Pages - Menu

lunedì 31 agosto 2009

Narcisi autolesionisti

Prendere posizione, finalmente
Scusate se interrompo l'ironia, ma credo siano maturi i tempi per un bilancio serio. Non solo dell'estate che sta finendo: anche se il numero di decessi stagionali dovrebbe parlare da solo. Che senso ha poi preoccuparsi della nuova terribile influenza, quando lasciamo liberi i nostri giovani di ammazzarsi così?

Fare i moralisti è difficile. Scagliare la prima pietra è sempre rischioso. Non siamo stati giovani anche noi? Sì, lo siamo stati. Non abbiamo giocato anche noi a spingerci al limite delle nostre possibilità? Sì, è successo. Quante volte, col senno del poi, ci siamo resi conto di averla fatta grossa, di averla fatta franca per una semplice botta di fortuna? Diverse volte. Eppure eccoci qui, adulti e responsabili: ma con che faccia oseremmo negare ai più giovani di noi il piacere di flirtare con la morte ancora un po'?

E poi, anche se quella faccia l'avessimo, cosa potremmo proporre di concreto? Il proibizionismo, lo sappiamo, non ha mai risolto nulla. Bisognerebbe lavorare sui concetti, sulla cosiddetta 'cultura' che c'è dietro i comportamenti aberranti che anno dopo anno facciamo sempre più fatica a capire. Educare i giovani a un modo più responsabile di stare assieme, di darsi dei traguardi non sempre fini a sé stessi, smontare quel narcisismo autolesionista che è un risultato diretto del bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti ogni giorno. Ma è una battaglia di retroguardia: e intanto ogni giorno, puntuale, ci arriva un bollettino di guerra.

Forse a questo punto un po' di proibizionismo non guasterebbe. Giusto qualche mese di moratoria, il tempo necessario perché la gente si ricordi di un'emergenza che fa più morti del terrorismo, o dell'influenza. Insomma, io la butto lì: chiudiamo i sentieri di montagna, proibiamo l'alpinismo.

Come? Eh, sì, la foto non c'entra nulla. Ma negli ultimi due mesi sono morti quaranta alpinisti, e due frequentatori di rave. Pensateci bene.

venerdì 28 agosto 2009

Ti ha scritto Antonio

Vasto programma

Va bene, mi arrendo, sono uno di quelli a cui ha scritto Di Pietro. C'è qualcun altro? Dai, usciamo allo scoperto.

Forse è meglio che mi spiego. In data 14 agosto ho ricevuto una mail da Antonio Di Pietro. Siccome la mail recava come titolo "Invito blogger al 4° Incontro Nazionale IdV", ed esordiva con "Caro blogger", non ho pensato per nemmeno un secondo che non fosse una lettera circolare inviata a decine se non centinaia di peoni come me.

Il contenuto tuttavia presentava alcuni spunti d'interesse, e spero di non venire meno a nessuna deontologia se lo riporto qui in forma parziale:
anche quest'anno Italia dei Valori organizza a Vasto, nei giorni 18/19/20 settembre 2009, l'Incontro Nazionale giunto alla sua quarta edizione.

Visto l'importante ruolo svolto da quei blogger che, con il loro lavoro quotidiano, informano, documentano e sopperiscono alla mancanza di un'informazione obiettiva, di fatto asservita ad interessi economici e politici, Italia dei Valori ha deciso di coinvolgerli per questo importante evento.

Ho dunque il piacere di invitarti a partecipare all'evento di Vasto;
Voi direte vabbè, dove sta la novità? Di Pietro nei blog un po' ci crede, non da ieri (memorabili i suoi flame con Clementemastella.blogspot); forse ci crede un po' troppo, rispetto a quel poco che hanno dimostrato di saper fare quelli italiani: ma è comprensibile, il suo partito è un prodotto di nicchia ed è normale che si attacchi alla coda lunga, anche solo in mancanza di altri appigli. In effetti la cosa più interessante arriva nella frase successiva:
Italia dei Valori provvederà a fornirti collegamento internet, accesso all'area stampa e alloggio gratuito per consentirti di documentare i dibattiti e le interviste di questi tre giorni.
Notate l'eleganza del grassetto. Però, insomma, questo sì che è crederci. Altro che chiacchiere: tre giorni, due pernottamenti, mi pare un bel salto in avanti rispetto alla società dei tramezzini. "E chissà a quanti l'avrà mandato, questo invito", pensavo, mentre mi spalmavo sulla spiaggia.

Col passare dei giorni il pensiero ha cominciato a fare il bozzolo: a quanti lo avrà mandato? I primi cento della classifica? No, troppi. I primi cinquanta? Venticinque? Inutile porsi il problema, basta aspettare. E' una società di bocche larghe, non c'è proprio il rischio che si tengano un segreto. Prima o poi qualcuno su friendfeed o twitter o checcazz si tradirà: "Ehi, Tonino mi ha invitato alla festa, e voi?" (Variante: "Tonino mi ha invitato e voi no, pappappero").

Passano i giorni. Le settimane. Va bene che siete tutti in ferie, ma ci siete con i laptop e gli iphone, quindi se tacete è perché avete deciso di farlo, è così? E' una congiura del silenzio? Forse una specie di gara. Su venti o trenta, vediamo chi è che ha il fegato di andarci, a Vasto; e poi quando comincia a postare i suoi imparziali reportages lo sputtaniamo: "C'è andato a spese del partito! Ho qui la mail! Scoop!" Ah, è una società di serpi.

(Oppure forse Tonino ha scritto solo a me! No, difficile. Forse però ha invitato solo una manciata di persone, gente che apprezza davvero. Magari mi apprezza davvero e io reagisco sputtanandolo così. Che verme, in una società di carne guasta).

Insomma, ora basta. Se era un gioco a chi cedeva per primo ho perso, ok? A me Di Pietro ha scritto, confesso. E confesso pure che un po' di voglia di andare a Vasto a fare il gonzo-blog della festa dell'IdV ce l'ho. Anche se probabilmente sarei un pessimo gonzo però... ehi, voglio dire, alloggio gratuito. Quella è gente che nei blog ci crede davvero.

Però da solo ho un po' paura. Viene qualcun altro?

giovedì 27 agosto 2009

Io sono Artigiano

Non avrai altro Autore al di fuori di me

Quello che mi ha spinto a farlo, come ho detto all'inizio, è che da questa risibile querelle estiva e premestruale si sia arrivati come sempre a ipotizzare un fantomatico scrittore fantasma che è il vero autore dei libri che pubblico a mio nome. (Giorgio Faletti)


A parte che vorrei esserci – non dico sia uno dei motivi che mi tiene in vita, ma vorrei esserci – il giorno in cui finalmente uno scrittore famoso, accusato di avere dei negri, o degli editor un po' intrusivi, farà il primo vero coming out: ebbene sì, il mio romanzo non l'ho scritto da solo, eravamo in cinque: uno ha lavorato ai dialoghi, uno ai monologhi, uno si è girato l'Oklahoma per sei mesi per fare le ricerche, uno rileggeva e l'ultimo passava col carrello del caffè, e allora? V'è piaciuto? Quello è l'importante, no? Mica ve l'abbiamo fatto pagare cinque volte tanto. Oh, che ci posso fare se sono scarso coi dialoghi? Mi pago uno che me li scrive e uno che se li rilegge, e se il risultato è buono dovreste ringraziarmi, altro che far le pulci.

Perché è ben strana in fondo questa cosa: quando andate al cinema non vi preoccupate che lo sceneggiatore e il regista siano persone diverse. Mai sentito qualcuno lamentarsi che Kubrick usasse soggetti non originali, che i vostri film preferiti siano li risultato dello sforzo di migliaia di persone.Vi siete bevuti decenni di serie televisive – orologio alla mano, è senz'altro la forma d'arte che vi ha 'intrattenuto' di più – e non vi siete mai posti il problema di chi le abbia scritte: coglioni qualsiasi intorno a un lungo tavolo in qualche grattacielo condizionato, ma chi se frega? tanto è un prodotto industriale. Al diavolo la nozione ottocentesca di “Autore”.

