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martedì 28 febbraio 2023

Il samurai nell'inferno di Unzen

28 febbraio: martiri dell'inferno di Unzen (28/2/1627)

https://peterlamphotography.com
/2018/03/24/the-hells-of-unzen/
I resoconti dei martiri del Kirishitan – il cristianesimo giapponese – sono spesso raccapriccianti. O forse è la mia sensazione? Sono talmente assuefatto ai racconti occidentali di fanciulle mutilate e date in pasto alle belve che non ci trovo ormai niente di strano, mentre le crocifissioni di massa praticate dai giapponesi nel Seicento mi sgomentano. Se qualche martire da noi è mai stato davvero gettato nella bocca di un vulcano, è stato così tanti secoli fa che non ho difficoltà a considerarla una leggenda: ma che sia successa la stessa cosa appena 400 anni fa a Unzen Jigoku (un piccolo vulcano vomitante acque sulfuree e corrosive, spesso tradotto "inferno dell'Unzen") mi ispira un genuino orrore. 

Mi piacerebbe essere sicuro che i testimoni abbiano esagerato: documentare la persecuzione anticristiana dello shogunato era oggettivamente difficile; e siccome oggi la memoria interrotta del Kirishitan è soprattutto una questione turistica, preferisco coltivare il sospetto che una certa insistenza sulla crudeltà dei boia e sull'eroismo delle vittime sia quello che il pubblico internazionale vuole sentirsi raccontare: il Giappone piace estremo. Altrimenti non è facile capire le ragioni di una crudeltà che sorpassava la necessità di eliminare il culto che lo shogunato percepiva come un fattore di disgregazione e di apertura al mondo esterno (si sbagliava?)

Il 28 febbraio del 1627 il samurai Paolo Uchibori viene condotto con altri 14 cristiani presso il vulcano. Il giorno prima Uchibori è stato costretto a vedere i suoi figli morire annegati, dopo che le guardie dello shogun avevano loro mozzato le dita delle mani, una alla volta. Quando il primo dei prigionieri, a comando, salta dentro il vulcano, Paolo ammonisce gli altri: fatevi spingere, un buon cristiano non deve dare l'impressione di suicidarsi. Il rifiuto del suicidio rituale è il tratto che forse più distingueva i samurai cristiani, anche quando combattevano al servizio dello Shogun. 

Paolo viene soppresso per ultimo, nel modo più doloroso: viene infatti calato nel fango ardente a testa in giù. Per tre volte viene risollevato dallo stagno tossico, per verificare se non ha deciso di pentirsi; per tre volte ripete: Sia gloria al santissimo sacramento. Amen. L'ipotesi estrema è che il cristianesimo portato nell'arcipelago da francescani e gesuiti, con le sue cupe storie di martiri, abbia risvegliato una inclinazione alla violenza che nell'arcipelago era stata mitigata da altre culture (il buddismo?)

lunedì 27 febbraio 2023

Un angelo chiamato Gabriele

27 febbraio: San Gabriele dell'Addolorata (1838-1862)

Se me la sentissi di scherzare sulla vita di un ragazzo tisico morto a 24 anni, potrei chiamare Gabriele dell'Addolorata il poster boy dei passionisti, e in effetti l'ho appena fatto. 

L'episodio che ho in mente è l'incontro di Gemma Galgani coi padri passionisti, mezzo secolo dopo la morte di Gabriele: Gemma ha appena undici anni ed è reduce da un'esperienza non esaltante in un convento di visitandine. Se decide di fidarsi dei Padri, è perché riconosce il loro abito; l'ha visto nelle illustrazioni del libro che le ha regalato la maestra e da cui non si è separata nei giorni più dolorosi della malattia: la biografia di San Gabriele. 

I Padri sono persone autorevoli, adulte: ispirano deferenza e Gemma ci metterà un po' a trovare un confessore con cui aprirsi. Gabriele invece è un ragazzo, dal volto e dal nome angelico, che porta lo stesso abito e reca un messaggio neanche troppo implicito: morire giovani non è così male, si arriva in paradiso in forma e là si può stare in compagnia. 

Gabriele diventerà l'amico immaginario di Gemma: il suo angelo custode e il visitatore notturno più assiduo (più di Gesù e del diavolo); quello con cui può scherzare e che la può bonariamente minacciare. L'Ottocento è stato il secolo della tubercolosi, una malattia che con vari nomi ci perseguitava dalla preistoria, ma che nel secolo romantico diventa una specie di status symbol. Le donne tisiche ispirano poesie e romanzi, da Leopardi a Dumas figlio; quelle sane si truccano per sembrare un po' più smorte, fragili e sexy. 

La tubercolosi porta anche nei calendari cattolici qualche bambino (Domenico Savio, il ragazzo-manifesto dei Salesiani) e bei ragazzi come Gabriele (al secolo Francesco Possenti, nato ad Assisi, entrato nei passionisti a 18 anni dopo aver sentito una chiamata della Madonna e dopo perso la sorella maggiore a causa del colera).  La tbc insomma nell'Ottocento contribuisce a svecchiare l'immagine del paradiso e a trasformarlo in un posto più desiderabile per altri giovani destinati a morti precoci, almeno fino alla scoperta degli antibiotici, all'invenzione dello pneumotorace, all'introduzione dei vaccini. E ciononostante le fiction sentimentali coi ragazzini malati continuano a funzionare. Nel frattempo la tbc non smette di impensierirci, tanto più che alcune varianti risultano resistenti agli antibiotici.

domenica 26 febbraio 2023

Costanzo ha una responsabilità

La scorsa settimana Rihanna ha fatto quello show al Superbowl, l'avrete vista no? Poi l'altro ieri è scomparso Maurizio Costanzo – nei confronti del quale mi dichiaro neutrale, non sono mai riuscito a trovare niente di interessante in quello che faceva che comunque non ho mai visto per più di dieci minuti senza cambiare canale. Può darsi che questa sostanziale immunità ai talk notturni fiume sia una menomazione, eppure ho il sospetto che se in Italia ci fossero stati più menomati come me Vittorio Sgarbi avrebbe fatto il... il... (scusate lo stallo, ma non riesco a trovargli un solo mestiere onesto, giuro, è da tre minuti che ci provo e qualsiasi uniforme o camice gli metto addosso non c'è niente da fare, nella mia testa lo cacciano a pedate il secondo giorno e/o finisce al gabbio, no ma grazie Maurizio Costanzo).

Beh certo, qui avrei potuto mettere una foto di Costanzo.

La coincidenza di questi due eventi totalmente irrelati – Rihanna pregna, Costanzo defunto – mi ha riattivato un ricordo abbastanza remoto, non saprei dire in che anno fossimo, ma doveva essere l'anno Uno da Umbrella, ve la ricordate Umbrella? Vi ricordate che per tre mesi non si era sentito altro, ed era il momento in cui le canzoni si cominciavano a sentire anche al telefono, e da tutti i telefoni si sentiva Umbrella? Era lievemente pervasiva, ecco. Io ero al ristorante con gente di un certo spessore intellettuale,  e a un certo punto uno di loro si lascia sfuggire che Maria De Filippi era un genio.

Io lo giuro, al ristorante sono una persona molto più conciliante che qua sopra, epperò questa cosa di chiamare X un genio non la sopporto, perché alla fine cos'è un genio? Per prima cosa è una persona più brava di me, e questo già mi mette in una cattiva disposizione d'animo. Anche per evitare questa cosa milito da anni in una corrente di pensiero che si rifiuta di considerare la "genialità", di solito prendiamo i geni del passato, li passiamo al microscopio finché non scopriamo che erano semplicemente le persone giuste nel momento giusto, gran parte delle loro innovazioni in realtà le avevano scopiazzate, altre non funzionavano ecc. ecc. Nel caso di Maria De Filippi, però che microscopio vuoi usare? Cos'è che avrebbe inventato che non sia una copia cheap di qualcosa che era già bruttino in partenza?

Io insomma obiettai che un genio forse sarebbe stato in grado di fare una televisione più interessante di un'infinita diretta dal salone di una parrucchiera (ero ancora sotto choc da quella volta che un dentista mi aveva ricevuto al pomeriggio e alzando la poltrona verso il soffitto mi ero ritrovato immobilizzato davanti a un televisore che mandava Uomini e Donne, io cercavo di concentrarmi sul dolore che stavo provando mentre mi trapanava il dente, ma niente da fare, Uomini e Donne a metà pomeriggio, vi rendete conto). 

