L'illuminazione l'ho avuta al cinema, naturalmente. Stavo guardando l’ultimo film di Soldini, quando all’improvviso ho capito (finalmente) perché in Italia si fanno quasi solo film bruttini.
Guardate che è una cosa da niente. Però si vede che non c’è ancora arrivato nessuno.
La fotografia è ok – certe volte è proprio ottima. I costumi sono sempre buoni. Il montaggio, professionale.
Gli attori forse un po’ legnosi – ma non è colpa loro, coi dialoghi che devono recitare.
I dialoghi sono banali, ma non è questo il problema – con dei soggetti così, neanche Shakespeare avrebbe delle buone battute. Quindi il problema è il soggetto.
Secondo me nell’industria cinematografica italiana manca un ruolo fondamentale: credo che si tratti di un signore che sta in un ufficio e fuma un sigaro. Non so perché il sigaro mi sembra così fondamentale. È una cosa che puzza e incute rispetto.
Questa persona non dovrebbe leggere i soggetti, badate bene. Tutti sono buoni a leggere i soggetti. Questa persona dovrebbe semplicemente ricevere i soggettisti quando sono a metà lavoro.
Giorni, nuvole e uomini verdi
(OCCHIO: SPOILER!)
PERSONA COL SIGARO: Ciao, che piacere. Ti dispiace se fumo?
SOGGETTISTA: Parecchio
PCS: Fa lo stesso. Pof, pof. Come va col nuovo soggetto? Procediamo?
SOG: Cough. Sono più o meno a metà, infatti sono qui.
PCS: Eh, già. Me ne vuoi parlare?
S: Credo di non aver scelta.
P: Ho sentito che è una storia di quarantenni. Ottimo. I quarantenni ne andranno matti.
S: Già. Beh, in effetti, c’è questo ingegnere, sposato, con figlia già fuori di casa, che perde il lavoro. I suoi soci lo estromettono dall’azienda…
P: Ah, bello. Sotterfugi, tradimenti, coltelli alle spalle. Questo nel primo tempo, immagino.
S: No, in realtà è già successo quando il film comincia.
P: È tutto già successo.
S: Già.
P: Quindi niente sotterfugi, tradimenti…
S: No, preferivo concentrarmi sul dramma interiore.
P: Eh, beh, già, il dramma interiore. Insomma, questo qui perde il lavoro, e poi che fa?
S: Ne cerca un altro, ovviamente. Però non lo trova.
P: Finché?
S: Finché nulla, non lo trova e basta.
P: Sì, e siamo più o meno a dieci minuti di pellicola. E poi cosa succede?
S: No, veramente il film finisce così.
P: Pof.
S: Cough.
P: Non sapevo che tu stessi lavorando a un cortometraggio.
S: Infatti è un lungometraggio.
P: Ma insomma, fammi capire, come fai ad arrivare all’ottantesimo minuto? Cosa ci metti?
S: Beh, per esempio, a un certo punto gli mancano i soldi e si ricorda che c’è un suo amico che gliene doveva… allora lui va a prendere un caffè con questo amico…
P: Aaaah! Ho capito! E quindi flashbacks, nostalgie, il bel tempo che fu…
S: No.
P: No? E i soldi glieli rende?
S: No. Trova una scusa qualsiasi e non glieli rende.
P: E lui s’incazza e lo mette sotto con la macchina!
S: No. Esce dal bar.
P: Tutto qui?
S: Beh, è un po’ scosso.
P: Ah, è un po’ scosso. E il debitore poi che fa? Si sente in colpa? Rimorsi, rimpianti, sussurri e grida?
S: Nulla. Non fa nulla. In effetti è un personaggio che non torna più.
P: Quindi, fammi capire, il tizio gli chiede i soldi, lui gli risponde "non te li do", il tizio si arrabbia e se ne va.
S: Esatto.
P: Pof. Appassionante.
S: Non mi piace questo tuo sarcasmo.
P: No, hai ragione, scusa. Siamo professionisti. Però finora siamo più o meno a quindici minuti. Non riesco a capire come… insomma, cosa succede in questo film? Per esempio, la moglie…
S: Ah, la moglie è il personaggio più interessante! È quella che reagisce meglio, rinuncia al suo lavoro di ricercatrice, si ritrova in un call center, e poi…
P: Gli mette le corna?
S: Beh, ma non è importante.
P: Come non è importante. Gliele mette o no?
S: Beh, una sera, con un collega affascinante…
P: Aaaah! Il bel tenebroso! La scena di sesso!
S: Ma no, macché. Al primo bacio stacchiamo. Tanto se ne pente subito e torna a casa molto nervosa.
P: E lui la mena! Dimmi almeno che la mena! Dimmelo!
S: Mah, in effetti…
P: Oooh! Finalmente! La violenza domestica!
S: Bah… appena una strattonata, nulla di più.
P: E poi?
S: E poi si lasciano.
P: Beh, almeno è qualcosa.
S: Sì, ma solo per mezza giornata, poi tornano assieme.
P: Pof.
S: Cough.
P: Pof.
S: (Fa per andarsene) Va bene, ho capito, il mio soggetto non ti piace.
P: Ma no! Come fai a dirlo, non l’ho nemmeno… senti, fa una cosa. Prova a raccontarmi la scena più emozionante del film.
S: La scena più emozionante?
P: Quella che secondo te farà venire l’ansia allo spettatore! Quella che gli spettatori si ricorderanno a dieci anni di distanza. Raccontamela.
S: Dunque, beh, in effetti c’è… c’è questo 45enne che ormai per vivere si arrangia coi lavoretti, no? e sta incollando della carta di parati in una stanza. Poi prende la carta, sale su una scala e… e si rende conto che non è in grado di farlo. A quel punto…
P: La scala cade!
S: Ma no, per carità. È lui che scende dalla scala e se ne va. Torna a casa e si versa un bicchiere…
P: Di whisky secco. Si dà al bere.
S: …d’acqua. Cough.
P: Questa è la scena topica.
S: Esattamente. Cosa ne pensi?
P: Pof. Vuoi sapere cosa ne penso. Beh, in effetti la disoccupazione è un bel problema. Di solito i quarantacinquenni disoccupati picchiano i partner, si danno al bere, fanno incidenti stradali.
S: Ma non sempre, via.
P: Ma li leggi i giornali? Le statistiche sulle violenze domestiche o sull’alcolismo? C’è un sacco di gente a cui succede. Ma nei tuoi soggetti no. Nei tuoi soggetti la gente beve bicchieri d’acqua, si strattona appena e poi si chiede scusa immediatamente.
S: I miei sono soggetti realisti. La realtà…
P: La realtà è molto più emozionante e tragica dei tuoi soggetti! E comunque noi stiamo facendo cinema! In novanta minuti è normale che calchiamo un po’ i toni! Io sono stanco di andare al cinema e vedere gente che ha una vita più noiosa della mia! Sono stanco di dover dire a Margherita Buy “Ehi, Margherita, pianta la lagna e guardami, la mia giornata da questa parte dello schermo è più ricca di colpi di scena del tuo copione!” È una cosa che succede solo nei film italiani! Negli altri paesi agli attori succedono le disgrazie per davvero! Se due litigano, si fanno male! Se c’è una scala pieghevole, prima o poi cade! E magari cade sul passeggino del bambino! Guarda solo a quando avevamo Muccino…
S: Muccino mi dava la nausea. Troppo movimento.
P: Appunto. Muccino usava storie banali come le tue, ma ce ne metteva tante e shakerava! Se voleva parlare del 45enne disoccupato, ne parlava… però nello stesso film ci metteva anche la moglie insoddisfatta, la figlia velina, il nipote pusher, la nonna demente…
S: Il nonno demente ce l’ho messo anch’io.
P: Oooh! Finalmente una buona notizia. E cosa fa? Mena gli infermieri?
S: No, macchè. Sta in camera sua buono buono e… (cough)
P: E…
S: Guarda i pesci rossi.
P: Ma non ci credo. Ma l’hai mai visto un vero vecchio demente? Ma non lo sai che sono spettacolari? Dicono cose bibliche e terribili! E sono anche violenti! Prendi il film dei Simpson, ecco, fammi una scena tipo nonno Simpson in chiesa.
S: Ma il dramma interiore…
P: Un nonno che sragiona e picchia gli inservienti non ti sembra abbastanza drammatico? Insomma, qual è il problema con te? Hai paura di far succedere cose brutte ai tuoi personaggi? Ma sono personaggi, mica persone vere.
S: Lo so, però…
P: Tu li devi odiare i tuoi personaggi. Come Dostoevskij. Se Dostoevskij avesse amato Raskolnikov, non gli avrebbe mai permesso di ammazzare la vecchia.
S: In effetti, ammazzare la vecchia… è una cosa un po’ forte.
P: Se Flaubert avesse amato la signora Bovary, non le sarebbe successo nulla di male, e il libro sarebbe una palla tremenda.
S: Ma quel libro è una palla tremenda.
P: Auf. Se Manzoni avesse amato Renzo e Lucia… ma che te lo dico a fare. Facciamo così. Il tuo soggetto va bene.
S: Sul serio?
P: Fino al primo tempo. Nel secondo tempo atterrano gli alieni.
S: Eeeeh?
P: Dopodiché… continua tu. Vediamo cosa sei capace di fare.
S: Ma il dramma interiore?
P: Il dramma interiore sarà fi-ghi-ssi-mo. T’immagini? “Sono un ingegnere disoccupato 45enne, mantenuto da sua moglie e… che altro c’è adesso? Oh, no. Pure gli alieni! Tutte a me, capitano”.
S: Cough.
P: Magari salta fuori che gli alieni hanno una proposta di lavoro interessante. Lui fa carriera, diventa manager risorse umane, esternalizza tutti i call center su un asteroide e sua moglie resta senza lavoro. Pensaci.
S: Cough cough.
P: Le scenate della moglie: In questo modo tu penalizzi il made in earth! E lui: Me ne frego del genere umano! Cos’ha fatto per me il genere umano?! Ha ha ha! È una risata diabolica, senti? Mi piace quando nei film fanno le risate diaboliche. Cosa ne pensi?
S: Penso che tu… cough… penso che quelli come te…
P: Sì?
S: State distruggendo il cinema italiano.
P: Già. Ed è divertente. Ha ha ha. Allora mi raccomando. Gli alieni sul golfo di Genova. Sarà una cosa fighissima. M’immagino già le locandine. Pof.
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martedì 30 ottobre 2007
domenica 28 ottobre 2007
sei nato paperino, che cosa ci vuoi far
Gabriellino, 4 giorni, è nato omosessuale.
Non lo ha scelto lui. È una questione del DNA: hai presente il DNA? A scuola te l’avranno mostrata: è una proteina intrecciata con tante letterine scritte dentro. Se c’è scritto “gay”, Gabriellino nasce gay, e non può farci niente. Lui. Ma noi possiamo.
Aiutaci a curarlo.
Il bambino e l'acqua sporca
Forse è vero quel che cordialmente mi ha scritto Paolo Colonna qualche giorno fa: io sui gay non ne azzecco una. Ecco, più che omofobia potrebbe trattarsi di omoignoranza: qualcosa che col tempo è possibile curare. Nel frattempo, con tanti argomenti che ci sono al mondo, potrei evitare di scrivere di una cosa che evidentemente non conosco.
Però questo manifesto non è rivolto ai gay. È un messaggio rivolto a tutti. Ed è un messaggio profondamente ambiguo, secondo me. Di cosa si voleva parlare? Di uguaglianza, di tolleranza, di diritti? E invece ci ritroviamo a parlare di genetica. Come minimo, il manifesto svia la discussione: non dice che l’omosessualità sia una cosa normale o positiva; dice che non è una scelta. Se per questo, nemmeno la sindrome di Down. E io, sarò strano, ma appena ho visto il manifesto ho subito pensato alla sindrome di Down. Neonato + braccialetto inquietante = mongoloide. Che volete farci? L’inconscio non si processa.
Anche lo slogan mi lascia parecchio perplesso. “L’orientamento sessuale non è una scelta”. Sono d’accordo: non è una scelta. Ma allo stesso tempo non sono d’accordo: lo dovrebbe diventare. Per farvi un esempio: se sopra la foto di una donna ci scrivo “ha meno diritti dell’uomo”, ottengo un manifesto femminista o maschilista? Sto facendo una denuncia o sto enunciando una verità? Probabilmente ognuno preferirà leggerci quello che pensa già. Ma io non volevo questo. Volevo che i passanti capissero il mio messaggio.
Accostando la frase “non è una scelta” a un neonato, il poster sembra non lasciare adito a dubbi: l’omosessualità è un fattore genetico. Questo però non solo non è ancora stato dimostrato scientificamente (e scusate se è poco!) ma è anche irrilevante. Il problema non è nascere gay o diventarlo, ma essere liberi di poterlo diventare. Io penso che oggi il nostro orientamento sessuale sia il risultato di un condizionamento ambientale e (forse) di fattori genetici. E mi piacerebbe vivere in un mondo dove tutti fossimo liberi seguire o disattendere i nostri destini genetici senza condizionamenti. Il poster senz’altro non mi dice questo. Il poster mi dice: “non puoi discriminare i gay, poverini. Non è colpa loro se sono nati così”.
È quello che più o meno mi è capitato di affermare su Macchianera, un sito che ormai rappresenta per la mia generazione quello che nell’Ottocento era l’androne dei bordelli: mentre ci si tira su le braghe nascono le discussioni più disinibite e interessanti. Infatti mentre vengo più o meno redarguito, e addirittura associato a un editoriale del Foglio (e mentre Paolo mi spiega che non ne capisco niente), mi capita di imparare un paio di cose. Per esempio: a insistere molto sul concetto di “Scelta sessuale” sarebbe la stampa cattolica. Ecco, non lo sapevo. Ma me ne faccio subito una ragione: se sei tu a scegliere, e scegli male, sei un peccatore, e la Chiesa può assolverti. Invece se sei nato gay, allo stesso modo in cui altri nascono biondi o mongoloidi, alla Chiesa resta solo l’imbarazzo di spiegare perché Dio Padre Onnipotente ti ha voluto proprio far nascere così.
Ho capito. Il neonato col braccialetto serviva a smentire i preti. È il classico caso di neonato buttato via con l’acqua sporca: pur di liquidare il concetto di “peccato”, ci liberiamo pure del concetto di libera scelta. Ma poi cosa ci resta? Una proteina attorcigliata che nessuno peraltro riesce a leggere bene?
Paolo scrive che non ha scelto di essere gay, proprio come non ha scelto di essere mancino. Lo capisco. Probabilmente nemmeno io ho scelto di essere eterosessuale, automobilista o autore di blog. È la società che ha dei buchi da riempire e ci sbatte come pongo negli stampini. Tutto questo è assolutamente vero, ma non è giusto. Peraltro, dopo tante manifestazioni di orgoglio gay mi ero convinto che molti attivisti lgbt preferissero rivendicare il loro destino, riconvertendolo in una scelta. Va bene, probabilmente non ho capito nulla. Imparerò.
Però, nel frattempo, fidatevi di un etero un po' ignorante: se io vedo un manifesto così per strada, io ci leggo che gli omosessuali sono una minoranza di sfigati da curare. E secondo me non era questo il messaggio giusto.
(Poscritto: in realtà io non sopporto lo sfruttamento dell’immagine dei neonati nella pubblicità, in qualsiasi pubblicità, dai pannolini a quel cartello sulla nazionale goitese in cui un paciughino ti vende infissi in pvc. Secondo me le pubblicità tv a base di neonati hanno allevato tutta una generazione di pedofili che poi crescendo si sono messi a cercare su internet dosi sempre più pesanti. Ma è solo un’altra di quelle mie idee).
Non lo ha scelto lui. È una questione del DNA: hai presente il DNA? A scuola te l’avranno mostrata: è una proteina intrecciata con tante letterine scritte dentro. Se c’è scritto “gay”, Gabriellino nasce gay, e non può farci niente. Lui. Ma noi possiamo.
Aiutaci a curarlo.
Il bambino e l'acqua sporca
Forse è vero quel che cordialmente mi ha scritto Paolo Colonna qualche giorno fa: io sui gay non ne azzecco una. Ecco, più che omofobia potrebbe trattarsi di omoignoranza: qualcosa che col tempo è possibile curare. Nel frattempo, con tanti argomenti che ci sono al mondo, potrei evitare di scrivere di una cosa che evidentemente non conosco.
Però questo manifesto non è rivolto ai gay. È un messaggio rivolto a tutti. Ed è un messaggio profondamente ambiguo, secondo me. Di cosa si voleva parlare? Di uguaglianza, di tolleranza, di diritti? E invece ci ritroviamo a parlare di genetica. Come minimo, il manifesto svia la discussione: non dice che l’omosessualità sia una cosa normale o positiva; dice che non è una scelta. Se per questo, nemmeno la sindrome di Down. E io, sarò strano, ma appena ho visto il manifesto ho subito pensato alla sindrome di Down. Neonato + braccialetto inquietante = mongoloide. Che volete farci? L’inconscio non si processa.
Anche lo slogan mi lascia parecchio perplesso. “L’orientamento sessuale non è una scelta”. Sono d’accordo: non è una scelta. Ma allo stesso tempo non sono d’accordo: lo dovrebbe diventare. Per farvi un esempio: se sopra la foto di una donna ci scrivo “ha meno diritti dell’uomo”, ottengo un manifesto femminista o maschilista? Sto facendo una denuncia o sto enunciando una verità? Probabilmente ognuno preferirà leggerci quello che pensa già. Ma io non volevo questo. Volevo che i passanti capissero il mio messaggio.
Accostando la frase “non è una scelta” a un neonato, il poster sembra non lasciare adito a dubbi: l’omosessualità è un fattore genetico. Questo però non solo non è ancora stato dimostrato scientificamente (e scusate se è poco!) ma è anche irrilevante. Il problema non è nascere gay o diventarlo, ma essere liberi di poterlo diventare. Io penso che oggi il nostro orientamento sessuale sia il risultato di un condizionamento ambientale e (forse) di fattori genetici. E mi piacerebbe vivere in un mondo dove tutti fossimo liberi seguire o disattendere i nostri destini genetici senza condizionamenti. Il poster senz’altro non mi dice questo. Il poster mi dice: “non puoi discriminare i gay, poverini. Non è colpa loro se sono nati così”.
È quello che più o meno mi è capitato di affermare su Macchianera, un sito che ormai rappresenta per la mia generazione quello che nell’Ottocento era l’androne dei bordelli: mentre ci si tira su le braghe nascono le discussioni più disinibite e interessanti. Infatti mentre vengo più o meno redarguito, e addirittura associato a un editoriale del Foglio (e mentre Paolo mi spiega che non ne capisco niente), mi capita di imparare un paio di cose. Per esempio: a insistere molto sul concetto di “Scelta sessuale” sarebbe la stampa cattolica. Ecco, non lo sapevo. Ma me ne faccio subito una ragione: se sei tu a scegliere, e scegli male, sei un peccatore, e la Chiesa può assolverti. Invece se sei nato gay, allo stesso modo in cui altri nascono biondi o mongoloidi, alla Chiesa resta solo l’imbarazzo di spiegare perché Dio Padre Onnipotente ti ha voluto proprio far nascere così.
Ho capito. Il neonato col braccialetto serviva a smentire i preti. È il classico caso di neonato buttato via con l’acqua sporca: pur di liquidare il concetto di “peccato”, ci liberiamo pure del concetto di libera scelta. Ma poi cosa ci resta? Una proteina attorcigliata che nessuno peraltro riesce a leggere bene?
Paolo scrive che non ha scelto di essere gay, proprio come non ha scelto di essere mancino. Lo capisco. Probabilmente nemmeno io ho scelto di essere eterosessuale, automobilista o autore di blog. È la società che ha dei buchi da riempire e ci sbatte come pongo negli stampini. Tutto questo è assolutamente vero, ma non è giusto. Peraltro, dopo tante manifestazioni di orgoglio gay mi ero convinto che molti attivisti lgbt preferissero rivendicare il loro destino, riconvertendolo in una scelta. Va bene, probabilmente non ho capito nulla. Imparerò.
