Com'è tradizione, l'antichissimo blog Leonardo in occasione del suo 279° compleanno chiede ai lettori di votare il post più bello del 2009. Segue lungo discorso che si può agevolmente saltare.
(La mia scelta:
Cugghiuni + Business
Seminator di scandalo
Il segreto dell'altalena
Croce e delizia
Il Silvio parallelo
Mamma! Mamma!
Di ronda in ronda
Dagli abbastanza corda
Ogni riferimento è puramente
Voi potete sceglierne anche altri)
"Come? Eh? No, le candeline no. Il mio povero cuore.
Volete che vi racconto? Ma probabilmente la storia la sapete già. Sono io che non mi ricordo più bene quando ho cominciato.
Mi sembra di averlo sempre avuto un blog, più o meno dall’… Ottocentoquindici, mi pare… in quel periodo eravamo in pochi, eh, anche perché il layout dovevi farlo a mano… il codice, dico… lo vergavi con la penna d’oca, nei primi tempi… e quindi non eravamo poi così tanti ad avere la costanza, la… manualità… comunque c’era già Giacomo … lui con lo Zibaldone era un po’ il mio mito, me l’aveva linkato Pietro Giordani che… aveva questa directory di giovani poeti italiani promettenti, che se ci pensi era una cosa da suicidio, allora, mettere in piedi una directory così… anche oggi certo… però a quei tempi… metti che Foscolo un giorno la consulta e non trova il suo sito… minimo ti sfidava a duello… non gli potevi mica dire: “Scusa, Ugo, ma è una directory di giovani promettenti, e francamente tu…” insomma, c’erano equilibri molto complicati.
Ma dicevo di Giacomo. Di lui non è che si sapesse molto, stava in campagna come molti di noi, e gli volevamo tutti molto bene perché… ma fondamentalmente aveva una costanza pazzesca. Ogni volta che facevi refresh qualcosina la trovavi. Spesso era roba pesante, filosofia, linguaggio, però era due secoli fa, forse allora c’era più mercato per queste cose. A me sembrava uno dell’altro mondo, poi un giorno leggendo capisco che si è trasferito a Bologna… allora vado a impegnare i gioielli della mia povera madre per prendere a nolo un biroccio e in un paio di giorni sono là… però non c’era ancora google street view e anche la segnaletica stradale lasciava molto a desiderare, francamente… sicché entro in un’osteria, sotto le torri, e chiedo a lorsignori se conoscono l’indirizzo del poeta Giacomo Leopardi. Silenzio. “Intendo l’autore del pregevole blog lo Zibaldone”. Mi ridono in faccia. Lì per la prima volta ho capito che… la blogosfera non è proprio esattamente il mondo reale… uscendo alla luce del sole urtai un gobbetto, gli feci cadere una borsa piena di carte e mi mandò al diavolo… mi lasciò un pessimo ricordo Bologna, non saprei neanche dire perché… forse capivo che tra il mondo vero e la blogosfera ormai avevo scelto la blogosfera. Vuoi mettere tra discutere di lettere con IppolitoNievo.It o stare per strada a farsi ingiuriare dai brutti gobbi sgorbi?
Manzoni? Non so, me l’hanno detto poi che c’era anche Manzoni, il punto è che non era già il grande Manzoni, era un ragazzo molto timido, che non usciva di casa volentieri, aveva crisi di panico nei luoghi affollati... al giorno d’oggi sicuramente diremmo che è la sindrome di questoquello, ma a quei tempi… Lui stava molto sulle sue e faceva questa cosa, che a me non è mai piaciuta… cioè si cancellava spesso. Magari per un mese scriveva cose fantastiche, fantasie di monache lesbiche, poi un mattino gli saltava il ticchio… cancellava tutto. Magari perché qualcuno gli aveva lasciato un commento livoroso (lui però li bloccava, mi pare), oppure gli era venuta la crisi mistica... Io quelli che fanno così, come Facci, o TheWineGuy, non li ho mai compatiti veramente. Voglio dire, o fuori o dentro, trovate un vostro equilibrio. Però non voglio fare polemica. L’ultima polemica la feci col Tommaseo, mi pare nell’Ottocentoquarantavattelapesca… quanto a Manzoni, era un altro che non usciva di casa volentieri, aveva crisi di panico nei luoghi affollati…
No, all’inizio no, non c’erano classifiche. Non avremmo saputo cosa conteggiare. Dovete capire che con la tecnologia di allora anche una cosa che per voi sembra scontata… non so, lincarsi. Io per lincare un post di Luigi Settembrini dovevo scrivergli fermo posta, e sperare che filtrasse il firewall austroungarico. Le polemiche sullo sbarco dei Mille, poi, francamente… non si poteva fare liveblogging da Marsala, mettetevelo in testa. I borbonici avevano bloccato il protocollo postale, non avevamo né piccioni né segnali di fumo, e poi c’era questo piccolo particolare che dovevamo scannare nemici a mani nude perché avevamo lasciato i fucili a casa. La prossima volta portatevi l’Iphone, cosa volete che vi dica. I giovani la fanno sempre facile.
Lo devo ammettere, all’inizio il telegrafo mi spaventava. Temevo che uccidesse il blog, lo avevo anche scritto… un post dal titolo il blog è morto. Mi davano soprattutto noia quelle abbreviazioni, anche inglesi, SOS per Salvate le Nostre Anime, che roba è? E poi tutti quegli stop a fine frase, stop, stop, stop… insopportabili. Ma davvero ero convinto che il futuro sarebbe stato sintetico, che quelli che amavano le pagine lunghe e complicate, come le mie, fossero condannati… magari chissà avevo pure ragione… nei tempi lunghi…
Invece Marconi lo adoravo. Mi ricordo quando fece quella presentazione, a Londra… tutti si immaginavano un gadget portatile, magari un telegrafo palmare, ma chi si poteva immaginare un congegno wireless nell’Ottocentonovanta… dico bene? O novantacinque?
