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giovedì 23 luglio 2020

Le canzoni dei Beatles (#40-31)

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Spero che stiate bene, io sto solo dormendo, che abbiamo in lista questa settimana? La canzone che qualcuno pensava parlasse di sparare alla gente e invece parlava di una giostra; quella che tutti pensavano che parlasse di droga e invece parlava di sparare alla gente; quella che sembrava parlasse di sesso e invece parlava di droga, e qualche altra ancora. Ricordo che la classifica non la faccio io: è una media di tutte le classifiche messe on line da critici specializzati. Certo che Happiness Is A Warm Gun andava messa più avanti. Sono d'accordissimo. Non sparate. Non su di me, almeno.


40. I'm Only Sleeping (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

La foto è di Annie Leibovitz.
La scattò proprio l'8 dicembre del 1980.
Lying there and staring at the ceiling, waiting for a sleepy feeling... Tutti rimpiangono il vinile, pensano che la musica si sentisse meglio prima. Io penso siano pazzi, ma d'altro canto ho un rimpianto per i nastri magnetici... Ok, erano un disastro. Anche quelli che non si erano ancora rovinati avevano un fruscio tremendo – e comunque stavano per rovinarsi. Però nella mia testa la musica è rimasta un nastro magnetico. Se fermi il nastro, fermi la musica. Se inverti il lato, la musica scorre a rovescio. Ogni canzone era un percorso da un punto A a un punto B; se volevi riascoltarla, dovevi fare il percorso a ritroso. La stessa cosa non succede con le vostre giornate? Diciamo che A sia il momento in cui vi svegliate; B quello in cui vi addormentate: che cos'è il sonno? Il segmento BA, il momento in cui chiudete gli occhi e riavvolgete il nastro. E chi è John Lennon nel 1966-1966, quando i Beatles si ritirano dalle scene e non c'è più bisogno di tenersi svegli ingollando anfetamine? Un nastro rovesciato che non riesce più a raddrizzarsi e nemmeno ne sente l'esigenza. Dal suo giaciglio di Kenwood vede il mondo girare all'incontrario. Suona il telefono, è Paul, vorrebbe scrivere una canzone. Please don't wake me, no don't shake me, leave me where I am...

I'm Only Sleeping è il seguito di Nowhere Man, per come riprende l'attitudine diaristica di dedicare almeno una canzone dell'album al proprio stato d'animo dominante. Come si sentiva John Lennon nella primavera del 1966, all'apice della Swinging London? Ancora parecchio sonnacchioso. Poca voglia di uscire, scarsa disponibilità a recitare la parte dell'uomo di casa. Il brano che porta in studio sotto forma di demo è un lontano parente di Girl: attinge allo stesso serbatoio inconscio di melodie rétro, vecchie ballate in minore e frasi jazz ascoltate alla radio chissà quando . Il blend è già inconfondibilmente lennoniano: vedi il bridge ("keeping an eye on the world going by my window"), tagliato così corto ("taking my time") che non fai in tempo a notarlo ed è già ripartita la strofa ("When I wake up early in the morning"), quasi il ripensamento di un dormiglione che stava per alzarsi, e soprattutto quel magico accordo in maggiore settima, parente non lontano di quello che attutiva l'angoscia in No Reply: qui è soffice come il guanciale su cui casca il ritornello, quando Lennon canta "sleeping".

In studio John raffina il timbro della voce, incisiva ma fragile, e la correda di quei coretti vagamente swing che sembrano davvero usciti da una pigra radiosveglia mattutina. Nel bridge invece interviene Paul con un contrappunto più virile, come se tentasse di scrollare John e svegliarlo; ma niente da fare. Siccome George è occupato a sperimentare con la chitarra invertita, i fraseggi di connessione tra il ritornello e la strofa vengono delegati al basso di Paul e raggiungono il nostro orecchio attutiti, compressi, come i colpetti amorevoli di qualcuno che cercasse di svegliarci. Ma il punctum del brano ovviamente è la chitarra rovesciata di George.

I Quattro avevano iniziato a rovesciare i nastri con Rain; l'esperimento prosegue con I'm Only Sleeping ed è una trovata geniale non solo perché le sonorità rovesciate si adattano all'andamento languido e jazzeggiante. In I'm Only Sleeping quello che fino a quel momento era ancora un trucco di laboratorio diventa il correlato sonoro di un fenomeno tanto vicino all'esperienza di tutti quanto misterioso: il sonno, per la prima volta immaginato come il lato B della veglia. Suonare un assolo a rovescio è come mandare un messaggio a sé stessi in sogno: George compone l'assolo, ne incide una prova, lo rovescia per sentire come deve suonarlo, lo incide a rovescio e poi lo rivolta di nuovo. Se potessimo ricevere messaggi dal piccolo aldilà dei sogni, probabilmente avrebbero la consistenza sfuocata eppure familiare dei fraseggi di chitarra rovesciati di George. E non è una coincidenza che la chitarra invertita torni alla fine del pezzo: dopo averci pensato un po' su, John si è riaddormentato.



39.  Happiness Is a Warm Gun (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968)

"American Rifleman", maggio 1968.
Non è una ragazza cui manchi qualcosa. Derek Taylor in un albergo aveva conosciuto un tale che usava i guanti di velluto con le ragazze, diceva che gli piaceva la "sensazione insolita". Come una di quelle lucertole che in California restano schiacciate tra i vetri scorrevoli delle finestre. In uno stadio di Manchester avevano beccato un tizio che nascondeva degli specchietti nella punta dei suoi stivali chiodati e li usava per guardare le mutandine delle ragazze della fila superiore (a quei tempi negli stadi inglesi si stava in piedi). C'è gente che finge di avere un braccio in gesso per rubare nei negozi ("while his hands are busy working overtime"). Nel Merseyside l'eufemismo per "defecare all'aperto" è "donare al Fondo Nazionale" ("donate to the National Trust"). Ho bisogno di una risistemata perché mi sto abbattendo, mi sto riducendo ai pezzi che ho lasciato in città. Madre Superiora, salta la pistola. La felicità è una pistola calda.

 Just what is it that makes today's homes so different,
so appealing?
(Richard Hamilton, 1956).
Lo disse Cechov, no? Se c'è una pistola in scena, prima o poi qualcuno sparerà. Se si eccettua il titolo un po' enigmatico dell'album del 1966, le armi da fuoco non entrano nel catalogo beatle fino al Disco Bianco, dove compaiono in almeno tre numeri: il siparietto western Rocky Raccoon, la satira animalista Bungalow Bill (dove "gun" fa rima con "mum") e ovviamente Happiness Is a Warm Gun. Anche qui c'è una Madre nei dintorni. Lennon per l'occasione ritorna al metodo che tante soddisfazioni aveva dato a lui e agli ascoltatori con A Day in the Life: distillare surrealismo dai titoli di giornale. "La felicità è una pistola calda" lo aveva scovato sulla rivista della National Rifle Association. "Una pistola calda significa che hai appena sparato a qualcuno. Pensavo che fosse una cosa favolosamente malata da dire". Forse aveva anche intenzione di scrivere una canzone d'amore sui generis a Yoko (nel demo di Anthology 3 si sente chiaramente il suo nome dopo il riferimento alla Madre Superiora), ma alla fine tutte le suggestioni si mescolano in un unico calderone surreale che forse è l'ultimo contributo del LSD alla creatività beatle. Ovviamente "I need a fix" e "jump the gun" furono subito interpretati come riferimenti all'eroina (anche McCartney nutriva sospetti in tal senso). Lennon lo ha sempre negato: non aveva ancora iniziato ad assumerne, e non avrebbe mai usato la siringa. Non importa: le immagini che gli vorticano incontro finiscono per confondersi. Sesso, droga, statuine di sapone, armi da fuoco, tutto preme per entrare, in un corpo che dovrebbe rilassarsi e accettare la pace – madre superiora, salta la pistola (su BeatleBible un tizio scrive di essersi svegliato nel cuore di una notte con un'intuizione: Lennon recita "Mother Superior jump the gun" sei volte, come i sei colpi nel tamburo di un revolver).