Però, nel frattempo, fidatevi di un etero un po' ignorante: se io vedo un manifesto così per strada, io ci leggo che gli omosessuali sono una minoranza di sfigati da curare. E secondo me non era questo il messaggio giusto.
(Poscritto: in realtà io non sopporto lo sfruttamento dell’immagine dei neonati nella pubblicità, in qualsiasi pubblicità, dai pannolini a quel cartello sulla nazionale goitese in cui un paciughino ti vende infissi in pvc. Secondo me le pubblicità tv a base di neonati hanno allevato tutta una generazione di pedofili che poi crescendo si sono messi a cercare su internet dosi sempre più pesanti. Ma è solo un’altra di quelle mie idee).
giovedì 25 ottobre 2007
le parole sono importanti
Io soprascritto Leonardo, in qualità di blog-più-vecchio-d’Italia -a-parte-Valido-e-Ludik, dichiaro formalmente guerra ai modi di dire più abusati, alle frasi fatte e strafatte, ai luoghi comuni troppo affollati.
Cosa c’è di male in un modo di dire?
Niente. Ma trovo giusto rinnovarli ogni tanto. Altrimenti continuiamo a citare film che nessuno vede più, o libri che non abbiamo neanche letto, o saggi che probabilmente intendevano il contrario di quel che gli mettiamo in bocca, eccetera eccetera.
Così invece del solito pippone oggi redarrò, con la vostra collaborazione, una lista di modi di dire che da oggi in poi sono definitivamente out, perché? Perché l’ho deciso io, e io sono maledettamente vecchio e saggio, va bene?
Quando il saggio indica la luna…
Lo stolto mostra il dito.
Medio. Saggio, rispettosamente hai sfracellato i coglioni. 14.000 risultati su Google! Prova a indicare qualcos’altro. Ci sono più cose in cielo e in terra che... ops.
Un silenzio assordante
Confesso, non ricordo chi l’ha inventata. Ma a chi la racconto? Non lo so proprio. Senz’altro un poeta: è un’espressione meravigliosa, il più bell’ossimoro che io conosca. Però è da 5-6 anni che tutti i silenzi che sento in giro sono “assordanti” (74.400 pagine su google!) Ormai questi due termini fanno coppia fissa: la sera si trovano sul divano e litigano perché “silenzio” vorrebbe vedere il dottor House e “assordante” l’isola dei famosi.
ASSORDANTE: Ma si può sapere perché stiamo insieme, noi due? Non abbiamo niente ma niente in comune! Chi è che ci ha presentati? Eh? Si può sapere chi è stato?
SILENZIO:
È la democrazia, bellezza (versione originale: è la stampa, bellezza)
Sarei curioso sapere quanti tra quelli che la usano hanno visto il film con Bogart giornalista (Deadline USA, in italiano L'ultima minaccia, 1952) che dice (al suo avversario) “that’s the power of the press, baby, the power of the press”. Io, per esempio, no. La frase “è la stampa bellezza” nasce da lì, l’autore è uno di quegli anonimi traduttori che leggevano “shut up” e traducevano “chiudi il becco”. Avete mai sentito qualcuno in carne e ossa dire “chiudi il becco”? E tra colleghi e antagonisti, vi dite mai “bellezza”? No, direi di no. Tutte le volte che la sento in tv o (infinitamente più spesso) su internet, mi sembra che il monitor viri in bianco e nero.
Oltre che antica, è pure un po’ provinciale. Da qualche parte (non trovo più dove) Eco faceva notare che la frase era diventata famosa più in Italia che all’estero, proprio perché da noi a quei tempi il “potere della stampa” era ancora un frutto proibito. Insomma, non usatela all’estero, perché non capiranno il riferimento. È quel tipo di tormentone che ereditiamo inconsapevolmente da qualche vecchio giornalista che passava i pomeriggi a guardare vecchi MGM in bianco e nero. In teoria noi dovremmo essere quelli giovani...
...Infatti continuiamo a dire
Ho visto cose che voi umani
Come no. Scommetto che hai visto i cancelli di Tannhauser al largo dei bastioni di Orione. Beh, li abbiamo visti anche noi. E poi? Visto qualche altro bel film di recente?
Ho sempre sentito dire che il monologo se lo fosse improvvisato Hauer lì per lì. In realtà sembra che abbia solo tagliato di sua sponte una battuta ancora più lunga, aggiungendo “le lacrime nella pioggia”, che sono poetiche, seppure un tantino banali, eh. Io sono sempre stato felice che una frase lontanamente riconducibile a Dick abbondasse sulla bocca di tutti. Ma dopo 83.100 pagine su Google comincio ad avvertire una certa stanchezza. Siamo tutti replicanti, abbiamo tutti visto cose che gli umani non si immaginano, probabilmente nel frattempo gli umani si sono stancati di starci a sentire e sono fuggiti su Orione a far cose che noi replicanti ci sogniamo.
E compagnia bella
Questo in realtà non mi sembra così abusato: continuate pure a scrivere “e compagnia bella”. Si parlava di modi di dire e mi è venuto in mente.
L’origine non la conosco, ma di solito in Italia tutti la considerano un marchio di fabbrica di Salinger. Quando tra giovani andava di moda imitare Salinger, a tutti scappava almeno un “e compagnia bella”. (Perché adesso non va più di moda, vero?)
In realtà Salinger, non ha mai scritto “e compagnia bella”, essendo americano. Il suo famoso giovane Holden finiva quasi tutte le frasi con l’intercalare “and all”. Ora, siccome la traduttrice italiana era una signorina perbene e di mondo, non riteneva giusto tradurre sempre nello stesso modo “and all”, perché l’italiano, che è già tanto ridondante di suo, soffre le ripetizioni più dell’inglese. Così doveva cercare i modi più disparati di tradurre quel maledetto “and all”. Perciò a sua discrezione variava con "...e tutto quanto", "...e tutto il resto", "...eccetera eccetera", "...e quel che segue", "...e via discorrendo"… e quello che è rimasto più in mente ai lettori, “compagnia bella”. Questo per dire che molti italiani convinti di essere appassionati di Salinger, in realtà erano appassionati della prosa di questa signorina perbene, Adriana Motti.
Qui c’è una bella intervista di Luca Sofri, dove dice di avere appreso "e compagnia bella" dai suoi nipoti. In quei tempi all’Einaudi comandava Calvino e i traduttori avevano il tempo di uscire all’aria aperta e interagire coi bambini che giocavano nei cortili: in effetti poi le traduzioni uscivano migliori.
Oggi al suo posto subappalterebbero tutto a un anemico dottorando di scienze della traduzione che recluso nel suo soppalco più servizi per un pezzo di pane tradurrebbe sempre con “e tutto”. “E tutto”. “E tutto”.
“Scusa, ma è una noia tremenda così”.
“Lo so bene, ma non posso a nessun costo derogare alla manifesta volontà autoriale di incidere subliminalmente il preconscio del lettore con l’iterazione martellante della funzione fatica, e…”
“…e compagnia bella”.
“Eh?”
“Scusa, era un modo di dire della lingua italiana”.
“Mai sentito”.
Una frase a caso di Nanni Moretti
In realtà non saprei quale, ma in generale sono troppe. Metà della mia valigetta di frasi pronte è piena di roba che ha detto lui in un film: è quasi imbarazzante, non siamo mica parenti. Datemi una mano a decidere:
- di’ una cosa di sinistra
- faccio cose, vedo gente
- mi si nota di più se non vengo
- il dibattito no!
- continuiamo così, facciamoci del male
- (ne ho senz’altro scordata qualcuna memorabile)
Che faccio, vado avanti?
Cosa c’è di male in un modo di dire?
Niente. Ma trovo giusto rinnovarli ogni tanto. Altrimenti continuiamo a citare film che nessuno vede più, o libri che non abbiamo neanche letto, o saggi che probabilmente intendevano il contrario di quel che gli mettiamo in bocca, eccetera eccetera.
Così invece del solito pippone oggi redarrò, con la vostra collaborazione, una lista di modi di dire che da oggi in poi sono definitivamente out, perché? Perché l’ho deciso io, e io sono maledettamente vecchio e saggio, va bene?
Quando il saggio indica la luna…
Lo stolto mostra il dito.
Medio. Saggio, rispettosamente hai sfracellato i coglioni. 14.000 risultati su Google! Prova a indicare qualcos’altro. Ci sono più cose in cielo e in terra che... ops.
Un silenzio assordante
Confesso, non ricordo chi l’ha inventata. Ma a chi la racconto? Non lo so proprio. Senz’altro un poeta: è un’espressione meravigliosa, il più bell’ossimoro che io conosca. Però è da 5-6 anni che tutti i silenzi che sento in giro sono “assordanti” (74.400 pagine su google!) Ormai questi due termini fanno coppia fissa: la sera si trovano sul divano e litigano perché “silenzio” vorrebbe vedere il dottor House e “assordante” l’isola dei famosi.
ASSORDANTE: Ma si può sapere perché stiamo insieme, noi due? Non abbiamo niente ma niente in comune! Chi è che ci ha presentati? Eh? Si può sapere chi è stato?
SILENZIO:
È la democrazia, bellezza (versione originale: è la stampa, bellezza)
Sarei curioso sapere quanti tra quelli che la usano hanno visto il film con Bogart giornalista (Deadline USA, in italiano L'ultima minaccia, 1952) che dice (al suo avversario) “that’s the power of the press, baby, the power of the press”. Io, per esempio, no. La frase “è la stampa bellezza” nasce da lì, l’autore è uno di quegli anonimi traduttori che leggevano “shut up” e traducevano “chiudi il becco”. Avete mai sentito qualcuno in carne e ossa dire “chiudi il becco”? E tra colleghi e antagonisti, vi dite mai “bellezza”? No, direi di no. Tutte le volte che la sento in tv o (infinitamente più spesso) su internet, mi sembra che il monitor viri in bianco e nero.
Oltre che antica, è pure un po’ provinciale. Da qualche parte (non trovo più dove) Eco faceva notare che la frase era diventata famosa più in Italia che all’estero, proprio perché da noi a quei tempi il “potere della stampa” era ancora un frutto proibito. Insomma, non usatela all’estero, perché non capiranno il riferimento. È quel tipo di tormentone che ereditiamo inconsapevolmente da qualche vecchio giornalista che passava i pomeriggi a guardare vecchi MGM in bianco e nero. In teoria noi dovremmo essere quelli giovani...
...Infatti continuiamo a dire
Ho visto cose che voi umani
Come no. Scommetto che hai visto i cancelli di Tannhauser al largo dei bastioni di Orione. Beh, li abbiamo visti anche noi. E poi? Visto qualche altro bel film di recente?
Ho sempre sentito dire che il monologo se lo fosse improvvisato Hauer lì per lì. In realtà sembra che abbia solo tagliato di sua sponte una battuta ancora più lunga, aggiungendo “le lacrime nella pioggia”, che sono poetiche, seppure un tantino banali, eh. Io sono sempre stato felice che una frase lontanamente riconducibile a Dick abbondasse sulla bocca di tutti. Ma dopo 83.100 pagine su Google comincio ad avvertire una certa stanchezza. Siamo tutti replicanti, abbiamo tutti visto cose che gli umani non si immaginano, probabilmente nel frattempo gli umani si sono stancati di starci a sentire e sono fuggiti su Orione a far cose che noi replicanti ci sogniamo.
E compagnia bella
Questo in realtà non mi sembra così abusato: continuate pure a scrivere “e compagnia bella”. Si parlava di modi di dire e mi è venuto in mente.
L’origine non la conosco, ma di solito in Italia tutti la considerano un marchio di fabbrica di Salinger. Quando tra giovani andava di moda imitare Salinger, a tutti scappava almeno un “e compagnia bella”. (Perché adesso non va più di moda, vero?)
In realtà Salinger, non ha mai scritto “e compagnia bella”, essendo americano. Il suo famoso giovane Holden finiva quasi tutte le frasi con l’intercalare “and all”. Ora, siccome la traduttrice italiana era una signorina perbene e di mondo, non riteneva giusto tradurre sempre nello stesso modo “and all”, perché l’italiano, che è già tanto ridondante di suo, soffre le ripetizioni più dell’inglese. Così doveva cercare i modi più disparati di tradurre quel maledetto “and all”. Perciò a sua discrezione variava con "...e tutto quanto", "...e tutto il resto", "...eccetera eccetera", "...e quel che segue", "...e via discorrendo"… e quello che è rimasto più in mente ai lettori, “compagnia bella”. Questo per dire che molti italiani convinti di essere appassionati di Salinger, in realtà erano appassionati della prosa di questa signorina perbene, Adriana Motti.
Qui c’è una bella intervista di Luca Sofri, dove dice di avere appreso "e compagnia bella" dai suoi nipoti. In quei tempi all’Einaudi comandava Calvino e i traduttori avevano il tempo di uscire all’aria aperta e interagire coi bambini che giocavano nei cortili: in effetti poi le traduzioni uscivano migliori.
Oggi al suo posto subappalterebbero tutto a un anemico dottorando di scienze della traduzione che recluso nel suo soppalco più servizi per un pezzo di pane tradurrebbe sempre con “e tutto”. “E tutto”. “E tutto”.
“Scusa, ma è una noia tremenda così”.
“Lo so bene, ma non posso a nessun costo derogare alla manifesta volontà autoriale di incidere subliminalmente il preconscio del lettore con l’iterazione martellante della funzione fatica, e…”
“…e compagnia bella”.
“Eh?”
“Scusa, era un modo di dire della lingua italiana”.
“Mai sentito”.
Una frase a caso di Nanni Moretti
In realtà non saprei quale, ma in generale sono troppe. Metà della mia valigetta di frasi pronte è piena di roba che ha detto lui in un film: è quasi imbarazzante, non siamo mica parenti. Datemi una mano a decidere:
- di’ una cosa di sinistra
- faccio cose, vedo gente
- mi si nota di più se non vengo
- il dibattito no!
- continuiamo così, facciamoci del male
- (ne ho senz’altro scordata qualcuna memorabile)
Che faccio, vado avanti?
martedì 23 ottobre 2007
ritorno al futurismo
Dialogo sull'arte contemporanea, II
(meno divertente del primo)
A me la Fontana di Trevi rossa è piaciuta!
Anche a me. Però quel tale bisogna metterlo in galera.
Ma non ha fatto niente. Anzi, è stato un gesto artistico.
Precisamente. Guarda, fosse per me istituirei tutta una categoria di Reati Artistici, a cui riserverei la parte più soleggiata delle galere.
L’Arte, un reato? Ma non ti vergogni?
Un po’ sì, mi vergogno. Ma vedi, è per il loro bene e dell’arte. Gli artisti che violano la legge hanno assolutamente bisogno di leggi da violare. Macchiare di rosso l’acqua della fontana diventa artistico soltanto se è un reato. Se lo derubrichiamo, tutti cominceranno ad andare alla Fontana con i secchielli di tutti i colori, e fidati, smetterà di essere bello dopo poche ore. Sarà diventata una cosa banale, istituzionale, verrà anche Veltroni a tinger l’acqua d’arcobaleno nel Giorno delle Minoranze,vogliamo ridurci così? Se invece desideriamo che l’acqua rossa resti un vero gesto artistico, dobbiamo ribadire che esiste una legge che la impedisce: e se la legge non c’è, ci toccherà scriverla. È un po’ lo stesso discorso dei writers. I writers sono artisti-contro. Se smettono di essere contro, smettono di essere artisti, per cui la società è costretta a dargli contro. Dalle mie parti a volte un assessore concede un muro ai writers: il risultato è sempre deludente. Il writer ha bisogno di avere fretta, freddo, paura dei poliziotti col manganello. Altrimenti diventa solo un decoratore di camion con aerografo, un madonnaro, e neanche dei migliori.
Scusa, ma in pratica stai dicendo che le pratiche artistiche fuorilegge ottengono il risultato opposto a quello che si prefissavano: rafforzare il controllo, inasprire le leggi…
Mi sembra una cosa abbastanza ovvia. Da quando nella mia città ci sono i writers, sono nati i comitati cittadini che ricoprono le scritte dei writers. Io penso che l’artista moderno (non l’artista classico, che era un grande artigiano al servizio di una committenza)... dicevo, penso che l’artista moderno sia quasi sempre un grande bambinone, e il contenuto ultimo delle sue opere sia, nel 50% dei casi: “Ehi, papà guardami, esisto”. Mi sembra di averne già parlato. Questo è un tipo di arte che, prima ancora di soldi, ha bisogno di un Papà. È un’arte che trasforma gli spettatori in padri, in borghesi da épater. Se la apprezziamo, dobbiamo fare esattamente quello che l’artista chiede: dargli tanti scapaccioni.
E allora Sgarbi…
Sgarbi è un critico d’arte. Se gli artisti dobbiamo mandarli tutti in galera, a Sgarbi propongo il ruolo di secondino. Lo trovo molto appropriato: gli altri dopo un po’ escono, lui resta lì.
Il tizio si è qualificato come futurista. Io ci avrei visto più certo situazionismo, oppure Christo, o un happening…
Guarda, è una questione di riferimenti culturali. Una fontana rossa è una provocazione. Durante il Novecento molti artisti hanno praticato la provocazione come arte, e ogni 5-6 anni cambiavano etichetta. Se poi nel tuo percorso personale hai studiato più gli anni ’70, magari lo chiamerai Happening. Il tizio è un fanatico di estrema destra, per cui ci vede il Futurismo. Ognuno alla fine è libero di sfoggiare l’etichetta in cui si riconosce.
Ma i futuristi macchiavano l’acqua delle fontane?
Che io sappia, no. Però non gli sarebbe dispiaciuto, anzi. Del resto il rosso era il colore preferito di Filippo Tommaso Marinetti, che proponeva di aumentare a dismisura la banda rossa sulla bandiera italiana. Il bianco e il verde dovevano rimanere due striscioline sul bordo. Lui però probabilmente avrebbe usato una vernice corrosiva.
Un criminale!
Ecco, hai centrato il punto. L’artista moderno è un criminale vero o un criminale per finta? Non lo so. Posso dire che molta neoavanguardia, dai Cinquanta-Sessanta in poi, ha trasformato in gesti teatrali quelli che all’inizio del secolo erano atti criminali veri e propri. I futuristi non andavano così per il sottile. Quel Guido Keller che sorvolò Montecitorio con un biplano, non credo che urlasse: “Scostatevi, sto per tirare un pitale”. Probabilmente non escludeva di ammazzare qualcuno mentre effettuava il suo gesto artistico.
Sì, ma Marinetti è vissuto per anni a Roma e non ha mai danneggiato in alcun modo la Fontana di Trevi.
Per un motivo molto preciso: voleva venderla ai turisti.
Prima di Totò?
Forse Totò si è ispirato in qualche modo a un manifesto composto tra il 1913 e il 1919, in cui Marinetti proponeva al Governo di vendere il patrimonio artistico italiano.
Aspetta, aspetta:
Aspetta. Marinetti non era lo stesso che proponeva di asfaltare Venezia?
Proprio lui. Se fosse andato al potere avrebbe trasformato l'Italia in un un’enorme Porto Marghera. Anche se probabilmente il risultato sarebbe stato più simile a un enorme Agro Pontino.
Mi sfugge l’apparentamento dei futuristi coi fascisti, con il loro culto della tradizione, dell’antichità…
È un discorso molto lungo.
Allora lasciamo perdere, non mi interessa più.
Ti dico solo questo: il fascismo nel 1919 non è il fascismo del 1930. Il Mussolini di fine anni Dieci, che vive a Milano e scrive vibranti editoriali sul suo giornale finanziato dall’Ansaldo, è un appassionato di motori, di automobili e aeroplani. Per lui esistono ormai soltanto due classi sociali, i “produttori” (operai, industriali, ecc.) che fanno la ricchezza del Paese, e quelli che vivono alle spalle dei produttori (i politici corrotti di Roma ladrona).
Stai dicendo che Mussolini è nato leghista!
No. È nato socialista. Poi è stato anarcosindacalista, socialista-interventista, nazionalista… nella fase del flirt con Marinetti aveva idee molto simili a quelle dei padroncini di oggi. Quando è andato a Roma la musica è cambiata. Sai, il cupolone, il fontanone… è roba che alla lunga ti rammollisce.
Aveva ragione Marinetti? Dovevamo vendere tutto?