Va bene, insomma, adesso in che anno siamo? No, fa lo stesso, un anno vale l’altro. Ditemi però cosa ne pensate di quest'anno, perché lo sapete che io tengo soprattutto a una cosa. No, non è la classifica, no. Non sono neanche gli accessi. A me interessa che i miei pezzi siano belli, siano validi, si leggano volentieri. Perciò vi chiedo, come da duecentoepassa anni, di scrivermi nei commenti qual è il pezzo che vi è piaciuto di più. Per favore. Non fate come tutti gli anni che di solito siete un migliaio ma quando c’è da farmi questo favore restate in venti. Cos’è, avete paura a scegliere un pezzo invece di un altro? Tirate la monetina, mica me ne accorgo. Potete anche scrivere il pezzo che vi è piaciuto meno, magari quello vi viene più facile. Coraggio, su, e poi per un altro anno non vi disturbo più. Adesso se vi dispiace devo andare a pisc… no, niente, ormai è tardi. Tanti auguri.
Ma ve l'ho detta quella volta che sono andato a Bologna, perché volevo vedere un blogger, come si chiamava... Entro in un'osteria e..."
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martedì 26 gennaio 2010
lunedì 25 gennaio 2010
Ho una teoria #7
Una classe tutta bianca
Nell’ottobre dell’anno scorso una scuola dell’infanzia di Luzzara (RE) finì sotto i riflettori. Un preside si era rassegnato a istituire una classe di soli bambini stranieri. A chi lo accusava di segregazione razziale, il preside fece presente che con un 75% di iscrizioni straniere non c’erano poi molte alternative... (continua sull'Unità on line; potete commentarlo lì) (è l'ennesimo pezzo in cui provo a spiegare come funzionano le quote stranieri; però magari stavolta ci riesco).
Nell’ottobre dell’anno scorso una scuola dell’infanzia di Luzzara (RE) finì sotto i riflettori. Un preside si era rassegnato a istituire una classe di soli bambini stranieri. A chi lo accusava di segregazione razziale, il preside fece presente che con un 75% di iscrizioni straniere non c’erano poi molte alternative. A quel punto sui media l’indignazione per il flagrante caso di apartheid si tinse di panico: ma ci sono davvero così tanti stranieri a Luzzara? A molti sfuggì un dettaglio: nella stessa cittadina, a pochi metri dalla scuola incriminata, ce n’era un’altra. Frequentata quasi soltanto da bambini italiani. Era la scuola parrocchiale. Paritaria, ovviamente. Finanziata anche dal comune. A differenza di quella pubblica, questa scuola non era obbligata ad accettare le iscrizioni dei bambini stranieri, ma si era comunque degnata di ammetterne… addirittura otto.
Torno sull’episodio perché illustra alla perfezione la mia teoria: per ogni “classe-ghetto” con alte percentuali di stranieri, c’è da qualche parte (magari a pochi metri) una classe tutta bianca, di cui nessuno parla mai. È la classe che non si vede in tv (dove le scolaresche sono rigorosamente multietniche), che non finisce sui giornali: in compenso è una classe molto ambita. Quasi sempre c’è una lista d’attesa per entrarci. Non è necessariamente una classe cattolica o privata: anche molte scuole pubbliche hanno le loro classi tutte bianche. Naturalmente non le chiamano così: nel Piano dell’Offerta Formativa (il dépliant che viene mostrato ai clienti, pardon, ai genitori) si parlerà di classi speciali, o sperimentali; con lingue straniere un po’ più difficili, con corsi integrativi particolari. Quel che importa è che ci sia una lista: il modo più semplice per compiere una selezione all’ingresso. I genitori che conoscono il meccanismo e iscrivono i figli a questo tipo di classi non sono necessariamente i più abbienti. Sono semplicemente persone che desiderano il meglio per i loro figli. Il più delle volte non si considerano nemmeno razzisti: non hanno niente contro gli stranieri, ma non desiderano che loro figlio finisca in una di quelle classi dove sono addirittura otto o nove… in una di quelle famigerate “classi-ghetto”.
E così il serpente si morde la coda. Sì, perché le classi ghetto esistono soltanto perché dall’altra parte della strada, o del corridoio, o a volte della parete, esistono le classi tutte bianche. Senza le une, le altre non avrebbero ragion d’essere. Non c’è nessuna invasione nelle scuole italiane: su cento studenti italiani gli stranieri sono appena sette. È vero che sono concentrati soprattutto al Nord e nelle città. A quanto pare esistono già 514 scuole primarie in cui il numero di studenti stranieri supera il 30% del totale. Cosa succederà in queste scuole, ora che il ministro Gelmini ha stabilito che la quota del 30% non è più superabile?
È difficile immaginare i bambini stranieri in esubero caricati sui pulmini e portati in qualche altro istituto (magari in un bel quartiere residenziale). Anche perché un altro pulmino dovrebbe fare il viaggio inverso, e scaricare qualche bel bambino bianco nella scuola di un quartiere problematico... pulmini del genere attirerebbero critiche sia da sinistra che da destra, ma soprattutto avrebbero un costo. Il trucco lo ha già svelato lo stesso ministro, affrettandosi a chiarire che la quota del 30% è da intendersi riferita soltanto agli stranieri non nati in Italia. Evidentemente gli stranieri di seconda generazione (un terzo del totale) sono già da ritenersi perfettamente integrati. Una bella fortuna, perché in altri Paesi come Francia o Gran Bretagna è proprio la loro crisi d’identità a creare le premesse delle rivolte razziali. Ma per la Gelmini la seconda generazione non va conteggiata, quindi il problema non sussiste.