Il finale doo-wop in cui in un qualche modo Ringo riesce a tenere il 4/4 mentre tutto il resto frana in terzine, è un'esplicita "satira del R'n'R anni 50", lo stesso Lennon lo definiva così, ed è un esempio felice di come certe idee possano incubarci dentro per anni: uno dei più antichi documenti sonori che ci sono rimasti di John e Paul è proprio una registrazione domestica di un pezzo doo-wop parodistico. Nel 1960 Paul stava già mimando i coretti alti mentre John improvvisava fesserie al microfono con un vocione impostato. Una simile 'strofa parlata' compariva nel demo di I'm So Tired, finché Lennon non ha l'idea risolutiva di staccarla e rimontarla alla fine di Happiness... Il risultato è un collage d'immagini sospese tra iper-realismo, mistero e parodia, che ricorda irresistibilmente la pop art e in particolare i collage di Richard Hamilton che dieci anni fa lo avevano anticipato. È lo stesso Hamilton che Paul aveva appena presentato ai colleghi e che avrebbe 'disegnato' la copertina del Disco Bianco.

Si dice spesso che i Quattro durante la lavorazione del Bianco non riuscissero più a suonare assieme. Eppure la canzone in assoluto più provata in studio da tutti e quattro è Happiness Is a Warm Gun, più di settanta take. È un pezzo che solo John Lennon avrebbe potuto proporre agli altri tre, ed è un pezzo che solo gli altri tre non avrebbero respinto al mittente, ma che roba è, ci prendi in giro? Una decina di cambi di tempo? Paul McCartney non ha mai smesso di dire che Happiness è una delle sue preferite. Per Ringo (a cui il brano chiedeva un vero tour de force) fu una specie di nuovo inizio. Quanto a George, basta sentire quel che combina durante il pezzo: la credibilità blues che riesce a offrire con la sua chitarra in I need a fix, nel bel mezzo di un brano che sembrerebbe mandare tutto in burla. Happiness segue in scaletta a While My Guitar Gently Weeps. Quando chiedevano a George il suo brano preferito, rispondeva Happiness. Senza Happiness probabilmente nessuno avrebbe proposto il successivo progetto Get Back, l'idea di abolire le sovraincisioni e rimettersi a suonare in presa diretta. Una missione troppo impegnativa, col senno del poi. D'altro canto, erano appena riusciti a incidere Happiness: che altra sfida potevano darsi? 
Una riproduzione dell'opera più famosa
di Richard Hamilton (ma non rende l'idea,
dovete vederla dal vero).

Musicalmente è il passo avanti più importante del Disco Bianco: non è la prima canzone a nascere come un patchwork di brani musicali distinti (anche in questo è A Day In the Life l'antecedente illustre), ma in Happiness per la prima volta viene a mancare l'elemento ricorrente che dia al patchwork una sensazione di unità. Happiness è un medley di tre-quattro brevi canzoni che non hanno altro collegamento fuori che la libera associazione di immagini che ruotano nella testa di John. Il procedimento sarà ripreso poi nel secondo lato di Abbey Road e diventerà un topos ricorrente nella carriera post-Beatles non di Lennon, ma di McCartney (Uncle Robert / Admiral HalseyBand on the Run). Happiness resta un esempio folgorante di cosa potevano fare i Quattro ancora nel 1968 quando erano disposti a seguire John alla ricerca del metodo nella sua follia. Rimane uno dei loro brani più interessanti e memorabili: e lo sarebbe anche se qualcuno non avesse tirato fuori una pistola non metaforica, davanti in Central Park West, dodici anni dopo.


38.  Helter Skelter (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968)

Sharon Tate e Roman Polanski nel 1969.
Nell'ultimo film di Tarantino, [SPOILER!!!] i killer della Manson Family sbagliano campanello, incontrano Brad Pitt, e Sharon Tate si salva. Tarantino sembra soffrire della stessa forma di follia che opprime alcuni beatlemani, come un'incapacità di elaborare il lutto. Se solo la data persona non avesse fatto la data cosa, oggi le cose sarebbero diverse, ad esempio i Beatles non si sarebbero sciolti. O Lennon sarebbe vivo. Si chiama 'razionalizzare', ma in realtà è un sistema per impazzire. Continui a ripensare e ripensare allo stesso giorno, alle cose che avresti potuto fare e che avrebbero potuto cambiare il destino. Ti fai domande oscene, ad esempio: se Helter Skelter non fosse diventata quell'orgia rumoristica che è, Sharon Tate e i suoi ospiti sarebbero ancora vivi? (No).

Per quanto possano avervi detto il contrario, la prima impressione è fondamentale, e questo separa gli ascoltatori di Helter Skelter in tre insiemi che praticamente ascoltano tre canzoni diverse. Vediamoli a ritroso, dal terzo insieme al primo.

3. Nel primo insieme ci sono quelli che l'hanno ascoltata dopo aver sentito parlare della strage a casa Polanski: Helter Skelter era per Charles Manson il nome in codice della guerra tra le razze che sarebbe scoppiata di lì a poco negli USA, e ai suoi adepti era stato dato il compito di fomentarla uccidendo giovani ricchi bianchi e famosi (Manson conosceva la casa perché per un po' era appartenuta a Terry Melcher, il produttore discografico che aveva stroncato senza appello i suoi demo e le sue velleità di aspirante rockstar). Questo insieme di persone non credo possa ascoltare Helter Skelter senza pensare a tutta la storia, che è oggettivamente pazzesca. Per loro Helter Skelter non può che essere la colonna sonora di quella storia, un segno rosso indelebile che pregiudica credo irrimediabilmente l'ascolto del Disco Bianco.

Patricia Krenwinkel, Susan Atkins e Leslie Van Houten della "famiglia" di Charles Manson prima di un'udienza per il processo sull'omicidio Tate, nel 1971 a Los Angeles
2. Nel secondo insieme ci sono quelli che hanno conosciuto i Beatles dopo lo scioglimento, in un periodo in cui i delitti della Family erano passati in secondo piano, e la musica dei Beatles no. Per loro Helter Skelter è un pezzo allegro, che si associa alla scoperta che ciascuno di loro un giorno ha fatto di questa buffa circostanza: il primo brano heavy metal della Storia è di Paul McCartney, l'autore di Obladì Obladà. È persino nello stesso disco! Helter Skelter in realtà non ha molto in comune con l'heavy metal, ma a un primo ascolto l'impressione è abbastanza forte (quella chitarra sferragliante in primo piano, quelle urla sguaiate, perfino i coretti prefigurano un certo glam rock) e questo mette di buonumore, perché un brano heavy dei Beatles non può essere che una parodia. Addirittura una parodia di un genere musicale che ancora non esisteva! Che geniacci questi Beatles. Gli appartenenti a questo gruppo hanno più possibilità di riconciliarsi con l'approccio sperimentale di Sir Paul McCartney, che parte quasi sempre dalle caratteristiche formali, laddove Lennon muove più spesso da una necessità espressiva: John fa cose nuove per cercare di spiegarsi in modo nuovo, Paul le fa per curiosità, a volte per rispondere a una sfida. In questo caso il guanto l'aveva gettato Pete Townshend degli Who, dichiarando da qualche parte: "Abbiamo appena registrato la canzone più sporca, rumorosa, lurida ever".  A tutt'oggi Paul non sa di che canzone si trattasse – non l'ha mai voluto sapere. L'idea che un collega possa superarlo in qualsivoglia categoria lo fa sentire "geloso". E così, magari davanti a una tazza di tè, Paul delibera che i Beatles faranno qualcosa di ancora più sporco, rumoroso, lurido. Tanto di spazio sul disco ce n'è.