Comunque questo tizio, cominciate a immaginarvi il tipo, l'accento metropolitano con qualche sprezzatura da fuorisede e gli anglismi da laureando in scienze della comunicazione, riuscite a vederli i baffetti? Insomma questo tizio a spiegare che invece no, era proprio quello il suo genio, questo lungo protrarsi della diretta pomeridiana, "la tv come flusso" deve avere detto così, e io obiettavo che vabbene il flusso, ma se non riesci neanche ada annunciare i break pubblicitari e il regista esasperato ti stacca a metà discorso forse non rispetti il mezzo che stai usando, quel minimo di sintassi che ti impone la tv commerciale. A quel punto lui comincia a sospettare che io sia l'astruso intellettuale nella torre d'avorio e che non capisca il popolo, perché è quello che fa Maria, no? dare la voce al popolo – io obietto che per quanta ne avevo visto io, la tv defilippiana non era poi così rispettosa del popolo, anzi piuttosto paternalista/maternalista nei confronti di una plebe messa davanti a un obiettivo talvolta davvero parecchio cinico, e non era un caso che piaccia a diversi intellettuali autopercepiti che almeno una volta alla settimana devono sincerarsi di essere migliori di qualche poveraccio. 

Ma lui a quel punto non mi sentiva più, aveva capito tutto di me, evidentemente passavo le mie serate a leggere l'epopea di Gilgamesh in lingua originale e non capivo le necessità della gente, di fare televisione da sola, di specchiarsi, di capirsi, io ci provavo anche a obiettare che lo specchio comunque è sempre qualche borghese romano che lo tiene in mano, che proprio perché la tv è una cornice c'è sempre qualcuno che decide cosa mostrare e cosa no, e che quel qualcuno ha immense responsabilità: può decidere di occupare il palinsesto con cose belle ed educative o con "flussi" di chiacchiere e fotoromanzi; che l'abbassamento del livello culturale era un fatto, la Mediaset aveva precise responsabilità, la Fascino aveva la sua parte di responsabilità, è inutile nascondersi dietro i flussi e dietro gli specchi quando il risultato è che dopo un po' tutto diventa lo stesso pastone sonnacchioso, nel quale anche qualche intellettuale certo ogni tanto ama indulgere... e a quel punto mi ero reso conto che dalla televisione si sentiva Rihanna. Ma dov'ero rimasto?

Ah sì, dicevo, anche l'intellettuale ogni tanto ama indulgere in questo pastone sonnacchioso, ma col cinismo del privilegiato che tra Rihanna e Mozart ogni tanto legittimamente preferisce Rihanna, e però in casa ha tutto il Mozart che vuole e può cambiare programmazione appena vuole, mentre il "popolo", se tu stai nella stanza dei bottoni e decidi di programmare soltanto Rihanna, non avrà scelta e ascolterà soltanto Rihanna, e a quel punto lui mi disse, a me intellettuale eburneo, disse:

– Chi è Rihanna?

sabato 25 febbraio 2023

Abbiamo visto primarie peggiori

Ogni volta che sento qualcuno lamentarsi che queste Primarie PD sono noiose, che seguono un copione risaputo, che non c'è più quella vitalità di un tempo... ogni volta che sento questa cosa, mi domando se il tizio si ricorda qual è stata l'ultima primaria del PD, e per chi ha votato. Cioè, posso capire che una sfida tra un presidente di regione e la sua ex vice presidente possa apparire un gioco delle parti: ma ve lo ricordate chi c'era a giocare quattro anni fa? Probabilmente no, vi sblocco il ricordo: Zingaretti, Martina, Giacchetti. Almeno di solito su tre candidati c'è qualcuno che gioca per vincere: nel 2019 neanche Zingaretti sembrava molto eccitato all'idea. Per male che vada, chi vincerà stavolta (ovvero Bonaccini) il PD lo governerà davvero, almeno fino alle prossime legislative: è da dieci anni che si prepara. 


Allargando lo sguardo, non è difficile rilevare che le Primarie PD sono sempre state un gioco delle parti, tra correnti che sondavano il loro peso ma sapevano già in anticipo chi avrebbe vinto: più una trovata pubblicitaria che una consultazione reale; e del resto le inventò Walter Veltroni, che delle primarie americane aveva un'idea romantica e abbastanza superficiale e voleva cavalcare una specie di onda plebiscitaria che s'infranse sui primi scogli. Chi rimpiange eccitanti testa-a-testa non sta ricordando bene; o forse ricorda le ruggenti consultazioni del 2012, che però furono primarie di coalizione, non di partito (partecipò anche Vendola, un anno prima che il Fatto Quotidiano lo facesse fuori perché ormai intralciava l'egemonia grillina). Persino in quel caso, comunque, la vittoria di Bersani era abbastanza prevedibile, e la sfida con Renzi serviva soprattutto a creare interesse. Funzionò abbastanza bene – anche a dimostrare l'insopportabilità dei renziani a chi aveva occhi per vederla. Le primarie a quel punto richiamavano ancora ai gazebo e nelle sedi PD più di due milioni di persone; domani c'è il grosso rischio di non superare il milione. L'alto tasso di astensione alle ultime consultazioni regionali è un grosso segnale di allarme: non è una semplice disaffezione al voto, c'è proprio un problema di informazione. La gente non è detto che lo sappia, che domani si vota per un partito che apre i seggi a chiunque voglia partecipare (dopodiché si lamentano se qualcuno ne approfitta, un vecchio controsenso a cui ormai mi sono rassegnato). I giornali ne parlano poco e comunque la gente non li legge più, in tv le primarie non riescono ad attirare l'attenzione, sui social la sensazione è che preferiamo parlare di qualsiasi altra cosa – gli hamburger di grilli, ovviamente, e poi di colpo un mattino sono tutti impazziti perché c'è una casa editrice inglese che cambia i testi di Roald Dahl: nota che non siamo in Inghilterra e non siamo neanche dell'età più adatta per apprezzare il pur gradevole Dahl, ma insomma questi sono i problemi che ci tengono attaccati allo smàrfono, altro che il PD. Ah, e poi c'è la guerra. E il lago di Garda è abbastanza a secco, i fascisti menano gli studenti e il ministro se la prende con la preside che se ne lamenta: anche queste cose, pur non interessanti quanto i grilli negli hamburger, attirano più l'attenzione che il dibattito nel PD. 

Ovviamente la responsabilità è del PD – un partito che sin dall'inizio ha scommesso su due assunti non dimostrabili e anzi abbastanza discutibili: che (1) l'Italia sarebbe diventata una democrazia bipolare, anzi bipartitica, perché... perché in America è così e l'America è fighissima e (2) che uno di questi poli sarebbe sempre stato il PD. Questo secondo punto all'inizio sembrava ovvio persino a me, perché insomma, se metti assieme quel che resta della Democrazia Cristiana e del Partito che fu Comunista Italiano, è chiaro che il primo partito magari non lo ottieni, ma il secondo almeno sì. Invece salta fuori che la rendita di posizione, in politica, non conta così tanto. Magari nelle regioni sì, ma chi ci va più a votare alle regionali? Per rimanere il Secondo Polo (quello che poi dovrebbe rivaleggiare col Primo), serviva mantenere un presidio culturale, e Veltroni di questa cosa avrebbe pur dovuto essere consapevole, ma nella pratica si stancò subito; chi venne dopo di lui dovette scontrarsi col fatto che mancavano sempre i soldi. Succede nelle migliori famiglie, ma in questo caso succedeva in un partito che lottava per abolire i finanziamenti ai partiti, e se questo non è segarsi il ramo sotto il sedere io non so cos'altro lo è. In un qualche modo i dirigenti pd hanno sempre dato per scontato che metà dell'Italia si sarebbe interessata di loro, compresi i giornali di area progressista che a un certo punto però sono stati comprati da famiglie con altri interessi. È una logica circolare: noi rappresentiamo una fetta importante dell'opinione pubblica, quindi una fetta importante dell'opinione pubblica continuerà a parlare di noi anche se non li possiamo pagare, non riusciamo più a mettere gente brava in Rai e non abbiamo i soldi per i manifesti. Queste primarie potrebbero dimostrare che invece no, non funziona così: la visibilità si paga. Certo, contendenti un po' più interessanti avrebbero aiutato, e lo dico con dispiacere, perché Elly Schlein ci ha provato; io ovviamente voterò per lei. Più che una contrapposizione, quella con Bonaccini mi sembra la delimitazione di un campo nel quale le due principali anime progressiste nei prossimi anni dovranno ricominciare a parlarsi: un dialogo che tra renziani e bersaniani non c'era e di sicuro non c'era tra zingarettiani e... Martina? Chi rappresentava Martina? Onestamente non ricordo. Insomma, per quanto sia messo male il PD, il peggio potrebbe essere passato.


venerdì 24 febbraio 2023

Un anno di guerra e non stiamo vincendo


Per una diabolica coincidenza, il giorno in cui la guerra ha compiuto un anno è lo stesso in cui mi è arrivata la bolletta del gas di dicembre e gennaio; che straordinaria occasione per scrivere un pezzo in cui dettagliavo quanto era costata a me, proprio a me in quanto consumatore, la sciagurata invasione russa dell'Ucraina. Ebbene salta fuori che rispetto a un anno fa ho risparmiato più di cento euro. L'invasione non diventa meno sciagurata ma insomma, se da qualche parte su un social qualcuno vi attacca un pippone sul fatto che l'Europa stia sbagliando tutto, e che il suo appoggio all'Ucraina gli costerà salatissimo in gas, ebbene, è probabilmente vecchio materiale riciclato da gente che non ha molto interesse a scrivere cose nuove, magari non gliele pagano più. 