Non lo so. Però è da duemila anni che facciamo la figura di quelli che pisciano sui monumenti eterni. I monumenti restano abbastanza eterni, e il nostro piscio dopo un po’ se ne va via. I futuristi ormai son roba più vecchia del Colosseo. Personalmente preferisco non coltivare nostalgie per il passato, figurati se metto a nutrirle per un futuro andato male.
(*)F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1983, pagg. 432-434.
(meno divertente del primo)
A me la Fontana di Trevi rossa è piaciuta!
Anche a me. Però quel tale bisogna metterlo in galera.
Ma non ha fatto niente. Anzi, è stato un gesto artistico.
Precisamente. Guarda, fosse per me istituirei tutta una categoria di Reati Artistici, a cui riserverei la parte più soleggiata delle galere.
L’Arte, un reato? Ma non ti vergogni?
Un po’ sì, mi vergogno. Ma vedi, è per il loro bene e dell’arte. Gli artisti che violano la legge hanno assolutamente bisogno di leggi da violare. Macchiare di rosso l’acqua della fontana diventa artistico soltanto se è un reato. Se lo derubrichiamo, tutti cominceranno ad andare alla Fontana con i secchielli di tutti i colori, e fidati, smetterà di essere bello dopo poche ore. Sarà diventata una cosa banale, istituzionale, verrà anche Veltroni a tinger l’acqua d’arcobaleno nel Giorno delle Minoranze,vogliamo ridurci così? Se invece desideriamo che l’acqua rossa resti un vero gesto artistico, dobbiamo ribadire che esiste una legge che la impedisce: e se la legge non c’è, ci toccherà scriverla. È un po’ lo stesso discorso dei writers. I writers sono artisti-contro. Se smettono di essere contro, smettono di essere artisti, per cui la società è costretta a dargli contro. Dalle mie parti a volte un assessore concede un muro ai writers: il risultato è sempre deludente. Il writer ha bisogno di avere fretta, freddo, paura dei poliziotti col manganello. Altrimenti diventa solo un decoratore di camion con aerografo, un madonnaro, e neanche dei migliori.
Scusa, ma in pratica stai dicendo che le pratiche artistiche fuorilegge ottengono il risultato opposto a quello che si prefissavano: rafforzare il controllo, inasprire le leggi…
Mi sembra una cosa abbastanza ovvia. Da quando nella mia città ci sono i writers, sono nati i comitati cittadini che ricoprono le scritte dei writers. Io penso che l’artista moderno (non l’artista classico, che era un grande artigiano al servizio di una committenza)... dicevo, penso che l’artista moderno sia quasi sempre un grande bambinone, e il contenuto ultimo delle sue opere sia, nel 50% dei casi: “Ehi, papà guardami, esisto”. Mi sembra di averne già parlato. Questo è un tipo di arte che, prima ancora di soldi, ha bisogno di un Papà. È un’arte che trasforma gli spettatori in padri, in borghesi da épater. Se la apprezziamo, dobbiamo fare esattamente quello che l’artista chiede: dargli tanti scapaccioni.
E allora Sgarbi…
Sgarbi è un critico d’arte. Se gli artisti dobbiamo mandarli tutti in galera, a Sgarbi propongo il ruolo di secondino. Lo trovo molto appropriato: gli altri dopo un po’ escono, lui resta lì.
Il tizio si è qualificato come futurista. Io ci avrei visto più certo situazionismo, oppure Christo, o un happening…
Guarda, è una questione di riferimenti culturali. Una fontana rossa è una provocazione. Durante il Novecento molti artisti hanno praticato la provocazione come arte, e ogni 5-6 anni cambiavano etichetta. Se poi nel tuo percorso personale hai studiato più gli anni ’70, magari lo chiamerai Happening. Il tizio è un fanatico di estrema destra, per cui ci vede il Futurismo. Ognuno alla fine è libero di sfoggiare l’etichetta in cui si riconosce.
Ma i futuristi macchiavano l’acqua delle fontane?
Che io sappia, no. Però non gli sarebbe dispiaciuto, anzi. Del resto il rosso era il colore preferito di Filippo Tommaso Marinetti, che proponeva di aumentare a dismisura la banda rossa sulla bandiera italiana. Il bianco e il verde dovevano rimanere due striscioline sul bordo. Lui però probabilmente avrebbe usato una vernice corrosiva.
Un criminale!
Ecco, hai centrato il punto. L’artista moderno è un criminale vero o un criminale per finta? Non lo so. Posso dire che molta neoavanguardia, dai Cinquanta-Sessanta in poi, ha trasformato in gesti teatrali quelli che all’inizio del secolo erano atti criminali veri e propri. I futuristi non andavano così per il sottile. Quel Guido Keller che sorvolò Montecitorio con un biplano, non credo che urlasse: “Scostatevi, sto per tirare un pitale”. Probabilmente non escludeva di ammazzare qualcuno mentre effettuava il suo gesto artistico.
Sì, ma Marinetti è vissuto per anni a Roma e non ha mai danneggiato in alcun modo la Fontana di Trevi.
Per un motivo molto preciso: voleva venderla ai turisti.
Prima di Totò?
Forse Totò si è ispirato in qualche modo a un manifesto composto tra il 1913 e il 1919, in cui Marinetti proponeva al Governo di vendere il patrimonio artistico italiano.
Dato che soltanto le Gallerie degli Uffizi e Pitti furono valutate più di un miliardo, l’Italia sarà in pochi anni abbastanza ricca per: 1. avere la prima marina mercantile del mondo; 2. avere una grande navigazione fluviale; 3. intensificare decisamente tutte le industrie esistenti, e creare immediatamente le mancanti; 4 sviluppare fino al rendimento massimo l’agricoltura e sanare tutte le zone malariche; 5. vincere completamente l’analfabetismo; 6. abolire totalmente ogni imposta per venti anni almeno; 7. dare un utile compenso ai combattenti.Ma il turismo…
Prevediamo tutte le obbiezioni e le distruggiamo: La vendita del nostro patrimonio artistico, ben lungi dal diminuire il nostro prestigio, dimostrerà al mondo che un popolo giovane e sicuro del proprio avvenire ne sa affrontare tutti i problemi, trasformando in forze vive le sue ricchezze morte, come un aristocratico intelligente rinuncia ad ogni fasto vano e lancia il proprio oro nell’industria.[…]*
Aspetta, aspetta:
Si obietterà anche che questa vendita allontanerà dall’Italia il fiume rimunerativo dei visitatori stranieri. Non vogliamo discutere qui sull’utilità dell’industria dei forestieri, che pur regalando all’Italia molti milioni, è tanto aleatoria da poter cessare per un caso isolato di colera o per una scossa di terremoto, ed è sempre dannosa poiché snazionalizza e umilia il nostro paese, lo riempie di spie e trasforma un terzo degl’italiani in albergatori, in ciceroni e in boys d’hôtel.
Dichiariamo soltanto che i forestieri verranno sempre, purtroppo, in gran numero, poiché la nostra penisola fa il clima più dolce, il cielo più bello [ecc. ecc.]*
Aspetta. Marinetti non era lo stesso che proponeva di asfaltare Venezia?
Proprio lui. Se fosse andato al potere avrebbe trasformato l'Italia in un un’enorme Porto Marghera. Anche se probabilmente il risultato sarebbe stato più simile a un enorme Agro Pontino.
Mi sfugge l’apparentamento dei futuristi coi fascisti, con il loro culto della tradizione, dell’antichità…
È un discorso molto lungo.
Allora lasciamo perdere, non mi interessa più.
Ti dico solo questo: il fascismo nel 1919 non è il fascismo del 1930. Il Mussolini di fine anni Dieci, che vive a Milano e scrive vibranti editoriali sul suo giornale finanziato dall’Ansaldo, è un appassionato di motori, di automobili e aeroplani. Per lui esistono ormai soltanto due classi sociali, i “produttori” (operai, industriali, ecc.) che fanno la ricchezza del Paese, e quelli che vivono alle spalle dei produttori (i politici corrotti di Roma ladrona).
Stai dicendo che Mussolini è nato leghista!
No. È nato socialista. Poi è stato anarcosindacalista, socialista-interventista, nazionalista… nella fase del flirt con Marinetti aveva idee molto simili a quelle dei padroncini di oggi. Quando è andato a Roma la musica è cambiata. Sai, il cupolone, il fontanone… è roba che alla lunga ti rammollisce.
Aveva ragione Marinetti? Dovevamo vendere tutto?
Non lo so. Però è da duemila anni che facciamo la figura di quelli che pisciano sui monumenti eterni. I monumenti restano abbastanza eterni, e il nostro piscio dopo un po’ se ne va via. I futuristi ormai son roba più vecchia del Colosseo. Personalmente preferisco non coltivare nostalgie per il passato, figurati se metto a nutrirle per un futuro andato male.
(*)F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1983, pagg. 432-434.
sabato 20 ottobre 2007
chi fa sempre divertire i grandi ed i piccin?
In questi giorni invidio un po' chi non ha visto Ratatouille e può fare la fila al botteghino per vederlo la prima volta. Chi torna a casa poi se vuole può finalmente leggere cosa ne avevo scritto io (so che c'è gente che - giustamente - questi pezzi preferisce leggerli dopo la prima visione). Così lo re-incollo qui.
E non i bambini di oggi, disinfettati ai limiti della sterilità, che di topi ne vedono solo sullo schermo piccolo o grande. I bambini degli anni '40 che in mezzo ai topi ci vivevano, in case con buchi nel battiscopa e rumori in cantina. Al cinema ridevano (grandi e piccoli) per il topo di cartone; poi rincasavano e controllavano le trappole.
Magari il tifo per il topo era il primo accenno di ribellione del piccolo di casa: una specie di solidarietà tra le piccole creature sempre affamate. Ci saranno stati bambini che di nascosto portavano briciole al roditore. Credo che uno dei passaggi cruciali della pre-adolescenza sia quando ti accorgi che Jerry non è poi così simpatico, anzi, a ben vedere è uno stronzo, e cominci a tifare per il suo avversario frustrato. Fine della solidarietà tra le piccole creature: diventi grande, cominci ad avere paura dei germi e a sviluppare il senso della proprietà: giù le mani dalle nostre provviste, parassita!
Il film (che è bellissimo, se non avete la fobia dei topi, ed è andato meglio in Francia che negli USA) non è americano al 100%. L’idea è di Jan Pinkava, britannico d’origine boema, già premio Oscar per un corto. Gli uomini della Pixar devono averne apprezzato soprattutto il senso della sfida: dopo aver creato con Cars un mondo cromato e arrugginito, in cui l’automobile è Natura, i canyon hanno le sagome di vecchie cadillac e le nuvole sono strisce di pneumatici, stavolta si trattava di stravolgere uno degli archetipi dell’animazione: il Topo. Togliere al Topo il cravattino di Jerry e le braghette di Mickey. De-antropomorfizzarlo, riportarlo alla natura, alla sua condizione di scroccone purulento. E poi rimettersi nel suo punto di vista: il punto di vista di un animale braccato, per il quale anche una vecchia zia borgognona è un orco sterminatore, e la sua vecchia spingarda lancia razzi Terra-Aria.
L’altra scommessa era il cibo. L’ultima frontiera del digitale è rendere l’organico coi pixel: le croste croccanti, il verde delle muffe, il ribollire di una salsa. E dopo avere programmato cibo vero e ratti veri, farli interagire in un film per bambini. Trasformare un’orda di ratti sporchi e scrocconi nel personale di un ristorante francese: una sfida impossibile, salvo che nulla è impossibile per gli uomini della Pixar. La morale del film è la sfida stessa: non tutti hanno talento, ma se ce l’hai puoi fare qualsiasi cosa. Puro calvinismo: la fede è un dono che sposta le montagne. Rémy è il ratto aspirante chef, che per cucinare deve servirsi dello sguattero Linguini: il modo in cui impara a guidare il suo strumento umano, tirandogli i capelli per condizionarne i movimenti, è una stupenda metafora del mestiere dell’animatore (e di qualunque arte o mestiere): migliaia di tentativi e ore di lavoro, anche solo per affettare un tubero. Ma se hai talento puoi solo farcela, e infatti Rémy ce la farà. Titoli, fine.
Ecco, questa è la crosta croccante del film. Quello che c’è dentro, però, è un po’ meno dolciastro: come se qualche spezia europea fosse riuscita a salvarsi anche dopo che Pinkava ha lasciato la Pixar e il progetto è passato a Brad Bird. Il retrogusto amaro si percepisce soprattutto nelle prime sequenze: più tardi, quando si avventurerà in quel mondo pieno di coltelli, carrelli e altre insidie, sarà impossibile non prendere le parti del Piccolo chef. Ma all’inizio della storia Rémy non è necessariamente un personaggio simpatico. È il figlio del Capo di un branco accampato nel solaio di una casa di campagna. Il suo fiuto straordinario lo rende prezioso per la sopravvivenza della “famiglia”, grazie alla sua capacità di riconoscere il cibo avvelenato. Per il resto, il padre e i fratelli non hanno la minima considerazione per le sue capacità. Per il padre il cibo è solo carburante, ai fini dell’unica missione di vita: sopravvivere, malgrado gli umani. Di fronte a questi orchi enormi, che massacrano i ratti senza pietà, la famiglia non ha altra scelta che scappare e mangiare, mangiare e scappare, senza dividersi mai.
È una vita che Remy non sopporta. A lui piace il mondo degli uomini: gli odori della dispensa, i programmi di cucina, i libri di ricette. Sarà la sua imprudenza a causare la fuga in città della famiglia. In città del resto la vita dei ratti non è molto diversa: la famiglia è sempre la famiglia, e il cibo è sempre carburante. Ma non per Remy. Lui passerà definitivamente dalla parte dei nemici, degli assassini, degli uomini.
Ecco la polpa europea. Rémy è un migrante, come Fievel: ma se Fievel sbarca in America era l’epopea nostalgica degli emigranti europei negli USA, Ratatouille racconta l’emigrazione e l’inurbazione con tutta l’ambiguità dei problemi irrisolti di oggi. Gli emigranti hanno due vie (le hanno sempre avute): o si ghettizzano, cristallizzando i costumi e i valori della società di provenienza e isolandosi in un mondo percepito come ostile, o si integrano. Ma integrarsi significa spezzare le radici, tradire la razza. Non ci riescono tutti, e nemmeno Rémy, che pure tratta i suoi simili veramente con la puzza sotto il naso. In Africa i tipi come Rémy li chiamano noir blanchi, neri imbiancati: eppure anche lui preferisce non tagliarsi del tutto i ponti alle spalle: nottetempo scivola nella dispensa del ristorante che lo ha accolto, e ruba un po’ di roba buona per il fratello. La cosa gli scappa naturalmente di mano, proprio come succede quando la tua famiglia esce dal medioevo e viene a bussare nel tuo superattico per chiederti un favore: il problema di Rémy è lo stesso problema di Michael Corleone, è il problema di tutti gli onorati membri della società che hanno ancora qualche legame con le Famiglie.
Verso i tre quarti il film, per quanto divertente, sembra proiettato verso un finale tragico: Rémy ha servito gli umani senza riuscire a integrarsi veramente, e intanto la Famiglia che fa affidamento su di lui è sempre più numerosa, sempre più affamata. Poi c’è il finale, appicicato un po’ così, che non racconto: dico solo che è incredibile la sfacciataggine con cui pretende di salvare capra e cavoli, Famiglia e civiltà. Quando le cose al mondo non stanno così, decisamente: uomini e ratti non possono convivere nello stesso ristorante. È una cosa che semplicemente non succede, nella realtà.
D’altro canto è un cartone animato, e nei cartoni animati i topi sono simpatici e la fanno franca. Detto questo, qui propongo il mio finale: dopo decenni di clandestinità Remy riesce a imporsi come un cuoco degno del genere umano, apre un ristorante a Duisberg, e una sera tutti i suoi parenti vengono sterminati nel parcheggio da una banda di roditori concorrenti. Perché la vita è dura, se nasci ratto. Rémy lo diceva già all’inizio. Nei film americani poi ti raccontano che anche il ratto può crescere, scoprire i suoi talenti, tradire i famigliari e poi ritrovarli, diventare famoso e apprezzato. Ma gli europei hanno abbastanza Storia da parte per concludere che non è quasi mai vero. E questo è tutto, gente.
E questo cos'è? Non ci sono già stati abbastanza cartoni con il gatto e il topo? (I manager della MGM ad Hanna e Barbera, nel 1940).Una delle principali differenze tra la realtà e l’animazione è il topo. Il topo di cartone è istintivamente simpatico: canta, balla e si fa beffe dei grandi. Il topo vero è una bestia orrenda, un parassita e un untore. Questa differenza, che abbiamo tutti afferrato in età prescolare, è uno dei grandi misteri della cinematografia. Perché Disney, tra una varietà infinita di animali esotici e da cortile, si fissò sul topo? Perché Mickey il Topo ha fatto il botto e Felix il Gatto no? Nel Trecento i ratti sui bastimenti che venivano da Oriente portarono un’epidemia di peste che dimezzò la popolazione europea: la salvezza fu un nuovo animale domestico importato dall’Africa, il gatto. Eppure i bambini tifano per Jerry e contro Tom.
E non i bambini di oggi, disinfettati ai limiti della sterilità, che di topi ne vedono solo sullo schermo piccolo o grande. I bambini degli anni '40 che in mezzo ai topi ci vivevano, in case con buchi nel battiscopa e rumori in cantina. Al cinema ridevano (grandi e piccoli) per il topo di cartone; poi rincasavano e controllavano le trappole.
Magari il tifo per il topo era il primo accenno di ribellione del piccolo di casa: una specie di solidarietà tra le piccole creature sempre affamate. Ci saranno stati bambini che di nascosto portavano briciole al roditore. Credo che uno dei passaggi cruciali della pre-adolescenza sia quando ti accorgi che Jerry non è poi così simpatico, anzi, a ben vedere è uno stronzo, e cominci a tifare per il suo avversario frustrato. Fine della solidarietà tra le piccole creature: diventi grande, cominci ad avere paura dei germi e a sviluppare il senso della proprietà: giù le mani dalle nostre provviste, parassita!
Cosa c’è nella stanza 101? (Winston del Grande Fratello)Ratatouille è un film piuttosto strano, anche per la media della Pixar. Per quanto la consociata della Disney rifugga le trame scontate, tutti i suoi film mantengono un sano contenuto morale, di quelli che si possono condensare in due righe e che mettono d’accordo grandi e bambini (i grandi devono lasciare lo scetticismo nel vestibolo, s’intende): per esempio Mosters & co. dimostra che la fantasia vince sempre sulla paura, Nemo ricorda ai genitori che i figli devono imparare a nuotare da soli, proprio perché il mondo è vasto e alieno come l’oceano; Cars insegna a grandi e piccini il valore dei rapporti umani, che trionfa sulla grande competitività universale. E così via. Anche Ratatouille ha una morale e un lieto fine, ma zoppicano. Sembrano appicicati per contratto.
Tutto ciò per dire che davanti a Ratatouille si sta a bocca aperta per l’esperienza della visione che dà, quasi travolgente. È su questa sensazione di realismo cartoonesco che poi si muove l’amore per i personaggi (Secondavisione)
Il film (che è bellissimo, se non avete la fobia dei topi, ed è andato meglio in Francia che negli USA) non è americano al 100%. L’idea è di Jan Pinkava, britannico d’origine boema, già premio Oscar per un corto. Gli uomini della Pixar devono averne apprezzato soprattutto il senso della sfida: dopo aver creato con Cars un mondo cromato e arrugginito, in cui l’automobile è Natura, i canyon hanno le sagome di vecchie cadillac e le nuvole sono strisce di pneumatici, stavolta si trattava di stravolgere uno degli archetipi dell’animazione: il Topo. Togliere al Topo il cravattino di Jerry e le braghette di Mickey. De-antropomorfizzarlo, riportarlo alla natura, alla sua condizione di scroccone purulento. E poi rimettersi nel suo punto di vista: il punto di vista di un animale braccato, per il quale anche una vecchia zia borgognona è un orco sterminatore, e la sua vecchia spingarda lancia razzi Terra-Aria.