"The dirtiest, loudiest, filthiest ever". (Chi?)
È un aneddoto che decostruisce completamente l'aggressività della canzone, e forse è questo il motivo per cui dopo la strage McCartney ha sentito la necessità di raccontarlo più e più volte. Non c'è nessuna violenza interiore a emergere nel fracasso di Helter Skelter: è solo un gioco. Prima che Paul decidesse di farlo esplodere, Helter Skelter era già un ottimo pezzo blues rock (lo si sente in Anthology 3), anzi forse era più promettente. Paul alternava momenti di calma apparente a improvvisi scoppi di impazienza, creando un effetto suspense che nella versione finale manca del tutto. Tra i vari effetti che Paul decide di "alzare a 11" c'è il riverbero, il che finisce per richiamare alla sua memoria i vecchi dischi rockabilly – a un certo punto durante le prove si mette a imitare Elvis intonando You're So Square. C'è in effetti una caricatura di Elvis sepolta tra i rottami di Helter Skelter. Il Disco Bianco è pur sempre una festa, e Charles Manson un imbucato psicotico che non riesce ad ambientarsi, non conosce i riferimenti, per esempio non sa che l'"helter skelter" britannico è una tipica attrazione da fiera, uno scivolo che ruota intorno a una torre smontabile. E decide, da psicotico, che un'espressione incomprensibile non può che essere un riferimento alla fine del mondo. Se non avesse ascoltato Helter Skelter, avrebbe trovato profezie di guerre fratricide in qualche altra canzone dei Beatles o di qualche altro gruppo.

Charles Manson, 3 dicembre 1969
1. Nel primo insieme (che con gli anni andrà riducendosi) rimane chi Helter Skelter l'ha sentita quando uscì e negli anni immediatamente successivi: quelli che non potevano liquidarla come una parodia del metal perché il metal, appunto, non era ancora nato. Per alcuni di loro Helter Skelter è stato uno choc al quale niente li aveva preparati – davvero, niente suonava così distorto, così rumoroso, così sporco. Quello che per Paul era uno scherzo, un esperimento di laboratorio, per qualche giovane ascoltatore poteva risultare un incubo. Come svegliarsi a un'ora imprevista sul divano e trovarsi davanti a una tv accesa nelle ore in cui trasmette le cose che capiscono solo i tuoi genitori, intercettando immagini incomprensibili che saltano dritte nella sala 101 del tuo materiale onirico. Forse semplicemente Helter Skelter era più di quello che molti giovani ascoltatori del tempo potevano sopportare – Charlie Manson incluso. È l'unica canzone beatle su duecento e più che ispira al musicologo Alan W. Pollack un genuino turbamento: "mettetela su di notte quando le luci sono spente ed è garantito che vi farà rizzare i peli sulla schiena: vi spaventerà e vi metterà a disagio". A me non succede (ci ho appena provato) ma è vero che sono di una generazione diversa, a cui è stata fatta ascoltare roba ancora più distorta, metallica, sporca, ecc.

A mettermi a disagio è Ringo, quando alla fine del secondo finale esclama: "ho le vesciche sulle dita". Se fino a quel momento poteva sembrare tutto un gioco ora è chiaro che qualcuno ha smesso di divertirsi da un pezzo. Quel che è peggio è che Paul non dà impressione di curarsene, lasciando lo sfogo di Ringo nel mix finale. Ancora Pollack confessa che Paul almeno in questo caso gli ricorda un suo compagno di liceo che amava imitare e impersonare personaggi veri o inventati. "Era quasi troppo bravo a fare questo genere di cose: spesso molto divertente, ma a volte un po' fastidioso e irritante. Qualche volta in effetti se ne arrivava nei panni di qualcuno o qualcosa che era semplicemente troppo strano o di cattivo gusto, e per un momento temevi che fosse impazzito e che non sarebbe più stato capace di uscirne. Anche voi siete andati a scuola con lo stesso compagno?"



37.  Across the Universe (pubblicata per la prima volta nel 1969 in Our World, disco di Autori Vari per la WWF; poi in Let It Be, 1970).


(No One's Gonna Change) Our World, 
l'album pubblicato dal WWF nel 1969.
Le parole stanno volando via come pioggia senza fine dentro una tazza di carta. Quando ti senti triste, pensa come poteva sentirsi Lennon. Tu almeno puoi ascoltare le canzoni dei Beatles, lui le detestava. In parte era una posa: ma solo in parte. Come molti della sua generazione, Lennon aveva un rapporto molto difficile con la sua voce registrata (così come con la sua immagine filmata). Lo imbarazzavano. A quel tempo si poteva arrivare fino a vent'anni senza riascoltarsi in cuffia e scoprire che la propria voce agli altri non suona come la senti tu, ovvero che le tue orecchie ti hanno mentito per tutto il tempo: uno choc. Il trasformismo di John, sia fisico che vocale, non ha nulla della giocosità con cui Paul cambiava costumi e pose: è l'inquietudine di una persona che non si trova a suo agio nell'unico corpo che ha. Per otto anni John le prova tutte: contorce la voce, la raddoppia, la schiarisce, la inverte, scopre un timbro femminile, lo alterna con uno più virile (durante una sessione di Let It Be lo dice esplicitamente: "questa è la mia voce da donna, questa è la mia voce da uomo"). Contemporaneamente gli capita di ingrassare e dimagrire, respingere gli occhiali e poi inforcarli: baffi, capelli, barba, un buon lennonologo è in grado di scoprire il mese in cui è scattata una foto semplicemente dall'acconciatura.

Per ogni canzone che noi possiamo scegliere di abbinare a ricordi felici, Lennon poteva ricordarne di frustranti. Paul che voleva aggiungere qualcosa o togliere qualcos'altro, George Martin che gli chiedeva di accelerarla, Harrison che pretendeva spazio, e soprattutto le bizze del suo nemico n.1, John Lennon: musicista volenteroso ma sempre un passo indietro rispetto alla musica che aveva in testa. Ogni canzone una battaglia: quasi sempre vinta, ma a che prezzo. Nelle interviste dopo lo scioglimento Lennon in sostanza ripartiva le sue canzoni del periodo beatle in due grandi insiemi: quelle che gli facevano schifo ("piece of garbage", "junk", "throwaway"), e quelle che lo facevano incazzare perché sarebbero state buone canzoni, ma per un motivo o per un altro non era mai riuscito a registrarle bene.