Un anno e qualche giorno fa, non dico che rimpianga quel periodo, ma l'idea di una guerra in Europa con più di trecentomila morti mi sarebbe sembrata un brutto film distopico. Da allora, come tutti, mi sono assuefatto all'idea e sono tra quelli che ormai sulle notizie dall'Ucraina non cliccano nemmeno. È sempre stato abbastanza difficile trovare notizie oggettive su una guerra, e stavolta mi pare lo sia ancora di più. Probabilmente è anche una questione di percezione; trent'anni fa mi sembrava di poter isolare con più precisione fatti e opinioni, ma trent'anni fa mi bevevo anche quello che scriveva Zucconi. Internet da una parte mi ha reso più critico ed esigente; dall'altra ha compresso lo spazio per un'informazione di qualità: ormai non mi fido più nemmeno dei Pulitzer e nel frattempo i giornali italiani sono un bivacco di stagisti analfabeti. 

Questo può essere uno dei motivi per cui un sacco di gente si rifugia nel complottismo: trova un tizio tipo Giorgio Bianchi che almeno sembra saper scrivere (e crede a quel che scrive) e magari gli sfugge il dettaglio che si tratta di un cronista embedded dell'esercito russo. Il complottismo è anche il risultato di una deriva ideologica che indubbiamente conduce in un mondo di matti, ma se uno vuole conservare un minimo di atteggiamento critico nei confronti della Nato, quanti altri mondi gli restano? Ti ritrovi in una strana terra di nessuno dove Berlusconi dice più o meno le cose di Travaglio, qualcuno è ancora in para dura per il green pass o perché nel marzo 2020 gli è stato interdetto un transito nel parchetto, e questo sembra veramente tormentarlo più di una possibile escalation nucleare a mille km da qui. Sono anche terrorizzati dagli hamburger di grilli, dio sa il perché. Probabilmente qualche content factory ha deciso che quest'anno il malcontento di una determinata fascia sociale si deve sfogare contro gli hamburger di insetti, Greta Thunberg dev'essere passata di moda e un po' mi dispiace.  

Ma insomma in mezzo a questi matti mi ritrovo anch'io e non posso dire di trovarmi bene – per dirne una: vado ancora in giro con la mascherina. Berlusconi non lo sopporto dal 1984; Travaglio, se ci pensate, non mi è mai stato molto congeniale; insomma cosa ci faccio qui? Banalmente, sono un pacifista. So bene che certe guerre sono inevitabili, ma ho una forte diffidenza verso chiunque le trova giuste, e le fa combattere agli altri. Detesto sinceramente l'imperialismo russo, ma non ho simpatia per quello atlantico; posso provare ammirazione per la resistenza patriottica degli ucraini, ma l'ammirazione non m'impedisce di vedere gli interessi occidentali in ballo. 


L'invasione russa, un anno fa, mi ha sorpreso; ma poi ho fatto i compiti e ho scoperto che era un'evoluzione non così imprevedibile di un braccio di ferro più che decennale. A chi mi spiega che le cose sono molto semplici, e che per spiegarle basta una lavagnetta con i Buoni e i Cattivi (anzi gli Invasori e gli Invasi), rispondo che sì, in effetti possiamo accontentarci di questa narrazione, se siamo persone semplici; non è un modo del tutto sbagliato di descrivere la cosa e forse è quello che userei con un bambino di otto anni; già a nove sarebbe lui a non accontentarsi più. Sarei tentato di aggiungere che nulla mi spaventa più di questa gente che a cinquant'anni improvvisamente decide che vuole di nuovo pensarla come a otto, vuole i cattivi che invadono e i buoni che si difendono e soprattutto che vincono, a prezzo di enormi sacrifici (loro): ma non è vero, mi spaventa molto di più l'incidente nucleare, che più passa il tempo più diventa probabile. Anche solo un'altra Chernobyl, ma con mezza Italia impazzita perché se gli dici che non possono più mangiare verdure a foglia larga come nel 1986 loro si metterebbero a divorare lattuga a colazione, nessuno può dirgli cosa devono fare! Oggi niente lattuga e domani i grilli, vi rendete conto? I grilli!

Sono pacifista, dicevo: lo sono sempre stato. Ogni volta che scoppiava una guerra la trovavo ingiusta e prevedevo che non sarebbe finita bene, e non c'è previsione più facile: nessuna guerra finisce bene. Ho anche avuto la fortuna di poter studiare, e questo spiega alcune mie idiosincrasie – ad esempio, ogni volta che sentivo dire che la Russia poteva essere sconfitta rapidamente, sentivo salirmi un brivido dietro la schiena, sarà che mi hanno fatto leggere Rigoni Stern? Tolstoj? Littel? Maledetta scuola gentiliana. Ma insomma la Russia è piena di fosse e le fosse sono piene di gente a cui qualcuno aveva raccontato che si può fare, è un gigante dai piedi d'argilla, una bella offensiva in primavera e via che si va. Bisogna anche ammettere che nessuno si immagina più di entrare a Mosca con la cavalleria: il sogno che va per la maggiore è la fuga di Putin, una rivoluzione colorata, dopodiché tutti amici come prima, salvo che prima non eravamo amici e da un punto di vista economico e geopolitico non ci sono le condizioni perché lo diventiamo. È per questo che si combatte? Il Regime change? Lo ribadisco: se funzionasse sarei il primo a essere contento. Per quanto sia un'idea profondamente neocon; per quanto non abbia funzionato dall'Iraq in poi; per quanto abbia riso in faccia per vent'anni a chi lo propugnava, se stavolta funzionasse non avrei pudore a festeggiare. Non posso fare a meno di notare che fin qui non ha funzionato e viceversa, potrebbe aver contribuito a cementare un regime che comunque non coincide con la permanenza al potere di un singolo uomo (caduto Putin potrebbe arrivarne uno peggiore, e meno esperto).

Sono pacifista ma so benissimo che a questo punto la pace è molto complicata. Sta arrivando la primavera ed entrambi gli eserciti hanno controffensive lungamente programmate. I giornali poi ci diranno che la controffensiva russa ha deluso le aspettative dei generali mentre quella ucraina è stata rapida e sorprendente – non dico che non sarà vero, ma in ogni caso ci diranno così, perché è quello che dicono i giornali italiani in questi casi, nel 2023 come nel 1942. In ogni caso la guerra potrebbe durare ancora a lungo, come tutte le guerre che passano in quella zona. Uno dei motivi per cui i negoziati vanno a rilento è che un cessate il fuoco, a questo punto, sembrerebbe una sconfitta per entrambi. Che i russi stiano perdendo lo avete sentito dire da più parti e non credo sia necessario ripetere il perché: all'inizio Putin pensava di arrivare a Kiev, persino da Kherson ha dovuto sgomberare, ecc. Molto più difficile risulta ammettere che anche gli ucraini non stanno vincendo: che malgrado gli sforzi e il prezzo pagato in vite umane (un prezzo che nessuno quantifica con precisione, ma supera senz'altro i centomila) il territorio difeso dall'esercito ucraino è oggi meno esteso che un anno fa. A Mariupol ci sono i russi: è vero, non è quello che si aspettavano; inoltre per prenderla hanno dovuto ridurla in un deserto di macerie. Ma la regione chiave dell'industria estrattiva ucraina è occupata dai russi, che la difendono più saldamente oggi che un anno fa – magari tra un mese sarà tutto diverso, ma oggi per quanto ci è dato vedere la situazione è questa. Abbiamo sostenuto gli ucraini con armi e aiuti; abbiamo ospitato i loro profughi e li abbiamo incitati a combattere: hanno combattuto e hanno perso terreno, e non siamo sicuri che lo recupereranno mai. Dopodiché bando al disfattismo, poteva andarci peggio, le bollette non sono così salate, ai produttori di armi si starà svuotando qualche magazzino, forza Ucraina. 

domenica 19 febbraio 2023

La barbuta crocifissa

20 febbraio: Santa Paola la barbuta, leggenda di Avila 

Crocefisso di Santa Wilgefortis
Museo diocesano di Graz
By Gugganij - Own work, CC BY-SA 3.0

Paola è una ragazza di Avila, Vecchia Castiglia, che si è consacrata a Dio. Un giovinastro che non è d'accordo cerca di importunarla: Paola si rifugia in una cappella e abbraccia il crocefisso, chiedendogli protezione. La protezione arriva nel modo più imprevisto: a Paola crescono all'improvviso barba e baffi. Il ragazzo, inorridito e ben poco incline alla genderfluidità, scappa effettivamente via. Paola è la variante castigliana di una figura leggendaria diffusa in tutta l'Europa cattolica (tranne che in Italia): la donna crocefissa e barbuta. Ce ne sono un po' dappertutto e sono conosciute in ogni Paese con un nome diverso: quello portoghese, Vilgeforte, deriva evidentemente dal latino Virgo Fortis: vergine forte, coraggiosa (in Inghilterra era chiamata Uncomber, "senza pena" anche per chi la invocava, a volte contro i dolori del parto).

