fa sembrare attendibile è che riconosce i suoi limiti. Ha ammesso più volte di essere stato "bossy" in quegli anni, di aver tentato di prendere le redini del gruppo almeno per quanto riguardava la direzione artistica, dopo la morte del manager Brian Epstein. I giorni di Twickenham sono quelli in cui lui stesso fa i conti coi limiti di questo approccio. Non si capisce esattamente perché i Beatles si debbano rimettere a lavorare così presto – il Disco Bianco è uscito a ottobre – a meno che il divorzio non sia ritenuto ormai così imminente che ogni giorno è prezioso, ogni canzone potrebbe essere l'ultima e l'esibizione dal vivo, se davvero si farà, sarà sicuramente l'ultima. Persino Ringo, dei Quattro apparentemente il più rilassato, ha la sua carriera cinematografica a cui pensare: a fine gennaio comincerà a girare un altro film con Peter Sellers. Le prime sessioni vengono registrate e filmate proprio negli studi londinesi già prenotati per il film. A un certo punto si vede anche Sellers, sorridente ma visibilmente imbarazzato: tutto è filmato, qualsiasi battuta gli uscisse di bocca potrebbe finire nelle sale di tutto il mondo e la cosa non gli va, il grande comico fa scena muta. I Quattro sono più rassegnati a convivere con le cineprese ma forse si comportano in modo meno naturale di quello che crediamo. Per essere quattro ventenni milionari di Liverpool, è sorprendente quanto siano tutto sommato formali: solo a John scappa qualche parolaccia e qualche riferimento esplicito alle droghe.

Il gruppo sembra aver stabilito di usare le prime tre settimane di gennaio per mettere in piedi un'esibizione dal vivo con materiale per lo più originale: l'idea è invertire il metodo di lavoro del Disco Bianco, ripartire dal collettivo come Dylan che a Woodstock si è messo a incidere brani in cantina con la Band, George di recente è andato a trovarlo ed è rimasto estasiato. John però ha soltanto una canzone nuova da proporre, e persino George condivide il suo materiale di malavoglia. Paul da canto suo ha fin troppe idee e canzoni da parte: questo squilibrio rischia di far precipitare un progetto nato confuso e portato avanti con scarsa convinzione. In questa situazione, Paul a un certo punto potrebbe essersi messo a strimpellare il basso con due compari fino a tirarne fuori quel successo stratosferico che fu Get Back (in aprile avrebbe esordito al primo posto delle classifiche inglesi, negli USA avrebbe portato i Beatles a eguagliare il record di 17 singoli al primo posto della classifica di Billborard). Oppure il Paul 26enne potrebbe avere messo in scena questa 'invenzione' davanti agli altri due, fingendo di arrivare progressivamente a una melodia che in realtà aveva già chiara in testa chissà da quando – e il Paul quasi 80enne avrebbe tutto l'interesse a perpetuare l'illusione.

Mi è impossibile davanti a una scena così efficace non dubitare del montaggio e della messa in scena; non condividere lo scetticismo di James Alistair Taylor, quella volta che Paul mentre gli dava una lezione di composizione al piano improvvisò davanti a lui melodia e parole di Hello Goodbye: certo, potrebbe averla inventata sul momento... oppure potrebbe averla recuperata in quel momento per regalare allo spettatore un'emozione in più. Nel caso di Get Back, a Paul serviva una canzone che non sembrasse una "sua" canzone, qualcosa che gli altri non riconoscessero immediatamente come farina del suo sacco: anche John, che in quel momento non c'era e che nella versione finale suonerà l'assolo. Tutto sembra dire che Paul non voleva più essere il boss, che Paul stava volontariamente facendo un passo indietro, cercando la collaborazione dei compagni che sembrano per lo più svagati (John) e in certi casi ostili (George). Tutto vuole suggerire: vedete, io ci ho provato fino alla fine, ma loro non collaboravano più. Sembra tutto così vero, ma resta una ricostruzione di parte.

Era fin troppo prevedibile che McCartney avrebbe chiesto ai montatori di edulcorare l'amarezza di quelle sessioni che Harrison considerava "le peggiori di tutti i tempi" e Lennon addirittura definì un "inferno... le più miserabili sessioni al mondo". Eppure, come ha dichiarato Ringo, ci sono ore e ore in cui quattro ragazzi scherzano e suonano volentieri assieme: bastava scegliere di mostrare soprattutto quelle. Certo, nessun montatore avrebbe potuto eludere l'impressione di smarrimento e di confusione a Twickenham. Dopo la morte del loro manager nel 1967, i Quattro si stanno maneggiando da soli, almeno in teoria. In pratica sono circondati da professionisti assunti a vario titolo – di cui diffidano – che spingono per un finale con il botto, un concerto all'altezza della loro fama, magari in un anfiteatro africano. Tra di loro c'è il giovane regista Lindsey-Hogg, a cui non sembra vero di poter filmare la fine del gruppo più famoso del mondo (ha piazzato cimici persino nelle fioriere della mensa). Due dei quattro reagiscono con un'ostilità che nel documentario potrebbe sembrare più passiva di quel che non fu: Harrison continua a dire di no a tutte le proposte più impegnative. A un certo punto abbandona lo studio con un gesto che sembra inconsulto, ma che sarà risolutivo. Lennon appare più passivo, come se di fronte a una decisione ormai ineludibile abbia deciso di non scegliere, di lasciare che le cose intorno gli accadano. Mentre suona ha scelto la sedia che dà le spalle alla cinepresa; alla chitarra sembra collaborativo ma a parte Don't Let Me Down non ha molto da offrire, tanto che il gruppo decide di recuperare quella Across the Universe che dopo essere stata scartata come singolo era stata comunque pubblicata nel disco della WWF e quindi non era più un inedito.

Quel che il documentario di Jackson non dice – quello che Jackson sceglie di non dire – è che Lennon e Ono in quei giorni avevano una storia importante con l'eroina. Quando all'indomani della fuoriuscita di George, Lennon arriva come al solito tardi, e si giustifica spiegando che aveva un'intervista con un network  canadese, ci fornisce un prezioso punto di riferimento: l'intervista in effetti è disponibile su Youtube con l'eloquente titolo Two Junkies Interview. I due rispondono alle domande con voce a tratti catatonica, fissando il vuoto: tra una sigaretta e l'altra Lennon lotta per resistere all'impulso del vomito. Qualche ora dopo lo troviamo seduto a scherzare tra Paul e Ringo e – potenza del restauro digitale – sembra persino in forma. Guarda dritto la telecamera, spara i suoi nonsense a raffica. Però quel giorno non si suona, e anzi i tre decidono di interrompere le riprese. Torneranno da George, che porrà come condizioni l'abbandono del freddo studio di Twickenham e delle ipotesi di concerti all'estero. Perlomeno questa era la ricostruzione più assodata fin qui, ma il documentario stempera anche questo dettaglio: nessun ultimatum, i quattro si ritrovano a casa di George e decidono assieme di cambiare rotta. Che George Harrison abbia costretto Paul McCartney a rinunciare a gestire i Beatles in un certo modo è una cosa che a distanza di più di 50 anni quest'ultimo non riesce ancora ad accettare. Il documentario resta un lavoro titanico e prezioso ma davvero, ogni volta che discutono, e litigano, o smentiscono di aver litigato, o inventano una canzone, godetevi tutto: il discorso, il litigio, e soprattutto la canzone – ma non credeteci troppo. Un reality non è la realtà, anche se ci suonano i Beatles.