Across the Universe fa parte di questo secondo insieme: per John era il migliore testo che avesse scritto, o meglio gli si era scritto in testa da solo. Una sera Cynthia lo aveva svegliato per discutere di un qualche argomento, poi si era addormentata mentre lui continuava a sentire le sue parole "come un flusso senza fine. Andai al piano di sotto e si trasformò in una specie di canzone cosmica, invece che in una canzone arrabbiata [...] Una metrica così straordinaria, non potrei mai ripeterla! Non è una questione di abilità tecnica: si è scritta da sola. Mi ha fatto alzare dal letto". Il dio notturno che aveva regalato a Paul Yesterday, per John teneva in serbo un brano che non sarebbe riuscito a mettere in musica. "È come essere posseduti, come un medium. La cosa deve saltare fuori. Non ti lascerà dormire, così devi svegliarti, trasformarla in qualcosa, e a quel punto avrai il permesso di dormire. Succede sempre nel nel mezzo della notte del cazzo, quando sei mezzo addormentato o esausto e i tuoi dispositivi di controllo sono spenti" (1980).

Cynthia Powell Lennon
Cynthia Powell Lennon
Nonostante ne esistano ormai quattro versioni ufficiali, nessuna è l'Across the Universe che gli suonava in testa quella notte. L'insoddisfazione era tale che alla vigilia della partenza dall'India John si ritirò dalla competizione per il lato A del singolo, così che Across non uscì neanche come lato B di Lady Madonna, (fu sostituito da The Inner Light) e per la prima volta un singolo 'fuori album' dei Beatles uscì senza una composizione lennoniana. Non solo non riteneva il brano all'altezza, ma decise anche di abbandonarlo al suo destino, regalandola al WWF che la inserì in un disco celebrativo – da cui quei rumori di animali che avete presente se l'ascoltavate nella versione sul Disco Blu.

Un estremo tentativo di riprendere in mano il brano avviene durante le sessioni di Get Back: non approda a niente, ma offre a Phil Spector la scusa per inserire il brano nella scaletta del disco postumo che i Beatles gli hanno offerto di confezionare, Let It Be. Spector però non ci prova nemmeno a recuperare i tentativi del 1969: si limita a riprendere la versione mandata al WWF e a spalmarci sopra un po' di glassa spectoriana, cori e archi riverberati per dare all'ascoltatore l'impressione che il brano arrivi dalle stesse sessioni di The Long and Winding Road. Questo spiega la bizzarria di quell'invocazione indu, "Jai Guru Deva Om" ("Grazie e salute, divino Maestro"), che alla vigilia del viaggio in India testimoniava il fresco interesse di Lennon per la meditazione trascendentale mentre nel 1970 sembra un anacronismo, se non una presa in giro (nella cronologia dei Beatles i mesi sembrano anni, e gli anni secoli).

Un'altra caratteristica della versione WWF erano i coretti realizzati da Lennon con una voce accelerata, che scompaiono nella versione scelta da McCartney su Let It Be Naked (dove i violini di Spector sembra di sentirli ancora, o forse se ne avverte la mancanza: l'effetto che fa la nudità, in fondo). Su Anthology nel frattempo ne era uscita una altrettanto nuda ma un po' diversa. Nessuna può essere considerata quella definitiva, nessuna piaceva all'autore. È curioso perché alla fine ciò che cambia da una versione e l'altra è l'arrangiamento, mentre Lennon la canta allo stesso modo, commettendo sempre la stessa infrazione metrica alla fine della seconda strofa, che non finisce con un accordo minore come le altre due (come in quei tappeti persiani in cui una sola cucitura è sbagliata per dimostrare che sono fatti a mano). Il ritornello somiglia in qualche modo a un altro suo brano del 1969, Don't Let Me Down; dei due versi uguali ("Nothing's gonna change my world"), il primo crea tensione, il secondo la risolve, riportando la melodia al punto di partenza. L'ennesimo paradosso: della canzone che ci dice che ogni cambiamento è un'illusione non abbiamo nessuna versione definitiva. Solo tentativi, aggiustamenti, avvicinamenti: cambiamenti, appunto.




36. Lucy in the Sky With Diamonds (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, 1967).



Waiting to take you away. Prima di convertirsi e venerarla come Santa Lucia, i popoli nordici raccontavano ai loro bambini che nelle lunghissime notti intorno all'equinozio d'inverno il cielo fosse solcato da una demone, una donna malvagia, forse una strega: Lussi, con tutti i suoi seguaci: i lussiferda. I bambini che proprio insistevano a non volersi mettere a letto se la sarebbero vista brutta, giacché Lussi poteva entrare dal camino e portarli via. (Wikipedia dice proprio "take them away"). Lennon ha sempre negato che Lucy in the Sky parlasse di allucinogeni, il che è abbastanza implausibile. A Dick Cavett racconta di essersi ispirato al titolo di un disegno del piccolo Julian (acquistato qualche anno fa da David Gilmour), e di avere scoperto soltanto dai giornali che il titolo contenesse la sigla LSD – a qual punto si sarebbe subito messo a controllare se le sigle delle altre canzoni significassero qualcosa. Ma è lui stesso a raccontarci che in quel periodo assumeva LSD quotidianamente (una volta ne prese per sbaglio durante una session di Sgt. Pepper e rischiò parecchio perché George Martin, vedendolo confuso, pensò che avesse bisogno di un po' d'aria fresca e lo portò sul tetto) (se avete mai visto qualche vecchio film o telefilm con giovani americani in pantaloni a zampa di elefante, lo sapete già: mai portare sul tetto un ragazzo che ha appena assunto dell'LSD. Ci mettono un attimo a spiccare il volo).



The girl with kaleidoscope eyes. Per realizzare un caleidoscopio è sufficiente montare almeno due superfici specchianti all'interno di un cilindro di cartone, meglio se inclinate a formare un angolo di 60°. Accostando l'occhio a un'estremità sarà possibile vedere figure geometriche simmetriche disposte a triangolo equilatero: l'immagine diretta su un lato, le due immagini riflesse sugli altri due lati. Una ragazza dagli occhi caleidoscopici non sarebbe in grado di distinguerci dallo sfondo su cui ci stagliamo. E forse è meglio così: dopotutto noi chi siamo, per stagliarci? Quando poi si avvicinasse a noi, ci vedrebbe scomposti in cento triangoli, il nostro ego trasformato in tappezzeria Op-Art. In un modo analogo secondo Timothy Leary l'LSD conduceva la coscienza personale alla "morte dell'Ego". Leary era convinto di avere letto qualcosa del genere nel Libro Tibetano dei Morti (anche Lennon se ne procurò una copia), ma l'idea proveniva meno indirettamente dalla psicologia junghiana. Era stato Carl G. Jung a formulare l'ipotesi che in ciascuno di noi si annidasse un inconscio collettivo, un'eredità ancestrale  che in passato si era espressa in miti e in leggende. Forse Julian aveva sentito parlare a scuola della donna-demone Lussi. Forse John la vede, con occhi di caleidoscopio, pronta a ghermirlo. In quel momento si riscuote: Ringo batte 1-2-3, John canta: "Lucia nel cielo coi diamanti!" È un'invocazione o un grido d'allarme?

Ovviamente c'è chi a Jung non crede: macché inconscio collettivo, tutto quello che puoi trovare sotto il tuo ego non rimanda ad altri che a te. La morte dell'Ego è un'illusione, come uno specchio caleidoscopico che ti mostra diamanti presi da chissà dove, nient'altro che frammenti della tua stessa immagine. Arthur Janov, che ebbe in cura Lennon nel 1970, aveva un'opinione pessima di Leary e dell'LSD ("la cosa più devastante mai esistita per la salute mentale"). Lennon a quel punto aveva già smesso per i fatti suoi (troppi bad trip), ma l'opinione così netta di Janov avrebbe potuto indurlo a respingere ufficialmente ogni riferimento con la canzone. Era un padre di famiglia, dopotutto.