Finché non arrivate in libreria, e la musica cambia di colpo. Lì è puro Ottocento, si direbbe che fuori vi stia aspettando il maggiordomo in livrea con la carrozza: tutti Autori con la A maiuscola, e anche tutte le lettere del nome e del cognome, tutte in maiuscolo, sbalzate in oro e in lapislazzuli, più evidenti del titolo; uno non compra Io sono Dio di Faletti, uno compra GIORGIO FALETTI Io sono Dio: e guai, maledizioni, anatemi, a chi solo insinua che dietro GIORGIO FALETTI possa esserci un po' di lavoro di gruppo. È vietato anche solo pensarlo: GIORGIO FALETTI deve essere un artigiano che si scrive tutto da solo, dal titolo fino al più umile apostrofo. Esatto, sì, li mette tutti a mano, gli apostrofi, uno a uno. Altrimenti, boh, non c'è più gusto a leggerlo. Così a conti fatti GIORGIO FALETTI è l'artigiano più pagato d'Italia. Fattura milioni ed evidentemente non ha nemmeno un ufficio stampa, un pr, un amico che gli dica ehi, Giorgio, va bene fare il duro, ma non si trattano così le signore. Puoi avere tutti i buoni motivi del mondo, ma la sindrome premestruale no, non si tira fuori in una polemica la sindrome premestruale. Voglio dire, i duri non lo fanno. Rileggiti i classici: te l'immagini Marlowe, te lo immagini Mike Hammer coinvolti in una polemica letteraria con una biondona fatale? Uno schiaffone può anche scapparci, se la fata fa l'isterica, ma un accenno al mestruo no, è un tabù, una cosa definitivamente non anglosassone, di una mediterraneità inemendabile, come faccio a spiegartelo meglio... è una cosa che... non ti aggiunge centimetri al pisello, capisci?

martedì 25 agosto 2009

Amico Abbecedario

(L'ho trovato. Il primo titolo stagionale sul caroscuola. E dal momento che gli editori scolastici non hanno difficoltà a rivendervi gli stessi libri dell'anno scorso, giusto con qualche errorino in più o in meno per far vedere che sono "aggiornati"; e che i giornalisti non hanno problemi a riscrivervi più o meno lo stesso pezzo di dodici mesi fa... beh, anch'io posso benissimo copiare di pacca il post dell'anno scorso. Per quel che mi pagano).

Settembre ha il profumo dei quaderni nuovi

Io non pretendo certo che abbiate letto gli articoli di quest'anno sul caroscuola, identici in tutto e per tutto a quelli dell'anno scorso. Del resto, cosa c'è da dire? Purtroppo i prezzi aumentano, e aumenterebbero anche se l'editoria scolastica non fosse quella turpe banda di parassiti e grassatori che è sempre stata e sempre sarà almeno finché non riuscirò a lavorare per loro e smetterò di dirlo ad alta voce.

Nel frattempo vorrei soltanto lanciare un appello a chi si trova nella spiacevole situazione di aver figliato qualche anno fa: sembrava che il bambolotto vi sarebbe rimasto appeso al collo per sempre e invece eccolo qua! cammina parla e ora pretende di andare a scuola e bisogna anche svenarsi per corredarlo di libri e quaderni. Così siete appena tornati dalle vacanze, neanche il tempo per leggere il tradizionale articolo sul caroscuola, e via! In fretta, prima che arrivi l'estratto conto con tutti i vostri bagordi agostani dettagliati voce per voce, via, all'ipermercato più vicino! Perché ho sentito dire che c'è lo sconto sui quaderni.

Ecco, per l'amor di Dio e vostro, non fatelo. Non comprate quaderni al buio. È carta sprecata, fidatevi.
Perché vedrete che poi si arriva al 15 settembre, e si scopre che il/la maestro/a o professore/ssa è uno di quei biechi individui a cui non va bene niente, mai! Il quadernino piccolo è troppo piccolo, quello A4 è troppo grande! La spirale no, le anelle solo a distanza continentale (gli anglosassoni usano un formato diverso), i quadretti di 0,5 cm. mentre voi avete fatto una scorta da 0,4 da qui all'università – sul serio, non buttate via i vostri soldi, aspettate.

Se poi vi considerate tipi sensibili, potete anche esercitarvi a comprendere l'insegnante. Magari è uno/a che ha la pretesa antistorica di controllare i compiti a casa, e come fa? Ritira i quaderni. A cinque o sei persone alla volta? Andrà a finire che quei cinque o sei no lavoreranno più per un mese, tanto la prof mi ha già beccato. Eh, no, meglio controllarli tutti e 25. Certo, e andare in giro per i corridoi con 25 quaderni sottobraccio, è in questo modo che il docente difende la sua dignità. Oppure presentarsi in classe col carrello. O ancora introdurre il concetto di quaderno ad anelli con fogli staccabili, ma è già settembre inoltrato, e la famiglia previdente aveva riempito la cantina di quadernoni e quadernini a fogli non staccabili che nessuno correggerà mai.

Generalizzo, certo. Ma ho ancora nel cuore il mio primo giorno di scuola alle elementari, i miei bellissimi quaderni di Superman e di Batman (eroi in calzamaglia che andavano molto in voga a quei tempi), e la maestra che mi raggela dicendomi: questi non si possono usare. Insomma, è una storia antica. La grande distribuzione lo sa, e ne approfitta. Vi vende la sensazione di essere genitori previdenti scaricandovi pacchi di carta che v'ingombreranno la mensola alta del garage fino alla consumazione dei giorni. Non cascateci. Il vero risparmio è comprare all'ultimo momento solo quello che l'insegnante vuole. Si salva pure un po' di foresta.

Detto questo, i prezzi aumentano. Aumenta tutto, a partire dalle materie prime: aumenterebbe anche se possedessimo la bacchetta magica per eliminare quelle tenie didattiche degli editori scolastici, con le loro pregiate ristampe patinate e colorate, in cui si cambia tutto purché restino gli errori di stampa dell'anno prima. In effetti la bacchetta magica ce l'avremmo: coi soldi che una famiglia spende in libri ci si potrebbe comprare un laptop, installare il wifi a scuola e lavorare direttamente su wiki. In qualche scuola già succede, e forse, chissà, un giorno anche in quella dei vostri figli (dipende anche da voi! Andate alle riunioni!) Certo, i laptop dopo un po' si scassano, ma se per questo anche i libri: già da oggi, se un ragazzino riuscisse a conservare un laptop per almeno tre anni, la convenienza ci sarebbe eccome. Anche la diffidenza di una classe insegnante un po' attempata è destinata a squagliarsi al sole di fronte alla possibilità di somministrare verifiche on line che si correggono da sole (tutta roba che esiste già, eh? Non sto inventando niente).

domenica 23 agosto 2009

Il Merlo maschio

Ma voi sapreste dire esattamente cosa c'è di sbagliato in un burkini? Ovvero, cosa c'è di sbagliato nel recarsi in una piscina insossando un indumento che copre quasi del tutto le forme femminili?
È una questione di praticità, di igiene, di sicurezza? No, l'indumento è fatto apposta per essere adoperato in piscina.
Non si può identificare il volto di chi lo indossa? E perché mai, se l'unica cosa scoperta è il volto? (peraltro, finché lo usano tre in tutta Italia, l'identificazione ha l'aria di un falso problema).
Spaventa i bambini”? Ecco, questo invece sì che è un vero problema. Bambini italiani che si spaventano davanti a figure femminili completamente coperte... E poni che un giorno per sbaglio passino davanti a una statua della Madonna (in Veneto se ne trovano alcune), ti immagini lo choc?

Più probabilmente è una questione religiosa, e cioè: il burkini non va bene perché è roba islamica. Infatti, se se lo infila una ragazza italiana allergica al cloro, nessuno si preoccupa: il burkini ridiventa una comunissima “muta”, i bambini non si spaventano più, il bagnino non si attiva, i giornalisti non ne scrivono niente. È come ritrovarsi e inginocchiarsi in piazza: tutti lo possono fare, è garantito dalla Costituzione... ma se si scopre che stanno pregando in arabo non va più bene, scandalo (“Ma avevamo chiesto il permesso” “Non importa, è uno scandalo” “Ma c'è libertà di culto...” “Sì, ma mica in piazza”).