Una donna con la barba, quindi, è considerata più forte di una donna senza, ancorché indesiderabile. Che i digiuni scombinati intrapresi da alcune mistiche nei conventi potessero causare squilibri ormonali con annesse complicazioni tricologiche non è del tutto implausibile, ma la leggenda non sembra alludere a questo, né agli ermafroditi degli antichi miti (nessuna vergine barbuta risale a prima del 1200). La vergine barbuta potrebbe invece essere una di quelle leggende che nascono da un equivoco iconografico, ovvero in quelle situazioni in cui a un certo punto alcuni fedeli si trovano davanti un'immagine sacra che non riescono bene a spiegarsi: in questo caso una donna barbuta e crocefissa.  Ma chi avrebbe mai crocefisso una donna barbuta, e perché? 

Il Volto Santo di Lucca
Di Joanbanjo - Opera propria, CC BY-SA 3.0

In questo caso l'equivoco potrebbe essere stato generato dalla circolazione di souvenir – sì, anche nel medioevo li fabbricavano e vendevano, ma nella maggior parte dei casi si trattava di riproduzioni di immagini sacre molto famose. Ad esempio i pellegrini che transitavano da Lucca (ed erano molti) avrebbero molto facilmente riportato a casa una piccola copia del Volto Santo, il crocefisso che è il vero simbolo della città, dall'origine piuttosto misteriosa. Secondo i lucchesi risaliva ai tempi di Gesù, e non era stato scolpito da mano umana: si tratterebbe invece di un'immagine acheropita, una copia 3D del corpo di Cristo ritrovata da San Nicodemo e in seguito salpata dalla Palestina su una nave senza marinai, e ritrovata presso il porto di Luni dai lucchesi. Per molto tempo abbiamo pensato che la leggenda coprisse un'origine orientale del crocefisso, che però resta tutta da dimostrare: lo stile è meno bizantino di quanto vorrebbe sembrare, e faceva propendere i critici per un rifacimento medievale di un oggetto più antico andato perduto. Nel 2020 un esame col carbonio14 ha messo in crisi questa ricostruzione: a quanto pare il Volto Santo è davvero un oggetto molto antico, risalente più o meno all'800. Può darsi che a quei tempi e in quei luoghi fosse normale scolpire un crocefisso completamente vestito dalla testa ai piedi, con una tunica dalle maniche lunghe: non ci sono rimasti molti crocefissi dello stesso periodo, mentre alcune immagini posteriori abbastanza simili sembrano proprio basate sul Volto di Lucca, che già prima del 1000 era diventato un'immagine molto famosa e diffusa. Perlomeno da questa parte delle Alpi, dove una riproduzione del Volto sarebbe stata facilmente interpretata come un crocefisso 'alla lucchese'. 

Nel resto d'Europa invece questa immagine, emersa dalle tasche di qualche pellegrino, lasciava perplessi: la tunica sembrava più adatta a un corpo femminile. Questo avrebbe stimolato il fiorire di leggende, tra cui si sarebbe imposta quella della figlia cristiana di un re pagano che non volendo sposare il suo promesso sposo (pagano) avrebbe pregato fino ad ottenere da Cristo quella barba necessaria a sventare il matrimonio – per essere poi crocefissa dal padre deluso e disgustato. Messa in questi termini, la storia ha avuto un discreto successo fino al Cinquecento, quando le forme più estrose della religiosità popolare sono state messe al bando sia dalla riforma protestante che dalla controriforma cattolica: anche se Vilgefortis (invocata anche contro i mariti violenti) ha resistito in qualche martirologio fino al Concilio Vaticano II, e ad Avila Santa Paola si venera ancora.

sabato 18 febbraio 2023

Beato il pittore (che sa stare al suo posto)

18 febbraio: Beato Giovanni da Fiesole, meglio noto come Beato Angelico, pittore e frate domenicano (1387-1455).

Dettaglio della Crocefissione,
convento di San Marco (Firenze)
Quando nel 1445 i fiorentini rimasero senza un arcivescovo, papa Eugenio IV – che in quella città aveva soggiornato nove anni – ebbe l'idea stravagante di offrire il posto a fra Giovanni da Fiesole, che da poco aveva invitato a Roma e stava lavorando alla cappella del Sacramento. Fra Giovanni ovviamente declinò – diciamo "ovviamente", e troviamo l'idea "stravagante", perché il pittore che conosciamo come Beato Angelico ce lo immaginiamo completamente immerso nella sua pittura, in paesaggi già tridimensionali ma dai colori ancora irreali e fiabeschi di miniatura medievale – mentre per fare il vescovo riteniamo servano altre doti: carisma, leadership, ingegneria gestionale eccetera eccetera. Un pittore arcivescovo, ve lo immaginate? Non sarebbe stato un grande arcivescovo e rischiava di perdere anche qualche tacca come pittore. Ragion per cui siamo tutti molto felici che abbia declinato, indicando il confratello Antonino Pierozzi, intellettuale di rango. Giorgio Vasari nelle vite ne approfitta per tessere l'elogio della modestia del frate pittore: "Fu gran bontà quella di fra’ Giovanni, e nel vero cosa rarissima concedere una dignità et uno onore e carico così grande, a sé offerto da un sommo pontefice, a colui che egli, con buon occhio e sincerità di cuore, ne giudicò molto più di sé degno. Apparino da questo Santo uomo i religiosi de’ tempi nostri, a non tirarsi addosso quei carichi che degnamente non possono sostenere et a cedergli a coloro che dignissimi ne sono". 

Secondo il meccanismo sociale noto come principio di Peter, se premiamo le persone competenti con una promozione, presto o tardi le porteremo a un livello in cui non saranno più competenti: a quel punto, se non li degradiamo con altrettanta prontezza (ma è molto difficile che accada), gli incompetenti resteranno lì, e in breve tempo tutta la nostra struttura sarà composta di gente sbagliata nel posto sbagliato. Giovanni da Fiesole seppe riconoscere il livello di incompetenza nel momento in cui stava per oltrepassarlo, insomma ebbe l'accortezza di restare al suo posto: la sua competenza, sin da ragazzo, era stata la pittura, e la pittura fu tutta la sua vita. Questo è più o meno quello che ci racconta Vasari, partendo forse dall'osservazione che se aveva davvero dipinto tutte le opere che gli venivano attribuite, l'Angelico doveva essere stato un lavoratore instancabile ("Lavorò tante cose questo padre, che sono per le case de’ cittadini di Firenze, che io resto qualche volta maravigliato, come tanto e tanto bene potesse, eziandio in molti anni, condurre perfettamente un uomo solo"). Eppure.

Eppure sappiamo che fra Giovanni non era solo il Maestro Beato Angelico. Nel 1450 sarebbe diventato priore del suo convento a Fiesole (subentrando a un fratello defunto). Già in precedenza aveva accettato incarichi amministrativi – quel tipo di accolli che un artista puro dovrebbe rifuggire come la peste. E la stessa generosa offerta che declinò, della cattedra arcivescovile di una capitale come Firenze, dimostra l'alta considerazione del papa per un uomo che conosceva di persona e che evidentemente doveva mostrare altre doti oltre a quella, indiscutibile, per la pittura. È possibile che già intorno al 1440 l'Angelico (ormai conosciuto ben oltre i confini della Toscana) più che un pittore fosse diventato il direttore artistico del suo brand: la rapidità con la quale completa uno dei suoi lavori più famosi e titanici, il ciclo di affreschi del nuovo convento domenicano di San Marco a Firenze, ci fa supporre che a realizzarli sia stata una vera e propria squadra di collaboratori, in grado di replicare lo stile del Maestro (il quale magari interveniva direttamente nei punti decisivi, come i volti che negli affreschi calamitano l'attenzione e sembrano tanto più moderni degli sfondi in cui sono immersi). 