È ingiusto, ma è normale: ai bambini piacciono gli animali piccoli, vispi e birichini.
L’altra scommessa era il cibo. L’ultima frontiera del digitale è rendere l’organico coi pixel: le croste croccanti, il verde delle muffe, il ribollire di una salsa. E dopo avere programmato cibo vero e ratti veri, farli interagire in un film per bambini. Trasformare un’orda di ratti sporchi e scrocconi nel personale di un ristorante francese: una sfida impossibile, salvo che nulla è impossibile per gli uomini della Pixar. La morale del film è la sfida stessa: non tutti hanno talento, ma se ce l’hai puoi fare qualsiasi cosa. Puro calvinismo: la fede è un dono che sposta le montagne. Rémy è il ratto aspirante chef, che per cucinare deve servirsi dello sguattero Linguini: il modo in cui impara a guidare il suo strumento umano, tirandogli i capelli per condizionarne i movimenti, è una stupenda metafora del mestiere dell’animatore (e di qualunque arte o mestiere): migliaia di tentativi e ore di lavoro, anche solo per affettare un tubero. Ma se hai talento puoi solo farcela, e infatti Rémy ce la farà. Titoli, fine.
Ecco, questa è la crosta croccante del film. Quello che c’è dentro, però, è un po’ meno dolciastro: come se qualche spezia europea fosse riuscita a salvarsi anche dopo che Pinkava ha lasciato la Pixar e il progetto è passato a Brad Bird. Il retrogusto amaro si percepisce soprattutto nelle prime sequenze: più tardi, quando si avventurerà in quel mondo pieno di coltelli, carrelli e altre insidie, sarà impossibile non prendere le parti del Piccolo chef. Ma all’inizio della storia Rémy non è necessariamente un personaggio simpatico. È il figlio del Capo di un branco accampato nel solaio di una casa di campagna. Il suo fiuto straordinario lo rende prezioso per la sopravvivenza della “famiglia”, grazie alla sua capacità di riconoscere il cibo avvelenato. Per il resto, il padre e i fratelli non hanno la minima considerazione per le sue capacità. Per il padre il cibo è solo carburante, ai fini dell’unica missione di vita: sopravvivere, malgrado gli umani. Di fronte a questi orchi enormi, che massacrano i ratti senza pietà, la famiglia non ha altra scelta che scappare e mangiare, mangiare e scappare, senza dividersi mai.
È una vita che Remy non sopporta. A lui piace il mondo degli uomini: gli odori della dispensa, i programmi di cucina, i libri di ricette. Sarà la sua imprudenza a causare la fuga in città della famiglia. In città del resto la vita dei ratti non è molto diversa: la famiglia è sempre la famiglia, e il cibo è sempre carburante. Ma non per Remy. Lui passerà definitivamente dalla parte dei nemici, degli assassini, degli uomini.
REMY: Prima o poi il piccolo deve lasciare il nido
IL PADRE: Noi siamo ratti! Non lasciamo il nido! Lo facciamo più grande!
Ecco la polpa europea. Rémy è un migrante, come Fievel: ma se Fievel sbarca in America era l’epopea nostalgica degli emigranti europei negli USA, Ratatouille racconta l’emigrazione e l’inurbazione con tutta l’ambiguità dei problemi irrisolti di oggi. Gli emigranti hanno due vie (le hanno sempre avute): o si ghettizzano, cristallizzando i costumi e i valori della società di provenienza e isolandosi in un mondo percepito come ostile, o si integrano. Ma integrarsi significa spezzare le radici, tradire la razza. Non ci riescono tutti, e nemmeno Rémy, che pure tratta i suoi simili veramente con la puzza sotto il naso. In Africa i tipi come Rémy li chiamano noir blanchi, neri imbiancati: eppure anche lui preferisce non tagliarsi del tutto i ponti alle spalle: nottetempo scivola nella dispensa del ristorante che lo ha accolto, e ruba un po’ di roba buona per il fratello. La cosa gli scappa naturalmente di mano, proprio come succede quando la tua famiglia esce dal medioevo e viene a bussare nel tuo superattico per chiederti un favore: il problema di Rémy è lo stesso problema di Michael Corleone, è il problema di tutti gli onorati membri della società che hanno ancora qualche legame con le Famiglie.
Ma non ci sono gatti in America! E ti regalano il formaggio! (Fievel sbarca in America)
Verso i tre quarti il film, per quanto divertente, sembra proiettato verso un finale tragico: Rémy ha servito gli umani senza riuscire a integrarsi veramente, e intanto la Famiglia che fa affidamento su di lui è sempre più numerosa, sempre più affamata. Poi c’è il finale, appicicato un po’ così, che non racconto: dico solo che è incredibile la sfacciataggine con cui pretende di salvare capra e cavoli, Famiglia e civiltà. Quando le cose al mondo non stanno così, decisamente: uomini e ratti non possono convivere nello stesso ristorante. È una cosa che semplicemente non succede, nella realtà.
Tutti in coro noi cantiamo viva Topolin. Topolin, Topolin, viva Topolin, (Full Metal Jacket)
D’altro canto è un cartone animato, e nei cartoni animati i topi sono simpatici e la fanno franca. Detto questo, qui propongo il mio finale: dopo decenni di clandestinità Remy riesce a imporsi come un cuoco degno del genere umano, apre un ristorante a Duisberg, e una sera tutti i suoi parenti vengono sterminati nel parcheggio da una banda di roditori concorrenti. Perché la vita è dura, se nasci ratto. Rémy lo diceva già all’inizio. Nei film americani poi ti raccontano che anche il ratto può crescere, scoprire i suoi talenti, tradire i famigliari e poi ritrovarli, diventare famoso e apprezzato. Ma gli europei hanno abbastanza Storia da parte per concludere che non è quasi mai vero. E questo è tutto, gente.
giovedì 18 ottobre 2007
nessuno è prefetto
Caronte in Capo
Sapete quanto mi piacciono i lapsus, e ieri su di un TG RAI, durante un servizio sulla rivolta del CPT di Modena, mi è capitato di vedere questo faccione abbinato al seguente sottotitolo: Daniele Giovanardi - Prefetto di Modena.
Ora, io so benissimo che l'ex ministro Carlo Giovanardi ha un fratello gemello (anche se non mi sembra di averli mai visti nello stesso posto insieme: buffo). Ma so anche che non fa il prefetto a Modena. È un medico, molto stimato. È anche il presidente di un'associazione, una cooperativa, una cosa che si chiama Misericordia di Modena.
Quello che mi piace dei lapsus, è la quantità di cose che suggeriscono. Posso farmi tutto un romanzo sul povero giornalista che arriva a Modena e cerca informazioni su questo CPT dove ieri un tunisino si è strangolato con le sue stesse mani. A un certo punto arriva questo Giovanardi, che oltre a sembrare un esperto ha anche la faccia giusta: praticamente i telespettatori la conoscono già, lineamenti rudi, ma rassicuranti. Questo signore comincia a lamentarsi di come vanno le cose nel CPT: è tutto un disastro, non hanno i mezzi per domare la rivolta, ecc. ecc. Il giornalista che può fare? Riprende, registra, ringrazia, manda a Roma.
A Roma si ritrovano l'intervista a questo Giovanardi, e magari cominciano a porsi il problema: ma chi è? Un fratello di un ex ministro, benissimo, ma in che modo c'entra col CPT? Perché per c'entrarci, c'entra: ne parla come fosse roba sua. E allora... mah... Sindaco di certo non è... sarà il Prefetto. Ecco. Ci scriviamo "Prefetto", e se è un errore... rettificheremo. Mica è un'offesa, dare a qualcuno del Prefetto.
Infatti non è un'offesa. Ma è un lapsus che spiega meglio di mille parole il problema dei CPT.
Giovanardi non è il Prefetto (infatti chiede più poteri al Prefetto). Non è neanche il Questore (ma chiede più poteri anche al Questore). Con quel cognome è abbastanza inverosimile che faccia il Sindaco: ma se il Sindaco volesse dargli qualche potere in più, non lo rifiuterebbe. Insomma questo Giovanardi esattamente che titolo ha? Beh, basta l'intervista per farsi un'idea. Giovanardi è quello che, quando gli inquilini del CPT di Modena si rivoltano, vorrebbe il permesso di tenerli fermi. Non perché sia cattivo, ma perché quelli fanno sul serio. Menano anche.
Capite il dramma dei giornalisti RAI? Giovanardi non è prefetto, non è questore; non esiste in Italia una parola che definisca quello che fa. Potremmo chiamarlo capo delle guardie, ma sarebbe come dire che il CPT è una prigione, e non si può. Non si può perché quelli che stanno lì dentro non hanno commesso nessun reato. Il tunisino che si è strangolato con le sue stesse mani è entrato e uscito da un CPT almeno tre volte, ma finora non risulta che avesse commesso nulla di illegale. Neanche una multa per schiamazzi, niente.
Quindi: capo delle guardie, no. E allora? Siccome gli inquilini del CPT sono persone oneste fino a prova contraria, potremmo chiamarlo “capo dei portieri”: ma sarebbe prenderlo in giro, perché queste persone oneste hanno una gran voglia di uscire da lì dentro, e per farlo sono disposti a dar fuoco a tutto quanto, a fare lo sciopero della fame, magari anche a picchiare gli uomini di Giovanardi, altro che portieri. In effetti, se gli stranieri non delinquevano prima di entrare nel CPT, è facile che comincino lì. "La situazione sta diventando insostenibile", dice Giovanardi, e io gli credo.
Non resta che inventarsi una parola, magari pescandola dai miti o dalle leggende. Perché non "Decurione"? O meglio ancora, "Caronte"! Lui stesso ammette che "chi si trova lì dentro ha visto fallire il suo progetto di vita e la prospettiva è quella di essere rimpatriato". Più ci penso e più mi suona bene. Diciamo allora che Daniele Giovanardi è il caronte in capo del CPT di Modena. Ora che finalmente abbiamo un nome per chiamarlo, possiamo porci altre domande: come si diventa caronti? I prefetti li nomina il Presidente della Repubblica su designazione del Ministro dell’Interno – i caronti, chi ce li manda? E chi li paga? Perché nessuno farebbe il Caronte gratis, vero?
Non sono informazioni semplici da raccogliere. Se mi ricordo bene la cosa funziona così: il Ministro degli Interni fa una gara d’appalto, e chi vince la gara fa il Caronte. Insomma, trattasi di servizio esternalizzato. Ma siccome in Italia (o perlomeno a Modena) siamo brava gente, questo tipo di gare le facciamo fare solo ad associazioni, cooperative senza scopo di lucro, come si chiamano? ONLUS. Giovanardi è per l'appunto presidente di una ONLUS, che gestisce il CPT di Modena. Sì, appunto. Suo fratello va in tv a parlar male del collateralismo tra politica e coop rosse in Emilia, e lui intanto vince gare d’appalto. E' un mondo così.
Ora capite bene che per la faccia, il cognome, il mestiere che fa, Daniele Giovanardi non ha molte chance di essermi simpatico. Anzi, vederlo lamentarsi in tv a mezzogiorno perché gli inquilini del condominio menano e lui non può dargliele indietro, mi procura perfino un sottile e anticivico piacere. Hai voluto la bicicletta? Pedala…
Poi mi ritorna in mente che Giovanardi non è un caronte qualsiasi, ma il caronte in capo, e che la scena in cui una giunone nigeriana infierisce su di lui gandhianamente impassibile è destinata a restare nella mia fantasia. A pagare sono sempre i sottoposti. E comunque quello che lui solleva è un problema autentico. Il CPT non è né una galera né è un albergo (anche se a conti fatti costa alla collettività più di un hotel a 3 stelle). Qualche anno fa negli ambienti molto a sinistra lo si chiamava lager – ma è un’esagerazione che non risolve nessun problema. I CPT non sono concepiti come campi di sterminio: e se ogni tanto qualcuno ci si ammazza, questo non accade in misura molto maggiore che in altri istituti di detenzione.
Invece posso concordare con chi li paragona a Guantanamo: non saranno recinti per polli, ma come Guantanamo sono terre di nessuno, dove non vige la Costituzione, né per i carcerati né per i carcerieri. E questo è un grosso problema per i carcerati. Ma ogni tanto bisogna pensare anche ai carcerieri. Sono pagati come operatori socio-assistenziali, ma devono domare le rivolte. È evidente che c’è qualcosa che non va, se solo avessimo il coraggio e la pazienza di guardare.
Non posso che essere contento se finalmente i carcerieri, volevo dire i caronti di tutti i CPT d’Italia, trovano il coraggio di esprimere il loro disagio. Anche se a metterci la faccia per ora è proprio il gemello bello di Giovanardi, non esattamente un mostro di simpatia. Ma d’altro canto c’è poco di simpatico in quel che fa. Non è un questore, non è un prefetto. Anche "caronte" mi ha già stancato. Come si chiamava in latino il custode del recinto degli schiavi? Ecco, vedi che alla fine il latino a qualcosa serviva?
***
Ps: Ho letto di molti che non sono andati a votare le Primarie perché insoddisfatti dei candidati e dei loro programmi. Se per questo, anch’io.
Quando sento qualcuno che si lamenta per la scarsa qualità dei candidati PD, spero sempre che tirino in ballo la questione CPT, che è enorme sotto tutti i punti di vista. No, quasi sempre si tratta del matrimonio gay.
È una prospettiva che posso anche capire: molti di voi sono gay, nessuno di voi è clandestino. I problemi che vediamo da vicino ci sembrano sempre più grandi dei problemi degli altri. Comunque uno può sempre emigrare, no?
No: appunto, i clandestini non possono.
Sapete quanto mi piacciono i lapsus, e ieri su di un TG RAI, durante un servizio sulla rivolta del CPT di Modena, mi è capitato di vedere questo faccione abbinato al seguente sottotitolo: Daniele Giovanardi - Prefetto di Modena.
Ora, io so benissimo che l'ex ministro Carlo Giovanardi ha un fratello gemello (anche se non mi sembra di averli mai visti nello stesso posto insieme: buffo). Ma so anche che non fa il prefetto a Modena. È un medico, molto stimato. È anche il presidente di un'associazione, una cooperativa, una cosa che si chiama Misericordia di Modena.
Quello che mi piace dei lapsus, è la quantità di cose che suggeriscono. Posso farmi tutto un romanzo sul povero giornalista che arriva a Modena e cerca informazioni su questo CPT dove ieri un tunisino si è strangolato con le sue stesse mani. A un certo punto arriva questo Giovanardi, che oltre a sembrare un esperto ha anche la faccia giusta: praticamente i telespettatori la conoscono già, lineamenti rudi, ma rassicuranti. Questo signore comincia a lamentarsi di come vanno le cose nel CPT: è tutto un disastro, non hanno i mezzi per domare la rivolta, ecc. ecc. Il giornalista che può fare? Riprende, registra, ringrazia, manda a Roma.
A Roma si ritrovano l'intervista a questo Giovanardi, e magari cominciano a porsi il problema: ma chi è? Un fratello di un ex ministro, benissimo, ma in che modo c'entra col CPT? Perché per c'entrarci, c'entra: ne parla come fosse roba sua. E allora... mah... Sindaco di certo non è... sarà il Prefetto. Ecco. Ci scriviamo "Prefetto", e se è un errore... rettificheremo. Mica è un'offesa, dare a qualcuno del Prefetto.
Infatti non è un'offesa. Ma è un lapsus che spiega meglio di mille parole il problema dei CPT.
Giovanardi non è il Prefetto (infatti chiede più poteri al Prefetto). Non è neanche il Questore (ma chiede più poteri anche al Questore). Con quel cognome è abbastanza inverosimile che faccia il Sindaco: ma se il Sindaco volesse dargli qualche potere in più, non lo rifiuterebbe. Insomma questo Giovanardi esattamente che titolo ha? Beh, basta l'intervista per farsi un'idea. Giovanardi è quello che, quando gli inquilini del CPT di Modena si rivoltano, vorrebbe il permesso di tenerli fermi. Non perché sia cattivo, ma perché quelli fanno sul serio. Menano anche.
Capite il dramma dei giornalisti RAI? Giovanardi non è prefetto, non è questore; non esiste in Italia una parola che definisca quello che fa. Potremmo chiamarlo capo delle guardie, ma sarebbe come dire che il CPT è una prigione, e non si può. Non si può perché quelli che stanno lì dentro non hanno commesso nessun reato. Il tunisino che si è strangolato con le sue stesse mani è entrato e uscito da un CPT almeno tre volte, ma finora non risulta che avesse commesso nulla di illegale. Neanche una multa per schiamazzi, niente.
Quindi: capo delle guardie, no. E allora? Siccome gli inquilini del CPT sono persone oneste fino a prova contraria, potremmo chiamarlo “capo dei portieri”: ma sarebbe prenderlo in giro, perché queste persone oneste hanno una gran voglia di uscire da lì dentro, e per farlo sono disposti a dar fuoco a tutto quanto, a fare lo sciopero della fame, magari anche a picchiare gli uomini di Giovanardi, altro che portieri. In effetti, se gli stranieri non delinquevano prima di entrare nel CPT, è facile che comincino lì. "La situazione sta diventando insostenibile", dice Giovanardi, e io gli credo.
Non resta che inventarsi una parola, magari pescandola dai miti o dalle leggende. Perché non "Decurione"? O meglio ancora, "Caronte"! Lui stesso ammette che "chi si trova lì dentro ha visto fallire il suo progetto di vita e la prospettiva è quella di essere rimpatriato". Più ci penso e più mi suona bene. Diciamo allora che Daniele Giovanardi è il caronte in capo del CPT di Modena. Ora che finalmente abbiamo un nome per chiamarlo, possiamo porci altre domande: come si diventa caronti? I prefetti li nomina il Presidente della Repubblica su designazione del Ministro dell’Interno – i caronti, chi ce li manda? E chi li paga? Perché nessuno farebbe il Caronte gratis, vero?
Non sono informazioni semplici da raccogliere. Se mi ricordo bene la cosa funziona così: il Ministro degli Interni fa una gara d’appalto, e chi vince la gara fa il Caronte. Insomma, trattasi di servizio esternalizzato. Ma siccome in Italia (o perlomeno a Modena) siamo brava gente, questo tipo di gare le facciamo fare solo ad associazioni, cooperative senza scopo di lucro, come si chiamano? ONLUS. Giovanardi è per l'appunto presidente di una ONLUS, che gestisce il CPT di Modena. Sì, appunto. Suo fratello va in tv a parlar male del collateralismo tra politica e coop rosse in Emilia, e lui intanto vince gare d’appalto. E' un mondo così.
Ora capite bene che per la faccia, il cognome, il mestiere che fa, Daniele Giovanardi non ha molte chance di essermi simpatico. Anzi, vederlo lamentarsi in tv a mezzogiorno perché gli inquilini del condominio menano e lui non può dargliele indietro, mi procura perfino un sottile e anticivico piacere. Hai voluto la bicicletta? Pedala…
Poi mi ritorna in mente che Giovanardi non è un caronte qualsiasi, ma il caronte in capo, e che la scena in cui una giunone nigeriana infierisce su di lui gandhianamente impassibile è destinata a restare nella mia fantasia. A pagare sono sempre i sottoposti. E comunque quello che lui solleva è un problema autentico. Il CPT non è né una galera né è un albergo (anche se a conti fatti costa alla collettività più di un hotel a 3 stelle). Qualche anno fa negli ambienti molto a sinistra lo si chiamava lager – ma è un’esagerazione che non risolve nessun problema. I CPT non sono concepiti come campi di sterminio: e se ogni tanto qualcuno ci si ammazza, questo non accade in misura molto maggiore che in altri istituti di detenzione.
Invece posso concordare con chi li paragona a Guantanamo: non saranno recinti per polli, ma come Guantanamo sono terre di nessuno, dove non vige la Costituzione, né per i carcerati né per i carcerieri. E questo è un grosso problema per i carcerati. Ma ogni tanto bisogna pensare anche ai carcerieri. Sono pagati come operatori socio-assistenziali, ma devono domare le rivolte. È evidente che c’è qualcosa che non va, se solo avessimo il coraggio e la pazienza di guardare.