Se tutto questo ancora non vi basta per trovare esecrabile il burkini, se insomma siete alla ricerca di una ragione in più per odiarlo senza passare per bambini frignoni o comunissimi islamofobi, Repubblica di giovedì scorso vi dava un ulteriore motivo, forse determinante. O no? Insomma, valutate voi. Il burkini è sbagliato perché eccita Francesco Merlo.
Esatto, proprio così. L'indumento riprodotto nella foto sopra ha il potere di risvegliare gli appetiti sessuali del siculo editorialista.
Il bikini, che passa inosservato, è più casto del burkini che morbosamente, almeno nelle nostre piscine, spinge a indagare e a spiare le forme dei corpi femminili. E di sicuro il Corano invita al pudore ma non al martirio come espediente erotico. Fermo restando che in Europa ciascuno ha il diritto di coprirsi come vuole, anche quando fa il bagno in piscina o al mare, non ci pare soltanto ridicolo che una signora si immerga con una specie di aderente cappotto. Fosse un abito da sera ne subiremmo il fascino, e potremmo anche regalarlo alle nostre donne che, in certi momenti, giocano a lasciare indovinare cosa c' è sotto un vestito castigato tra luci, calici e sorrisi di sana seduzione [Non male. Se il burkini fosse un abito da sera, sarebbe un regalo da maschio latino. E se avesse le rotelle sarebbe un carrello della spesa, aggiungerei]. Al contrario, in piscina, una donna in abito da sera viene subito spogliata dagli sguardi maschili.
A questo punto sorge spontanea una domanda: Merlo, che piscine frequenti? Donne in abito da sera, sguardi maschili che spogliano... no, così, per curiosità, che orari fanno? Ci sono sconti per i dipendenti pubblici? Eh, no, niente, mi ero distratto. Torniamo al pezzo.
Mettete, per dire, una suora in una piscina
Che idea. Sul serio: perché non mettiamo una suora in piscina? Ma se la suora preferisce di no (non possiamo mica obbligarla, noi), perché non la mettiamo almeno ogni tanto in prima pagina? Insomma, la storia ci sarebbe: decine di migliaia di donne nella sola Italia che in qualsiasi stagione, in barba ai costumi correnti, vanno in giro coperte dai capelli in giù: sostengono di farlo per libera scelta, ma sarà vero? Anche le mogli islamiche dicono così, mica la beviamo. E sapete una cosa? Molte di queste signorine lavorano nelle scuole! Nelle stesse scuole dove una musulmana non può coprirsi i capelli perché... “spaventa i bambini”.

Ma tergiverso. Torniamo a Merlo, e al suo esperimento mentale: cosa succede se tuffiamo una suora in piscina? Beh, secondo il principio di Archimede, dovrebbe riaffiorare. Certo, con quei vestiti... ecco, in questo caso un burkini le farebbe persino comodo, tuttavia...
No, scusate, sono sulla cattiva strada. A Merlo non interessa la suora in quanto corpo grave immerso in un fluido, bensì come fonte di interesse lascivo. Come, pure la suora? Ebbene sì, essa pure.
Mettete, per dire, una suora in una piscina e vedrete come accenderà i più lascivi: gomitate, risatine...
Ora io non so che suore ci siano dalle vostre parti, ma l'immagine di una di quelle che ho frequentato io, siano clarisse o delll'ordine del SS. Cuore di Gesù, immersa in una piscina, non mi accende proprio. Oserei dire che mi spegne anche un po'. C'è qualcosa che non va nella mia virilità? Ma insomma in che razza di piscine vai, Merlo? Che gente frequenti? Si danno le gomitate quando si tuffano le suore? Diciamola tutta, è quel tipo di gente che va tenuta lontana dai termosifoni tubolari, è così? Gente a cui il pastore non affiderebbe il gregge nemmeno per il tempo di una pisciatina, così hanno molto tempo libero e vanno in piscina con Merlo a guardare le suore. E non ce l'hanno una doccia fredda, in quella piscina lì? Perché, insomma, potrebbe aiutare.
Insomma queste donne in burkini rimettono in vita tutto l' eros represso dei maschi caproni, li risvegliano, li provocano al gioco dell' indovina cosa c' è sotto, se mutande e reggiseno, se tanga «e chissà com' è fatta..., e chissà quanto è rotonda». È l' eros dei nostri preti con la tonaca, quello che piaceva alla frigida Lulù di Jean Paul Sartre: il burkini, quando non è ridicolo, è un vizio.
Va bene, abbiamo capito (il pezzo continua per altre tremila battute, ma abbiamo capito). Sintetizzando ulteriormente: Il burkini cosa religiosa sembra, ma in realtà esca sessuale è.
Beh, ma fosse anche?

L'idea che nell'era di youporn qualcuno riesca ancora a eccitarsi con una muta da sub, se non facesse sorridere, sarebbe commovente: non tutto è perduto, ci sono ancora margini di erotismo inesplorati. Ditelo ai cameramen di Sarabanda che per mesi hanno seguito il fondoschiena di Belem Rodriguez che andava a tuffarsi: basta così, tornate indietro (anche perché il passo successivo sarebbe la colonscopia), l'anno prossimo fasciatela di cotone dalla testa ai piedi, garantisco che a molti basterà – perlomeno ai compagni di nuoto di Merlo.

Ma fosse anche. Siamo laici, che senso ha fare del moralismo? L'islamica ha diritto di fasciarsi, il maschio siculo di eccitarsi: chi ci rimette? Mi sembra un raro e commendevole esempio di situazione win/win. E allora?

E allora forse senza volere Merlo ha centrato il problema. Quello che ci disgusta di più, dell'Islam, non è il maschilismo. Non sono le bombe (che per ora da noi non si son viste). Quello che ci rende l'Islam più indigesto di altre religioni, è che ci assomiglia da vicino. È la nostra foto in bianco e nero, di quando eravamo più giovani e passavamo pomeriggi in piscina nel tentativo d'intravedere un'ascella: e tra gomitate e risatine si passava il sabato. Il ritratto di noi stessi da poveri, questo è l'Islam. L'Internazionale Terrona(*) che ci torna in casa – speravamo di averla fatta fuori, sommersa di rifiuti postmoderni, niente da fare: eccola puntuale col suo fardello di donne fasciate e maschi perennemente allupati. I nordici queste cose non le possono capire: noi gli arabi li odiamo come si odiano i parenti poveri. Che ci piovono in casa. E il prete dice pure che non possiamo tenerli fuori, ah, sciagura.

* (c) Lia, mi pare.

venerdì 21 agosto 2009

Graven by a fool!

Now that I am dead I must submit to an epitaph

Un buon motivo per morire in agosto è che non succede molto altro e c'è più spazio sui giornali per celebrarti – non importa che i giornalisti siano in ferie, basta recuperare i coccodrilli, aggiornare le date... detto questo, forse sulla prima pagina di Repubblica di mercoledì 19 agosto Fernanda Pivano si sarebbe meritata un titolo più in alto: d'accordo, non sopra le elezioni afgane, e forse nemmeno al livello degli shorts di Mrs Obama. Sicuramente più in alto del burkini di Verona, ma cosi è la vita. No, la morte.

Quello che però trovo davvero discutibile – nel senso di meritevole di una discussione, non necessariamente polemica – è il titolo: È morta la Pivano ci regalò Spoon River. Più in piccolo: La scrittrice aveva 92 anni scoprì la beat-generation. Le epigrafi sono sempre insoddisfacenti, si sa; ma questa mi ha sinceramente incuriosito al punto che aprirei un dibattito. Ovvero: dovendo riassumere in una misera frasetta la carriera di un'intellettuale che ha scoperto e tradotto la fetta più consistente di letteratura americana del '900, da Hemingway a Scott Fitzgerald a Pound su fino a Kerouac e Dylan, e ancora su, su, su fino a Bukowski o McInerney, voi scegliereste proprio quel vecchio tetro libro di versi sciolti, Spoon River? Non Addio alle armi? Nemmeno Tenera è la notte? No, ma neanche Sulla strada? Ah, ipocriti lettori.

Miei simili, fratelli. Giù la maschera: voi non avete veramente letto Allen Ginsberg, e neanch'io. Nessuno che io sappia ha mai seriamente affrontato Corso e Ferlinghetti, sempre citati uno dopo l'altro col rischio di confonderli prima o poi con quei due anarchici finiti sulla sedia. I veri poeti beat sono sempre stati più tradotti che letti, come tutti i poeti del resto. Persino Dylan: non ne trovi poi così tanti che si pongano il problema (cruciale) di cosa stia cantando Dylan. Ma Hemingway o Kerouac li abbiamo letti tutti. Anche troppo. E troppo presto, sicuramente. Ora mi chiedo: Spoon River regge il confronto? Non dico in termini di valore, per carità, ma di ricezione del pubblico. Hemingway lo riconoscono tutti: quanti di voi hanno riconosciuto Edgard Lee Masters nella fotina qua sopra? E il suo libro, tradotto di nascosto da una liceale nel '43, scoperto in un cassetto dal suo insegnante, il prof. Pavese, e prontamente spedito alla Giulio Einaudi Editore: il suo libro, quanti lo avranno in casa? E di questi, quanti avranno provato a leggerlo?