C'è poi un altro migliaio di scuole in cui gli stranieri sono già tra il 20% e il 30% del totale. Qui la quota Gelmini, più che a evitare le classi-ghetto, servirà ad istituzionalizzarle. Da questo momento in poi presidi e consigli d’istituto sanno che possono infilare fino al 30% di studenti stranieri in una classe (9 su 27, dieci su trenta) senza il rischio di creare un “ghetto”. Perché la circolare dice, nero su bianco, che non c’è ghetto finché in classe c’è appena uno straniero su tre – attenzione, stiamo parlando di stranieri nati all’estero. Perché poi c’è sempre la possibilità di aggiungere qualche straniero nato in Italia, che come abbiamo visto non conta.
Proviamo con un esempio. Mettiamo che in una piccola scuola con cinque classi s’iscrivano trenta bambini stranieri su un totale di 150. Se l’obiettivo fosse l’integrazione, la soluzione ottimale sarebbe spargerli in quantità uguali: sei per classe. Il Ministro avrebbe potuto chiedere di dividere il numero di stranieri per il numero di classi: sarebbe stato un criterio ragionevole. Ma non lo ha fatto. Ha preferito inventare una “quota” che nel nostro caso consente di ammucchiare gli stranieri in tre classi, e lasciare che le altre due diventino Classi Tutte Bianche. Certo, qualche genitore verrà prima o poi a lamentarsi. Che genitori saranno? Quelli che non conoscono certi meccanismi, che ignoravano l’esistenza di liste di attesa, che temevano di iscrivere il figlio a una classe troppo impegnativa. E poi, naturalmente, ci saranno gli stranieri (anche loro, a Luzzara, hanno protestato). A questi genitori (tra i quali il nostro amico Elmo) i presidi potranno dire che va tutto bene, che la classe è un po’ vivace ma funziona, che è indietro col programma ma recupererà, e che comunque non è ghetto finché sono dieci su trenta: lo ha detto la Gelmini. Una che i problemi li risolve.
Nell’ottobre dell’anno scorso una scuola dell’infanzia di Luzzara (RE) finì sotto i riflettori. Un preside si era rassegnato a istituire una classe di soli bambini stranieri. A chi lo accusava di segregazione razziale, il preside fece presente che con un 75% di iscrizioni straniere non c’erano poi molte alternative... (continua sull'Unità on line; potete commentarlo lì) (è l'ennesimo pezzo in cui provo a spiegare come funzionano le quote stranieri; però magari stavolta ci riesco).
Nell’ottobre dell’anno scorso una scuola dell’infanzia di Luzzara (RE) finì sotto i riflettori. Un preside si era rassegnato a istituire una classe di soli bambini stranieri. A chi lo accusava di segregazione razziale, il preside fece presente che con un 75% di iscrizioni straniere non c’erano poi molte alternative. A quel punto sui media l’indignazione per il flagrante caso di apartheid si tinse di panico: ma ci sono davvero così tanti stranieri a Luzzara? A molti sfuggì un dettaglio: nella stessa cittadina, a pochi metri dalla scuola incriminata, ce n’era un’altra. Frequentata quasi soltanto da bambini italiani. Era la scuola parrocchiale. Paritaria, ovviamente. Finanziata anche dal comune. A differenza di quella pubblica, questa scuola non era obbligata ad accettare le iscrizioni dei bambini stranieri, ma si era comunque degnata di ammetterne… addirittura otto.
Torno sull’episodio perché illustra alla perfezione la mia teoria: per ogni “classe-ghetto” con alte percentuali di stranieri, c’è da qualche parte (magari a pochi metri) una classe tutta bianca, di cui nessuno parla mai. È la classe che non si vede in tv (dove le scolaresche sono rigorosamente multietniche), che non finisce sui giornali: in compenso è una classe molto ambita. Quasi sempre c’è una lista d’attesa per entrarci. Non è necessariamente una classe cattolica o privata: anche molte scuole pubbliche hanno le loro classi tutte bianche. Naturalmente non le chiamano così: nel Piano dell’Offerta Formativa (il dépliant che viene mostrato ai clienti, pardon, ai genitori) si parlerà di classi speciali, o sperimentali; con lingue straniere un po’ più difficili, con corsi integrativi particolari. Quel che importa è che ci sia una lista: il modo più semplice per compiere una selezione all’ingresso. I genitori che conoscono il meccanismo e iscrivono i figli a questo tipo di classi non sono necessariamente i più abbienti. Sono semplicemente persone che desiderano il meglio per i loro figli. Il più delle volte non si considerano nemmeno razzisti: non hanno niente contro gli stranieri, ma non desiderano che loro figlio finisca in una di quelle classi dove sono addirittura otto o nove… in una di quelle famigerate “classi-ghetto”.
E così il serpente si morde la coda. Sì, perché le classi ghetto esistono soltanto perché dall’altra parte della strada, o del corridoio, o a volte della parete, esistono le classi tutte bianche. Senza le une, le altre non avrebbero ragion d’essere. Non c’è nessuna invasione nelle scuole italiane: su cento studenti italiani gli stranieri sono appena sette. È vero che sono concentrati soprattutto al Nord e nelle città. A quanto pare esistono già 514 scuole primarie in cui il numero di studenti stranieri supera il 30% del totale. Cosa succederà in queste scuole, ora che il ministro Gelmini ha stabilito che la quota del 30% non è più superabile?
È difficile immaginare i bambini stranieri in esubero caricati sui pulmini e portati in qualche altro istituto (magari in un bel quartiere residenziale). Anche perché un altro pulmino dovrebbe fare il viaggio inverso, e scaricare qualche bel bambino bianco nella scuola di un quartiere problematico... pulmini del genere attirerebbero critiche sia da sinistra che da destra, ma soprattutto avrebbero un costo. Il trucco lo ha già svelato lo stesso ministro, affrettandosi a chiarire che la quota del 30% è da intendersi riferita soltanto agli stranieri non nati in Italia. Evidentemente gli stranieri di seconda generazione (un terzo del totale) sono già da ritenersi perfettamente integrati. Una bella fortuna, perché in altri Paesi come Francia o Gran Bretagna è proprio la loro crisi d’identità a creare le premesse delle rivolte razziali. Ma per la Gelmini la seconda generazione non va conteggiata, quindi il problema non sussiste.