Non posso che essere contento se finalmente i carcerieri, volevo dire i caronti di tutti i CPT d’Italia, trovano il coraggio di esprimere il loro disagio. Anche se a metterci la faccia per ora è proprio il gemello bello di Giovanardi, non esattamente un mostro di simpatia. Ma d’altro canto c’è poco di simpatico in quel che fa. Non è un questore, non è un prefetto. Anche "caronte" mi ha già stancato. Come si chiamava in latino il custode del recinto degli schiavi? Ecco, vedi che alla fine il latino a qualcosa serviva?
***
Ps: Ho letto di molti che non sono andati a votare le Primarie perché insoddisfatti dei candidati e dei loro programmi. Se per questo, anch’io.
Quando sento qualcuno che si lamenta per la scarsa qualità dei candidati PD, spero sempre che tirino in ballo la questione CPT, che è enorme sotto tutti i punti di vista. No, quasi sempre si tratta del matrimonio gay.
È una prospettiva che posso anche capire: molti di voi sono gay, nessuno di voi è clandestino. I problemi che vediamo da vicino ci sembrano sempre più grandi dei problemi degli altri. Comunque uno può sempre emigrare, no?
No: appunto, i clandestini non possono.
martedì 16 ottobre 2007
la Storia si fa coi Se (e coi Ma)
Il mondo di Junior
HOUSTON – dal nostro inviato
Il premio Nobel 2007 accetta finalmente d’incontrarmi nello splendore neopalladiano della sua villa nel centro del Texas. La stanza in cui ci stringiamo le mani – ironia della sorte – è ovale. Quando glielo faccio notare, abbozza un sorriso di circostanza. Non ha capito il riferimento.
“Ovale, come l’ufficio del Presidente… sa, nella Casa Bianca”.
Ridacchia. Ha capito. “Ah, già… lo sa, ci penso così poco ultimamente. La vita è breve, e se dovessi alzarmi tutte le mattine pensando che stavo per diventare Presidente… E comunque ‘ste ville le fanno tutte uguali, ci ha fatto caso? Anche Washington è tutta così. È uno stile di architettura sudista, penso”.
Sto per interromperlo spiegandogli che il suo ‘stile sudista’ in realtà è neoclassico settecentesco di derivazione veneta… ma per fortuna riesco a controllarmi. Non sono venuto a dare lezioni di storia dell’arte, sono venuto a intervistare l’Uomo che ha Salvato il Mondo, secondo il Time dello scorso dicembre – e a quanto pare anche secondo i giurati di Stoccolma. E ho già commesso un imperdonabile errore. Eppure il suo staff me lo ha spiegato bene: quando si parla con Junior, meglio evitare le allusioni. Fa una certa fatica ad afferrarle. Non è un problema di intelligenza, ma la conseguenza di quella lieve forma di dislessia che gli è stata diagnosticata soltanto in età adulta. Un difetto congenito che non gli ha impedito di farsi eleggere governatore del Texas e di arrivare a un passo dalla poltrona più ambita del mondo: quella di Presidente degli Stati Uniti. Evidentemente i bei discorsi non sono tutto. Soprattutto se puoi contare sulla famiglia giusta.
“Mi sento ancora spesso con mio padre”, ammette Junior; “i suoi consigli sono stati molto preziosi. Quando Gore voleva invadere l’Iraq a tutti i costi, il suo parere ha contato più di qualsiasi cosa, per me”.
“Ma poi la ha diseredata, o sbaglio?”
“Stronzate. Tutte stronzate. Al tempo della campagna per l’autonomia i giornalisti hanno voluto dipingerci come nemici a tutti i costi… bastardi”.
“Eh-ehm”.
“Beh, sì, intendo i giornalisti yankees. Quelli che stanno a NY, o a Washington, a imbrattare la carta, ha presente?”
“Ma adesso stanno parlando molto bene di lei. Non ha letto…”
“Nooo. Io non leggo la carta. C’è il cavo, c’è internet, chi ha bisogno di tutta questa carta? È quel che rimane di un mondo vecchio”.
Mi guardo intorno – e improvvisamente, con un tuffo al cuore, realizzo che non ho visto un solo libro in tutta la villa. Non uno. George Bush Junior, premio Nobel per la Pace 2007, non ne ha bisogno. Ecco un’altra cosa dura da mandare giù.
Del resto, questa è la vita dell’Uomo che ha Salvato il Mondo. Una paradosso infinito, una continua sfida ai luoghi comuni. Il petroliere che ha chiuso col petrolio; il cow-boy che ha portato la pace nel mondo; il repubblicano amico dei palestinesi: l’ultima notizia che gli porto dai Territori è la proposta di intitolargli il corridoio autostradale Gaza-Gerusalemme. Lui finge di non averlo già letto su internet, e ci scherza sopra:
“Un’autostrada? Buffo, qui in Texas non intitoliamo le autostrade. Hanno solo dei numeri. In ogni caso mi sembra prematuro… voglio dire, sono ancora vivo. Dalle mie parti cominciano a dedicarti le cose soltanto quando sei sotto sei piedi di terra… beh, ma immagino che Barghouti sappia quel che fa. È un tipo a modo, lo ammiro molto”.
“Avrebbe mai pensato di dire una cosa del genere, otto anni fa?”
“No, perché? Otto anni fa non lo conoscevo. Per la verità tutta la faccenda degli ebrei e dei palestinesi a quei tempi non m’interessava molto. Guardavo soprattutto all’America, ai problemi interni. Sarei stato un presidente alla Monroe, l’america agli americani e via dicendo”.
“Fino all’11 settembre…”
Sospira. Conosce bene questa domanda – gli è stata posta da migliaia di giornalisti, negli ultimi sette anni.
“Senz’altro l’11 settembre mi avrebbe cambiato. Voglio dire, l’11 settembre mi ha cambiato, proprio come ha cambiato il presidente Gore. È come se ci fossimo svegliati tutti su una mina. Credevamo di essere i Numeri Uno. Credevamo che tutto il mondo ci amasse, che volesse diventare come eravamo noi. Invece è saltato fuori che il mondo ci odiava. Era invidia, era rabbia, era un ammasso di cose che non avevamo pensato. Comunque, cosa vuole sapere esattamente? Se io al posto di Gore avrei bombardato l’Afganistan? Senz’altro l’avrei fatto. Chiunque l’avrebbe fatto. Anche il reverendo Martin Luther King l’avrebbe fatto. Siamo americani, prima di ogni altra cosa. Se ci attaccano rispondiamo, è normale”.
“Magari lei avrebbe attaccato in un modo diverso”.
“Forse. Mah. Queste cose le decidono i generali, vede. Mi viene sempre da ridere quando sento che chiamano Gore il comandante in capo. Lui sì e no sa indicare l’Afganistan sulla cartina. Per mesi è andato dicendo che dall’Afganistan avrebbe attaccato l’Iraq, finché non gli hanno spiegato che i due Paesi non confinano”.
“Via, adesso esagera”.
“Non lo so. Posso dire che avrei dato più soldi all’intelligence: in fin dei conti ho sempre pensato che se ci serviva la testa di Bin Laden non era necessario destabilizzare mezza Asia per ottenerla. In realtà dopo l’11 settembre i talebani erano terrorizzati. Bastava bombardarli un po’, e poi fare un’offerta. Mio padre le guerre le faceva così: bastone e carota. E a volte gli andava bene. Non sempre, eh… Ma Gore… lo sa anche lei com’è fatto Gore. È… un democratico. Non gli bastava arrestare i terroristi, lui voleva scaraventare tutto il fottuto Afganistan dal medioevo tribale alla democrazia, trasformare quel paese di montanari musulmani in una Svizzera. In fondo ragionava come i Sovietici, e infatti le ha prese per un bel po’, proprio come i sovietici”.
Non è la prima volta che sento paragonare la politica di esportazione della democrazia di Al Gore all’imperialismo sovietico. “Lo sa”, replico “in Europa prima dell’11 settembre molti pensavano che i i veri guerrafondai in America fossero i repubblicani”.
“Che stronzata”, sbotta lui. “Pensi a Roosvelt. O a quello della Prima Guerra, come si chiamava?”
“Woodrow Wilson”.
“Esatto. Tutti democratici”.
“Ma hanno salvato il mondo”.
“Sì, e questo gli ha dato un po’ alla testa. Pensi al Vietnam. Kennedy ci ha portato nel Vietnam, e Nixon ha fatto quel che ha potuto per portarci via. Noi repubblicani non abbiamo mai amato la guerra. Ovvio che la facciamo, se ci trascinano. Ma chi è così pazzo da amare la guerra? Io ho fatto carte false per non andare in Vietnam, e non me ne vergogno. Tutti questi reduci democratici che mostrano le cicatrici per un seggio al congresso mi fanno vomitare. Dicono di odiare la guerra, e a momenti ci riportavano in Iraq”.
Per essere un Nobel per la Pace, Bush Jr sceglie le parole con ben poca diplomazia. Ci vuole molto fiuto per annusare dietro il cafone texano in camicia a quadri l’aristocratico wasp, nato e cresciuto dalle parti di Yale. In fondo Bush è l’esatto contrario del sogno americano: invece di farsi da solo, sembra aver voluto disfare (da solo) tutta l’eredità culturale che la sua ricca famiglia gli deve pure aver trasmesso. Da laureato in Storia a cow-boy dislessico, da petroliere ad ambientalista. Il vero giro di boa fu probabilmente lo scandalo Enron. “Un vero disastro. L’11 settembre ci ha fatto arrabbiare col mondo, ma Enron e Kathrina ci hanno fatto arrabbiare con noi stessi. Non c’era un Bin Laden a portata di mano su cui scaricare le colpe”.
Per certi osservatori è sorprendente come Bush Jr sia uscito pulito dallo scandalo Enron, all’inizio del 2002. L’azienda che mandò sul lastrico migliaia di risparmiatori americani aveva finanziato pesantemente la sua campagna presidenziale. “Cosa posso dire? Quando corri per la Casa Bianca accetti soldi da tutti. Anche Gore fece lo stesso. È uno dei problemi di questo Paese: bisogna essere maledettamente ricchi per fare i presidenti, e ancora non basta. Devi fare i debiti. Poi ti ritrovi seduto in cima al mondo con un sacco di debiti da pagare, di favori da ricambiare. Non è sano, neanche un po’. Anche se volesse sbaraccare da Kabul, in questo momento Gore è legato mani e piedi all’Halliburton e alla Blackwater. E anch’io probabilmente sarei stato un pupazzo nelle loro mani, se avessi vinto”. Ma ‘per fortuna’ aveva perso: la temporanea assenza dalla vita politica gli permise di rifarsi una verginità che gli elettori texani avrebbero molto apprezzato. Di lì a pochi mesi avrebbe stravinto le elezioni di mid-term, con una campagna imperniata sulla questione morale, approdando al Congresso come speaker della maggioranza repubblicana. A questo punto, quando tutti i principali commentatori politici americani davano ormai per scontata la ripetizione del duello presidenziale del 2000, Bush stupì tutti con la prima proposta di legge sull’autonomia energetica e l’opposizione alla guerra in Iraq. Due grossi colpi alla sua popolarità presso i repubblicani, che alla fine preferirono candidare Rudolph Giuliani. “Ho la massima simpatia per Rudie”, dice Bush, “e non ho mai pensato di ricandidarmi una seconda volta. Non m’interessava battere Gore, ed ereditare i suoi problemi. Lui era impastoiato con la sua guerra in quelle sabbie mobili afgane, non so nemmeno se ci siano le sabbie mobili laggiù, ma ho reso l’idea, no? L’impressione è che i talebani fossero invincibili sul campo. Avremmo potuto mandare laggiù il doppio di marines e il doppio di tank, e avremmo soltanto sprecato tutto quanto. Io ho cominciato a domandarmi se la guerra non si potesse risolvere in un altro modo. Perché i musulmani continuavano ad arrivare da tutto il mondo per combattere in quel buco… in quel Paese dimenticato? Chi li riforniva? Per dirla in parole povere: Where’s the money? Chi finanzia tutto quanto?”
Rampollo di una dinastia di petrolieri, Bush non doveva faticare molto a trovare una risposta. “È chiaro che dietro a tutta la jihad c’erano i petrodollari. Gli emirati del Golfo, quegli inferni ad aria condizionata… sanno di essere seduti su una mina peggiore della nostra. Hanno la disperazione di chi sta per finire la benzina e restare al buio. In più hanno una paura matta della rivoluzione islamica. Così finanziano gli sceicchi alla Bin Laden, che almeno la rivoluzione la fanno all’estero. D’improvviso tutto mi è parso così sciocco e inutile… da una parte mandavamo i nostri ragazzi a morire, dall’altra continuavamo a comprare benzina per i nostri Suv e a finanziare i terroristi che li avrebbero uccisi… dovevamo uscirne, e alla svelta. Così feci quella prima proposta sull’autonomia: l’America doveva bloccare le importazioni e re-imparare a vivere delle proprie risorse energetiche”. All’inizio Bush fu accusato di voler semplicemente favorire il petrolio texano per questioni di lobby. Ma le aperture sulla propulsione a idrogeno e sul biodiesel brasiliano spiazzarono anche i suoi più accesi detrattori. “Anche i nostri pozzi stanno finendo, è tempo di ammetterlo e cominciare a diversificare. Guardi quello che è riuscito a fare Lula in Brasile col biodiesel… una cosa fantastica. E i pannelli solari, perché no? Il giorno che in Texas non riusciremo a pompare più petrolio, resterà ancora sole in abbondanza per tutti. So che mio padre non la pensa così, ma io continuo a credere che il petrolio non sia il destino dell’America”.
“Invece sull’Iraq andavate d’accordo”.
“Le faccio vedere una cosa”. Mi mostra un quadro. A ben vedere si tratta di una mappa. Di solito si appendono ai muri mappe antiche: questa invece è ingiallita, sgualcita, ma moderna. “È una delle cartine di lavoro di mio padre. Se guarda bene, ci trova le ditate del generale Schwarzkopf. Ora: la vede questa macchia verde scuro? Sono le zone a maggioranza sciita. Lei lo sa cosa sono gli sciiti?”
“Una setta musulmana, direi”.
“Ecco, bravo, lei è uno preparato. Sa cosa sono gli sciiti. Magari sa anche che in Iraq e in Iran sono la maggioranza. Beh, posso garantirle che nel 2003 a Washington ancora nessuno sapeva chi fossero. E volevano andare a Bagdad! Esportare la democrazia! Se fossimo andati a Bagdad, gli sciiti sarebbero venuti a gettare fiori sui nostri carri armati, e il giorno dopo avrebbero sgozzato tutti i sunniti, e votato l’annessione all’Iran. A quel punto gli ayatollah iraniani avrebbero avuto libero accesso ai laboratori atomici di Saddam Hussein, e magari anche al suo uranio – ammesso che Saddam Hussein fosse davvero in grado di procurarsi dell’uranio”.
“Tony Blair ne è convinto”.
“Tony Blair è un socialista. Hanno tutti questa mania di cambiare il mondo, con l’amore o con la forza. Sono molto fiero di aver fatto il possibile per evitare quel disastro. Ho preso questa fottuta carta di mio padre e ho convinto tutti i pezzi grossi repubblicani: se andiamo in Iraq, tempo un anno e gli iraniani fanno una buca radioattiva in Israele: sul serio volete passare alla storia per questo? io non sono molto bravo a fare i discorsi, ma si vede che Dio mi ha aiutato, perché li ho convinti”.
“E così alla fine si è preso la sua rivincita morale su Gore”.
“Non la vedo in questo modo. In realtà dovrebbe soltanto ringraziarmi. A quest’ora avrebbe già perso due guerre – non un bel bilancio. Invece tutto sommato ormai l’Afganistan è pacificato, anche se non assomiglia ancora molto alla Svizzera, devo dire”. Sorride sornione. “Ma il progetto oppio per cibo sta dando buoni risultati. E in sovrappiù abbiamo avuto anche la testa di Bin Laden”.
Un bel trofeo per la Bush Foundation. Ma c’è chi dice che sia un falso. Su internet continuano a circolare nuovi video dello sceicco del terrore.
“Non so cosa dire. Abbiamo il Dna, le impronte dentali, abbiamo tutto. Ma ci sarà sempre qualcuno convinto che è una montatura. C’è anche chi dice che le torri gemelle le ho fatte buttare giù io. Non è che posso replicare a tutte queste stronzate”.
Nel 2004 l’astro di Bush sembra già appannato. Alcune sue iniziative – la partecipazione a un summit informale tra israeliani e palestinesi – non sono comprese dai suoi compagni di partito. Nel frattempo Giuliani sfida Gore giocando la carta del patriottismo dell’11 settembre, ma gli americani gli preferiscono il Commander in Chief. “Rudie si è difeso bene, ma ha pagato il fatto di non avere una posizione netta sulla guerra”. L’anno successivo, il secondo grande shock della recente Storia americana: l’uragano Kathrina. Stavolta Bush è implacabile nell’accusare tutti i responsabili del disastro, dal sindaco di New Orleans fino al Presidente. “I democratici hanno chiacchierato per anni di riscaldamento globale”, dice, “e al primo uragano tropicale hanno reagito come dei boy scout di città. Il vero uragano che ha distrutto New Orleans non è stato Kathrina, ma l’incompetenza”. Da Kathrina in poi Bush è riuscito ad accreditarsi come il leader del nuovo ambientalismo. In pochi ricordano che ai tempi della campagna 2000 era Bush, e non Gore, a respingere il protocollo di Kyoto. “In effetti Kyoto non mi ha mai convinto”, ammette, “perché è troppo poco. Una misura omeopatica. Occorre darsi molto più da fare. Tagliare le emissioni di gas serra del 90% entro il 2009. Possiamo farcela. È alla nostra portata”. Fino al 2005 Bush non escludeva la necessità di cercare nuovi pozzi “autarchici” nell’incontaminata Alaska. Oggi non ne parla più. “Solo gli stupidi non cambiano mai idea. Fino a qualche anno fa non ero sicuro che il riscaldamento globale fosse colpa dell’uomo. A dire il vero non ne sono sicuro nemmeno oggi, ma chi se ne frega? Forse non siamo stati noi a scaldare il mondo, ma possiamo pur sempre dare una mano a raffreddarlo. Questo è come la penso io”.
Prima di abbandonare il Congresso nel 2006, Junior ha avuto la soddisfazione di vedere trasformata in legge federale la sua seconda proposta sull’“autonomia sostenibile”. I fatti dei mesi successivi gli hanno dato ragione in modo spettacolare. L’intensità della guerriglia afgana è calata drasticamente. In Egitto e in Iran gli scioperi di massa hanno costretto i governi a indire nuove elezioni. In Iraq la nuova giunta militare sta negoziando l’estradizione di Saddam Hussein. Qualche effetto positivo c’è stato anche per l’Europa, quando il blocco delle importazioni di petrolio negli USA ha abbattuto i prezzi al barile. L’altra faccia della medaglia sono gli attentati: l’esplosione del Boeing dirottato nei cieli di Philadelphia lo scorso settembre (intercettato da un missile prima che puntasse su Washington , secondo alcuni) e le fiale di gas nervino rinvenute nella subway di New York, fortunatamente senza conseguenze. “So che è terribile quello che sto per dire. Ma gli attentati sono una prova che avevamo ragione. Sono colpi di coda. Bisogna andare avanti a domare il bronco”.
Negli ultimi due anni, Bush è diventato un battitore libero. Ufficialmente è ancora iscritto al Partito Repubblicano, anche se ha preferito non candidarsi al Congresso. “Mi sono stancato di parlare per gli altri. Troppi compromessi. Oggi preferisco parlare per me”. In effetti le sue ultime uscite su Cina e Russia sono state particolarmente ruvide anche per un tipo come lui. “Io la vedo molto semplice: quelle non sono democrazie. Non basta aprire i mercati per creare una democrazia. Sono ancora due regimi a partito unico, dove gli oppositori vengono perseguitati e uccisi. Gli americani non dovrebbero avere nulla a che fare con questa gente. Ma i cinesi ci tengono per… i cinesi hanno queste enorme riserve di dollari, che m’impensieriscono molto. Non è giusto che ci possano ricattare in questo modo. Il solo pensiero è umiliante. Fossi ancora un politico, chiederei a gran voce il boicottaggio delle Olimpiadi. Fortuna che non lo sono”.