Io in questo caso non faccio testo. Il mio Spoon River è qui, davanti a me. È sopravvissuto a tre traslochi, ma non è invecchiato nella maniera dignitosa dei libri degli adulti. Per fare un esempio, lungo il taglio delle pagine c'è una macchia... arancione. Un pennarello carioca. La dedica a pagina 3 mi conferma quello a cui fatico a credere: è un regalo della mamma, per il mio dodicesimo compleanno. Edizione col testo a fronte, così avrei migliorato il mio inglese. Mamma, e poi lamentati. Hai rischiarato la mia preadolescenza coi fuochi fatui del libro più sepolcrale mai scritto – 244 poesie, 248 morti, ogni volta che giri una pagina crepa almeno un personaggio, mi chiesi spesso perché non ne avessero tratto un film. Già, perché? Una trama così irresistibile. Frank Drummer vuole imparare l'Enciclopedia a memoria, ma muore. Washington McNeely siede sotto il cedro finché muore. Cassius Hueffer muore e gli sbagliano l'epitaffio – beh, forse un film no, ma una miniserie...

Si veniva su così, in provincia, appoggiandosi a quello che si trovava in giro, senza preoccuparsi più di tanto se era o no adatto a noi – l'importante era che fosse cultura, roba seria: e poi col tempo saremmo diventati seri anche noi. Quando, mesi dopo, fondai con mio cugino la mia prima band, l'idea di scrivere testi in inglese era parzialmente minata dalla quasi totale incapacità di formulare concetti più complessi di La Penna È Sulla Tavola. Ricordo quindi intense sessioni creative davanti al Garzanti tascabile e all'Antologia di Spoon River. I morti di Spoon mi insegnarono come si coniugano i tempi al passato e al futuro. E mentre cercavo “la poesia di quello che dice Una serpe ha fatto il nido nel mio cuore” per copiare di pacca il sintagma, mi rileggevo i duecento destini tristi di questi americani qualunque che nemmeno sapevo di che secolo fossero, senz'altro un secolo in bianco e nero, ma a parte questo non era difficile immaginarli sotto le pagliette e nei fustagni dei miei nonni, gente qualunque che si lascia morire in un paesino di provincia. La macchia di pennarello data senz'altro da quel periodo.

Oggi non saprei se consigliare a qualcuno l'antologia di Spoon River. A qualcuno, intendo, che non sia un dodicenne un po' fuori dal mondo disposto a mandar giù un volume di duecento pagine e duecento e più morti, dando per scontato che ne capirà il venti per cento, e quel venti per cento non se lo scorderà per tutto il resto della vita. Ci si formava con quel che si trovava in giro, la roba dimenticata sulle mensole dei genitori, centinaia di pagine buttate giù di nascosto sperando in qualche scena di sesso ogni tanto.

Quante volte poi mi sono detto: Hai tessuto il tuo sudario! Io sedevo sotto il cedro! E perché mi torturi coi fogli e coi piccoli appunti? Vidi che anch'io ero una buona macchina che la vita non aveva adoperato. Tutto questo, ci tengo a dirlo, non è merito mio. Io cos'ero a dodici anni, se non una macchinetta, non molto più complessa del mio registratorino panasonic col tasto rec arancione. Pronto a ingozzarmi di qualsiasi cosa mi spacciassero per Cultura e Poesia, per Vita e per Morte – potenzialmente, un bimbominchia. Nel senso che se dall'altra parte del meccanismo ci fossero stati i manga, o Harry Potter, o Twilight, avrei buttato giù quintalate di manga, HP, Twilight.

Ma dall'altra parte del meccanismo c'era ancora gente come Fernanda Pivano. In senso lato, c'era l'Einaudi. Una specie di grande famiglia di gente coltissima, ma a portata di edicola, che si interessava di te da quando nascevi. Cominciavano con Gianni Rodari, proseguivano con le antologie scolastiche curate da Calvino. Tu a nove anni chiedevi alla nonna per regalo Huckleberry Finn, perché avevi visto il cartone in tv, e lei ubbidiente sotto l'albero di Natale ti faceva trovare uno Struzzo Einaudi con una prefazione tostissima in cui si parlava di Bildungsroman e si seminavano interrogativi velenosi (se lo schiavo Jim vuole la libertà, perché non attraversa semplicemente il Mississippi, invece di andare sempre più a sud?) Qualche anno dopo un prof di musica ti prestava dischi di Dylan e per capirci qualcosa, a chi dovevi riferirti? Alla Pivano: come ritrovare in un negozio di dischi una vecchia zia che fino a quel momento avevi incrociato soltanto al cimitero. Di questo passo arrivavi alle superiori non dico con una cultura, ma con un'idea di cosa la cultura fosse: libri e autori che dialogano tra loro – il più delle volte è un dialogo tra sordi, come i morti di Spoon River, ma in mezzo ci siamo noi, siamo noi che portiamo i messaggi tra un sordo e l'altro, noi che vorremmo urlare al reverendo Wiley che si è sbagliato, che non doveva affatto “salvare i Bliss dal divorzio”. Preachers and judges! Non sanno niente della vita, a dodici anni era già chiaro. Perché un preadolescente non dovrebbe capirlo? E' la vita, è la morte: non sono mica concetti complessi.

Più tardi ci sarebbe stata l'età della ribellione, e il suo Kerouac; l'età di farsi una cultura sul serio coi suoi Hemingway e i suoi Scott Fitzgerald; e così via. Ma quella è adolescenza, faccio fatica a riconoscerla e persino a ricordarla. Forse davvero gli unici libri sono quelli che mandiamo giù fino a tredici anni, senza capirli. Uomini e donne di domani, vi porterete con voi Harry Potter per tutta la vita. Speriamo che vi faccia bene.

Io rimpiango la Pivano, non da ieri: non per nostalgia; oppure sì, per nostalgia, ma certo non di Ginsberg e dei suoi mantra. Nostalgia di un progetto culturale che oggi, a riassumerlo, suona pura eresia: siccome gli italiani leggono poco, facciamogli leggere soltanto cose di assoluta qualità. A tutte le età. E vediamo cosa succede. Ok, non è successo un granché. Ma io ho letto Spoon River, tradotto da Fernanda Pivano. Non è escluso che abbia fatto di me una persona migliore.

martedì 18 agosto 2009

Una bandiera, una speme

Noi siamo da secoli calpesti, derisi

Col tempo uno finisce col rendersi conto che la polemica sull'Inno nazionale è molto più stucchevole dell'inno stesso. Perché insomma, cosa pretendete da una canzone patriottica? È una simpatica marcetta, niente più e niente di meno; è ottocentesca, siccome la patria è nata nell'Ottocento; probabilmente non commuove nessuno ma per le parate e le pose pre-partita va benissimo. Può darsi che sia più bello il Va' pensiero – anzi, lo è senza dubbio – ma poi la gente dovrebbe alzarsi a teatro in mezzo al Nabucco, ne vale la pena?

L'unico vero rilievo è al testo – in effetti lo chiamano tutti Inno di Mameli, ma l'unica cosa che funziona bene è la musichetta di Novaro, con quell'irresistibile po-ro-po po-roppo-pò che toglie agli ascoltatori qualsiasi dubbio sulla serietà della nazione a cui si sta inneggiando. Il testo, sì, è quel disastro che sappiamo: soprattutto la prima strofa, con quello Scipio e quella Vittoria che nessuno sa bene chi siano e perché la seconda debba porgere la chioma al primo, l'annoso equivoco sul numero di “o” di “coorte” (cambia tutto se invece di stringerci in un plotone compatto preferiamo semplicemente paracularci intorno a un re o a un principe; ma in fondo già allora i garibaldini da Marsala a Teano avevano la “o” variabile a seconda della necessità del momento), e soprattutto la sinistra promessa di martirio, “siam pronti alla morte”, roba da hezbollah, poco consona alle occasioni sportive.

Si potrebbe ovviare con una situazione semplice, alla tedesca: loro alla caduta del nazismo hanno semplicemente cassato la prima strofa, Deutschland Deutschland über alles, eccetera. Noi potremmo fare lo stesso – in effetti la seconda strofa è quella che mi piace di più:

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo
Perché siam divisi
Raccolgaci un'Unica
Bandiera una Speme
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò

Purtroppo mi sembra incantabile. Ma con un po' di pratica.
In alternativa propongo il Rugido do Leão di Piccioni. Ideale per la parata del due giugno, e i calciatori non dovrebbero nemmeno imparare le parole.

domenica 16 agosto 2009

Estrazioni del Presidente

La democrazia a premi

ROMA – dal nostro inviato

Confesso, la prima riga di questo pezzo l'avevo in mente quando ero ancora in fila per il check-in, diceva: ROMA – file interminabili davanti alle ricevitorie, una cosa cosi'. Poi arrivo a Roma, mi infilo in un taxi, « Mi porti davanti a una ricevitoria affollata » dico al tassista, lui mi scorrazza per tutta la città eterna senza trovare una sola coda. Insomma, la maledizione dei luoghi comuni ha colpito ancora. La gente gioca, non dico di no, ma ho visto molta più furia davanti a certe slot di Las Vegas.