La copertina di Aoxomoxoa, dei Grateful Dead (1969)
 disegnata da Rick Griffin, uno dei Big Five di San Francisco.
Picture yourself in a boat on a river. Abbiamo già notato come il valzer porti una nota lugubre alle canzoni dei Quattro. L'ultima canzone registrata dai Beatles nel 1970 è un valzer, con un breve inserto r'n'r. La prima canzone in tre quarti di Lennon è anche la prima in cui si parla di morte. Un ritmo ternario compariva anche a sorpresa al termine del bridge di She Said She Said, la prima canzone a descrivere un viaggio di LSD ("Lei disse: so come ci si sente da morti"). È un curioso paradosso che una droga che avrebbe dovuto portare alla scoperta di una nuova dimensione della coscienza ripeschi dall'inconscio di Lennon una melodia in tre quarti che i suoi nonni avrebbero potuto ascoltare alle feste danzanti; nel frattempo dall'altra parte del mondo, a San Francisco, cinque illustratori cominciavano a disegnare i poster del Fillmore West in una specie di Art Nouveau delirante e strafatto che corrisponde visivamente alle suggestioni rétro di cui i Beatles cominciano ad abusare insieme con gli allucinogeni. Come se l'LSD schiudesse alcune botole sospese sulle soffitte del subconscio infantile.

Un triangolo di Penrose. By Tomruen - Own work, CC BY-SA 4.0
Lucy in the Sky è una canzone che insiste sul ritmo ternario con l'ossessività di un caleidoscopio. Sin dal titolo, tutto compare in gruppi di tre. La metrica stessa del testo non ammetterebbe una cadenza diversa: Lennon compone dattili come se non avesse mai fatto altro nella vita ("Pict/ure/ your // self / in/ a // boat / on / a // ri/ver/ with...). Eppure, malgrado tutto, c'è ancora un ritmo quaternario nascosto da qualche parte, un principio di realtà che impedisce a John di spiccare il volo e perdersi per sempre. Lucy in the Sky malgrado tutto è ancora una canzone, e il buon senso quadrato prescrive che le canzoni vadano avanti a coppie di due versi. Dopo quattro versi infatti la strofa cambia tonalità – dal La al Si bemolle, ed è come se ci trovassimo sulla seconda rampa di una scala escheriana triangolare, un triangolo di Penrose. Persino i gradini di questa rampa compaiono in gruppi di tre (Si bemolle, Do e Fa: la progressione del ritornello Strawberry Fields). "Cellophane flowers of yellow and green / towering over your head". Ma proprio quando pensavamo di avere capito, il caleidoscopio ci tradisce, il senso quadrato della realtà comincia a perturbare l'ordine triangolare del sogno: su "your head" siamo tornati al Si bemolle di partenza: quando il verso successivo comincia ("Look for the girl") siamo già al Do: la simmetria sta per spezzarsi, nel caleidoscopio compare all'improvviso un accordo nuovo, un Sol. La tonalità sta già cambiando, siamo pronti per la terza rampa, sennonché tutto si ferma all'improvviso. Il terzo lato del caleidoscopio è quello senza specchi. Ringo batte 1-2-3 e la canzone riparte... in quattro quarti. Come osserva questo youtuber (che è bravissimo), Ringo sembra accelerare il battito, ma in realtà azzecca senza metronomo un rapporto quasi esatto tra il ritmo ternario della seconda rampa e quello quaternario della terza –  proprio come se quel 4/4 esistesse già, sepolto sotto gli strumenti e le immagini lisergiche, e a Ringo spettasse soltanto riportarlo alla luce. Gli accordi ora sono Sol, Do e Re, nella più classica delle disposizioni: I-IV-V. Ovvero (ci avevate fatto caso?) il ritornello di Lucy in the Sky è  Twist and Shout. O se preferite: Lucy in the Sky è quel che succede a Twist and Shout se la infili in un caleidoscopio. Non hai fatto in tempo ad accorgertene, che alla terza invocazione ricompare il La iniziale, e siamo di nuovo sulla prima rampa. Il ciclo si ripeterà, indovinate, altre due volte (la terza, per evitare la noia, si salta la rampa intermedia).

Climb in the back with your hands in the clouds and you're gone. Oltre a Twist and Shout – la cui cadenza ritorna ovviamente tre volte nella canzone, Lucy ricorda un altro brano di metà anni Sessanta che aveva incastonato la stessa progressione I-IV-V nel ritornello: Like a Rolling Stone (potete benissimo cantare i ritornelli uno sull'altro, se non c'è nessuno in casa a sentirvi: "Lucy" parte nel momento in cui Bob canta "Stone"). Lucy è un valzer: anche Rolling Stone all'inizio era un 3/4, almeno nella testa di Dylan. Nella traiettoria lisergica di Lennon, Lucy è il punto più alto: quello in cui rischia seriamente di perdersi in volo. Non è così chiaro se Lucy sia l'emissaria di una divinità che vorrebbe portarselo via o una donna che lo salva riportandolo a terra: sia come sia, nel momento in cui la realtà bussa alla porta, è fantastico che bussi con le bacchette di Ringo e che faccia partire un rock'n'roll.



35.  For No One (Lennon-McCartney, Revolver, 1966)

You want her, you need her, and yet you don't believe her. Dei tre verbi che di solito arrivano assieme (want, need, love) manca il più importante, al suo posto c'è il più amaro. Tra i titoli possibili per il disco del 1966, una volta scoperto che Abracadabra era già stato preso, accanto a Four Sides to the CircleAfter Geography e Rock'n'Roll Hits of 1966, Bob Spitz include anche Pendulum. Non c'è dubbio che Revolver suoni meglio, e che la rotazione sia una metafora più dinamica e coinvolgente rispetto all'oscillazione. E tuttavia c'è qualcosa di manifestamente pendolare in Revolver, un movimento abbastanza meccanico tra due identità sempre più definite e in contrasto fra loro: Lennon e McCartney ormai sono due polarità. Oppure in certi casi è lo stesso McCartney a oscillare tra due opposti: allo spettro della solitudine di Eleanor Rigby fa specchio l'utopia infantile di Yellow Submarine. Quanto a For No One, è difficile non immaginarla come la risposta gelida al sentimentalismo di Here, There and Everywhere. L'arrangiamento barocco è meno vistoso di quello di Eleanor e ha una funzione opposta: invece di accrescere il pathos, mantiene una sensazione di estraniamento. Lo senti già dal ritmo della strofa, una specie di valzer quadrato (un colpo in battere e tre in levare) spigoloso e artefatto – l'opposto di quel senso di liquida intimità che i cori conferivano alla strofa di Here, There. Quest'ultima cominciava con un languido verso introduttivo: For No One parte immediatamente col cantato, come se Paul non avesse tempo da perdere e in effetti uno dei suoi argomenti è che le relazioni fallite sono una gran perdita di tempo.