Cos’è, oggi, George W. Bush? Tante cose. Per esempio, il coproduttore dell’ultimo chiacchieratissimo film di Michael Moore sulla riforma sanitaria. “Lo sa che Moore era di sinistra? È uno dei tanti radicali che sono rimasti stomacati dalla gestione del conflitto in Afganistan. Ma le sue idee sulla riforma sanitaria o sul porto d’armi non sono né di destra né di sinistra, sono ragionevoli e basta. Quando parlavo di conservatorismo compassionevole, molti storcevano il naso. Ma continuo a pensare che ‘compassione’ sia una bellissima parola. Sa cosa significa?”
“Soffrire insieme”.
“Ehi, lei conosce l’inglese in un modo fantastico per essere un… un…”.
“Un italiano. Grazie”.
“Voi italiani conoscete l’importanza della sofferenza. Non vi vergognate a piangere. Vede, il problema di noi americani è che ci siamo costruiti un’immagine di noi stessi come… come il primo della classe che non piange mai, il terzino di football che non cede un metro. E poi davanti all’11 settembre siamo crollati. Abbiamo iniziato a soffrire e ci siamo vergognati della nostra sofferenza. Non dovevamo vergognarci. Solo attraverso la sofferenza possiamo capire gli altri. In fondo Dio si è fatto uomo per questo, no? per cercare di soffrire con gli uomini. Quando sono andato in Palestina, la prima volta, non ci capivo un fottuto accidente. Non riuscivo a capire perché si litigassero quelle colline spelacchiate. Ho chiesto in giro, ho provato a farmi spiegare. E ho sofferto. Ho provato a soffrire con loro. Ho capito che una guerra di sessant’anni è una cosa che non si può cancellare in un giorno.”. Junior è anche l’uomo che al termine di un’estenuante trattativa ha fissato i confini del nuovo Stato Federale di Israele in Palestina. “Ci siamo ispirati a quello che ha fatto Clinton con la Bosnia. Come dire: un gran pasticcio, sempre meglio della guerra, però. Gli israeliani possono continuare a chiamarlo Israele, i palestinesi hanno finalmente un pezzo di terra che si chiama Stato. E Gerusalemme è la capitale bilingue, come Bruxelles. Durerà? E che ne so io? Anche la Bosnia, del resto, sta in piedi per miracolo. Mi piace pensare che il tempo giochi a favore della pace”.
Dopo la missione di Bush in Israele, Bush è stato nominato Uomo dell’Anno dal Time, anzi “L’Uomo che ha salvato il Mondo”. “Beh, mi piacerebbe provarci, non dico di no. Ma in realtà i tempi erano maturi per la pace. Ho sempre pensato che una volta risolta la questione palestinese, il Medio Oriente si sarebbe calmato da sé. Resta molto da fare, certo. Iraq e Siria non sono ancora democrazie. Neanche Roma è stata fatta in un giorno. Ma sono felice di poter dire che oggi è un giorno migliore dell’11 settembre 2001. E ne sono fiero”.
“È sicuro di non avere rimpianti?”
“Rimpianti? No, per cosa?”
“Vede, lei si è dato molto da fare in questi anni. Eppure ogni volta che lei fa qualcosa, c’è sempre qualcuno come me che si chiede… che le chiede… perché non ha vinto nel 2000? Oggi il mondo sarebbe molto migliore se lei avesse vinto nel 2000, non trova?”
Sorride. “La Storia non si fa con i Se. Ma le voglio mostrare un’altra cosa”. Apre un cassetto della scrivania. Tiro un sospiro di sollievo: quello che ha tra le mani è un libro. Di carta.
“È un memorandum scritto da Al Gore quando era vicepresidente. Lo sa di cosa parla? Del riscaldamento globale. In quel periodo Gore era un maniaco dell’argomento, lo sapeva?”
“Mi pare di averne sentito parlare, ma…”
“Aveva fatto delle ricerche, si era consultato con gli esperti. Le sue conclusioni erano già piuttosto catastrofiche. Poi ha vinto le elezioni e… puf, tutto scomparso. Troppo impegnato a dar la caccia a Bin Laden. Lo sa una cosa? Molta gente pensa che Gore sia uno stupido. Io lo conosco un po’. È senz’altro un fighetto di città, ma non è uno stupido. È quella sala di Washington che ti rende stupido. La gente non ci crede quando ripeto che preferisco non esserci mai stato. Ma è così”.
“E quindi non si candiderà”.
“No, assolutamente. Non ha visto la spilletta?”
“Ma davvero pensa che Moore abbia qualche chance?”
“Perché no? Abbiamo già avuto un attore alla Casa Bianca, e se l’è cavata piuttosto bene. Certo, non ha il fisico di Schwarzenegger. Ma è 100% americano. Sarà un ottimo presidente”.
“E non diventerà anche lui più… stupido?”
“Più di così? Naaah, difficile”.
HOUSTON – dal nostro inviato
Il premio Nobel 2007 accetta finalmente d’incontrarmi nello splendore neopalladiano della sua villa nel centro del Texas. La stanza in cui ci stringiamo le mani – ironia della sorte – è ovale. Quando glielo faccio notare, abbozza un sorriso di circostanza. Non ha capito il riferimento.
“Ovale, come l’ufficio del Presidente… sa, nella Casa Bianca”.
Ridacchia. Ha capito. “Ah, già… lo sa, ci penso così poco ultimamente. La vita è breve, e se dovessi alzarmi tutte le mattine pensando che stavo per diventare Presidente… E comunque ‘ste ville le fanno tutte uguali, ci ha fatto caso? Anche Washington è tutta così. È uno stile di architettura sudista, penso”.
Sto per interromperlo spiegandogli che il suo ‘stile sudista’ in realtà è neoclassico settecentesco di derivazione veneta… ma per fortuna riesco a controllarmi. Non sono venuto a dare lezioni di storia dell’arte, sono venuto a intervistare l’Uomo che ha Salvato il Mondo, secondo il Time dello scorso dicembre – e a quanto pare anche secondo i giurati di Stoccolma. E ho già commesso un imperdonabile errore. Eppure il suo staff me lo ha spiegato bene: quando si parla con Junior, meglio evitare le allusioni. Fa una certa fatica ad afferrarle. Non è un problema di intelligenza, ma la conseguenza di quella lieve forma di dislessia che gli è stata diagnosticata soltanto in età adulta. Un difetto congenito che non gli ha impedito di farsi eleggere governatore del Texas e di arrivare a un passo dalla poltrona più ambita del mondo: quella di Presidente degli Stati Uniti. Evidentemente i bei discorsi non sono tutto. Soprattutto se puoi contare sulla famiglia giusta.
“Mi sento ancora spesso con mio padre”, ammette Junior; “i suoi consigli sono stati molto preziosi. Quando Gore voleva invadere l’Iraq a tutti i costi, il suo parere ha contato più di qualsiasi cosa, per me”.
“Ma poi la ha diseredata, o sbaglio?”
“Stronzate. Tutte stronzate. Al tempo della campagna per l’autonomia i giornalisti hanno voluto dipingerci come nemici a tutti i costi… bastardi”.
“Eh-ehm”.
“Beh, sì, intendo i giornalisti yankees. Quelli che stanno a NY, o a Washington, a imbrattare la carta, ha presente?”
“Ma adesso stanno parlando molto bene di lei. Non ha letto…”
“Nooo. Io non leggo la carta. C’è il cavo, c’è internet, chi ha bisogno di tutta questa carta? È quel che rimane di un mondo vecchio”.
Mi guardo intorno – e improvvisamente, con un tuffo al cuore, realizzo che non ho visto un solo libro in tutta la villa. Non uno. George Bush Junior, premio Nobel per la Pace 2007, non ne ha bisogno. Ecco un’altra cosa dura da mandare giù.
Del resto, questa è la vita dell’Uomo che ha Salvato il Mondo. Una paradosso infinito, una continua sfida ai luoghi comuni. Il petroliere che ha chiuso col petrolio; il cow-boy che ha portato la pace nel mondo; il repubblicano amico dei palestinesi: l’ultima notizia che gli porto dai Territori è la proposta di intitolargli il corridoio autostradale Gaza-Gerusalemme. Lui finge di non averlo già letto su internet, e ci scherza sopra:
“Un’autostrada? Buffo, qui in Texas non intitoliamo le autostrade. Hanno solo dei numeri. In ogni caso mi sembra prematuro… voglio dire, sono ancora vivo. Dalle mie parti cominciano a dedicarti le cose soltanto quando sei sotto sei piedi di terra… beh, ma immagino che Barghouti sappia quel che fa. È un tipo a modo, lo ammiro molto”.
“Avrebbe mai pensato di dire una cosa del genere, otto anni fa?”
“No, perché? Otto anni fa non lo conoscevo. Per la verità tutta la faccenda degli ebrei e dei palestinesi a quei tempi non m’interessava molto. Guardavo soprattutto all’America, ai problemi interni. Sarei stato un presidente alla Monroe, l’america agli americani e via dicendo”.
“Fino all’11 settembre…”
Sospira. Conosce bene questa domanda – gli è stata posta da migliaia di giornalisti, negli ultimi sette anni.
“Senz’altro l’11 settembre mi avrebbe cambiato. Voglio dire, l’11 settembre mi ha cambiato, proprio come ha cambiato il presidente Gore. È come se ci fossimo svegliati tutti su una mina. Credevamo di essere i Numeri Uno. Credevamo che tutto il mondo ci amasse, che volesse diventare come eravamo noi. Invece è saltato fuori che il mondo ci odiava. Era invidia, era rabbia, era un ammasso di cose che non avevamo pensato. Comunque, cosa vuole sapere esattamente? Se io al posto di Gore avrei bombardato l’Afganistan? Senz’altro l’avrei fatto. Chiunque l’avrebbe fatto. Anche il reverendo Martin Luther King l’avrebbe fatto. Siamo americani, prima di ogni altra cosa. Se ci attaccano rispondiamo, è normale”.
“Magari lei avrebbe attaccato in un modo diverso”.
“Forse. Mah. Queste cose le decidono i generali, vede. Mi viene sempre da ridere quando sento che chiamano Gore il comandante in capo. Lui sì e no sa indicare l’Afganistan sulla cartina. Per mesi è andato dicendo che dall’Afganistan avrebbe attaccato l’Iraq, finché non gli hanno spiegato che i due Paesi non confinano”.
“Via, adesso esagera”.
“Non lo so. Posso dire che avrei dato più soldi all’intelligence: in fin dei conti ho sempre pensato che se ci serviva la testa di Bin Laden non era necessario destabilizzare mezza Asia per ottenerla. In realtà dopo l’11 settembre i talebani erano terrorizzati. Bastava bombardarli un po’, e poi fare un’offerta. Mio padre le guerre le faceva così: bastone e carota. E a volte gli andava bene. Non sempre, eh… Ma Gore… lo sa anche lei com’è fatto Gore. È… un democratico. Non gli bastava arrestare i terroristi, lui voleva scaraventare tutto il fottuto Afganistan dal medioevo tribale alla democrazia, trasformare quel paese di montanari musulmani in una Svizzera. In fondo ragionava come i Sovietici, e infatti le ha prese per un bel po’, proprio come i sovietici”.
Non è la prima volta che sento paragonare la politica di esportazione della democrazia di Al Gore all’imperialismo sovietico. “Lo sa”, replico “in Europa prima dell’11 settembre molti pensavano che i i veri guerrafondai in America fossero i repubblicani”.
“Che stronzata”, sbotta lui. “Pensi a Roosvelt. O a quello della Prima Guerra, come si chiamava?”
“Woodrow Wilson”.
“Esatto. Tutti democratici”.
“Ma hanno salvato il mondo”.
“Sì, e questo gli ha dato un po’ alla testa. Pensi al Vietnam. Kennedy ci ha portato nel Vietnam, e Nixon ha fatto quel che ha potuto per portarci via. Noi repubblicani non abbiamo mai amato la guerra. Ovvio che la facciamo, se ci trascinano. Ma chi è così pazzo da amare la guerra? Io ho fatto carte false per non andare in Vietnam, e non me ne vergogno. Tutti questi reduci democratici che mostrano le cicatrici per un seggio al congresso mi fanno vomitare. Dicono di odiare la guerra, e a momenti ci riportavano in Iraq”.
Per essere un Nobel per la Pace, Bush Jr sceglie le parole con ben poca diplomazia. Ci vuole molto fiuto per annusare dietro il cafone texano in camicia a quadri l’aristocratico wasp, nato e cresciuto dalle parti di Yale. In fondo Bush è l’esatto contrario del sogno americano: invece di farsi da solo, sembra aver voluto disfare (da solo) tutta l’eredità culturale che la sua ricca famiglia gli deve pure aver trasmesso. Da laureato in Storia a cow-boy dislessico, da petroliere ad ambientalista. Il vero giro di boa fu probabilmente lo scandalo Enron. “Un vero disastro. L’11 settembre ci ha fatto arrabbiare col mondo, ma Enron e Kathrina ci hanno fatto arrabbiare con noi stessi. Non c’era un Bin Laden a portata di mano su cui scaricare le colpe”.
Per certi osservatori è sorprendente come Bush Jr sia uscito pulito dallo scandalo Enron, all’inizio del 2002. L’azienda che mandò sul lastrico migliaia di risparmiatori americani aveva finanziato pesantemente la sua campagna presidenziale. “Cosa posso dire? Quando corri per la Casa Bianca accetti soldi da tutti. Anche Gore fece lo stesso. È uno dei problemi di questo Paese: bisogna essere maledettamente ricchi per fare i presidenti, e ancora non basta. Devi fare i debiti. Poi ti ritrovi seduto in cima al mondo con un sacco di debiti da pagare, di favori da ricambiare. Non è sano, neanche un po’. Anche se volesse sbaraccare da Kabul, in questo momento Gore è legato mani e piedi all’Halliburton e alla Blackwater. E anch’io probabilmente sarei stato un pupazzo nelle loro mani, se avessi vinto”. Ma ‘per fortuna’ aveva perso: la temporanea assenza dalla vita politica gli permise di rifarsi una verginità che gli elettori texani avrebbero molto apprezzato. Di lì a pochi mesi avrebbe stravinto le elezioni di mid-term, con una campagna imperniata sulla questione morale, approdando al Congresso come speaker della maggioranza repubblicana. A questo punto, quando tutti i principali commentatori politici americani davano ormai per scontata la ripetizione del duello presidenziale del 2000, Bush stupì tutti con la prima proposta di legge sull’autonomia energetica e l’opposizione alla guerra in Iraq. Due grossi colpi alla sua popolarità presso i repubblicani, che alla fine preferirono candidare Rudolph Giuliani. “Ho la massima simpatia per Rudie”, dice Bush, “e non ho mai pensato di ricandidarmi una seconda volta. Non m’interessava battere Gore, ed ereditare i suoi problemi. Lui era impastoiato con la sua guerra in quelle sabbie mobili afgane, non so nemmeno se ci siano le sabbie mobili laggiù, ma ho reso l’idea, no? L’impressione è che i talebani fossero invincibili sul campo. Avremmo potuto mandare laggiù il doppio di marines e il doppio di tank, e avremmo soltanto sprecato tutto quanto. Io ho cominciato a domandarmi se la guerra non si potesse risolvere in un altro modo. Perché i musulmani continuavano ad arrivare da tutto il mondo per combattere in quel buco… in quel Paese dimenticato? Chi li riforniva? Per dirla in parole povere: Where’s the money? Chi finanzia tutto quanto?”
Rampollo di una dinastia di petrolieri, Bush non doveva faticare molto a trovare una risposta. “È chiaro che dietro a tutta la jihad c’erano i petrodollari. Gli emirati del Golfo, quegli inferni ad aria condizionata… sanno di essere seduti su una mina peggiore della nostra. Hanno la disperazione di chi sta per finire la benzina e restare al buio. In più hanno una paura matta della rivoluzione islamica. Così finanziano gli sceicchi alla Bin Laden, che almeno la rivoluzione la fanno all’estero. D’improvviso tutto mi è parso così sciocco e inutile… da una parte mandavamo i nostri ragazzi a morire, dall’altra continuavamo a comprare benzina per i nostri Suv e a finanziare i terroristi che li avrebbero uccisi… dovevamo uscirne, e alla svelta. Così feci quella prima proposta sull’autonomia: l’America doveva bloccare le importazioni e re-imparare a vivere delle proprie risorse energetiche”. All’inizio Bush fu accusato di voler semplicemente favorire il petrolio texano per questioni di lobby. Ma le aperture sulla propulsione a idrogeno e sul biodiesel brasiliano spiazzarono anche i suoi più accesi detrattori. “Anche i nostri pozzi stanno finendo, è tempo di ammetterlo e cominciare a diversificare. Guardi quello che è riuscito a fare Lula in Brasile col biodiesel… una cosa fantastica. E i pannelli solari, perché no? Il giorno che in Texas non riusciremo a pompare più petrolio, resterà ancora sole in abbondanza per tutti. So che mio padre non la pensa così, ma io continuo a credere che il petrolio non sia il destino dell’America”.
“Invece sull’Iraq andavate d’accordo”.
“Le faccio vedere una cosa”. Mi mostra un quadro. A ben vedere si tratta di una mappa. Di solito si appendono ai muri mappe antiche: questa invece è ingiallita, sgualcita, ma moderna. “È una delle cartine di lavoro di mio padre. Se guarda bene, ci trova le ditate del generale Schwarzkopf. Ora: la vede questa macchia verde scuro? Sono le zone a maggioranza sciita. Lei lo sa cosa sono gli sciiti?”
“Una setta musulmana, direi”.
“Ecco, bravo, lei è uno preparato. Sa cosa sono gli sciiti. Magari sa anche che in Iraq e in Iran sono la maggioranza. Beh, posso garantirle che nel 2003 a Washington ancora nessuno sapeva chi fossero. E volevano andare a Bagdad! Esportare la democrazia! Se fossimo andati a Bagdad, gli sciiti sarebbero venuti a gettare fiori sui nostri carri armati, e il giorno dopo avrebbero sgozzato tutti i sunniti, e votato l’annessione all’Iran. A quel punto gli ayatollah iraniani avrebbero avuto libero accesso ai laboratori atomici di Saddam Hussein, e magari anche al suo uranio – ammesso che Saddam Hussein fosse davvero in grado di procurarsi dell’uranio”.
“Tony Blair ne è convinto”.
“Tony Blair è un socialista. Hanno tutti questa mania di cambiare il mondo, con l’amore o con la forza. Sono molto fiero di aver fatto il possibile per evitare quel disastro. Ho preso questa fottuta carta di mio padre e ho convinto tutti i pezzi grossi repubblicani: se andiamo in Iraq, tempo un anno e gli iraniani fanno una buca radioattiva in Israele: sul serio volete passare alla storia per questo? io non sono molto bravo a fare i discorsi, ma si vede che Dio mi ha aiutato, perché li ho convinti”.
“E così alla fine si è preso la sua rivincita morale su Gore”.
“Non la vedo in questo modo. In realtà dovrebbe soltanto ringraziarmi. A quest’ora avrebbe già perso due guerre – non un bel bilancio. Invece tutto sommato ormai l’Afganistan è pacificato, anche se non assomiglia ancora molto alla Svizzera, devo dire”. Sorride sornione. “Ma il progetto oppio per cibo sta dando buoni risultati. E in sovrappiù abbiamo avuto anche la testa di Bin Laden”.
Un bel trofeo per la Bush Foundation. Ma c’è chi dice che sia un falso. Su internet continuano a circolare nuovi video dello sceicco del terrore.
“Non so cosa dire. Abbiamo il Dna, le impronte dentali, abbiamo tutto. Ma ci sarà sempre qualcuno convinto che è una montatura. C’è anche chi dice che le torri gemelle le ho fatte buttare giù io. Non è che posso replicare a tutte queste stronzate”.