«La storia degli assalti alle ricevitorie è in gran parte un mito», ammette Giacinto Mariotti, dirigente del movimento Lottomatica Per La Democrazia davanti a un caffè con la schiuma. «Era un sistema per reclamizzare il gioco, nell'epoca pre-istituzionale, quando i cittadini avevano la facoltà di giocare tutte le schedine che volevano. Già allora il Superenalotto era un affare d'oro per le casse dello Stato, e quindi la tv di Stato faceva tutto il possibile per pompare il fenomeno: si inventava le code, intervistava i turisti che giocavano e titolava Vengono in Italia apposta per giocare, roba del genere... che c'è, il suo caffè è troppo caldo? »
«No, mi è andato di traverso»
« Si', ma perché, forse ho detto qualcosa che non... ah, già, dimenticavo. Lo choc culturale».

Sfido io a non farsi andare di traverso anche il migliore espresso di Via Veneto, mentre vi fate raccontare la storia di uno Stato che incita i suoi cittadini al gioco d'azzardo, attraverso la televisione pagata dai cittadini stessi. «L'Italia è cosi'», si stringe le spalle Mariotti, «Io sono tra quelli che credono che si possa migliorare, ma solo a patto di ammettere che è cosi', che il punto di partenza è questo... dopo la fine del Berlusconismo si trattava di trovare una via alla democrazia, alla partecipazione, senza pero' fingere che non fosse successo niente. Non si poteva tornare alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista, semplicemente perché i militanti di quei grandi partiti erano ormai tutti morti o quasi. Bisognava ripartire dalla tabula rasa... che poi cosi' rasa non era: la strutture, a cercarle, c'erano...»
«Il Superenalotto, per esempio».
«Puo' suonare eretico, ma è proprio cosi'. Lo si poteva vedere come un sistema per fare cassa, lucrando sulle illusioni della gente... ma anche come un grande momento di comunione popolare, gente di ogni ceto e razza unite dall'abitudine di giocarsi dei numeri. Per molti anni noi abbiamo cercato un minimo comune denominatore per tutti gli italiani, e non riuscivamo a trovarlo, finché...»
«...non siete entrati in ricevitoria».
«Già. E pensare che era appena dall'altra parte della strada».
Prima di fondare LottomaticaXLD, Giacinto militava in un piccolo partito di cui si vergogna persino a fare il nome. «Eravamo quattro gatti », scherza, «senza grosse possibilità di entrare in parlamento. Ma credevamo di possedere l'Arma segreta». L'arma segreta era il Referendum abrogativo, uno strumento previsto dalla Costituzione italiana, che teoricamente consentiva anche ai piccoli partiti di influire sulla vita politica. Bastava (si fa per dire) raccogliere 150mila firme per indire un referendum che permettesse di cambiare un testo di legge. Il primo storico referendum abrogativo fu indetto nel 1974, promosso dai cattolici che volevano revocare la legge sul divorzio appena emanata: la maggioranza degli italiani, contro ogni pronostico, voto' per mantenere il divorzio. Da allora il referendum divenne una delle forme di partecipazione democratica più apprezzate dagli italiani, che nei vent'anni successivi votarono per decine di quesiti referendari: in quegli anni i raccoglitori di firme esercitavano un vero e proprio contropotere rispetto al Parlamento. Ancora a metà degli anni Novanta un referendum poteva troncare la carriera di un politico, o viceversa farla decollare. Col tempo, tuttavia, subentro' una certa stanchezza, aggravata dal fatto che i referendum abrogativi italiani (a differenza di quelli svizzeri) per essere validi dovevano portare almeno la maggioranza degli italiani nelle urne. Un risultato sempre più difficile da ottenere, nei lunghi anni dell'ipnosi berlusconiana (non è un caso che uno degli ultimi referndum validi fosse quello che consentiva ai canali di Berlusconi di interrompere i programmi con gli spot).

Nel frattempo, « dall'altra parte della strada », il Superenalotto diventava un fenomeno di costume. Un concorso a premi gestito dallo Stato, basato sui concorsi locali pre-esistenti (le ruote del Lotto), a cui si aggiungeva un'intuizione venuta da lontano: il jackpot. Nel giro di un decennio il superenalotto era diventato il concorso più lucroso del mondo. Oppure, per dirla con Mariotti, un grande momento di comunione popolare. «Senza dubbio il fatto che il concorso fosse gestito dallo Stato fu determinante, quando nel 2014 avanzammo la prima proposta di abbinare un quesito referendario alla schedina. Ci prendevano per matti, ma nessuno riusciva a spiegare esattamente cosa ci fosse di sbagliato nell'idea».

Già, cosa c'è di male? La Costituzione certo non proibisce espressamente di abbinare la scheda elettorale alla schedina del superenalotto. Chi non avrebbe voluto spendere una manciata di euro per esercitare un sacrosanto diritto avrebbe potuto giocare, pardon, usare la scheda semplice, non abbinata al concorso: ma sin dall'inizio fu chiaro che sarebbero stati una minoranza. La prima Estrazione Referendaria ebbe luogo nel 2017: l'argomento era il Nucleare (un vecchio cavallo di battaglia dei referendari). Fu un successo clamoroso. L'argomento non era molto popolare, e il dibattito era stato snobbato dai media: eppure il quorum (che in quegli anni oscillava intorno al 20%) schizzo' all'80. «Molta gente scopri' che c'era un referendum direttamente in ricevitoria: mentre giocava voltava la scheda e trovava il quesito: volete i reattori nucleari nelle zone a rischio sismico si' o no? Naturalmente fummo sommersi dalle critiche, si diceva che in questo modo banalizzavamo l'istituto referendario, lo trasformavamo in una specie di sondaggio... in parte avevano ragione. Pero' banalizzando lo avevamo rimesso in funzione: la gente si poneva i problemi, anche solo per qualche secondo in tabaccheria, pero' se li poneva... imparava a valutare i pro e i contro delle sue scelte, ne discuteva...»
«E qualcuno ci vinceva anche qualcosa».
«Non c'è niente di male in questo».
«Ma è sicuro che l'abbinamento al referendum non abbia in qualche modo incentivato il gioco d'azzardo?»
«Credo il contrario».
«Addirittura».
«Il gioco d'azzardo esisteva già, non lo abbiamo certo inventato noi. Prima dell'abbinamento referendario esisteva la possibilità per il singolo di giocare più schede. Capitava ogni tanto che un vecchietto si giocasse la pensione. Questa possibilità è teoricamente svanita da quando il superenalotto è diventato un voto (prima solo referendario, poi anche legislativo e amministrativo). Oggi per giocare occorre fornire il proprio codice fiscale, e nessuno puo' giocare più di una schedina. Certo, ci si puo' ancora indebitare coi 'sistemoni' [schedine speciali che consentono di giocare piu' combinazioni], ma è una possibilità che esisteva già prima».
«E il traffico di voti? C'è chi dice...»
L'ennesima scrollata di spalle. «Certo, c'è gente che vende i propri dati, il proprio codice fiscale. Gli stessi che prima vendevano il loro voto. Questi sono difetti della democrazia in generale, non dell'Estrazione democratica in particolare. Esisteranno sempre, forse. O forse troveremo un modo per risolverli, un giorno. Nel frattempo abbiamo risolto altri problemi: abbiamo riportato un popolo nelle urne, non mi sembra un risultato da poco».