C'è poi un altro migliaio di scuole in cui gli stranieri sono già tra il 20% e il 30% del totale. Qui la quota Gelmini, più che a evitare le classi-ghetto, servirà ad istituzionalizzarle. Da questo momento in poi presidi e consigli d’istituto sanno che possono infilare fino al 30% di studenti stranieri in una classe (9 su 27, dieci su trenta) senza il rischio di creare un “ghetto”. Perché la circolare dice, nero su bianco, che non c’è ghetto finché in classe c’è appena uno straniero su tre – attenzione, stiamo parlando di stranieri nati all’estero. Perché poi c’è sempre la possibilità di aggiungere qualche straniero nato in Italia, che come abbiamo visto non conta.
Proviamo con un esempio. Mettiamo che in una piccola scuola con cinque classi s’iscrivano trenta bambini stranieri su un totale di 150. Se l’obiettivo fosse l’integrazione, la soluzione ottimale sarebbe spargerli in quantità uguali: sei per classe. Il Ministro avrebbe potuto chiedere di dividere il numero di stranieri per il numero di classi: sarebbe stato un criterio ragionevole. Ma non lo ha fatto. Ha preferito inventare una “quota” che nel nostro caso consente di ammucchiare gli stranieri in tre classi, e lasciare che le altre due diventino Classi Tutte Bianche. Certo, qualche genitore verrà prima o poi a lamentarsi. Che genitori saranno? Quelli che non conoscono certi meccanismi, che ignoravano l’esistenza di liste di attesa, che temevano di iscrivere il figlio a una classe troppo impegnativa. E poi, naturalmente, ci saranno gli stranieri (anche loro, a Luzzara, hanno protestato). A questi genitori (tra i quali il nostro amico Elmo) i presidi potranno dire che va tutto bene, che la classe è un po’ vivace ma funziona, che è indietro col programma ma recupererà, e che comunque non è ghetto finché sono dieci su trenta: lo ha detto la Gelmini. Una che i problemi li risolve.
venerdì 22 gennaio 2010
Per ora è un sogno, ma
Fondata sui Sogni
Se dovessi scegliere qual è lo spot più stimolante degli ultimi mesi, a occhio direi il Mito di Pietro Barilla. Diciamo che è l'unico su cui riuscirei a buttar giù un pezzo in uno di quei giorni in cui non si pescano altri argomenti (Craxi: fatto, Haiti: fatto, Processo breve: troppo difficile, Fotoricatti: troppo presto...)
Non che abbia molto da dire, giusto due cose: 1. C'è una gran voglia di identità, di Storia, di tradizioni, e non da ieri. La Barilla su queste cose ci lavora da anni – ormai però questa voglia di passato si è fatta così parossistica, e mobilita talmente tante professionalità (costumisti, scenografi) da rasentare il grottesco (nella pubblicità, negli sceneggiati, al cinema). Non ci si limita più ad allestire qualche quadretto vintage: no, qui si assiste alla nascita di veri e propri Miti di fondazione. Riemerge così, dalle tenebre della Storia (risuscitato da qualche dagherrotipia sfocata) Pietro Barilla: non più oscuro bottegaio in Parma, ma novello Romolo che traccia un solco e fonda il Marchio Leggendario. Tutto molto bello, e ovviamente falso.
2. Ma come si fa a capire che è falso? Beh, basta sentirlo parlare. Malgrado baffi e camicia filologicamente fedeli al 1877, il mitico Pietro Barilla ragiona come un nostro contemporaneo. E allora, sentiamo, Sig. Barilla, perché vuole venderci sfarinati di grano duro? Ancora dieci anni fa ci avrebbe detto che aveva dei “valori” (la famiglia, la tradizione, l'identità, bla bla bla), ma oggi... oggi Pietro Barilla ha “un sogno” (oltre alla “passione”, ovviamente: vicino ai sogni c'è sempre quella roba lì). E qual è il sogno del mitico Barilla? “Forse diventare una pasta famosa”. Proprio come la tredicenne che vuole diventare una famosa ballerina, o il chitarrista 16enne che incita i suoi amichetti, “se c'è la passione potremo diventare una band famosa...” ecco, riuscite a immaginare gli stessi pensieri nella testa di un vero signore baffuto in una bottega di Parma nel 1877? No, infatti questo è Pietro Barilla 2009: un uomo che aveva un sogno, e tanta passione, e quindi ce l'ha fatta, proprio come Balotelli o Marco Carta. La Barilla non è una semplice fabbrica di sfarinati, la Barilla è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni – s'intende, non i vostri sogni di adulti decrepiti (il massimo delle vostre fantasticherie, lo so, è buttarvi sul divano davanti a una maratona di telefilm), ma i sogni vergini, i sogni dei ragazzini, i sogni di Gloria e di Successo.
In pratica la Storia, proprio mentre si evoca (1) si abolisce (2). I bottegai baffuti del nostro passato sono uguali a noi, siamo noi, la Storia non è che un'infinita sequela di generazioni di giovincelli che si pettinano in modi diversi ma tutti comunque sognano di sfondare nel mondo dello showbiz o, in mancanza di show, almeno nel pastabiz.
Se continueremo con passione, allora potremo perfezionarci, e forse diventare una pasta famosa... magari in tutto il mondo! Per ora è un sogno, ma se c'è la passione, perché non sognare?