Nel 2004 l’astro di Bush sembra già appannato. Alcune sue iniziative – la partecipazione a un summit informale tra israeliani e palestinesi – non sono comprese dai suoi compagni di partito. Nel frattempo Giuliani sfida Gore giocando la carta del patriottismo dell’11 settembre, ma gli americani gli preferiscono il Commander in Chief. “Rudie si è difeso bene, ma ha pagato il fatto di non avere una posizione netta sulla guerra”. L’anno successivo, il secondo grande shock della recente Storia americana: l’uragano Kathrina. Stavolta Bush è implacabile nell’accusare tutti i responsabili del disastro, dal sindaco di New Orleans fino al Presidente. “I democratici hanno chiacchierato per anni di riscaldamento globale”, dice, “e al primo uragano tropicale hanno reagito come dei boy scout di città. Il vero uragano che ha distrutto New Orleans non è stato Kathrina, ma l’incompetenza”. Da Kathrina in poi Bush è riuscito ad accreditarsi come il leader del nuovo ambientalismo. In pochi ricordano che ai tempi della campagna 2000 era Bush, e non Gore, a respingere il protocollo di Kyoto. “In effetti Kyoto non mi ha mai convinto”, ammette, “perché è troppo poco. Una misura omeopatica. Occorre darsi molto più da fare. Tagliare le emissioni di gas serra del 90% entro il 2009. Possiamo farcela. È alla nostra portata”. Fino al 2005 Bush non escludeva la necessità di cercare nuovi pozzi “autarchici” nell’incontaminata Alaska. Oggi non ne parla più. “Solo gli stupidi non cambiano mai idea. Fino a qualche anno fa non ero sicuro che il riscaldamento globale fosse colpa dell’uomo. A dire il vero non ne sono sicuro nemmeno oggi, ma chi se ne frega? Forse non siamo stati noi a scaldare il mondo, ma possiamo pur sempre dare una mano a raffreddarlo. Questo è come la penso io”.
Prima di abbandonare il Congresso nel 2006, Junior ha avuto la soddisfazione di vedere trasformata in legge federale la sua seconda proposta sull’“autonomia sostenibile”. I fatti dei mesi successivi gli hanno dato ragione in modo spettacolare. L’intensità della guerriglia afgana è calata drasticamente. In Egitto e in Iran gli scioperi di massa hanno costretto i governi a indire nuove elezioni. In Iraq la nuova giunta militare sta negoziando l’estradizione di Saddam Hussein. Qualche effetto positivo c’è stato anche per l’Europa, quando il blocco delle importazioni di petrolio negli USA ha abbattuto i prezzi al barile. L’altra faccia della medaglia sono gli attentati: l’esplosione del Boeing dirottato nei cieli di Philadelphia lo scorso settembre (intercettato da un missile prima che puntasse su Washington , secondo alcuni) e le fiale di gas nervino rinvenute nella subway di New York, fortunatamente senza conseguenze. “So che è terribile quello che sto per dire. Ma gli attentati sono una prova che avevamo ragione. Sono colpi di coda. Bisogna andare avanti a domare il bronco”.
Negli ultimi due anni, Bush è diventato un battitore libero. Ufficialmente è ancora iscritto al Partito Repubblicano, anche se ha preferito non candidarsi al Congresso. “Mi sono stancato di parlare per gli altri. Troppi compromessi. Oggi preferisco parlare per me”. In effetti le sue ultime uscite su Cina e Russia sono state particolarmente ruvide anche per un tipo come lui. “Io la vedo molto semplice: quelle non sono democrazie. Non basta aprire i mercati per creare una democrazia. Sono ancora due regimi a partito unico, dove gli oppositori vengono perseguitati e uccisi. Gli americani non dovrebbero avere nulla a che fare con questa gente. Ma i cinesi ci tengono per… i cinesi hanno queste enorme riserve di dollari, che m’impensieriscono molto. Non è giusto che ci possano ricattare in questo modo. Il solo pensiero è umiliante. Fossi ancora un politico, chiederei a gran voce il boicottaggio delle Olimpiadi. Fortuna che non lo sono”.
Cos’è, oggi, George W. Bush? Tante cose. Per esempio, il coproduttore dell’ultimo chiacchieratissimo film di Michael Moore sulla riforma sanitaria. “Lo sa che Moore era di sinistra? È uno dei tanti radicali che sono rimasti stomacati dalla gestione del conflitto in Afganistan. Ma le sue idee sulla riforma sanitaria o sul porto d’armi non sono né di destra né di sinistra, sono ragionevoli e basta. Quando parlavo di conservatorismo compassionevole, molti storcevano il naso. Ma continuo a pensare che ‘compassione’ sia una bellissima parola. Sa cosa significa?”
“Soffrire insieme”.
“Ehi, lei conosce l’inglese in un modo fantastico per essere un… un…”.
“Un italiano. Grazie”.
“Voi italiani conoscete l’importanza della sofferenza. Non vi vergognate a piangere. Vede, il problema di noi americani è che ci siamo costruiti un’immagine di noi stessi come… come il primo della classe che non piange mai, il terzino di football che non cede un metro. E poi davanti all’11 settembre siamo crollati. Abbiamo iniziato a soffrire e ci siamo vergognati della nostra sofferenza. Non dovevamo vergognarci. Solo attraverso la sofferenza possiamo capire gli altri. In fondo Dio si è fatto uomo per questo, no? per cercare di soffrire con gli uomini. Quando sono andato in Palestina, la prima volta, non ci capivo un fottuto accidente. Non riuscivo a capire perché si litigassero quelle colline spelacchiate. Ho chiesto in giro, ho provato a farmi spiegare. E ho sofferto. Ho provato a soffrire con loro. Ho capito che una guerra di sessant’anni è una cosa che non si può cancellare in un giorno.”. Junior è anche l’uomo che al termine di un’estenuante trattativa ha fissato i confini del nuovo Stato Federale di Israele in Palestina. “Ci siamo ispirati a quello che ha fatto Clinton con la Bosnia. Come dire: un gran pasticcio, sempre meglio della guerra, però. Gli israeliani possono continuare a chiamarlo Israele, i palestinesi hanno finalmente un pezzo di terra che si chiama Stato. E Gerusalemme è la capitale bilingue, come Bruxelles. Durerà? E che ne so io? Anche la Bosnia, del resto, sta in piedi per miracolo. Mi piace pensare che il tempo giochi a favore della pace”.
Dopo la missione di Bush in Israele, Bush è stato nominato Uomo dell’Anno dal Time, anzi “L’Uomo che ha salvato il Mondo”. “Beh, mi piacerebbe provarci, non dico di no. Ma in realtà i tempi erano maturi per la pace. Ho sempre pensato che una volta risolta la questione palestinese, il Medio Oriente si sarebbe calmato da sé. Resta molto da fare, certo. Iraq e Siria non sono ancora democrazie. Neanche Roma è stata fatta in un giorno. Ma sono felice di poter dire che oggi è un giorno migliore dell’11 settembre 2001. E ne sono fiero”.
“È sicuro di non avere rimpianti?”
“Rimpianti? No, per cosa?”
“Vede, lei si è dato molto da fare in questi anni. Eppure ogni volta che lei fa qualcosa, c’è sempre qualcuno come me che si chiede… che le chiede… perché non ha vinto nel 2000? Oggi il mondo sarebbe molto migliore se lei avesse vinto nel 2000, non trova?”
Sorride. “La Storia non si fa con i Se. Ma le voglio mostrare un’altra cosa”. Apre un cassetto della scrivania. Tiro un sospiro di sollievo: quello che ha tra le mani è un libro. Di carta.
“È un memorandum scritto da Al Gore quando era vicepresidente. Lo sa di cosa parla? Del riscaldamento globale. In quel periodo Gore era un maniaco dell’argomento, lo sapeva?”
“Mi pare di averne sentito parlare, ma…”
“Aveva fatto delle ricerche, si era consultato con gli esperti. Le sue conclusioni erano già piuttosto catastrofiche. Poi ha vinto le elezioni e… puf, tutto scomparso. Troppo impegnato a dar la caccia a Bin Laden. Lo sa una cosa? Molta gente pensa che Gore sia uno stupido. Io lo conosco un po’. È senz’altro un fighetto di città, ma non è uno stupido. È quella sala di Washington che ti rende stupido. La gente non ci crede quando ripeto che preferisco non esserci mai stato. Ma è così”.
“E quindi non si candiderà”.
“No, assolutamente. Non ha visto la spilletta?”
“Ma davvero pensa che Moore abbia qualche chance?”
“Perché no? Abbiamo già avuto un attore alla Casa Bianca, e se l’è cavata piuttosto bene. Certo, non ha il fisico di Schwarzenegger. Ma è 100% americano. Sarà un ottimo presidente”.
“E non diventerà anche lui più… stupido?”
“Più di così? Naaah, difficile”.
giovedì 11 ottobre 2007
e sottolineo se
E se vincesse lei
Non vincerà, tranquilli – ma se invece succedesse? Se quei milioni di imprevisti sconosciuti che resero le primarie di Prodi un plebiscito si rifacessero vivi domenica? Se facessero saltare in aria tutte le previsioni, mandando alla segreteria del partito di centrosinistra una casta democristiana 56enne? Non accadrà, non accadrà, ma ci vogliamo almeno pensare?
Per prima cosa, sarebbe uno choc. Per la prima volta la sinistra non incoronerebbe un candidato designato. Nessun precedente storico: Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta, Occhetto, furono indicati dai Comitati Centrali. L’unico brivido lo abbiamo vissuto nell'estate 1994, quando i tesserati dovettero scegliere tra D’Alema e Veltroni: lì si vide la forza delle grandi sezioni emiliane, rimaste fedeli all’erede programmato mentre sui giornali di Roma e Milano si cicalava intensamente di Veltroni come dell’uomo nuovo. È stato 13 anni fa. Da quel momento ha preso forma un curioso paradosso: mentre il partito convergeva al centro, perdeva voti proprio in quell’elettorato “molle” che avrebbe dovuto conquistare, rafforzando così ulteriormente il peso interno dello zoccolo duro. D’Alema&co forse guardavano all’America, ma si sono trovati a reggere un partito sempre più bulgaro nelle sue dinamiche interne: nessun delegato è mai entrato a un congresso Ds senza sapere già il nome del segretario che ne sarebbe uscito. Se vincesse la Bindi, molti uomini d’apparato semplicemente impazzirebbero.
Oddio, questo non sarebbe necessariamente un male.
Se vincesse la Bindi, ci troveremmo una donna al comando – certo, non quel tipo di donna che trovi da Vespa in tacco e mini. Piuttosto davanti in fila alla coop. O a un consiglio di classe. O a una marcia della pace. Per esempio io l’ho incontrata lì. Non guidava uno spezzone: girava tra la gente, l’aria di chi cerca qualcuno. Lungo il circo massimo il soundsystem mandava Fossati, mi sono voltato e ho pensato, toh, c’è la Rosi. Per fortuna non l’ho detto a voce alta. Nello stesso momento, lo spezzone di Fassino veniva bloccato e contestato da un drappello di noglobba. La Bindi invece andava in giro tranquilla. È da una vita che fa così. Tutto intorno pallottole e fango, e lei neanche uno schizzo. Magari è fortuna, eh.
Se vincesse la Bindi, la segreteria andrebbe a un cristiano praticante – ma aspetta, questo è già successo, Fassino non è quello che ha studiato dai preti e se ne vanta? La differenza è che la Bindi non si è mai vergognata di ammetterlo. Ma cosa c’è di peggiore di un cristiano coerente? Un cristiano convertito di fresco. Quelli alla Rutelli, per intenderci. Perché Rutelli sta con la Bindi, no? No? Con chi sta? Con Veltroni? Ah.
Lasciamo stare la fede. Il problema è che se vincesse la Bindi, sarebbe il segno che i democristiani hanno vinto, maledetti. Quegli untuosi alla Fioroni, che quando meno te lo aspetti ti sbloccano un finanziamento alle scuole cattoliche… ma aspetta, neanche Fioroni sta con la Bindi. Sta con Veltroni. Pure lui. Però.
In ogni caso come faremmo noi laici a votare una segretaria che sotto il tailleur veste un cilicio... no, sbaglio anche stavolta. Quella in cilicio è la Binetti. Non sta con la Bindi neanche lei. Sta con… Veltroni.
Ci devo pensare bene. Se la Bindi vincesse un bel po’ di democristiani storici e di ritorno si ritroverebbe con le ossa rotte. Messa in questi termini è piuttosto interessante.
Se la Bindi vincesse, magari si riparlerebbe di DiCo. Era una proposta sua. Certo, molti a sinistra storcerebbero il naso: i DiCo erano solo un compromesso. D’altro canto, di partiti a sinistra del Pd, con piattaforme più radicali del Pd, ce n’è già parecchi. È a destra che non c’è nessuno: anzi, meno di nessuno, sommando Dini e Boselli. Insomma, con la Bindi al comando tutto il centrosinistra si troverebbe schierato a favore dei diritti sulle unioni di fatto, con i DiCo (il Pd) o con contratti anche più forti (comunisti, verdi, ecc). E Rutelli potrebbe riciclarsi come coltivatore di cicoria in qualche orto vaticano. Sto sognando, naturalmente. Non può essere vero. La Bindi non può vincere le primarie.
Però se le vincesse, Roma si ritroverebbe con un sindaco a tempo pieno, e Dio sa quanto ne abbia bisogno. E tra qualche anno l’Africa potrebbe accogliere un missionario di prima grandezza, un romanziere, un dj, un cinefilo, un uomo meraviglioso. Sarebbe una gran cosa per Roma e per l’Africa, e chissà, forse anche per il partito democratico.
In ogni caso non succederà. La Bindi non vincerà le primarie. Però è stata brava a volerci provare. Domenica avrebbe potuto essere una farsa, come ne abbiamo viste tante. Invece sarà qualcosa di più simile a una lotta vera. Le primarie sono importanti anche e soprattutto come precedenti.
Se la Bindi perderà, com’è probabile, resterà in piedi. Se ci sarà una corrente interna di minoranza (com’è giusto che sia), lei la guiderà, e sarà leale e battagliera. Con il prezzo di un solo voto ci ritroveremo due leader investiti dalla base. Non è un cattivo risultato, per un euro. Che altro ti porti a casa con un euro al giorno d’oggi, il disco dei Radiohead?
Ps: nel frattempo Pannella sta mandando una mail circolare ai suoi amici in cui annuncia la sua intenzione di ributtarsi a destra. Sì, è lo stesso leader ingiustamente escluso tre mesi fa dalle primarie del Partito Democratico. Un uomo libero, che non è in vendita. Per coerenza, certo, e ultimamente anche perché nessuno fa più un’offerta.
martedì 9 ottobre 2007
31 different ways to leave your leader
Le solite frasi fatte...
...dopo un po' annoiano. Sostituiamole con frasi fatte nuove.
La maggioranza è in crisi. Da venti mesi. Il governo può cadere per un colpo di vento domani, oggi pomeriggio, stamattina. E Berlusconi ha una fretta dannata. È seccante.
D’altro canto, può anche darsi che tutto tenga ancora per un bel po’. Magari danno retta a Montezemolo. Magari attendono che scatti la pensione per parlamentari. E in fondo anche questa prospettiva è deprimente.
Non tanto per l’Italia, oddio. Ma prima di essere un cittadino sono pur sempre un telespettatore, e in quanto tale non so se riuscirò a sorbirmi altri mesi di Schifani o Cecchitto o Vito che ripetono sempre, sempre le stesse due frasi: il governo è in crisi, adesso cade, gli italiani stanno male, è colpa della sinistra estrema. Va bene, sì, abbiamo capito, però basta per favore, basta. Siete peggio dei bambini.
Tre sere fa per esempio ho sentito Schifani, o un altro schifanoide, dichiarare che “Prodi tira a campare, e l’Italia tira le cuoia”. Ora, posso capire che sia una bella frase a effetto, con il pregio d’esser concisa, ma credo di averla sentita almeno cinque volte negli ultimi sei mesi; mi viene il vomito. Variate, per amor di Dio. Per amore mio. Non ho niente contro le frasi fatte, ma cambiatele ogni tanto.
Lo so anch’io che è dura: se è da un anno che avete una sola cosa da dire, i modi per dirla ormai dovrebbero scarseggiare. E invece no! Questo è il bello dell’italiano! È una lingua ricchissima di cliché e modi di dire! Con un po’ di studio e applicazione, voi potreste dire la stessa cosa con una frase diversa 365 giorni all’anno! Non ci credete? Ve ne do una dimostrazione. Vi scriverò lo stesso concetto in trenta modi diversi, e non ci metterò più di un’ora. State a sentire.
9 ottobre
Prodi è ormai prono alle richieste delle frange più estreme. Si rialzi, e consulti gli elettori!
10 ottobre
Il governo è succube della prepotenza sinistrosa. Si arrenda. Dobbiamo votare.
11 ottobre
Ormai il vaso è colmo. Il governo non può più contenere l’indignazione popolare. Al voto!
12 ottobre
Nel giorno in cui Cristoforo Colombo ha scoperto l’America, Prodi potrebbe almeno scoprire l’acqua calda: è un ostaggio della sinistra. Occorrono elezioni al più presto.
13 ottobre
Prodi non ha più voce in capitolo. I comunisti dettano l’agenda. È tempo di convocare il popolo sovrano.
14 ottobre
Prodi casca dalle nuvole, e l’Italia casca dalla padella nella brace. Risolleviamoci! Eleggiamo una nuova maggioranza.
15 ottobre, Santa Teresa D’Avila
Prodi è come in trance, e non sente lo scontento di tutti gli italiani. Voliamo alle urne!
16 ottobre
Mentre Prodi è nelle braccia di Morfeo, gli italiani vengono stritolati dal carovita, e la sinistra-sinistra applaude. Un segno su una scheda metterà fine a tutto questo.
17 ottobre
Prodi mena il can per l’aia, mentre alla mangiatoia s’abbeverano i cosacchi! Mandiamoli a casa!
18 ottobre, San Luca Evangelista
Come dice il Vangelo: se un albero non dà frutto, taglialo! È tempo di abbattere Prodi, e seminare un nuovo governo eletto dal popolo.
19 ottobre
Guidato dai perfidi consigli di Rifondazione e Pdci, il governo ha smarrito il sentiero nel bosco. Non c’è che una via per uscirne, e passa dalla cabina elettorale!
20 ottobre
Prodi ha messo in croce i cittadini, e con una croce i cittadini lo manderanno via!
21 ottobre
Prodi è ormai al canto del cigno, grazie ai suoi alleati del teatro Bolscioi. Su questo governo è tempo di tirare giù il sipario.
22 ottobre
Prodi e i suoi sinistri generali ci considerano carne da cannone, ma la Waterloo elettorale ormai non è lontana.
23 ottobre
Il governo fa castelli in aria, e intanto l’Italia soffoca! Rianimiamoci con un’elezione democratica!
24 ottobre
Prodi ciurla nel manico, e gli estremisti godono! Licenziamoli con il voto popolare!
25 ottobre
Prodi ormai è il due di coppe, quando briscola è bastoni. E il mazziere è Diliberto! È tempo di dare nuove carte agli italiani, di quelle che si piegano in quattro e si infilano nella fessura.
26 ottobre
Se Prodi conta le pecore, e Giordano conta le tasse, noi abbiamo contato i giorni di questo governo, e sono finiti!
27 ottobre
Questo governo è costruito sulla sabbia, e non reggerà alla prossima marea di populismo di sinistra. Tra breve ne costruiremo uno più saldo in tutte le circoscrizioni elettorali.
28 ottobre
Prodi ormai dà i numeri, ma non c’è più tempo. Alle votazioni, subito.
29 ottobre
Gli italiani sono al verde, Prodi è ostaggio dei rossi, per completare il quadro non ci resta che il bianco. Il bianco della scheda!
30 ottobre
Prodi è una foglia secca, che scrocchierà presto sotto la suola dei votanti.
31 ottobre
I giorni si accorciano, e il giorno del governo Prodi è già finito. Dai seggi sta per sorgere una nuova alba!
1 novembre, Ognissanti
Prodi non ha più un solo Santo in paradiso. Una messa in suffragio non basta. Chiediamo il suffragio universale, subito!
2 novembre (Giorno dei morti)
Questa è la festa del governo Prodi, assassinato dai lembi sinistroidi della sua maggioranza. Oggi visitiamo le urne funebri – domani, quelle elettorali!
3 novembre
Prodi si difende ma ha la coda di paglia. E le italiche genti ormai hanno la febbre da fieno!