È la stessa squadra che una volta trasferitasi a Roma, riesce durante un intervallo di poche settimane a Orvieto a decorare una buona parte della cappella di San Brizio (che poi Signorelli completerà con quegli straordinari affreschi sulla fine del mondo). Professionisti rapidi che procurano all'ordine domenicano appalti prestigiosi e remunerativi. Lo stile sviluppato dal loro leader è precisamente quello che i committenti religiosi dovevano preferire: una via intermedia tra le eleganze tardo-gotiche di Gentile da Fabriano e la rivoluzione realista di Masaccio: panorami naturali ma non troppo, che non distraggano dalla gentilezza delle figure in primo piano, piacevoli – annota Vasari – ma mai sensuali. 

Dopodiché non è nemmeno impossibile che fra Giovanni piangesse tutte le volte che dipingeva una crocifissione, come raccontano: la religiosità che emanano le sue composizioni è innegabile, e unita alla sua fama di frate modesto e pio fece sì che l'arte di Beato Angelico diventasse un modello per la pittura sacra, in contrapposizione a quella di altri maestri del primo rinascimento dallo stile più mondano, che un confratello della generazione successiva, Girolamo Savonarola, avrebbe fatto bruciare nel rogo purificatore in Piazza della Signoria; ma le opere di Giovanni a quanto pare non furono toccate. Chiamato "Angelico" già dai contemporanei, e "Beato" dai primi biografi, fra Giovanni è stato ufficialmente beatificato assai più tardi, nel 1982 da Giovanni Paolo II, che contestualmente l'ha nominato patrono degli artisti.

venerdì 17 febbraio 2023

E i modenesi si dissero: costruiamo una Banca che salga fino in cielo



Il direzionale Manfredini (Alcatraz per gli amici) è la vera eredità che i modenesi lasciano al mondo. C'è tutto: la hubris dei banchieri, la visionarietà dei geometri, e poi la rivincita del territorio, che rammenta a tutti i bravi e onesti cittadini padani che palude eravamo, palude siamo, palude ritorneremo. Il tutto combinato assieme prende le forme di un castello imprendibile (e invendibile), la piramide dei nostri risparmi, il Mont Saint Michel delle nostre zanzare. Bisogna avvertire l'Unesco di questa cosa, bisogna portarci le classi in gita (in motoscafo ormai), bambini vedete qualcosa ci sopravvivrà: qualcosa di molto grosso, goffo e inutile.

(Qualcuno è entrato e le foto sono magnifiche).

giovedì 16 febbraio 2023

Tutti debunker a Martiropoli

16 febbraio: San Maruta (IV-V sec.), vescovo di Mayferkqat, non so se mi sono spiegato.


Di Maruta, vescovo della città siriana di Mayferkqat, che fu inviato da Giovanni Crisostomo presso lo scià di Persia Yazdgard I acciocché ponesse termine alle persecuzioni sasanidi nei confronti dei cristiani, non ho tutto questo tempo di parlare. Accenno solo a quel simpatico aneddoto secondo il quale, siccome lo scià si stava affezionando a Maruta, che essendo non solo un sant'uomo ma anche medico aveva curato con un certo successo la sua emicrania, un giorno, nel tempio zoroastriano, durante la celebrazione, un uomo misterioso apparve allo scià dicendo: fate uscire dal tempio colui che presta credito a un sacerdote cristiano! Yazdgard ne sarebbe rimasto molto impressionato, perché i re orientali in queste leggende sono sempre impressionabilissimi: Maruta, invece, non fece una piega ma chiese di poter ispezionare il tempio e ci trovò una botola da cui evidentemente era comparso l'uomo misterioso. 

Guarito così dallo spavento, (e infuriato coi sacerdoti zoroastriani che pensavano di poterlo fare fesso) Yazdgard si sarebbe ancora più convinto della serietà di Maruta, e avrebbe avviato una politica di tolleranza religiosa e di alleanza coi Romani d'oriente che effettivamente risulta dalle cronache. Tutto grazie a una banale operazione di debunking, molto simile a quelle messe in atto dal profeta Daniele con Nabucodonsor. I nemici di Daniele sono i sacerdoti del dio Bal, quelli di Maruta sono gli zoroastriani, ma il succo è lo stesso: il profeta conquista la propria credibilità dimostrando che i prodigi degli altri dèi sono trucchetti messi in atto da un clero di imbroglioni.  

In effetti è molto più semplice dimostrare la falsità delle credenze altrui che la fondatezza delle proprie, e quindi non troverai mai tanti debunker come nei pressi di una istituzione religiosa: l'idea è che dopo averti dimostrato che tutto quello che sai è falso, non ti resterà che fidarti di loro. È una tecnica tipica dei truffatori di strada: prima fingono di sventare il trucco di un compare ai tuoi danni, e dopo avere conquistato la tua fiducia ti fottono. Maruta è a tutt'oggi considerato patrono della Persia, cioè dell'Iran: dai suoi viaggi tra Ctesifonte e Bisanzio riportò nella sua città tante reliquie che per un po' prese il nome di Martiropoli, però ora non ho molto tempo per raccontare la sua storia, scusate, ho visto il video di un tizio che dimostra come sia impossibile guadagnare migliaia di euro al giorno con le cripto, è tutto uno schema di Ponzi, mentre invece il suo sistema è molto più modesto, al massimo metti via qualche centinaia di euro al giorno, però bisogna darsi da fare, insomma ciao.

lunedì 13 febbraio 2023

Un Sanremo di destra (alla fine ce lo guarderemmo)

Capite che un conto è perdere ancora, perdere male, contro avversari quasi improvvisati e impresentabili (Fontana in Lombardia!); ma ritrovarsi nella sconfitta a dover fare quadrato intorno a un presentatore tv che si fa chiamare Amadeus e la sua gestione di un festival della canzone, ecco, questo è molto più della semplice beffa che si accompagna al danno, e richiede un minimo di spiegazione. Sanremo come baluardo della sinistra, sul serio? Com'è potuto succedere, e in che modo possiamo evitarlo?

Loro sono proprio contro il coro, capite

Che quest'anno il nodo potesse arrivare al pettine alla fine era inevitabile. C'è un Italia che va decisamente a destra, e un immaginario che sembra prendere la deriva opposta. Così come aa Meloni sembra un filo più estrema di Salvini (ma sarà vero?), Rosa Chemical risulta più estrem😶 di Achille Lauro (e anche lì, forse è solo un effetto ottico). Lo struggimento degli opinionisti di destra sarebbe perfino comprensibile – se non dessero come sempre l'impressione di una serie di animaletti meccanici caricati a molla: insomma abbiamo vinto le elezioni, Sanremo dovrebbe avere registrato questa cosa, o no? cosa aspetta l'immaginario nazionale a farsi modellare dai tweet dei nostri sottosegretari aa curtura? La Rai poi è anche servizio pubblico, perché non s'inginocchia? Probabilmente s'inginocchierà, magari si stava semplicemente aspettando il momento giusto per lo spoil system. Si potrebbe persino ipotizzare che Sanremo sia stata la trappola in cui i dirigenti sono ingenuamente caduti mentre stavano a distillare lo share alle due del mattino. Da quello credevano dipendesse il loro destino, illusi!, e non dalla Minaccia Genderfluida. 


Adesso coraggio, diciamo l'indicibile: mettiamo che la Destra ormai invincibile riesca a plasmare Sanremo a sua immagine entro il febbraio 2024. Non diventerebbe di colpo uno spettacolo più interessante, qualcosa che varrebbe la pena di guardare anche solo per vedere come lo riducono? Stiamo parlando di Sanremo, il trash ha sempre fatto parte del gioco. Ma un Sanremo che invece della prevedibile concione di Benigni sulla Costituzione-che-il-mondo-ci-invidia cominciasse, che ne so, con un monologo di Brignano su quanto siamo er mejo der Mediterraneo sin dai tempi deji antichi Romani, e proseguisse con ospiti degni dell'occasione, ad esempio tra gli sportivi potrebbero chiamare Ivan Nemer che potrebbe leggere un temino (scritto da lui) in cui ricorda l'orribile persecuzione di cui è stato vittima per aver osato regalare una simpatica banana marcia a un compagno che si è offeso in modo ingiusto, dato che in Italia non siamo razzisti, altrimenti altro che in nazionale, a raccogliere i pomodori vi manderemmo, e zitti. E poi canzoni sovraniste – ma non troppo perché la Nato si potrebbe arrabbiare, quindi anche un po' atlantiste – ma non troppo perché la porta a Putin va lasciata aperta, Berlusconi ci tiene e non ha elettoralmente tutti i torti, canzoni contro l'Euro? No, quello ormai ce lo teniamo. Contro l'Unione Europea? Ma senza esagerare, insomma forse meglio prendere canzoni d'amore come nelle scorse edizioni: però rigorosamente non-fluido, tra l'altro qual è il contrario di fluido in amore? "Fisso", "immobile", "cristallizzato", vabbe' l'importante è che sia chiaro che la donna ama l'uomo e viceversa e sempre rigorosamente in un rapporto uno a uno, insomma torniamo a prima dello Zero (non l'anno, proprio il cantante Renato Zero, diciamo 1975).