For No One è la più classica delle canzoni di disamore di McCartney, a questo punto ormai diventate un sottogenere codificato. È la più amara: la prima in cui la partner assume la terza persona, segno che ormai la separazione si è consumata. È anche l'ultima: fa un certo effetto pensare che Paul e Jane Asher avrebbero continuato a vedersi per altri due anni. Per trovare di nuovo un'amarezza del genere in un brano di Paul bisognerà attendere Abbey Road, e a quel punto non sarà la fine di una coppia, ma la fine del gruppo. Come ogni altra canzone di disamore, è disarmante: quando al colmo dell'amarezza Paul canta "A love that should have lasted years!" non puoi fare a meno di pensare che di solito nelle canzoni l'amore è eterno, anche solo per convenzione. Non per Paul: Paul aveva previsto un tot di anni insieme a questa persona e adesso è un problema, bisognerà trovare un rimpiazzo, una supplente, allestire dei provini in corsa, che fatica.

C'è un assolo smagliante di corno inglese accelerato (George Martin e Paul McCartney stavano inventando in laboratorio strumenti che non esistevano) che ti lascia lucido e impassibile. Ci sono versi di una freddezza definitiva, costruiti con un lessico di base ma con l'abilità necessaria per metterti nella posizione di disagio in cui si trova l'io narrante: "tu stai a casa, lei esce, dice che tanto tempo fa conosceva qualcuno ma adesso se n'è andato, non ha più bisogno di lui". Non riesci nemmeno a capire se sta parlando di te, non è il caso di chiedere, l'unica cosa è far finta di niente e ci provi, stai osservando più te stesso che lei, è quel tipo di emozione che sperimenti quando stai pilotando una relazione verso la fine riducendo i danni. Non proprio l'emozione che vorresti provare ascoltando un disco pop o rock, ma è un'emozione pure questa e Paul l'ha messa in una breve canzone per il grande pubblico. È stato probabilmente il primo della sua generazione a riuscirci (in America c'era Dylan che però poteva girare intorno al concetto per otto strofe). Tutt'intorno c'erano ancora innamorati o semplici ingrifati che ululavano alla luna. Lei piange, ma per chi? Come aveva già scoperto John in I'm a Loser, siamo tutti soli quando piangiamo. Le lacrime servono solo a noi stessi: o a nessuno.




34.  Dear Prudence (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).

"...Nessuno poteva sapere che presto o tardi sarebbe andata completamente fuori di testa sotto la cura di Maharishi Mahesh Yogi. Tutta la gente intorno era molto preoccupata per la ragazza, perché stava diventando matta, così noi le abbiamo cantato..." (recitativo di Lennon, dal demo di Dear Prudence registrato ad Esher).

La prima cosa che sentiamo emergere dal frastuono aeroportuale di Back in the USSR è un arpeggio di chitarra acustica. Non è il primo, ma suona come se lo fosse. I Beatles hanno scoperto il fingerpicking: per impararlo hanno dovuto davvero prendere l'aereo e viaggiare nell'altro capo del mondo, anche se alla fine il loro maestro era un chitarrista di Glasgow, Donovan Phillips Leitch. È uno degli aspetti che dividono il Disco Bianco dai precedenti: a partire dal 1966 e fino a tutto il Magical Mystery Tour, i tre compositori dei Beatles avevano preferito cercare nuove melodie su strumenti a tastiera. Il soggiorno in India cambia tutto: i Beatles passano più tempo all'aria aperta e si ritrovano più facilmente una chitarra tra le mani. C'è un bel sole, il cielo è azzurro, solo la sorellina di Mia Farrow non vuole uscire a giocare. Che in inglese si dice "play", e indica anche i giochi che si fanno con gli strumenti: la musica, insomma. "Scelsero me e George per cercare di tirarla fuori perché di noi si sarebbe fidata. Se fosse stata in Occidente, l'avrebbero ricoverata... Era rimasta rinchiusa per tre settimane, cercando di arrivare a Dio più rapidamente di chiunque altro. Questa era la competizione al campo di Maharishi: chi sarebbe diventato cosmico per primo".



I due ingredienti di molte canzoni del Bianco sono tipicamente chitarristici: riff insistiti e arpeggi. In Dear Prudence, oltre all'arpeggio così tipicamente lennoniano, verso la coda si aggiunge anche un riff a mò di contrappunto in classico stile George Harrison. Salvo che né Lennon né Harrison avevano mai suonato le chitarre così: è un nuovo inizio per entrambi. In sostanza la miscela di suoni hard rock e folk che costituirà la formula del rock milionario della prima metà degli anni Settanta era già a disposizione dei Beatles dalla primavera del 1968. Nel giro di due brani, il Disco Bianco è già oscillato da Chuck Berry ai Led Zeppelin.

Dear Prudence è una canzone che ha mantenuto una sua 'credibilità rock' per molto più tempo di altre composizioni di Lennon-McCartney: tornerà in classifica addirittura nel 1983 nella versione postpunk ma non troppo infedele di Siouxsie and the Banshees (con Robert Smith alla chitarra). Nel frattempo il fingerpicking era diventato un fenomeno di massa. Le nozioni che Donovan generosamente aveva condiviso con John venivano scambiate da milioni di chitarristi da falò ai loro discepoli ansiosi di far bella figura con ragazze. Tutte queste cose però Lennon non poteva ancora saperle, quando escogitava un arpeggio per snidare Prudence Farrow dal suo bungalow. Il canovaccio che milioni di ragazzi avrebbero recitato sulle spiagge del mondo libero per almeno vent'anni, comincia nel resort del Maharishi. Lennon si trova a essere un pioniere anche stavolta, e anche stavolta ci regala qualcosa di meno banale di tante cose venute dopo. Il suo arpeggio è una ruota di note gentili, delicate, ma anche insistenti, ossessive. Cara Prudence, bisogna proprio che vieni fuori. Gli accordi scorrono con grazia, ma il mi cantino continua a suonare quella nota assillante che dà tregua né a chi ascolta né a chi suona. C'è un limite oltre il quale l'insistenza diventa stalking, e non è escluso che Lennon in Dear Prudence lo oltrepassi. D'altro canto, perché dobbiamo sempre fissarci sul lato negativo? Il sole è alto, il cielo e blu, Dear Prudence è una bella canzone e John Lennon quel pomeriggio un tipo simpatico che si preoccupava per una ragazza che meditava troppo.



33. Please Please Me (Lennon-McCartney, lato A del primo singolo del 1963; poi nell'album omonimo).

Last night I said these words. E se decidessimo che è tutto cominciato con i Beatles? Come il Big Bang. Potremmo stabilire che tutta la cultura pop prima di loro non esistesse, e un attimo dopo fosse completamente compresa in loro, già in fase di espansione. Il rock, il pop, le boyband, la psichedelia, la musica elettronica... tutto ciò che ora popola galassie lontane, già in embrione nei Beatles. In questo caso Please Please Me sarebbe una delle prime rapidissime ere dell'universo, magari l'era della nucleosintesi (in cui la maggior parte dei neutroni decadde in protoni). Durò più o meno 100 secondi; Please Please Me non molti di più. Ma in quei secondi possiamo ingegnarci a trovare le tracce di qualsiasi cosa. C'è il rock, ovviamente ("Come on! Come on!), c'è la sfida al pentagramma di Paul che cantando tiene la stessa nota anche quando John è appena un semitono più sotto; c'è un riff di armonica ma anche due rapidi riff di chitarra a metà strofa, i giochi di parole ammiccanti (quei due "please" che suonano uguali e dicono l'esatto opposto: "ti prego, soddisfami"), un certo tasso di possessività maschile ancora confusa con un sentimentalismo sfacciato e persino qualche timida incursione nel surreale ("c'è sempre pioggia nel mio cuore"). Ci sono i ritornelli e c'è un bridge, c'è un finale con Ringo in gran spolvero perché deve dimostrare che merita di suonare in studio con gli altri tre. Potremmo decidere che è tutto cominciato così, con l'armonica di John Lennon che separa la luce dalle tenebre. Ma dobbiamo proprio?