4 novembre, Festa delle Forze armate
Oggi è la Caporetto del governo. Prodi segua l’esempio di Cadorna: si dimetta. Il popolo d’Italia sia finalmente sovrano del proprio destino!
5 novembre
Prodi è ormai un trastullo in mano all’estrema. Ma la fine dei giochi è vicina. I maggiorenni d’Italia stanno per tirare le tendine e decidere.
6 novembre
Questo governo ha rotto le scatole. Riempiamole di schede elettorali!
5 novembre
Prodi è l’uomo che cade da un grattacielo ripetendo a ogni piano “Fin qui tutto bene!” Ma l’impatto con la volontà popolare è sempre più vicino.
7 novembre
Prodi è un personaggio in cerca d’autore, ma neppure la sinistra no-global ormai lo vuole dirigere. Un segno su una scheda porrà fine a questa farsa.
8 novembre
Prodi non dorme più! Di notte lo perseguita il sinistro ronzio di milioni di matite copiative che si temperano. Ancora poche ore!
(Ok, alcune fanno veramente schifo, ma non ci ho messo neanche un’ora. Schifani non ha altro da fare per tutta la settimana, e il capo lo paga un po’ di più).
...dopo un po' annoiano. Sostituiamole con frasi fatte nuove.
La maggioranza è in crisi. Da venti mesi. Il governo può cadere per un colpo di vento domani, oggi pomeriggio, stamattina. E Berlusconi ha una fretta dannata. È seccante.
D’altro canto, può anche darsi che tutto tenga ancora per un bel po’. Magari danno retta a Montezemolo. Magari attendono che scatti la pensione per parlamentari. E in fondo anche questa prospettiva è deprimente.
Non tanto per l’Italia, oddio. Ma prima di essere un cittadino sono pur sempre un telespettatore, e in quanto tale non so se riuscirò a sorbirmi altri mesi di Schifani o Cecchitto o Vito che ripetono sempre, sempre le stesse due frasi: il governo è in crisi, adesso cade, gli italiani stanno male, è colpa della sinistra estrema. Va bene, sì, abbiamo capito, però basta per favore, basta. Siete peggio dei bambini.
Tre sere fa per esempio ho sentito Schifani, o un altro schifanoide, dichiarare che “Prodi tira a campare, e l’Italia tira le cuoia”. Ora, posso capire che sia una bella frase a effetto, con il pregio d’esser concisa, ma credo di averla sentita almeno cinque volte negli ultimi sei mesi; mi viene il vomito. Variate, per amor di Dio. Per amore mio. Non ho niente contro le frasi fatte, ma cambiatele ogni tanto.
Lo so anch’io che è dura: se è da un anno che avete una sola cosa da dire, i modi per dirla ormai dovrebbero scarseggiare. E invece no! Questo è il bello dell’italiano! È una lingua ricchissima di cliché e modi di dire! Con un po’ di studio e applicazione, voi potreste dire la stessa cosa con una frase diversa 365 giorni all’anno! Non ci credete? Ve ne do una dimostrazione. Vi scriverò lo stesso concetto in trenta modi diversi, e non ci metterò più di un’ora. State a sentire.
9 ottobre
Prodi è ormai prono alle richieste delle frange più estreme. Si rialzi, e consulti gli elettori!
10 ottobre
Il governo è succube della prepotenza sinistrosa. Si arrenda. Dobbiamo votare.
11 ottobre
Ormai il vaso è colmo. Il governo non può più contenere l’indignazione popolare. Al voto!
12 ottobre
Nel giorno in cui Cristoforo Colombo ha scoperto l’America, Prodi potrebbe almeno scoprire l’acqua calda: è un ostaggio della sinistra. Occorrono elezioni al più presto.
13 ottobre
Prodi non ha più voce in capitolo. I comunisti dettano l’agenda. È tempo di convocare il popolo sovrano.
14 ottobre
Prodi casca dalle nuvole, e l’Italia casca dalla padella nella brace. Risolleviamoci! Eleggiamo una nuova maggioranza.
15 ottobre, Santa Teresa D’Avila
Prodi è come in trance, e non sente lo scontento di tutti gli italiani. Voliamo alle urne!
16 ottobre
Mentre Prodi è nelle braccia di Morfeo, gli italiani vengono stritolati dal carovita, e la sinistra-sinistra applaude. Un segno su una scheda metterà fine a tutto questo.
17 ottobre
Prodi mena il can per l’aia, mentre alla mangiatoia s’abbeverano i cosacchi! Mandiamoli a casa!
18 ottobre, San Luca Evangelista
Come dice il Vangelo: se un albero non dà frutto, taglialo! È tempo di abbattere Prodi, e seminare un nuovo governo eletto dal popolo.
19 ottobre
Guidato dai perfidi consigli di Rifondazione e Pdci, il governo ha smarrito il sentiero nel bosco. Non c’è che una via per uscirne, e passa dalla cabina elettorale!
20 ottobre
Prodi ha messo in croce i cittadini, e con una croce i cittadini lo manderanno via!
21 ottobre
Prodi è ormai al canto del cigno, grazie ai suoi alleati del teatro Bolscioi. Su questo governo è tempo di tirare giù il sipario.
22 ottobre
Prodi e i suoi sinistri generali ci considerano carne da cannone, ma la Waterloo elettorale ormai non è lontana.
23 ottobre
Il governo fa castelli in aria, e intanto l’Italia soffoca! Rianimiamoci con un’elezione democratica!
24 ottobre
Prodi ciurla nel manico, e gli estremisti godono! Licenziamoli con il voto popolare!
25 ottobre
Prodi ormai è il due di coppe, quando briscola è bastoni. E il mazziere è Diliberto! È tempo di dare nuove carte agli italiani, di quelle che si piegano in quattro e si infilano nella fessura.
26 ottobre
Se Prodi conta le pecore, e Giordano conta le tasse, noi abbiamo contato i giorni di questo governo, e sono finiti!
27 ottobre
Questo governo è costruito sulla sabbia, e non reggerà alla prossima marea di populismo di sinistra. Tra breve ne costruiremo uno più saldo in tutte le circoscrizioni elettorali.
28 ottobre
Prodi ormai dà i numeri, ma non c’è più tempo. Alle votazioni, subito.
29 ottobre
Gli italiani sono al verde, Prodi è ostaggio dei rossi, per completare il quadro non ci resta che il bianco. Il bianco della scheda!
30 ottobre
Prodi è una foglia secca, che scrocchierà presto sotto la suola dei votanti.
31 ottobre
I giorni si accorciano, e il giorno del governo Prodi è già finito. Dai seggi sta per sorgere una nuova alba!
1 novembre, Ognissanti
Prodi non ha più un solo Santo in paradiso. Una messa in suffragio non basta. Chiediamo il suffragio universale, subito!
2 novembre (Giorno dei morti)
Questa è la festa del governo Prodi, assassinato dai lembi sinistroidi della sua maggioranza. Oggi visitiamo le urne funebri – domani, quelle elettorali!
3 novembre
Prodi si difende ma ha la coda di paglia. E le italiche genti ormai hanno la febbre da fieno!
4 novembre, Festa delle Forze armate
Oggi è la Caporetto del governo. Prodi segua l’esempio di Cadorna: si dimetta. Il popolo d’Italia sia finalmente sovrano del proprio destino!
5 novembre
Prodi è ormai un trastullo in mano all’estrema. Ma la fine dei giochi è vicina. I maggiorenni d’Italia stanno per tirare le tendine e decidere.
6 novembre
Questo governo ha rotto le scatole. Riempiamole di schede elettorali!
5 novembre
Prodi è l’uomo che cade da un grattacielo ripetendo a ogni piano “Fin qui tutto bene!” Ma l’impatto con la volontà popolare è sempre più vicino.
7 novembre
Prodi è un personaggio in cerca d’autore, ma neppure la sinistra no-global ormai lo vuole dirigere. Un segno su una scheda porrà fine a questa farsa.
8 novembre
Prodi non dorme più! Di notte lo perseguita il sinistro ronzio di milioni di matite copiative che si temperano. Ancora poche ore!
(Ok, alcune fanno veramente schifo, ma non ci ho messo neanche un’ora. Schifani non ha altro da fare per tutta la settimana, e il capo lo paga un po’ di più).
sabato 6 ottobre 2007
caccia la grana, nonno
Da quando Padoa Schioppa li ha chiamati bamboccioni, i giovani d’oggi sono diventati popolarissimi. Soprattutto a centro-destra, dove tutti improvvisamente si accorgono che avere vent’anni è un problema. Gli affitti. Le caparre. Il precariato. Paolo Guzzanti è scatenato. "Se un ragazzo vuole prendere in affitto una topaia non gli bastano oggi tremila euro soltanto per firmare un contratto prima ancora di cominciare a pagare l’affitto". Qualcosa non mi torna. Tutta questa gente dov’era, cinquanta ore fa?
Non erano gli stessi pronti a denunciare per concorso in brigatismo chiunque parlasse male della Legge 30 detta Biagi? Non erano gli stessi che in cinque anni di governo hanno lasciato andare gli immobili alle stelle? La strategia di Tremonti per fare uscire di casa i giovani in cosa consisteva esattamente? Perdonatemi se a tutti questi avvocati della gioventù per il momento preferisco Padoa Schioppa, che borbotta, sì, ma scuce.
D’altro canto è pure vero: il suo paternalismo è vomitevole. Ma è un tic molto diffuso. Mi fa venire in mente una cosa che ho scritto sei mesi fa. La ripubblico qua sotto, non avrei molto da aggiungere.
Se mille euro al mese (in due) vi sembran tanti
Caro Augias,
sto leggendo con molto gusto i servizi di Concita de Gregorio sulla famiglia italiana, pubblicati sul retro della sua rubrica.
Martedì scorso, la sua collega ha coraggiosamente messo il dito sulla piaga purulenta della società italiana: i mammoni, i parassiti, insomma, i figli che non schiodano mai di casa. Le percentuali contenute nel pezzo sono agghiaccianti: in Italia 7 maschi su 10 tra 25 e 29 anni vivono coi genitori. I mammoni spesso hanno un lavoro, eppure non contribuiscono al bilancio famigliare: non puliscono, non fanno la spesa, hanno libero accesso al frigo, insomma protraggono scandalosamente i privilegi dell’infanzia.
Nei carruggi genovesi, la giornalista ha snidato un esemplare di giovane adulto italiano che a 27 anni, malgrado porti a casa uno stipendio (400 euro) e abbia una relazione seria con una “fidanzata”, inspiegabilmente non schioda. Il bilancio della famiglia rimane così tutto sulle povere spalle del padre gruista: 58 anni, 1800 euro al mese “arrotondati con qualche lavoretto” (un bel modo all’antica per dire che prende del nero, ma pazienza).
Caro Augias, non c’è dubbio che un 27enne che si porta la ragazza in casa e chiude a chiave sia qualcosa di squallido; qualcosa di cui dobbiamo cominciare a vergognarci; qualcosa su cui è giusto puntare il dito, come coraggiosamente ha fatto la sua collega. E tuttavia qualcosa non mi torna. Nel pezzo di martedì c’è un’affermazione un po’ curiosa. È scritta in corpo sedici, perché tutti la notino. La de Gregorio scrive che i due giovinastri che passano le serate “in famiglia”…
macchina? E dopo tutto questo… un figlio? Pannolini, pappe, culle, vestitini, madre probabilmente licenziata (a 600 euro al mese è difficile credere che il suo contratto la tuteli)?
Metter su famiglia con mille euro al mese… Qui non si tratta di essere poveri ma belli: qui è roba da folli o criminali. Qui dopo tre mesi i servizi sociali ti tolgono il figlio. Come minimo. E fanno bene.
Perché d'accordo, il mammismo è un problema: ma è inutile puntare il dito sul mammone. Lui non fa che incarnare il problema, e tirare a campare. Fingere che dipenda da lui, in un Paese dove qualsiasi buco con servizi costa come una reggia, è nascondersi dietro le cifre: come pretendere che i sanculotti si sfamino a brioches. Per quanto possa ingegnarsi o darsi da fare, il mammone non raggiungerà mai i 1800 euro più nero del padre. Ergo, chi glielo fa fare di crearsi un nido nuovo? Sarebbe persino irresponsabile, da parte sua. Non gli resta che attendere che i suoi vecchi gli smollino la casa, per consunzione. Del resto le probabilità che il padre nei prossimi anni venga colpito da un incidente professionale sono dannatamente alte.
Non vede come tutto si tiene? In Italia, la terra dei mammoni e degli infortuni sul lavoro, abbiamo scelto di aiutare le famiglie e stipendiare i padri; tuteliamo i pensionati e non finanziamo gli studi dei giovani: a questi ultimi non resta che attendere, economizzando le risorse e minimizzando gli sprechi. Il 27enne a 400 euro al mese non esce di casa perché sa che, dietro a tutta la retorica dell’indipendenza dai genitori, sarebbe soltanto un enorme spreco di soldi.
È vero che altrove è diverso. Nell’Europa del nord i figli evacuano a 18 anni. Questo ce lo hanno detto tutti. Quello che non sempre ci hanno detto, è che quasi sempre ricevono generosi aiuti dallo Stato, per lasciare i genitori e metter su famiglia. In quei Paesi, dopo la Mamma e il Papà, i giovani imparano a rispettare lo Stato e le sue leggi anche grazie agli sgravi, ai sussidi, alle borse di studio.
In Italia s’è deciso altrimenti, e non da ieri: è la Famiglia l’unico soggetto che ottiene aiuti. Ci sono motivi storici e culturali per cui è andata così, e forse è inutile lamentarsene. Sta bene: ma è altrettanto inutile prendersela col Mammone, in un Paese in cui gli unici soggetti riconosciuti sono le Mamme e i Papà. Lui ha semplicemente tratto le conseguenze: non si fa romanzi, arrotonda lo stipendio rubando dal frigo materno, e conta di andare tirare ancora avanti a lungo con la pensione di papà. Per quale motivo al mondo non dovrebbe?
E soprattutto, caro Augias, lei crede davvero che se potesse uscire di casa non lo farebbe? Sul serio: pensa che a 27 anni ritirarsi con la ragazza nella cameretta sia divertente?
Non erano gli stessi pronti a denunciare per concorso in brigatismo chiunque parlasse male della Legge 30 detta Biagi? Non erano gli stessi che in cinque anni di governo hanno lasciato andare gli immobili alle stelle? La strategia di Tremonti per fare uscire di casa i giovani in cosa consisteva esattamente? Perdonatemi se a tutti questi avvocati della gioventù per il momento preferisco Padoa Schioppa, che borbotta, sì, ma scuce.
D’altro canto è pure vero: il suo paternalismo è vomitevole. Ma è un tic molto diffuso. Mi fa venire in mente una cosa che ho scritto sei mesi fa. La ripubblico qua sotto, non avrei molto da aggiungere.
Se mille euro al mese (in due) vi sembran tanti
Caro Augias,
sto leggendo con molto gusto i servizi di Concita de Gregorio sulla famiglia italiana, pubblicati sul retro della sua rubrica.
Martedì scorso, la sua collega ha coraggiosamente messo il dito sulla piaga purulenta della società italiana: i mammoni, i parassiti, insomma, i figli che non schiodano mai di casa. Le percentuali contenute nel pezzo sono agghiaccianti: in Italia 7 maschi su 10 tra 25 e 29 anni vivono coi genitori. I mammoni spesso hanno un lavoro, eppure non contribuiscono al bilancio famigliare: non puliscono, non fanno la spesa, hanno libero accesso al frigo, insomma protraggono scandalosamente i privilegi dell’infanzia.
Nei carruggi genovesi, la giornalista ha snidato un esemplare di giovane adulto italiano che a 27 anni, malgrado porti a casa uno stipendio (400 euro) e abbia una relazione seria con una “fidanzata”, inspiegabilmente non schioda. Il bilancio della famiglia rimane così tutto sulle povere spalle del padre gruista: 58 anni, 1800 euro al mese “arrotondati con qualche lavoretto” (un bel modo all’antica per dire che prende del nero, ma pazienza).
Caro Augias, non c’è dubbio che un 27enne che si porta la ragazza in casa e chiude a chiave sia qualcosa di squallido; qualcosa di cui dobbiamo cominciare a vergognarci; qualcosa su cui è giusto puntare il dito, come coraggiosamente ha fatto la sua collega. E tuttavia qualcosa non mi torna. Nel pezzo di martedì c’è un’affermazione un po’ curiosa. È scritta in corpo sedici, perché tutti la notino. La de Gregorio scrive che i due giovinastri che passano le serate “in famiglia”…
arrivano a mettere insieme 1000 euro al mese, ma non se la sentono di cercarsi una casa e fare un figlio.Caro Augias, francamente non m'intendo molto dei prezzi di Genova. Ma i casi sono due: o è un’isola felice in tutta l’Italia settentrionale (nel qual caso mi ci trasferirò immediatamente con la mia compagna, abbattendo quasi del 50% le mie spese correnti), o c’è un refuso. Perché vede, d’accordo con la mentalità parassitaria e tutto il resto, ma nessuna coppia sana di mente, al giorno d’oggi, si cercherebbe una casa con mille euro al mese. Una casa? Un affitto? O magari un mutuo? E magari anche i mobili, la cucina, il posto
macchina? E dopo tutto questo… un figlio? Pannolini, pappe, culle, vestitini, madre probabilmente licenziata (a 600 euro al mese è difficile credere che il suo contratto la tuteli)?
Metter su famiglia con mille euro al mese… Qui non si tratta di essere poveri ma belli: qui è roba da folli o criminali. Qui dopo tre mesi i servizi sociali ti tolgono il figlio. Come minimo. E fanno bene.
Perché d'accordo, il mammismo è un problema: ma è inutile puntare il dito sul mammone. Lui non fa che incarnare il problema, e tirare a campare. Fingere che dipenda da lui, in un Paese dove qualsiasi buco con servizi costa come una reggia, è nascondersi dietro le cifre: come pretendere che i sanculotti si sfamino a brioches. Per quanto possa ingegnarsi o darsi da fare, il mammone non raggiungerà mai i 1800 euro più nero del padre. Ergo, chi glielo fa fare di crearsi un nido nuovo? Sarebbe persino irresponsabile, da parte sua. Non gli resta che attendere che i suoi vecchi gli smollino la casa, per consunzione. Del resto le probabilità che il padre nei prossimi anni venga colpito da un incidente professionale sono dannatamente alte.
Non vede come tutto si tiene? In Italia, la terra dei mammoni e degli infortuni sul lavoro, abbiamo scelto di aiutare le famiglie e stipendiare i padri; tuteliamo i pensionati e non finanziamo gli studi dei giovani: a questi ultimi non resta che attendere, economizzando le risorse e minimizzando gli sprechi. Il 27enne a 400 euro al mese non esce di casa perché sa che, dietro a tutta la retorica dell’indipendenza dai genitori, sarebbe soltanto un enorme spreco di soldi.
È vero che altrove è diverso. Nell’Europa del nord i figli evacuano a 18 anni. Questo ce lo hanno detto tutti. Quello che non sempre ci hanno detto, è che quasi sempre ricevono generosi aiuti dallo Stato, per lasciare i genitori e metter su famiglia. In quei Paesi, dopo la Mamma e il Papà, i giovani imparano a rispettare lo Stato e le sue leggi anche grazie agli sgravi, ai sussidi, alle borse di studio.
In Italia s’è deciso altrimenti, e non da ieri: è la Famiglia l’unico soggetto che ottiene aiuti. Ci sono motivi storici e culturali per cui è andata così, e forse è inutile lamentarsene. Sta bene: ma è altrettanto inutile prendersela col Mammone, in un Paese in cui gli unici soggetti riconosciuti sono le Mamme e i Papà. Lui ha semplicemente tratto le conseguenze: non si fa romanzi, arrotonda lo stipendio rubando dal frigo materno, e conta di andare tirare ancora avanti a lungo con la pensione di papà. Per quale motivo al mondo non dovrebbe?
E soprattutto, caro Augias, lei crede davvero che se potesse uscire di casa non lo farebbe? Sul serio: pensa che a 27 anni ritirarsi con la ragazza nella cameretta sia divertente?