(Insomma niente da fare, neanche l'apocalisse meloniana ci salverebbe dai Coma Cose).

Era da tanto che non leggevo killeraggio

Un Sanremo così lo metto per iscritto per renderlo ancora meno plausibile, ma lo è già parecchio: molto più semplice pensare che la destra continui a tenerselo così, magari limando qualche asperità e continuando a lamentarsene, che è una cosa che a destra piace molto, anche quando vince. Sanremo come riserva di un progressismo in via d'estinzione/assimilazione, dove anche istanze interessanti come l'antiproibizionismo o l'emancipazione sessuale vengono difese da fenomeni da baraccone che alla lunga si rivelano controproducenti – Fedez non sarà mai un leader credibile, mi sento di dire, e allo stesso tempo se penso che una volta Benigni era il tizio che cercava di tirare i pantaloni a Baudo e la gonna alla Carrà (contro il loro consenso), e adesso è quello a cui chiediamo il discorsone ufficiale per l'anniversario della Costituzione, beh, beh. Magari tra vent'anni al suo posto ci sarà Rosa Chemical, chi può dirlo. Mentre io per allora rischio di trovarmi in uno di quei posti in cui ti lasciano la tv accesa e non ti danno il telecomando, ammetto un po' di angoscia al pensiero.

Bello però quel "marito della Ferragni"

Può darsi che Sanremo stia diventando quel che per gli americani è Hollywood: cioè in un certo senso un grosso equivoco, la ridotta di un progressismo ormai più immaginario che reale. E però l'immaginario è importante e difenderlo ha un senso. 

(Ma se con l'immaginario occorre difendere Amadeus, no, mi dispiace, io passo) (e Fedez? passo) (Benigni? una volta o l'altra dovrò mettere per iscritto cosa mi ispira ormai Benigni: diciamo che più si sforza di convincermi che tutto è bellissimo e degno di ammirazione, più ho paura che dietro di lui ci stiano i kapò, i reticolati e la morte).

venerdì 10 febbraio 2023

Sanremo e il Grande Sonno


Probabilmente non è Sanremo, sono io. Sanremo c'è sempre: a volte un po' meglio, più spesso peggio. Quest'anno non lo sopporto – e allora non guardarlo! Infatti non lo sto guardando – e allora come fai a dire che non lo sopporti? Il punto è proprio questo: quest'anno Sanremo mi aveva stancato una settimana prima che cominciasse. Succedeva nell'era di Pippo Baudo, quando comunque l'eventualità di restare a casa a guardarsi vecchi cantanti stonare brutte canzoni era fuori discussione. Negli ultimi anni, viceversa, avevo cominciato a registrare una specie di simpatia per la Kermesse, uno dei rari momenti in cui comunque ci trovavamo tutti davanti al televisore, compresi i giovani che non sanno da che parte si accende ma recuperavano i clippini su Youtube o altrove. Sanremo come l'unico ponte rimasto tra le generazioni – uno stringersi a coorte intorno a un ponte che in passato avevo sempre trovato architettonicamente discutibile e lo sarebbe tuttora, ma non c'è più scelta e non si tratta nemmeno di scegliere: si tratta di stare assieme, le canzoni servono anche a questo. Tutto giusto, e forse il motivo per cui Sanremo sta andando abbastanza bene è che la Rai lo ha capito. 

Ma non lo sopporto più lo stesso.

Questo Sanremo che passa il tempo a celebrare sé stesso in quanto Sanremo, prodotto e presentato da gente che passa il tempo a spiegare quant'è brava a produrre e presentare questo Sanremo che poi appena provi a guardarne un frammento, beh, com'è? Come vuoi che sia, è bruttino. La solita valanga di roba improvvisata lì per cinque ore perché, ce lo eravamo già spiegato qualche anno fa, siccome Sanremo è l'unica cosa che vedono tutti, l'idea è di concentrarci tutto quello che dovremmo sentire la necessità di guardare: Morandi, ma anche Albano e Ranieri! E la Ferragni, ma allora anche la Egonu! e la Costituzione? Ma allora anche la giornata del Ricordo, e Zelensky? Ma allora anche le donne iraniane, e il comico irriverente anche se è già l'una, e poi ah già quella trentina di canzoni in concorso. Questa idea che dobbiamo guardarci tutto per cinque ore al giorno per cinque giorni alla settimana e gratis, e soprattutto che questa mostruosità sia per la Rai assolutamente normale – ci scherzano persino sopra, cioè questa cosa che la gente abbia mediamente la sveglia alle sette del mattino li diverte! – del resto parliamo di gente che non trova più nulla di strano nell'arrivare all'una di notte con uno spettacolo per pensionati come Ballando con le stelle. Date un'occhiata alle conferenze stampa, che se togliete il tempo che passano i dirigenti a spiegare quanto sono bravi e quanto stanno battendo record su record (e a criticare chi osa non crederci) si riducono a una manciata di minuti. Stamattina il direttore di rete, mi pare, l'ha proprio spiegato: cioè questi numeri ce li dà la sezione marketing, capite, sono professionisti, come fate  a non fidarvi della sezione marketing? La sensazione è che Amadeus & co. si siano impegnati in questi anni non tanto a fare uno spettacolo piacevole (forse era impossibile) quanto a costruire un castello di dati che dimostri, dati alla mano, che Sanremo piace così com'è, del resto lo share all'una e mezzo è inoppugnabile. Almeno quando floppava ci si domandava cos'era andato storto: adesso è impossibile, adesso va tutto sempre bene, anzi ogni edizione va meglio dell'altra, è una cosa incredibile, infatti per esempio io non ci credo.



Credo che sia il risultato ormai paradossale della deriva della tv generalista, quello che succede se nell'algoritmo ti dimentichi di inserire la considerazione che gli spettatori li preferiresti svegli. Se l'algoritmo non lo sa, infallibilmente preferirà contenuti che li facciano addormentare all'istante, così non cambiano canale. Certo, dall'altra parte dovrebbero esserci esseri umani in grado di notare il problema, non tanto i dirigenti quanto gli inserzionisti. Ma finché saranno contenti di farsi pigliare per fondelli da un'azienda che allunga il brodo fino alle due del mattino, non credo che ci sarà nessuna speranza di avere uno show interessante e non quella valanga informe che è. Certo, a questo punto forse pagherei qualcosa se quando i dirigenti si vantano dello share ottenuto all'una d'un mercoledì, o addirittura quello di Fiorello alle due e mezza, qualcuno prendesse la parola e gli dicesse Ma share di cosa, che a quell'ora non fanno neanche più i film zozzi su Sky; share di cosa, dici che il 60% ha visto Fiorello? Cioè quattro su dieci erano svegli alle due e non guardavano Fiorello? Cioè quanto deve stargli sulle palle Fiorello a tutta 'sta gente, e a proposito cosa guardano? Il monoscopio su retecapri?



***

C'è stato negli ultimi anni, tra la gestione Baglioni e quella Amadeus, un momento in cui davvero Sanremo è tornato rilevante da un punto di vista culturale? O ce lo siamo sognati, e se sì, cosa ci ha fatto sognare?
Senza dubbio le canzonette hanno retto meglio di altre cose l'urto generazionale – insomma tra un cinquantenne e un teenager di oggi cosa altro può esserci in comune? Se hanno un device comune non è la tv; al massimo uno smartphone e usano app diverse. Su queste app le canzoni passano, altri contenuti no. Queste canzoni sono per lo più in lingua italiana, al punto che persino i giovani che preferirebbero ascoltare cose incomprensibili, ascoltano canzoni di cantanti italiani specializzati in cose incomprensibili. L'inglese non solo ha perso completamente quel fascino di lingua preclusa alle vecchie generazioni, ma non è più un'etichetta di qualità: di artisti in lingua inglese in classifica ce n'è sempre meno, e d'altro canto perché dovrebbero andarci? Parlo per me: gennaio è tradizionalmente il mese in cui recupero le uscite dell'anno precedente: in giro escono un po' di classifiche e di bilanci e quindi per un attimo ho la sensazione di orientarmi. In linea di massima continuo ad ascoltare cose anglosassoni, e malgrado la mia idiosincrasia per il rap, quest'anno sono perlopiù cose parlate. Musicalmente, non riesco a notare differenze tra quello che si ascoltava dieci anni fa – ma neanche quindici. La differenza la fanno i testi. Il risultato è che una barriera linguistica che nel 2000 praticamente non avvertivamo più – l'inglese delle canzoni ormai era per noi una seconda lingua – nel 2020 è tornato a essere una muraglia come ai tempi dei nostri nonni, e la Musica Italiana si è ritrovata, senza nemmeno averlo cercato più di tanto, padrona a casa sua. È normale che di questo fenomeno Sanremo cerchi di attribuirsi il merito: ma tutto quello che ha fatto per recuperare la sua centralità è stato resistere anche negli anni in cui i discografici ci mandavano gli scarti di magazzino. Per il resto anche i musicisti oggi stentano a trovare un modello di business: i dischi non vendono più, lo streaming è diventato cruciale per la compilazione delle classifiche, ma non crea tutti questi utili e non li divide equamente. Insomma siamo ancora in crisi, ma a questo punto lo siamo sempre stati e poi tutto sommato i momenti di crisi sono quelli in cui di solito ci si inventa qualcosa di nuovo. Ecco, se devo essere sincero quel qualcosa di nuovo non lo sto vedendo, non lo sto ascoltando – ma forse non ho neanche voglia di drizzare le antenne, e poi magari si tratterà di qualcosa per me incomprensibile o inascoltabile. E mi starebbe pure bene, se oltre a essere inascoltabile fosse finalmente qualcosa di diverso.   