È come se avessimo bisogno di leggende ed eroi, ci spiegava Stephen Jay Gould in Bravo Brontosauro. Ogni volta che ci viene proposto di scegliere tra un mito della creazione e una teoria dell'evoluzione, il primo ci sembra più praticabile. Gould faceva l'esempio del baseball: se gli americani avessero accettato che era nato dall'evoluzione continua di altri giochi con la mazza e con la palla provenienti dalle isole britanniche, non avrebbero avuto eroi da onorare e musei da visitare. Niente simboli, niente storie epiche: una storia che ti priva di queste cose, è ancora una storia che vale la pena raccontare?

"Sono nato nel 1963, quello che, per ragioni varie e non solo narcisistiche, considero il Primo Anno del Rock. (Il rock'n'roll anni cinquanta era più grezzo e spettacolare; è nel 1963 – l'anno di Beatles, Dylan e degli Stones – che l'idea del rock come Arte, del rock come Rivoluzione, del rock come Stile di Vita e del rock come Forma Consapevolmente Innovativa cominciò davvero a esistere)". In questo brano di Retromania (2011) Simon Reynolds afferma la sua fede in un mito della creazione: non è che non si suonasse qualcosa di simile al rock anche prima del 1963, ma... in un qualche modo non conta; l'Arte, la Rivoluzione, lo Stile di Vita, la Consapevolezza cominciano con l'armonica di Lennon. Eppure.


Eppure basta avvicinarci al supposto Big Bang per scoprire che tante cose esistevano già. Persino quell'armonica, sappiamo che Lennon l'aveva ripresa in mano perché ne aveva sentita una nel brano che aveva appena scalato le classifiche inglesi. La stessa Please Please Me, che all'inizio era più lenta e confidenziale, per sua ammissione era un tentativo di imitare, "tra tutti, proprio Roy Orbison". E se il risultato finale dopo l'accelerazione impressa da George Martin, non assomiglia a nessuna canzone di Orbison in particolare, sembra però adattarsi alla descrizione che ne dà Dylan nella sua autobiografia: "Orbison andava al di là di tutti i generi, folk, country, rock and roll o qualunque altra cosa. Mescolava tutti gli stili, compresi quelli che non erano ancora stati inventati. In un verso cantava veramente da cattivo, in quello dopo se ne usciva con un falsetto alla Frankie Valli. Con Roy non si sapeva mai se stavi ascoltando del mariachi o un'opera lirica". L'Orbison idealizzato da Dylan è già un autore postmoderno, un'enciclopedia di stili che sfoglia e ricombina a suo piacimento, sempre con l'obiettivo di stupire l'ascoltatore. Please Please Me è un brano che conserva questa imprevedibilità: anche dal cantante non sappiamo cosa aspettarci, è una canzone d'amore o di frustrazione?

"I don't want to sound complaining", mente John, che nel brano si lamenta eccome: ma il prodotto finito è così scoppiettante che anche le sue recriminazioni sembrano uno scherzo. I più smaliziati in effetti leggono in Please Please Me l'auspicio di una più generosa disponibilità della partner al sesso orale ("as I please you"), e se la cosa può sembrare un po' osée per il 1963, bisogna ricordare che anche in questo i Beatles non facevano che rispondere alle sollecitazioni dell'ambiente: se non avessero inciso Please l'alternativa sarebbe stata l'altrettanto ammiccante How Do You Do It di Mitch Murray ("Come fai a fare le cose che mi fai? Se sapessi come fai te le farei"). Dopotutto la Parlophone era famosa per i dischi di varietà. I Beatles non avevano ancora messo a fuoco il loro target: nel giro di pochi mesi, man mano che si chiariva l'età piuttosto bassa e la preponderanza femminile del loro pubblico, i riferimenti al sesso si sarebbero stemperati..

C'è veramente tanta roba in Please Please Me, come se i Beatles ritenessero di avere a disposizione solo un altro singolo per sparare tutte le cartucce che avevano: e forse era così. Ma se Reynolds avesse voluto guardare più da vicino, avrebbe constatato che è tutta roba che esisteva già: i Beatles muovono i primi passi in un mondo già saturo di stili musicali. Quello che dal nostro remoto punto di vista sembra il Big Bang, non era che una collisione di elementi già disponibili in natura. Certo, accettarlo implica una concessione pesante: ammettere che l'universo esisteva, e suonava musica interessante, anche prima che nascessimo noi.




32.  Day Tripper (Lennon-McCartney, singolo, dicembre 1965)



Ci ho messo così tanto ad accorgermene. Dando un'occhiata alle classifiche appare abbastanza chiaro che Day Tripper fu un mezzo passo falso, soprattutto negli USA. Dopo tre anni, John Lennon aveva anche il diritto di farne. Eppure in un certo senso non se ne riprese più: su Day Tripper aveva scommesso, si era impuntato contro il parere dei colleghi; aveva preteso che non fosse considerato un Lato B, ma una canzone a pari dignità con quella della facciata opposta. Col senno del poi, la posta in gioco era la direzione artistica del quartetto, che dal 1966 passa inesorabilmente al collega che nell'anno precedente aveva associato la sua voce e la sua immagine a Yesterday e Michelle. Paul si assumerà la responsabilità del lato A del singolo successivo (Paperback Writer), di entrambi i lati del seguente (Eleanor Rigby Yellow Submarinee di quasi tutti i singoli da lì in poi, pur con eccezioni importanti (Strawberry Fields almeno ottenne pari dignità rispetto a Penny Lane). È interessante notare che il 1965 che termina con passo falso di Day Tripper, era iniziato con un singolo completamente lennoniano: Ticket to Ride / Yes It Is.

Ma anche nei confronti di un brano innovativo come Ticket, questa Day Tripper risultava un po' deludente, al punto che gli stessi autori sentirono abbastanza presto la necessità di giustificarsi: era un brano scritto in fretta per rispettare una scadenza. Il che in realtà si potrebbe dire quasi di tutti i brani dei Beatles – soprattutto dei primi quattro anni – ma non particolarmente di Day Tripper, che cronologicamente appartiene al blocco delle canzoni di Rubber Soul: per dire, tre giorni prima di inciderla avevano già completato Drive My Car; nello stesso giorno finirono If I Needed Someone, due giorni dopo In My Life, quattro giorni dopo la canzone "rivale", We Can Work It Out. Non è che fossero a corto di buone canzoni, insomma. Ma in un qualche modo Lennon pensava che Day Tripper avrebbe funzionato come singolo meglio di tutte le altre: e si sbagliava. Un anno prima aveva scommesso su I Feel Fine e aveva portato a casa la quinta Numero Uno in due anni. Il riff di Day Tripper nasce proprio come un'evoluzione di quello di I Feel Fine: è più incisivo ma ancora piuttosto ingombrante. Per Lennon la direzione era segnata: i Beatles dovevano indurirsi, lasciare perdere i coretti sdolcinati che ancora incrostavano il bridge di I Feel Fine, assumere un atteggiamento più disincantato nei confronti delle relazioni con l'altro sesso.