Ecco, bravo Pietro, perfezionati, allenati, studia la parte. Com'è poi andata lo sapete: nel 1895 al teatro Storchi di Modena la prima edizione di Italy's Best Pasta vide i rigatoni di Pietro sconfitti in finale, di misura, dalle linguine di Gioachino Buitoni. I cronisti dell'epoca riportano la sensazione che i veri antagonisti dei rigatoni fossero i boccoli biondi di Gioachino, soprattutto presso il pubblico femminile (per tacere del pubblico gay, di cui effettivamente a quei tempi si taceva). Un'altra teoria è che la popolarità di cui godeva già Barilla abbia portato la giuria di qualità a favorire l'altro prodotto, col risultato di lanciare sul mercato due marchi invece di uno...
Eh? No, scusate, mi ero fatto prendere da una vertigine steampunk. Niente, cari creativi, non c'è che da togliersi il cappello davanti alla vostra doppia capriola: (1) trasformare un anonimo bottegaio in un fondatore di civiltà e (2) dotare questo fondatore di civiltà dello stesso lessico e della stessa sensibilità di un Amico di Maria De Filippi. Sulla cui trasmissione avrei racimolato un altro paio di cose da buttar giù. Magari un'altra volta, in un altro di quei giorni in cui non si pesca niente.
Se dovessi scegliere qual è lo spot più stimolante degli ultimi mesi, a occhio direi il Mito di Pietro Barilla. Diciamo che è l'unico su cui riuscirei a buttar giù un pezzo in uno di quei giorni in cui non si pescano altri argomenti (Craxi: fatto, Haiti: fatto, Processo breve: troppo difficile, Fotoricatti: troppo presto...)
Non che abbia molto da dire, giusto due cose: 1. C'è una gran voglia di identità, di Storia, di tradizioni, e non da ieri. La Barilla su queste cose ci lavora da anni – ormai però questa voglia di passato si è fatta così parossistica, e mobilita talmente tante professionalità (costumisti, scenografi) da rasentare il grottesco (nella pubblicità, negli sceneggiati, al cinema). Non ci si limita più ad allestire qualche quadretto vintage: no, qui si assiste alla nascita di veri e propri Miti di fondazione. Riemerge così, dalle tenebre della Storia (risuscitato da qualche dagherrotipia sfocata) Pietro Barilla: non più oscuro bottegaio in Parma, ma novello Romolo che traccia un solco e fonda il Marchio Leggendario. Tutto molto bello, e ovviamente falso.
2. Ma come si fa a capire che è falso? Beh, basta sentirlo parlare. Malgrado baffi e camicia filologicamente fedeli al 1877, il mitico Pietro Barilla ragiona come un nostro contemporaneo. E allora, sentiamo, Sig. Barilla, perché vuole venderci sfarinati di grano duro? Ancora dieci anni fa ci avrebbe detto che aveva dei “valori” (la famiglia, la tradizione, l'identità, bla bla bla), ma oggi... oggi Pietro Barilla ha “un sogno” (oltre alla “passione”, ovviamente: vicino ai sogni c'è sempre quella roba lì). E qual è il sogno del mitico Barilla? “Forse diventare una pasta famosa”. Proprio come la tredicenne che vuole diventare una famosa ballerina, o il chitarrista 16enne che incita i suoi amichetti, “se c'è la passione potremo diventare una band famosa...” ecco, riuscite a immaginare gli stessi pensieri nella testa di un vero signore baffuto in una bottega di Parma nel 1877? No, infatti questo è Pietro Barilla 2009: un uomo che aveva un sogno, e tanta passione, e quindi ce l'ha fatta, proprio come Balotelli o Marco Carta. La Barilla non è una semplice fabbrica di sfarinati, la Barilla è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni – s'intende, non i vostri sogni di adulti decrepiti (il massimo delle vostre fantasticherie, lo so, è buttarvi sul divano davanti a una maratona di telefilm), ma i sogni vergini, i sogni dei ragazzini, i sogni di Gloria e di Successo.
In pratica la Storia, proprio mentre si evoca (1) si abolisce (2). I bottegai baffuti del nostro passato sono uguali a noi, siamo noi, la Storia non è che un'infinita sequela di generazioni di giovincelli che si pettinano in modi diversi ma tutti comunque sognano di sfondare nel mondo dello showbiz o, in mancanza di show, almeno nel pastabiz.
Se continueremo con passione, allora potremo perfezionarci, e forse diventare una pasta famosa... magari in tutto il mondo! Per ora è un sogno, ma se c'è la passione, perché non sognare?
Ecco, bravo Pietro, perfezionati, allenati, studia la parte. Com'è poi andata lo sapete: nel 1895 al teatro Storchi di Modena la prima edizione di Italy's Best Pasta vide i rigatoni di Pietro sconfitti in finale, di misura, dalle linguine di Gioachino Buitoni. I cronisti dell'epoca riportano la sensazione che i veri antagonisti dei rigatoni fossero i boccoli biondi di Gioachino, soprattutto presso il pubblico femminile (per tacere del pubblico gay, di cui effettivamente a quei tempi si taceva). Un'altra teoria è che la popolarità di cui godeva già Barilla abbia portato la giuria di qualità a favorire l'altro prodotto, col risultato di lanciare sul mercato due marchi invece di uno...
Eh? No, scusate, mi ero fatto prendere da una vertigine steampunk. Niente, cari creativi, non c'è che da togliersi il cappello davanti alla vostra doppia capriola: (1) trasformare un anonimo bottegaio in un fondatore di civiltà e (2) dotare questo fondatore di civiltà dello stesso lessico e della stessa sensibilità di un Amico di Maria De Filippi. Sulla cui trasmissione avrei racimolato un altro paio di cose da buttar giù. Magari un'altra volta, in un altro di quei giorni in cui non si pesca niente.
mercoledì 20 gennaio 2010
Vuoi pure queste?
Bettino, vuoi pure queste?
Diro anch'io la mia su Craxi (potevo esimermi?)
Era antipatico.