mercoledì 8 febbraio 2023

Un'africana in Veneto

8 febbraio: Santa Giuseppina Bakhita (1869-1947)

Il rapporto tra santità e pelle nera è uno dei più bizzarri e forse meriterebbe di essere studiato meglio: in un continente in cui la nobiltà è associata (almeno a partire dall'Alto Medioevo) a carnagione chiara e capelli biondi, la santità assume attributi opposti molto più spesso di quanto sembrerebbe. Hanno la pelle scura le icone bizantine (forse perché annerite dal fumo delle candele); le statue di vescovi risalenti all'antichità, come Zeno a Verona. Hanno il colore del bronzo certe statue del monaco siciliano San Calogero, che quando vengono portate in processione brillano al sole e sembrano sudare; e proprio in Sicilia, nel basso medioevo nasce il fenomeno dei santi neri, frati di origine africana (a volte schiavi liberati) che vengono venerati in vita e dai quali la gente sembra che si aspetti i miracoli, finché a furia di insistere i miracoli non arrivano. Il caso di Giuseppina Bakhita è molto più recente, ma non così diverso: anche Giuseppina è diventata famosa senza averlo desiderato, semplicemente perché il colore della pelle richiamava l'attenzione di fedeli e curiosi ("Tuti i vole védarme: son propio na bestia rara!") In un mondo senza immagini fotografiche a colori, Giuseppina mostrava agli abitanti di Schio che sì, i neri esistevano: se poi apriva la bocca per parlare la sorpresa era doppia, perché Giuseppina parlava in dialetto veneto. 

Giuseppina deve la sua fama a un libro della canossiana laica Ida Zanolini, Storia meravigliosa: Giuseppina Bakhita, che negli anni Trenta ebbe un buon successo e fu una specie di italica Capanna dello Zio Tom; un racconto che ha senz'altro il pregio di mettere a fuoco gli orrori dello schiavismo, ma anche di confortare il lettore sul fatto che molti uomini bianchi lo avversino, in particolare gli illuminati esponenti della borghesia coloniale italiana. Come Callisto Legnani, console italiano a Khartoum, che comprava i bambini vittime della tratta per restituirle alle famiglie. Questa ragazzina che riscatta nel 1882, però, non può essere restituita perché non si ricorda nemmeno come si chiamava: il nuovo nome ("Fortunata"), glielo hanno dato i predoni. Potrebbe avere tredici anni. Probabilmente viene da un villaggio del Darfour: ricorda di avere avuto molti fratelli che forse sono stati fatti prigionieri anche loro; ha già cambiato padrone più volte; è stata al servizio di un generale turco che l'ha fatta tatuare; il tatuaggio successivamente è stato abraso e forse trattato col sale per creare una cicatrice permanente. Tutte queste cose le sappiamo dal libro della Zanolini: Giuseppina non ne parlava volentieri e a volte sosteneva che la storia era esagerata – può darsi che la Zanolini volesse condensare nel personaggio di Bakhita le sofferenze inflitte a più bambine, e documentate da altre fonti: così come può darsi che Bakhita avesse maturato una certa insofferenza per chi continuava a chiederle particolari riguardo i traumi della sua infanzia. 

La ragazza resta per due anni al servizio del console – i biografi si affrettano a precisare che non era più considerata una schiava, ma comunque era una minore che svolgeva mansioni di servitù. La differenza che Bakhita percepisce è che non viene più picchiata e tanto basta perché sia la stessa Bakhita a chiedere a Legnani di portarla con lei, quando lascia Khartoum nel 1884 durante la rivolta del Mahdi. Ai Legnani si aggrega durante il viaggio un'altra famiglia italiana, gli albergatori Michieli. Giunti a Genova, il console cede Bakhita ai Michieli, che hanno una figlia che si trova bene con lei. Sono i Michieli a portare Bakhita in Veneto (a Mirano): tre anni dopo, quando ripartono per l'Africa, lasciano la figlia in un collegio canossiano di Venezia. Bakhita resta con lei, in qualità di catecumena, perché non è nemmeno battezzata e di cristianesimo ancora non sa quasi nulla. Quando intorno al 1889 la signora Michieli torna a prendere la figlia, Bakhita prende l'unica vera decisione della sua vita: non vuole tornare in Africa, preferisce restare nel convento delle canossiane. La Michieli ricorre ai legali, così che a un tribunale tocca sancire che la schiavitù in Italia non esiste: Bakhita è libera di restare nel convento. 

Nel 1890 viene battezzata Giuseppina Margherita Fortunata: sei anni dopo prende i primi voti. Nel 1893 è trasferita nel convento di Schio dove passerà quasi tutto il resto di una vita tutto sommato abbastanza tranquilla, scandita dalle normali mansioni di una suora canossiana: in cucina, in sagrestia, anche in infermeria quando durante la Prima Guerra Mondiale il convento diventa un ospedale delle retrovie. La situazione cambia quando nel 1902 Giuseppina viene spostata in portineria, diventando il volto che le canossiane di Schio offrono al mondo esterno: è un volto sorridente, ma davvero inusuale, che richiama perfino scolaresche in visita d'istruzione. I concittadini la chiamano Madre Moreta e se non si aspettano da lei espliciti miracoli (una portinaia nera a Schio è già un piccolo miracolo), comunque in un qualche modo reclamano che un volto così diverso dal solito si carichi di un senso, renda testimonianza su un continente lontano che forse Giuseppina non ricordava volentieri.

Le canossiane decidono di scriverci un libro, che si ristampa varie volte e che più che a raccontare la sua lagrimevole storia serve a sensibilizzare il pubblico sulla necessità di sostenere le opere missionarie: una canossiana di ritorno dalla Cina la porta con sé in un tour di conferenze in tutt'Italia, che fanno il pieno di pubblico perché sul palco c'è anche la suora nera, che non parla molto (il dialetto veneto in effetti rovina un po' l'effetto esotico), ma insomma, è nera. Non una cosa che si vede tutti i giorni – e a differenza che al circo, alle conferenze missionarie non si paga il biglietto. Il gusto per l'esotico del resto è quello che porta migliaia di giovani volontari in Abissinia, dove a sentire le canzoni è pieno di faccette nere che non vedono l'ora di sorridere ai liberatori. Nel 1936 Giuseppina accompagna a Roma una delegazione di missionarie che prima di partire per Addis Abeba vanno a salutare Mussolini. Le faccette nere però, ora che sono suddite dell'impero, fanno meno tenerezza. Anzi occorre scongiurare che i soldati contraggano matrimoni misti: si è appena scoperto che l'italianità è una razza che va difesa dalle impurità. Può essere solo una coincidenza, ma proprio nel 1837 Giuseppina viene spostata dal convento di Schio e si ritrova in Lombardia, a Vimercate. Anche lì però viene collocata in portineria: si vede che era una portinaia veramente brava, o che alle canossiane non dispiaceva quel particolare tipo di attenzione che attirava. Nel 1939, malata, ottiene di tornare a Schio dove si spegne l'otto febbraio del 1947. 

Giuseppina è stata beatificata nel 1992. Non ha fondato conventi né scritto meditazioni; stava in portineria, sorrideva e nemmeno faceva i miracoli, almeno in vita. Quello necessario alla sua canonizzazione lo ha fatto a una signora brasiliana diabetica, a cui stavano per amputare le gambe. Chissà quante sante e quante beate avrà invocato: Bakhita ha funzionato, e così al termine di un processo abbastanza rapido è stata canonizzata da Giovanni Paolo II. Di sé stessa diceva: "Mi son on povero gnoco, come i gha fato a tegnerme in convento?"

lunedì 6 febbraio 2023

Carcere duro a chi ne vuol parlare

(Una modesta proposta)

Io non ho un'opinione forte sul regime carcerario previsto dal 41bis – il pezzo potrebbe finire qui, in effetti. Non ho un'opinione nemmeno così debole, diciamo che è oscillante e che dipende molto da chi mi fa la domanda. In linea di massima posso dire che oscilli tra il punto di vista A ("È tortura") e il punto B ("abbiamo sconfitto Cosa Nostra, insomma è utile"). Su questa oscillazione traballa tutta la mia coscienza democratica, il dubbio di vivere in uno Stato che non sempre riesce a garantire i diritti fondamentali a tutti i suoi cittadini. Mi consolo pensando che almeno non oscillo mai verso il punto C ("Se lo meritano"): lo lascio volentieri aa Meloni e ai suoi garzoni, che in questo caso stanno mostrando tutta l'impreparazione che avevamo largamente previsto.