Day Tripper è una risposta alla sfida dei gruppi che stavano avendo successo con pubblici più maschili: gli Who di My Generation, i Rolling Stones di Satisfaction. Prima ancora che con le parole, Lennon risponde con la chitarra: suonate questo riff se ne siete capaci (il riff dal vivo però lo suonava George). Proprio quando la solita alternanza di Mi, La e ancora Mi ti ha convinto che Day Tripper è il solito blues, e che stavolta insomma i Beatles non si sono sprecati a inventare qualcosa di nuovo, proprio quando stai per aspettarti il solito Si, la progressione tradisce le tue aspettative con un Fa#: per una coincidenza che forse non lo è, è anche il momento in cui John e Paul scoprono che la tizia è un'impostora, una poser, una che che vuole essere a casa in giornata ("She was a day tripper!") Da lì in poi non c'è più nessun sentiero tracciato: per una battuta si torna al La ("It took me so"...), ma solo per scivolare un semitono più sotto ("...long"), dal La bemolle si rimbalza di una quinta al Do# ("to find out"), e a quel punto per una strada completamente nuova ritroviamo il caro vecchio Si: e per una coincidenza che forse non lo è, il testo ripete "And I found out". Un bel viaggio, anche se breve. Ma purtroppo quando fai uscire un singolo la prima impressione è molto importante: e la prima impressione che lasciava Day Tripper veniva impressa dalle prime battute: un riff pentatonico su un blues, niente che gli stessi Beatles non ci avessero già fatto ascoltare con I Feel Fine, appunto. Quanto al bridge, tutto su un accordo solo con le voci armonizzate che salgono di tono e di volume, sembra quasi ritagliato da Twist and Shout, uno dei primi esempi di autocitazione.

Per quanto riguarda le parole, si fa fatica a non interpretare Day Tripper come un'evoluzione cinica di Ticket to Ride: la presa di distanza da una ragazza che simulava una disponibilità che non aveva intenzione di concedere davvero. Per l'ennesimo buffo paradosso, questa canzone che evidentemente parla di sesso e di quanto sia frustrante a volte cercarlo, è una delle poche che sia per John sia per Paul parlerebbe invece di stupefacenti. Lucy no, Cold Turkey neanche, ma questa sì. Dovremmo dunque credere che "tripper" alluda già alle prime esperienze di LSD; che i Beatles a fine 1965 avessero spalancato le porte della coscienza al punto da dedicare mezzo singolo di Natale a irridere i "viaggiatori della domenica", quei poveri mortali che facevano della droga ancora un banale uso ricreativo. Uno sfoggio di snobismo mai svelato fino a quel momento, e nemmeno in seguito. Dovremmo credere a tutto questo quando sappiamo benissimo che durante le prove Paul e John cantavano "she's a prick teaser". Ma forse negli anni successivi ammettere di avere fatto uso di droghe era più socialmente accettabile di essersi comportati da stronzi con una o più groupie. Forse uno dei motivi per cui Day Tripper non aveva funzionato era proprio questo tipo di stronzaggine, perfetta nella bocca larga di un Mick Jagger, ma che non si adattava né all'immagine pulitina dei Beatles pre-Day Tripper  né a quella peace and love che si sarebbe messa a fuoco nei mesi successivi. I Beatles potevano assumere tante forme, ma non potevano fare gli stronzi. Lennon ogni tanto ci provava, ma pensare di poterlo fare sul singolo di Natale fu imperdonabile.



31. She Said She Said (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

"Peter Fonda continuava a sedermi di fianco e a mormorare: "so come ci si sente a essere morti". Gli dicevamo "Per l'amore del cielo, taci, non ci interessa! Non vogliamo saperlo!"

She said: you don't understand what I said. I said no no no, you're wrong. Ecco, questa è la prima volta che m'incazzo io. Cosa ci fa fuori dalle prime trenta un brano da podio? Delle due tracce di Revolver che suonavano ancora attuali ancora negli anni '90, She Said She Said è apparentemente meno innovativa di Tomorrow Never Knows. Eppure quando penso a tutti i tentativi di stravolgere la forma "canzone rock" nell'ultimo mezzo secolo, continua a non venirmi in mente niente di più estremo del passaggio a 3/4 di She Said She Said. Una soluzione che in altri casi viene dispensata con compiacimento e qui invece è tanto inattesa quanto necessaria – come rompere la tela di un quadro, e poi riaggiustarla appiccicandoci il disegno di un bambino ("when I was a boy...")

Peter Fonda uscito da un tribunale a Los Angeles,
dov'era stato interrogato per possesso di marijuana, nel 1966
(AP Photo/Ellis R. Bosworth)
Lennon mi stava fissando e disse: "Sai cosa significa essere morti? Chi è che ti ha messo tutta quella merda in testa? Lo sai, mi stai facendo sentire come se non fossi mai nato".

In She Said She Said manca Paul McCartney – un fatto rarissimo in tutta la discografia beatle: succede soltanto in qualche altro brano fortemente idiosincratico, come Julia o Revolution 9Lo stesso Paul ha ricordi confusi, ma potrebbe essere l'unica volta che se n'è andato dopo una discussione. Il sospetto che non riuscisse a mandar giù quel bridge in 3/4 è irresistibile. Magari era convinto che avrebbe rovinato la canzone e oggettivamente non avrebbe tutti i torti – ma cosa significa "oggettivamente". Paul era anche l'unico dei quattro a non avere assunto LSD durante la festa nella residenza californiana di Zsa Zsa Gabor, il 24 agosto 1965. Per Ringo fu la prima volta: per John e George la seconda dopo un primo test involontario in primavera, quando un dentista gliene aveva somministrato senza avvertirli.

Forse è solo una coincidenza: fatto sta che gli altri tre ci danno dentro come se non ci fosse un domani (Ringo è nella modalità Rain) e il risultato è un rock trasudante un'angoscia esistenziale che diventerà moneta corrente solo due generazioni più tardi. Nessun altro gruppo nel 1966 sarebbe riuscito a suonare o anche solo a concepire She Said She Said: ci voleva una fantasia e un coraggio che solo i Beatles potevano permettersi. Come molte canzoni di Revolver, She Said parla di droga, ma senza condividere i toni euforici di Got to Get You né quelli estatici di Tomorrow Never Knows: qui si comincia a intuire che la droga è un altro punto di vista sul disagio di vivere. She Said è la prima canzone sugli acidi ed è anche la canzone che ti avverte che gli acidi sono un casino, meglio evitarli se hai cattivi pensieri, e chi non ne ha? No no no chi vi ha messo tutte queste sciocchezze nel cervello, sarebbe meglio non essere mai nati.

4 commenti:

  1. Chi "jumps the gun" è l'atleta che parte prima dello sparo dello starter. La madre superiora l'ha già fatto (jumped).
    Non che questo chiarisca alcunché, almeno a me. Perciò conto sulla tua esegesi, come sempre (grazie).
    Mario

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    1. Grazie! la prima cosa che mi viene in mente a questo punto è un'eiaculazione precoce (chissà perché è la prima cosa che mi viene in mente).
      C'è una registrazione famosa in cui prima di attaccare una canzone Paul rompe un bicchiere e Lennon comincia a canzonarlo in un modo simile: Paul broke a glass, he broke a glass today, etc.

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  2. spero che quando avrai finito la classifica ripubblicherai tutto in ordine cronologico cosi posso ripescare le canzoni più facilmente seguendo il titolo degli album e poi aper esempio è più interessante sapere cosa pensi di I'm only sleeping del fatto che sia al numero 40
    bye

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