Tutto qui? Beh, sì. Ma scusate, vi sembra una cosa da poco? Credete che antipatia e simpatia non siano dettagli da tenere in conto quando si formula il giudizio su un leader politico democratico? Barack Obama e Berlusconi non vi hanno insegnato niente.
Non voglio nemmeno dire che la politica consista nel farsi amare dalla gente. Però aiuta. Diciamo che è il 40% del lavoro. L'altro 60 magari consiste nel migliorare il proprio Paese, e da questo punto di vista... cough, sto ancora lavorando per pagare il debito pubblico che questo tizio ha aiutato a quadruplicare, per cui, se non vi spiace, lasciamo perdere (potrei prendere fuoco). Concentriamoci sull'aspetto “piacere alla gente”. Oggi si dà per scontato.
Trent'anni fa era diverso. Si stava passando dal modello in bianco e nero (il politico serioso e autorevole, eloquio soporifero, occhiali da nerd) a quello a colori: il politico pop, che conquista i telespettatori lanciando slogan brevi e a effetto. Craxi rimase incastrato nella fase di transizione. Se vogliamo essere onesti dobbiamo dire che non funzionava né a colori né in bianco e nero. La sua faccia unticcia e le sue pause imbarazzanti stridevano sul vetro televisivo come i pattini sul ghiaccio della vecchia pubblicitàviakal Cif Ammoniacal (si-può-graf-fia-re). Non era necessario essere stati indottrinati dal Kgb per trovarlo immediatamente insopportabile. Fidatevi: veniva spontaneo.
Il dibattito di questi giorni (ammesso che interessi qualcuno) è paradossale. Sembra che su Craxi sia possibile formulare soltanto due ipotesi antitetiche: statista o tangentaro. In mezzo ci sono quelli che, mah, forse non era né un gran statista né un gran tangentaro (mediocre anche in quello? Andiam bene). Nessuno che faccia presente una semplice e banale verità: prima ancora di essere più o meno politico o ladro, Craxi era antipatico come pochi, e questo alla lunga gli rese un pessimo servizio. Anche perché c'era una certa hybris nell'idea di poter governare e addirittura modernizzare l'Italia senza essersi mai fatto votare da più di un italiano su sei. Sulla cresta di un'onda lunga sempre prevista, mai arrivata - oppure era quella che alla fine lo travolse.
Vi è capitato di vedere, negli ultimi giorni, qualche intervista inedita, un filmato di repertorio? (No. Non ve ne poteva fregar di meno. Appunto). Di solito quando una grande uomo muore, gli cresce l'aureola attorno, anche nei documenti video: diventa più bravo, più bello, le sciocchezze che dice sembrano massime di La Rochefoucauld. A Craxi non succede. A distanza di anni la sua voce stentorea continua a urtare l'orecchio come un controsenso. Craxi viveva nei televisivi anni Ottanta, contemporaneo di Jei Ar e del mio amico Arnold, e impostava la voce come in un comizio anni Cinquanta.
Lo so cosa state per dire: anche Pertini. E Pertini era popolarissimo. Sì, perché con quella voce d'altri tempi Pertini impastava discorsi a braccio pazzeschi, prendeva una cerimonia come il Discorso di Fine Anno e lo trasformava nel confessionale del Grande Fratello (Hai sentito come gliele ha cantate a Gheddafi?) Pertini si era ormai incarnato nello stereotipo del nonnetto bizzoso con un passato da romanzo, e ci si divertiva. Craxi invece era il Padre che non torna neanche a cena, ha l'amante e non ti parla da anni, ma ti toglierà il saluto se non ti iscrivi a giurisprudenza. Poi magari il vero Craxi coi figli era tutt'altro (possibile, a giudicare dallo zelo con cui ancora oggi ne difendono la memoria), ma il personaggio-Craxi era quello, e stava sulle palle all'ottanta per cento degli italiani. Non mi sembra un dato politico da sottovalutare.
Non è che i suoi diretti concorrenti non soffrissero dello stesso problema, ed è interessante studiare gli sforzi che fecero per adeguarsi a qualcosa che ancora non si capiva cosa fosse. Berlinguer si fece prendere in braccio da Benigni, fu un momento profetico. Andreotti cercava di spacciarsi per battutista televisivo, funzionò finché resse la claque. Forlani non faceva niente e infatti Forlani è stato risucchiato dal niente. Occhetto sbaciucchiava la moglie davanti ai fotografi. Erano esperimenti un po' così, ma tutti avevano capito che qualcosa andava fatto. Craxi no. Lui nel frattempo si era sdoppiato in due personalità: lo Statista Di Livello Mondiale e il brigante Ghino di Tacco – ed erano antipatiche entrambe. Probabilmente pensava a sé stesso come una specie di Mitterand italiano, machiavellico ed enigmatico quanto bastava, e credeva che il problema simpatia si risolvesse circondandosi di nani e ballerine (invece riusciva a rendere antipatici anche costoro). Che bisogno c'è di essere simpatico, quando in lista hai Gerry Scotti? Non si faceva molta fatica a capire che il suo personaggio avrebbe finito per restare impregnato di tutta l'arroganza così caratteristica degli anni Ottanta. E che avrebbe fatto la fine triste di un cattivo di Dinasty o di Falcon Crest, di quelli che scompaiono dalla scena senza neanche salutare perché non gli rinnovano il contratto. A volte li si fa esplodere in mille pezzi su un motoscafo. Altre volte partono per un Paese lontano, da cui non si ritorna. Si parla ancora un po' di loro, di sfuggita: e poi scompaiono, non sono mai esistiti, la vita (finta) va avanti.