La Democrazia a Premi. Un'idea cosi' semplice: eppure non era venuta in mente a nessuno, da Solone in poi. Forse ci potevano arrivare solo gli italiani, e solo dopo vent'anni di mediacrazia berlusconiana.
A Roma sono le sei del pomeriggio: l'estrazione è precvista tra un'ora. Giacinto mi saluta, si scusa ma deve tornare alla sede del suo partito, dove fervono i preparativi per i festeggiamenti. Oggi si vota per legalizzare l'etaunasia, sancire il diritto all'autodeterminazione dei feti e l'impiccagione per i clandestini in possesso di schedine del superenalotto. «Ho votato rispettivamente si', no e no», confessa Giacinto, «seguiro' l'Estrazione sul maxischermo coi miei compagni di partito».
«Ma... siete sicuri che festeggerete?»
«Festeggeremo comunque. Per un sincero democratico ogni voto è una festa».
«Ma mettiamo che vincesse».
«Be', meglio ancora».
«No, intendo dire: mettiamo che vincesse il Jackpot, col Premio speciale: la Presidenza...»
«...della Repubblica. Mah, so che le leggi della probabilità non sono dalla mia parte. Pero' non è elettrizzante sapere che stanotte uno qualsiasi di noi, uno su sessanta milioni, potrebbe diventare Presidente? Potrebbe essere una donna di mezz'età, uno spazzino di vent' anni, una colf regolarizzata...»
«Ma statisticamente sarà un pensionato bianco».
«La statistica non è che ci azzecchi sempre. E comunque, se i pensionati gioc... votano di piu', è giusto che abbiano piu' possibilità».
«E pensa che sarà un bravo presidente?»
«Non sarà difficile comportarsi meglio di altri che non sono stati estratti a sorte».
«Ehm, era una frecciata?»
«Ma no, è che non è cosi' difficile fare il Presidente della nostra Repubblica, dopotutto. Si tratta di farsi bendare, pescare cinque palline, aprirle... un bambino sarebbe capace».
«In effetti, perché non fate giocare anche i bambini?»
«E' un'ingiustizia, lo so. Ci stiamo lavorando».

mercoledì 12 agosto 2009

Io che non so stare un'ora senza te

Vedo che si riparla di ora di religione; ne approfitto per allungarvi 4 o 5 cose sull'ora di religione che forse nessuno vi ha ancora spiegato.

1) Ma poi agli scrutini i prof di religione ci vanno davvero?
Boh, dipenderà, ma secondo me in molti casi no. Pensateci bene: un prof di religione ha in media 18 classi. Non è tanto il problema di ciucciarsi 18 scrutini (oh, se lo pagano), quanto quello di organizzare i lavori in modo che 18 scrutini non avvengano nello stesso momento. Un po' difficile, a occhio. Poi magari mi sbaglio, e la mia esperienza diretta non mi aiuta: ma secondo me in molti casi anche se firma il prof di religione non c'è, e il suo eventuale voto è un voto di Atena: sempre favorevole nei confronti del condannato.

2) Quindi, in concreto...
Sì, escludere il prof di religione dagli scrutini significa bocciare qualche migliaia di studenti in più l'anno prossimo. Ciascuno dei loro genitori poi potrebbe fare ricorso: sarebbe interessante. A questo punto io preferirei che il Consiglio di Stato riprendesse subito dentro il prof di religione. Per quanto riguarda la discriminazione, credo sia solo potenziale: statisticamente il prof di religione vota sempre per promuovere gli studenti che fanno l'ora di religione, e il prof di alternativa vota sempre la promozione di quelli che fanno alternativa.

3) Ma il governo ci tiene così tanto all'Ora di religione?
Certo, come a una spina nel culo. Se avete seguito le altre puntate di "Leonardo il prof frustrato spiega la scuola ai suoi pazienti lettori", forse avrete avuto l'occasione di notare come la principale preoccupazione di Tremonti-Gelmini-Brunetta sia tagliare tutto quello che si può tagliare, e magari un pelino in più, costi quel che costi.
Da questo punto di vista l'Ora di religione si presenta ai potatori governativi come un frutto succoso e proibito: si trova lì, gonfia e gocciolosa sull'unico ramo ancora un po' verde, e grida "tagliami tagliami". Pensate solo a questo: l'ora di religione costa allo Stato il doppio di tutte le altre. Com'è possibile? E' semplicissimo: in quell'ora bisogna pagare due insegnanti, uno di religione e uno di no.
A volte si può risparmiare un'ora chiedendo ai genitori 'alternativi' di portare a scuola il figlio un'ora dopo; o di venirlo a prendere un'ora prima. Questo può funzionare alle superiori: alle medie il genitore nicchia, il suo status di alternativo non gli impedisce di concepire la scuola come un parcheggio che ha il dovere di prendersi il pargolo alle otto e buttarlo fuori non prima delle 13: lo Stato è tenuto a pagare tutte le ore di alternativa che servono.
Insomma, tagliare Religione sarebbe arciconveniente, peccato che non si possa. Non si può per motivi politici, il famoso Concordato, ma soprattutto perché ultimamente i preti sono nervosissimi, basta un niente e attaccano una lagna tremenda. Se i giornali progressisti li lasciassero stare, per un po', se nessuno tirasse fuori i soliti discorsi sui matrimoni gay, gli aborti facili e tutto il resto, forse persino Tremonti o la Gelmini potrebbero timidamente aprire la discussione: Ehi, ma quell'ora di religione, perché non la tagliamo? Noo, non volevamo dire proprio questo, era solo una provocazione, però... avete un'idea di quanto si risparmierebbe? Ma sentite, perché non la facciamo passare come ora di "cultura religiosa", la infiliamo nel pacchetto di lettere o di filosofia, e risparmiamo un fior di quattrini?

Eh, già, perché no. In altri tempi, con politici un po' più cazzuti e preti un po' più tranquilli, se ne sarebbe potuto parlare in termini razionali. Ma oggi come oggi la razionalità è bandita: l'ora di religione è sostanzialmente un capriccio, il segno di una richiesta di attenzione, la delimitazione di un territorio, una pisciatina di cane. E resterà così finché i biechi illuministi continueranno a esternare la loro voglia di abortire rapidamente e morire alla prima malattia incurabile contratta, pappemolli.

4) E tu, ci tieni così tanto?
Io vivo nell'incubo che la aboliscano. O come mai? Beh, intanto perché il mio prof al liceo era fighissimo, per prima cosa ci fece leggere il Qoelet, forte il Qoelet, noi siamo la classe che ha letto l'Ecclesiaste prima della Divina Commedia. Ma soprattutto perché io sono una risorsa umana, e ragiono in termini di risorse umane. Orbene, il giorno che tagliassero tutte le cattedre di Religione Cattolica della penisola, millanta milioni di cattedre, che fine faranno tutti i prof di Religione dotati di assunzione ministeriale e benedizione vescovile? Ci sono diverse teorie: da chi li vede già tutti sotto i ponti a disquisire di teologia, a chi propone un'immediata Assunzione in cielo (sotto la voce collettiva di "Santissimi Martiri del Bieco Illuminismo"). Ma l'unica ipotesi ragionevole è quella di lasciarli nelle scuole dove già lavorano, e dirottarli in un'altra graduatoria: invece di insegnare religione, insegneranno qualcos'altro - oddio, e cos'altro potrebbero insegnare? Qualcosa che sembrano buoni tutti anche se fino a un momento fa facevano altro... pensateci bene... educazione fisica? Naaah. Inglese? Acqua, acqua. Ehi, ma insomma, qual è quella materia che sono tutti buoni di... ops. Esatto.

5) Sul serio?
Sul serio. Il giorno che aboliranno l'insegnamento di Religione Cattolica, i professori (autorizzati dal Vescovo e assunti dal Ministero) verranno probabilmente integrati nella graduatoria degli insegnanti di Lettere - previo corsetto di aggiornamento, sì, vabbè. E' tutta gente con un sacco di anni di servizio alle spalle: gente che mi sorpasserà, mi calpesterà, mi leverà qualsiasi cattedra sulla quale cercherò anche solo di appoggiarmi un momento.

Per cui capitemi - tengo famiglia - massimo rispetto ai biechi illuministi e ai laici esasperati, però giù le mani dall'ora di religione! E' un sacrosanto diritto del fanciullo!

martedì 11 agosto 2009

Io non mi sento emiliano

Aboliamo le regioni

Confesso, la boutade sulle "bandiere e inni regionali" da introdurre nella Costituzione previa modifica dell'articolo 12 me l'ero persa.

Ora, è difficile reagire a una provocazione del genere senza avere l'aria pirla di uno che infila la zampa in una trappola apposta; per prima cosa occorre riconoscere che in quanto provocazione è persino ben congegnata, ideale per il ferragosto sotto l'ombrellone; immagino che qualche giornale abbia già organizzato il sondaggio sull'inno regionale, e il giochino "Indovina la bandiera", ad es.: "ippogrifo rampante in campo bianco contornato da bande orizzontali rosse" (Toscana, difficilotta); "tricolore verde, rosso, azzurro, con naviglio grigio centrale sormontato da vela crociata con quattro stelle a sei punte grige" (Liguria, bello schifo); "triangolo scaleno verde senza qualità in campo bianco" (Emilia Romagna, facilissimo).