A tal proposito, la linea del(la) presidente mi sembra la più vittimista possibile, il che non sorprende di certo: l'attacco frontale al PD ricorda quasi una certa strategia bannoniana di demonizzazione dell'avversario, che a ben vedere non è che abbia molto giovato alle destre negli Usa e nel mondo. I bannoniani hanno provato a descrivere una moderata come la Clinton in una satanista: nel medio-termine però è la destra bannoniana che si è trasformata in una specie di setta dai comportamenti ingestibili (l'attacco al Campidoglio). Cercare di vendere al proprio pubblico il PD, un partito di mediocri amministratori, come il braccio politico dell'insurrezionalismo anarchico, è una mossa talmente bannoniana che lascia perplessi, insomma è uno schema che fin qui non ha funzionato: e però, e però io sto in Emilia, uno dei pochi posti in cui il PD esiste ancora, puoi vedere gli iscritti in giro per la strada e nemmeno per un istante puoi credere che siano bombaroli; nella maggior parte del territorio ormai è una sigla abbastanza esotica, per cui non è detto che la demonizzazione non funzioni, o che il PD non dovrebbe immediatamente reagire con una prontezza di riflessi che purtroppo non ha (non ha nemmeno un organo di stampa: scommette sulla benevolenza di una classe imprenditoriale che l'ha abbandonato da mò).

Tornando al 41bis, e in particolare al punto A ("è tortura"), ammetto che dipenda molto dal mio temperamento: benché io ami relativamente la solitudine, devo assolutamente trovarmi qualcosa da fare, altrimenti credo di poter impazzire in pochi minuti. Poche cose mi ispirano più orrore dell'isolamento carcerario, e in particolare il pensiero che i reclusi non possano nemmeno leggere mi risulta intollerabile. Non solo ingiusto: intollerabile. Così ho questa proposta: chiunque sostenga di avere un'opinione forte sul 41bis, che passi almeno due settimane in una stanza sempre illuminata, senza libri e materiale audiovisivo e insomma nella stessa condizione in cui vivono per anni i carcerati al 41bis. Quindici giorni, e poi se proprio volete condividere la vostra opinione, vi ascolteremo. 

Con questo non m'illudo di cambiare idea a gente che è pagata per avere la più trucida possibile – sparo un nome a caso: Mario Giordano. Probabilmente anche dopo due settimane di carcere duro continuerebbe a dire o scrivere cazzate: ma almeno per due settimane non dovremmo sentire le sue cazzate, un vantaggio collaterale vedete che c'è, e io mi accontenterei. E poi chissà, magari uno o due li troviamo, che hanno la testa meno dura del carcere. 

sabato 4 febbraio 2023

San Gilberto di Limerick (oh!)

 4 febbraio: San Gilberto vescovo di Limerick (XII secolo)

C'era a quei tempi un presule in Irlanda
che trovava la sua Chiesa esecranda,
con riti problematici
e diciamolo, scismatici,
scandalizzanti il presule d'Irlanda.

Quest'uomo, che chiamavano Gilberto,
affrontava i suoi avversari a volto aperto:
"L'unica Chiesa sana",
dicea, "è la gregoriana:
le altre sono eretiche, vi avverto".

Alla riforma di Papa Gregorio
si riferiva (credo sia notorio)
che uniformò la Chiesa:
ben meritoria impresa
in cui si cimentò Papa Gregorio.

Gilberto fu seguace suo e buon chierico,
ma poiché egli era vescovo a Limerick (oh!)
per lui ho scritto una sciocca
insensata filastrocca,
che è cosa invero indegna di un buon chierico.

Si fosse egli chiamato Arnolfo, o Ambrogio,
non dico che avrei scritto un buon elogio:
però ci avrei provato;
né è colpa del prelato
se Arnolfo non chiamavasi, né Ambrogio.

La colpa in parte cade su Edward Lear
che queste strofe scrisse a non finir:
"limerick" le chiamò,
perché io non lo so:
non credo lo sapesse neanche Lear.

mercoledì 1 febbraio 2023

Brigida e il barile senza fine

1° febbraio – Santa Brigida, badessa-vescovo, copatrona d’Irlanda


(2013) Appena dico “Santa Brigida”, vi sento già sbuffare: “Massì, lo sappiamo, patrona di Svezia e d’Europa: ebbe otto figli, fondò una settantina di monasteri e riempì otto volumi di visioni estatiche”. Tutto questo è vero e anche di più, ma si tratta di Brigitta di Uppland, 23 luglio. Il primo febbraio ricorre un’altra Santa Brigida, quella di Kildare (Irlanda). Perché l’Irlanda non è solo San Patrizio, sapete.

E sai cosa bevi

Brigida forse era figlia di un capotribù e di una schiava convertita da Patrizio, forse no; forse esisteva già sotto forma di Brighid, importante divinità celtica, a cui erano dedicate alcune fontane sacre che poi passarono in blocco al cristianesimo quando questo espugnò anche l’Irlanda e Brighid si rassegnò a vestire i panni da badessa, riuscendo però nella trattativa a spuntare qualcosina di più: un pallio. Siccome non siete dei lettori qualunque, ma siete i lettori della rubrica dei Santi sul Post, non c’è bisogno di spiegarvi cosa sia il pallio e quanto sia straordinario che Brigitta ne vestisse uno. Solo i vescovi portano il pallio, e i vescovi, di solito, anzi sempre, sono maschi. Invece Brigitta lo portava, e lo portarono tutte le badesse che si succedettero a lei nella guida del monastero di Kildare (che forse all’inizio ospitava monaci di ambo i sessi, ancorché segregati; ma il boss era una donna). La cosa andò avanti per 500 anni, al punto che qualcuno cominciò a chiedersi il perché, e nacquero divertenti spiegazioni: si narra ad esempio che Brigitta fosse stata ordinata badessa da un vescovo molto anziano, che forse aveva sbagliato formula e invece di chiamarla “badessa” l’aveva chiamata “vescovo”: ma un ordine sacerdotale è una cosa seria, indissolubile, come il matrimonio; se per dire un prete molto anziano e presbite ti sposa per errore con un’acquasantiera, tu e l’acquasantiera restate marito e moglie per l’eternità – oppure vi appellate alla Sacra Rota, che in un caso del genere non avrebbe molte difficoltà ad annullare il sacramento – ma nel caso di Brigida nessuno si era appellato e così la badessa avrebbe ottenuto la dignità di vescovo, unica donna al mondo, per lei e per le sue success… le sue successoress… buffo, in italiano non c’è una parola per le donne che succedono ad altre donne in un ruolo di responsabilità. Curiosa lacuna.

Brigida è simpatica. Faceva miracoli molto semplici e di sicura presa: ottenne lo spazio per un convento stendendo il suo velo su un campo. Il proprietario le aveva detto che le avrebbe dato solo la terra coperta dal suo velo ma Brigida riuscì ovviamente a dilatarlo fino ad ottenere un bel lotto fabbricabile. Non ebbe particolari visioni estatiche, e di monasteri ne fondò assai meno dell’omonima principessa di Svezia – ma nell’isola ancora si parla di quella volta che nel Meath “spillò birra da un solo barile per diciotto chiese, in quantità tale che bastò dal Giovedì Santo alla fine del tempo pasquale” (Breviario di Aberdeen). Perciò gli irlandesi la ricordano con una preghiera che dice:

I would like a great lake of beer
for the King of Kings.
I would like to be watching Heaven’s family
drinking it through all eternity.

(Vorrei un lago di birra
per il Re dei Re.
Vorrei guardare la famiglia celeste
che ne beve per l’eternità)

Questa visione del paradiso come un pub dove la famiglia degli angeli e dei santi trinca per l’eternità, la dobbiamo a Santa Brigida di Kildare, che Dio l’abbia in gloria. E quando il giorno verrà, che si apriranno le saracinesche del cielo, fa che sia Santa Brigida ad attenderci al bancone celeste. E se la Madonna vorrà offrirci il vino di Cana, noi le diremo: “Tuo figlio ci ha messo l’acqua”, ma solo per scherzo, e Brigida spinerà una scura anche per lei, e i protestanti sciacqueranno i bicchieri in cucina, dove sarà pianto e stridore di piatti in eterno nei secoli dei secoli, amen.