Viene il sospetto che Forattini – uno molto più bravo ad annusar l'aria che a far ridere – avesse captato qualcosa di profondo disegnandolo come un piccolo mussolini. La stessa arroganza a doppio taglio: gli italiani per un po' la sopportano, ma alla prima difficoltà eccoli pronti ad appenderti per i piedi. A Craxi poi non è andata così male: appena un assalto con le monetine. Eppure continuano a farcelo vedere, come se ce ne dovessimo vergognare. Di aver preso a monetine un politico arrogante? Non mi vengono in mente cento lire meglio spese. Ma no, i vedovi Craxi non si danno pace. Probabilmente perché la fede in Craxi Grande Statista ha qualcosa di simile a quella nel Dio del Vecchio Testamento: richiede un investimento emotivo e psichico enorme. Bisogna ricordarsene tutti i giorni e tutte le notti.
E quindi si stracciano le vesti: Perché ha pagato lui per tutti, perché? Semplice: ha rifiutato di farsi processare... No, ci vuole una spiegazione più profonda. Va bene, e allora tenetevi questa: ha pagato più degli altri non perché fosse il più disonesto, ma perché era il meno simpatico. E' giusto? No, magari no. Ma è giusto giocare a fare i leader carismatici col 15% dei suffragi? Berlusconi, che tanto gli deve, dai suoi errori ha imparato parecchio. Berlusconi, lui, non graffia: va giù liscio come una mousse. Ha il sorriso smagliante, la battuta pronta (magari mediocre, ma pronta), non si blocca ogni cinque secondi per trovare l'espressione più tranchant, che poi tranchant non era mai.
Date un'occhiata a questo grafico sull'affluenza alle urne nei referendum abrogativi. L'ho fatto qualche mese fa, perché m'interessava mostrare che il trend negativo è quasi trentennale. L'unica eccezione è un picco improvviso tra 1991 e 1993 (e dire che l'anno prima per la prima volta il quorum non era stato raggiunto). Cos'era successo nel 1991?
Tante cose, ma secondo me su tutte una: un giornalista aveva intervistato Craxi a tavola. Ricordate, era il momento in cui i politici cercavano di mostrarsi più alla mano, quindi questo giornalista aveva avuto accesso alla tavola di Craxi. E gli aveva chiesto se davvero secondo lui gli italiani dovevano andare al mare, la domenica del referendum. Craxi (che al mare c'era già) dopo la solita pausa, aveva detto: passatemi l'olio.
Ecco chi era Craxi. L'unico politico in grado di riportare gli italiani nelle urne referendarie, invertendo un un trend ventennale. Semplicemente facendo una figura da stronzo per dieci secondi in tv. Altro che monetine. Ringraziate che fosse finita la stagione dei bulloni.
Diro anch'io la mia su Craxi (potevo esimermi?)
Era antipatico.
Tutto qui? Beh, sì. Ma scusate, vi sembra una cosa da poco? Credete che antipatia e simpatia non siano dettagli da tenere in conto quando si formula il giudizio su un leader politico democratico? Barack Obama e Berlusconi non vi hanno insegnato niente.
Non voglio nemmeno dire che la politica consista nel farsi amare dalla gente. Però aiuta. Diciamo che è il 40% del lavoro. L'altro 60 magari consiste nel migliorare il proprio Paese, e da questo punto di vista... cough, sto ancora lavorando per pagare il debito pubblico che questo tizio ha aiutato a quadruplicare, per cui, se non vi spiace, lasciamo perdere (potrei prendere fuoco). Concentriamoci sull'aspetto “piacere alla gente”. Oggi si dà per scontato.
Trent'anni fa era diverso. Si stava passando dal modello in bianco e nero (il politico serioso e autorevole, eloquio soporifero, occhiali da nerd) a quello a colori: il politico pop, che conquista i telespettatori lanciando slogan brevi e a effetto. Craxi rimase incastrato nella fase di transizione. Se vogliamo essere onesti dobbiamo dire che non funzionava né a colori né in bianco e nero. La sua faccia unticcia e le sue pause imbarazzanti stridevano sul vetro televisivo come i pattini sul ghiaccio della vecchia pubblicità
Il dibattito di questi giorni (ammesso che interessi qualcuno) è paradossale. Sembra che su Craxi sia possibile formulare soltanto due ipotesi antitetiche: statista o tangentaro. In mezzo ci sono quelli che, mah, forse non era né un gran statista né un gran tangentaro (mediocre anche in quello? Andiam bene). Nessuno che faccia presente una semplice e banale verità: prima ancora di essere più o meno politico o ladro, Craxi era antipatico come pochi, e questo alla lunga gli rese un pessimo servizio. Anche perché c'era una certa hybris nell'idea di poter governare e addirittura modernizzare l'Italia senza essersi mai fatto votare da più di un italiano su sei. Sulla cresta di un'onda lunga sempre prevista, mai arrivata - oppure era quella che alla fine lo travolse.
Vi è capitato di vedere, negli ultimi giorni, qualche intervista inedita, un filmato di repertorio? (No. Non ve ne poteva fregar di meno. Appunto). Di solito quando una grande uomo muore, gli cresce l'aureola attorno, anche nei documenti video: diventa più bravo, più bello, le sciocchezze che dice sembrano massime di La Rochefoucauld. A Craxi non succede. A distanza di anni la sua voce stentorea continua a urtare l'orecchio come un controsenso. Craxi viveva nei televisivi anni Ottanta, contemporaneo di Jei Ar e del mio amico Arnold, e impostava la voce come in un comizio anni Cinquanta.
Lo so cosa state per dire: anche Pertini. E Pertini era popolarissimo. Sì, perché con quella voce d'altri tempi Pertini impastava discorsi a braccio pazzeschi, prendeva una cerimonia come il Discorso di Fine Anno e lo trasformava nel confessionale del Grande Fratello (Hai sentito come gliele ha cantate a Gheddafi?) Pertini si era ormai incarnato nello stereotipo del nonnetto bizzoso con un passato da romanzo, e ci si divertiva. Craxi invece era il Padre che non torna neanche a cena, ha l'amante e non ti parla da anni, ma ti toglierà il saluto se non ti iscrivi a giurisprudenza. Poi magari il vero Craxi coi figli era tutt'altro (possibile, a giudicare dallo zelo con cui ancora oggi ne difendono la memoria), ma il personaggio-Craxi era quello, e stava sulle palle all'ottanta per cento degli italiani. Non mi sembra un dato politico da sottovalutare.