Per seconda cosa, occorre chiedersi cosa angustia i leghisti, cosa li spinge a voler restare in prima pagina tutta l'estate con richieste cosi' coglionesche; ci dev'essere qualcosa che vogliono far passare a fondo pagina, ma cos'è? Le nuove politiche per il meridione (=i soldi che Berlusconi farà piovere su Sicilia e compagnia?) La nuova legge anti-clandestini che non funziona, perché i CIE continuano a non funzionare? La legge sulle ronde, che in pratica disarma e toglie i fondi alle ronde che ci sono già? In parte penso di condividere l'intuizione di Scalfari: al di là di tutto c'è una vertigine profonda: i capipopolo leghisti hanno raccontato per anni la favola del federalismo fiscale, e adesso che potrebbero realizzarla, esitano: l'economia reale fa paura, meglio ricomincuiare a parlare di cazzatine identitarie, l'inno, la bandierina, il dialetto, hai visto la Padania in campo come ha conciato i provenzali? Ale' ale'!

Per terza cosa (e qui nella trappola ci cado dentro proprio a piedi pari) vorrei far presente che si sta parlando di niente: non solo non esistono gli inni regionali; non solo non esistono le bandiere, a parte quelle inventate a posteriori (e a posteriori almeno potevano farle belle), ma in fin dei conti non esistono nemmeno le regioni. O vi pare troppo? Va bene, allora diciamo che non esiste l'identità regionale. E' un'invenzione, come gran parte dei concetti identitari: ma in mezzo a tante invenzioni ottocentesche che hanno una certa aria di nobiltà, se non altro per la polvere che ci si è posata sopra, le regioni spiccano come una mastella di Moplèn in mezzo all'argenteria. Dico, è roba del 1970. Qualcuno di voi è perfino più vecchio.

Come sia stato possibile nel giro di 40 trasformare una nozione artificiale (la regione) in un'identità, è una cosa che meriterebbe uno studio approfondito. Dico la mia: sono state le cartine politiche appese alle pareti scolastiche. Abbiamo cominciato a credere che esistesse una "Lombardia" e un'"Emilia-Romagna" perché le abbiamo viste appese a una parete. Di conseguenza, abbiamo anche cominciato a sentirci "lombardi" o "emilianoromagnoli" - miracolo! - e poi uno dice che la scuola non serve! Ma aspetta, forse è servita a dividerci un po' di più.

Sarebbe bastato leggere in fondo al sussidiario, per scoprire quanto fosse arbitraria la nozione di "Emilia" (che ai tempi di Augusto arrivava oltre Pavia) o "Lombardia" (tutta l'Italia del nord, fino a Napoleone); pero' a quella lettura profonda non ci siamo mai arrivati. Ci siamo fermati alle scritte sui muri, dove l'"Emilia" finisce a Piacenza, e se finisce li' ci sarà un motivo.

Che motivo c'è? I confini di qualche insulso ducato, qualche pace arrangiata alla bell'e meglio (se Napoleone III non si fosse fermato a Villafranca, oggi Brescia sarebbe in Veneto?) e per riempire le caselle coi nomi un potpurri di nozioni ripescate dallo stesso sussidiario di sopra: i Longobardi improvvisamente contemporanei dei Veneti e dei Liguri che vivevano negli stessi posti un millennio prima; i conti normanni des Moulins resuscitati col proconsole Emilio Lepido, la Puglia che Salvemini (mi pare) non si capacitava potesse arrivare dal Salento fino a Foggia; la Campania con quell'aria di ahem, abbiamo finito i nomi ("ma che terra è?" "che terra vuoi che sia... è campagna..." "Forse ho trovato! Come si scrive in latino?") Tutto questo sarebbe suonato implausibile, come in effetti è, se non ce lo fossimo trovato appeso davanti, tutte le mattine, un bel puzzle colorato che ravvivava i giorni di pioggia.
E il puzzle, tenete bene in mente, l'hanno disegnato a Roma.

Non sto dicendo, attenzione, che gli italiani non soffrano di localismi identitari. Altroché. Ma fino a trent'anni fa non si esprimevano certo attraverso le regioni (e tuttora c'è una certa diffidenza). Il vero perno del localismo è la provincia. Nessuno ricorda le bandiere o i motti regionali, ma quando ci tolsero le sigle delle province dalle targhe ci fu una mezza sollevazione. Oggi, pensateci, sono facoltative. Uno puo' scegliere se indicare la provincia sulla targa o no. Andate a vedere quanti ancora scelgono di farlo.

Non dico che l'identità provinciale sia meno sciocca della regionale, ma almeno ha fondamenti storici. La dialettica già medievale tra centro abitato e contado. La logica a scacchiera degli scontri tra i comuni, che persiste nelle rivalità tra le tifoserie. A proposito, le tifoserie: gliene frega veramente qualcosa di essere lombardi, agli ultras dell'Atalanta?

Tanto che potremmo leggere questa fase di dissoluzione localistica come una fase di guerra tra la nozione di provincia e di regione: mentre le regioni trionfano (la Lega è un partito che ragiona per regioni), la nozione stessa di provincia viene messa in discussione: pare che sia una burocrazia inutile... perché debba essere inutile proprio la provincia e non la regione, non si sa. Un vero decentramento dei servizi dovrebbe avrebbe un respiro provinciale. Ma la tendenza non è questa: la tendenza è quella di trasformare venti città d'Italia in venti capitali di staterelli autonomi, e chiamarlo federalismo. Se potessimo aprire la testa di un federalista milanese e dare un'occhiata al suo "federalismo"... sospetto che ci troveremmo davanti uno Stato assoluto e accentrato su Milano, peggio che ai tempi di Lodovico il Moro; nel frattempo pero' i comuni di confine fanno i referendum per passare al Trentino (si pagano meno tasse - a proposito: bella invenzione anche il Trentino Alto Adige), e in generale 'sti sudditi "lombardi" non c'è verso di farli passare per l'Hub Granducale di Malpensa: i bresciani hanno Montichiari, i bergamaschi Orio al Serio, e cosi' via.

A questo punto butto li' anch'io la mia idea per l'estate: perché non aboliamo le regioni? Hanno fatto più danni che utili. Eh? Come? Ma no, non dicevo sul serio. Era una "provocazione".

sabato 8 agosto 2009

L'assistenzialismo neoliberista (e chi lo paga)


"A casa! Pago io!"

Su una vecchia copia della Stampa, spiegazzata dal vento della spiaggia, che sa di sabbia e crema solare, trovo la seguente:

Il ministero dell'Istruzione firmerà oggi una convenzione con l'Inps che permetterà l'anno prossimo a sedicimila docenti precari e ad altre migliaia di lavoratori non di ruolo della scuola (amministrativi, tecnici ed ausiliari), che dal 1° settembre rimarranno disoccupati a seguito dei tagli agli organici decisi dal governo, di percepire mensilmente una cifra vicina alla metà dello stipendio.


È un trafiletto nascosto a pag. 20 – per carità, si capisce che in quel mercoledì le confidenze di Barbara B., l'Afganistan, perfino le polemiche sull'Unità d'Italia risultassero più interessanti – però in queste poche righe si parla di:

1) sedicimila docenti + “altre migliaia” di persone disoccupate a partire dal primo settembre; la cosa non vi spaventa? neanche un po'? Passate allora alla numero 2

2) sedicimila ex docenti + “altre migliaia” di persone che, a partire dal primo settembre, continueranno a percepire metà stipendio senza più fare niente. Ehi, se non vi spaventa questo, passate pure alle polemiche sull'Unità d'Italia.

La cifra rivede all'eccesso – e che eccesso – le stime dei sindacati sui massicci tagli all'organico.
Allo stesso tempo offre una sponda a chi non aveva voluto credere a misure così drastiche: eh, via, siamo in Italia, vedrete che tutto si sistema. In effetti metà dello stipendio è meglio che niente. Per fare niente, poi, è quasi meglio che uno stipendio intero. Se si considera che i sedicimila in esubero sono per la maggior parte donne; che le donne sono per la maggior parte coniugate, per la maggior parte con un coniuge che guadagna un po' di più (non è difficile guadagnare un po' di più di un docente), è facile immaginare che qualche migliaio tirerà semplicemente i remi in barca, si metterà a ricamare le tende della camera dei bambini, e non verrà più conteggiato nelle statistiche sulla disoccupazione. Sì, ma a che prezzo? Quasi metà dello stipendio attuale, vogliamo dire 700 euro? Anche meno. Per quanto tempo? Dal trafiletto non è chiaro, ma sembra di capire che si vorrebbe mandarle avanti fino all'età pensionabile (ricordo sempre che stiamo parlando di “precari” di lungo corso, gente che faceva “supplenze annuali” da decenni).

Non tutti/e si rassegneranno. Alcuni/e semplicemente non possono: in alcune regioni d'Italia, se hai 600 euro e non hai un partner o una famiglia paziente, sei sotto la soglia di sussistenza. Quindi si metteranno a trovare un altro lavoro. Magari l'hanno già cercato e trovato. A questo punto cosa succede, devono rinunciare ai 600 euro? Teoricamente magari sì, ma tecnicamente sarà difficile. In ogni caso è un bell'incentivo a trovarsi impieghi in nero: non devi niente a nessuno e se ti va bene porti a casa due stipendi – via, diciamo uno stipendio e mezzo. Comunque meglio di prima, e senza più collegi docenti. Non dico che li invidio, anche se un po'... ma non è di questo che volevo parlare.

Volevo semplicemente far notare che sedicimila mezzi stipendi sono tanti. Se l'aritmetica mi assiste, direi che sono l'equivalente di ottomila stipendi interi. E che quindi in qualche modo i tagli agli organici potevano essere un po' meno draconiani – per esempio alle medie avremmo potuto avere più insegnanti di italiano, su dieci e non su nove ore; avremmo potuto avere più insegnanti di sostegno. Non saremmo stati più costretti a guarire all'improvviso migliaia di ragazzini che fino all'anno scorso erano certificati per disturbi all'apprendimento, mentre da settembre risulteranno uguali agli altri perché mancavano i soldi – no, i soldi c'erano. Ce n'erano evidentemente abbastanza per mantenere 8000 docenti in più a scuola. Ma non abbiamo voluto usarli così. Abbiamo preferito usarli per mantenere 16.000 persone a casa.

L'anno prossimo faremo i salti mortali per tenere insieme classi di 30 persone, mentre sedicimila colleghi che avrebbero potuto aiutarci staranno a casa con l'obolo del contribuente. Cosa pensare di un governo così. Che mette insieme il peggio del Nord efficientista (“A casa i pelandroni”) col peggio del Sud assistenzialista (“Sì, però a casa con stipendio ferie e contributi”). Un compatto muro di gelatina, altro che Thatcher. Poi però, se ci pensi bene, ai tempi della Thatcher gli inglesi erano tutti in fila a prendere il sussidio, e quindi forse l'ipocrisia neoliberista non è uno di quei strani prodotti doc italiani.

Ma insomma capisci che il punto non è risparmiare soldi: anzi in certi casi il governo è anche pronto a spenderli, i soldi. Se può servire in qualche modo a peggiorare le cose.

giovedì 6 agosto 2009

Mamma! Mamma!

Se tutto è troppo facile

Monsignore, è un grandissimo onore per me averLa qui.
Prego, s'accomodi.
(Lara, vammi a prendere i ferri buoni. C'è il Monsignore!)

Colgo l'occasione per confessarLe che l'altro giorno ho goduto di un piacere autentico, e d'intensità rara, leggendo il suo ultimo pezzo contro la pillola assassina. Soprattutto là dove dice

Rendendo tutto più facile, la nuova modalità abortiva certamente aumenta una mentalità che sempre più induce a considerare l’aborto come un anticoncezionale.
Si', quando una citazione mi piace davvero, la imparo a memoria. Adesso apra la bocca, per cortesia.
Mi sono anche permesso di riportarla sul forum della FOdCA, che mi onoro di rappresentare. La conosce? La Federazione Odontoiatriche Cattoliche. Qui è meglio fare una lastra.
(Lara, vammi a preparare una lastra).
Beh, in effetti non è molto conosciuta, la Fodca. Potremmo essere molte di più... sapesse quante professioniste non si attentano a uscire allo scoperto, dichiarare la loro fede... Ma Lei c'insegna che bisogna dare l'esempio. Adesso stringa. Ma no, non fa male. Appena un po' di fastidio, che sarà mai... Stringa, su. Ecco, abbiamo fatto. Un attimo che il computer rielabora l'immagine.

Vede, io credo che lei abbia colto l'essenza del problema. Fossero tutti come lei... invece di tirare fuori la bufala della pillola pericolosa per le madri, una cosa a cui non crede nessuno... no, il punto è quello che ha trovato lei: la banalizzazione. Con la Ru486 abortire non diventerà più pericoloso o meno assassino. Ma diventerà una cosa facile, banale, alla portata di tutti. E' questo l'abisso morale che si spalanca davanti a noi. Lara, questa immagine arriva o no?

Ah, ecco.
Eh, beh, capisco che le facesse male a masticarci sopra. C'è una carie che si è infiltrata sotto l'otturazione. E ce n'è un'altra... qui, vede? Sotto il colletto. Ma da quand'è che non ci vediamo?

Monsignore, è un discorso che abbiamo fatto spesso. Caffè, fumo, zuccheri tra un pasto e l'altro, non sono amici dei suoi denti. Poi è inutile che Se la prenda con me. In tre anni è la quarta volta che rivediamo quell'otturazione. Le dico con tutta franchezza che a questo punto la maggioranza dei miei colleghi Glielo avrebbero già devitalizzato - se non cavato via, semplicemente. Ma noi della Federazione Odontotecniche Cattoliche abbiamo un'idea diversa. Per noi la vita del dente viene prima di tutto. Lara, per favore, preparami dieci cc di zertyupol.

Monsignore, so che mi capisce. Lei ha un problema col Suo dente. Banalizzando, si potrebbe pensare che il problema consista in un paio di carie. Ma io e Lei sappiamo che il problema non coinvolge soltanto lo smalto: esso penetra la dentina e il cemento e raggiunge l'essenza, come dire? spirituale del Suo premolare. Banalmente, io potrei raschiarle via l'ennesima macchia scura; molti miei colleghi laicisti lo farebbero, ben contenti di rivederla tornare poi di qui a pochi mesi. Ecco, noi della Fodca abbiamo deciso di lavorare in un'altro modo. Lara, per favore, allaccia le cinghie al Monsignore.

Se ora Lei non avvertirà la solita sensazione di intorpidimento alla mascella, c'è un motivo. Quello che Le ho iniettato non è un sedativo. Viceversa, è qualcosa che L'aiuterà a sentire meglio quello che sto per farLe. Perché alla Sua età, Monsignore, non vorrei mai che perdesse i sensi mentre... apra la bocca, da bravo, ecco. Dicevo, ma puo' sentirmi? NON VORREI MAI CHE LEI PERDESSE I SENSI MENTRE LE TRAPANO UN PREMOLARE SENZA ANESTESIA. Non provi a chiudere la bocca mentre ho il trapano in mano. Non ci provi davvero. Si concentri su qualcosa. Su quello che Le sto dicendo, magari. Ora riprendo. C'è parecchio lavoro da fare qui dentro, lo sa.

Vede, quello che è successo a noi dentisti negli ultimi 50 anni, gli enormi progressi fatti in tutte le direzioni, ma soprattutto nella terapia del dolore, hanno in qualche modo degradato l'essenza morale della nostra professione. Noi dentisti sappiamo nell'intimo della nostra coscienza che la migliore terapia contro la carie è la prevenzione: una dieta corretta, l'astensione dalla nicotina e via dicendo. Ma d'altro canto è molto più lucroso curare i milioni di carie figlie delle cattive abitudini che ci guardiamo bene dal combattere. Tanto più che levarsi una carie, o un dente intero, è diventato sempre più facile e indolore... banale, in una parola. Ora, noi della Fodca abbiamo deciso che non puo' più essere cosi'. Siamo ancora poche, è vero, ma decise a dare l'esempio. Lara, tieniGli stretta la fronte, cosi'. Ecco, adesso va meglio.

Non si spaventi se vede le stelline, a questo livello è normale. Ma ci pensi bene: ha mai vissuto un'esperienza del genere nella sua vita? Pensa che potrà mai scordarSela? No, non muova la testa, mi risponda roteando le orbite. Bene. Ogni volta che scarterà un cioccolatino, che Si accenderà una sigaretta, lei Si ricorderà di questo dolore. Questa è la vera cura contro le carie, mi capisce? Quella non facile, quella che coinvolge il paziente anche sul piano spirituale. Noi Odontoiatriche Cattoliche ci crediamo fermamente. Ora se vuole puo' urlare.

Lara, hai notato che urlano tutti la stessa cosa? Che vorrà dire?
Mamma, mamma, come se il dolore più lancinante potesse capirlo solo la madre. O forse è solo la sillaba più facile da pronunciare.
Si sciacqui, Monsignore, abbiamo finito.