Non è che i suoi diretti concorrenti non soffrissero dello stesso problema, ed è interessante studiare gli sforzi che fecero per adeguarsi a qualcosa che ancora non si capiva cosa fosse. Berlinguer si fece prendere in braccio da Benigni, fu un momento profetico. Andreotti cercava di spacciarsi per battutista televisivo, funzionò finché resse la claque. Forlani non faceva niente e infatti Forlani è stato risucchiato dal niente. Occhetto sbaciucchiava la moglie davanti ai fotografi. Erano esperimenti un po' così, ma tutti avevano capito che qualcosa andava fatto. Craxi no. Lui nel frattempo si era sdoppiato in due personalità: lo Statista Di Livello Mondiale e il brigante Ghino di Tacco – ed erano antipatiche entrambe. Probabilmente pensava a sé stesso come una specie di Mitterand italiano, machiavellico ed enigmatico quanto bastava, e credeva che il problema simpatia si risolvesse circondandosi di nani e ballerine (invece riusciva a rendere antipatici anche costoro). Che bisogno c'è di essere simpatico, quando in lista hai Gerry Scotti? Non si faceva molta fatica a capire che il suo personaggio avrebbe finito per restare impregnato di tutta l'arroganza così caratteristica degli anni Ottanta. E che avrebbe fatto la fine triste di un cattivo di Dinasty o di Falcon Crest, di quelli che scompaiono dalla scena senza neanche salutare perché non gli rinnovano il contratto. A volte li si fa esplodere in mille pezzi su un motoscafo. Altre volte partono per un Paese lontano, da cui non si ritorna. Si parla ancora un po' di loro, di sfuggita: e poi scompaiono, non sono mai esistiti, la vita (finta) va avanti.
Viene il sospetto che Forattini – uno molto più bravo ad annusar l'aria che a far ridere – avesse captato qualcosa di profondo disegnandolo come un piccolo mussolini. La stessa arroganza a doppio taglio: gli italiani per un po' la sopportano, ma alla prima difficoltà eccoli pronti ad appenderti per i piedi. A Craxi poi non è andata così male: appena un assalto con le monetine. Eppure continuano a farcelo vedere, come se ce ne dovessimo vergognare. Di aver preso a monetine un politico arrogante? Non mi vengono in mente cento lire meglio spese. Ma no, i vedovi Craxi non si danno pace. Probabilmente perché la fede in Craxi Grande Statista ha qualcosa di simile a quella nel Dio del Vecchio Testamento: richiede un investimento emotivo e psichico enorme. Bisogna ricordarsene tutti i giorni e tutte le notti.
E quindi si stracciano le vesti: Perché ha pagato lui per tutti, perché? Semplice: ha rifiutato di farsi processare... No, ci vuole una spiegazione più profonda. Va bene, e allora tenetevi questa: ha pagato più degli altri non perché fosse il più disonesto, ma perché era il meno simpatico. E' giusto? No, magari no. Ma è giusto giocare a fare i leader carismatici col 15% dei suffragi? Berlusconi, che tanto gli deve, dai suoi errori ha imparato parecchio. Berlusconi, lui, non graffia: va giù liscio come una mousse. Ha il sorriso smagliante, la battuta pronta (magari mediocre, ma pronta), non si blocca ogni cinque secondi per trovare l'espressione più tranchant, che poi tranchant non era mai.
Date un'occhiata a questo grafico sull'affluenza alle urne nei referendum abrogativi. L'ho fatto qualche mese fa, perché m'interessava mostrare che il trend negativo è quasi trentennale. L'unica eccezione è un picco improvviso tra 1991 e 1993 (e dire che l'anno prima per la prima volta il quorum non era stato raggiunto). Cos'era successo nel 1991?
Tante cose, ma secondo me su tutte una: un giornalista aveva intervistato Craxi a tavola. Ricordate, era il momento in cui i politici cercavano di mostrarsi più alla mano, quindi questo giornalista aveva avuto accesso alla tavola di Craxi. E gli aveva chiesto se davvero secondo lui gli italiani dovevano andare al mare, la domenica del referendum. Craxi (che al mare c'era già) dopo la solita pausa, aveva detto: passatemi l'olio.
Ecco chi era Craxi. L'unico politico in grado di riportare gli italiani nelle urne referendarie, invertendo un un trend ventennale. Semplicemente facendo una figura da stronzo per dieci secondi in tv. Altro che monetine. Ringraziate che fosse finita la stagione dei bulloni.
lunedì 18 gennaio 2010
Arriva Elmo
Ho una teoria (#6)
Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).
Elmo non è un razzista, secondo lui... [continua sull'Unità on line: potete commentarlo lì].
Ho una teoria. Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).
Elmo non è un razzista, secondo lui. In officina ha un apprendista moldavo che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Però questa cosa degli stranieri in classe non l'ha mai mandata giù, da quando il suo Elmino ha cominciato a frequentare la prima media.
All'inizio sembrava tutto normale: Qualche volta, è vero, a suo figlio capitava di infilare un nome strano nel resoconto delle sue giornate, ma del resto Elmo conosce tanti amici che hanno chiamato i figli Brandon o Sharon. Al primo colloquio le insegnanti gliel'avevano detto: “È una classe un po' difficile”. Ma quelle si lagnano sempre e comunque, si sa.
Il vero choc furono le foto della gita scolastica. Elmo scoprì che la classe di suo figlio era uno zoo. Tre neri, uno più nero dell'altro. Un marziano con un cappuccio in testa (“ma no, papà, è un indiano, ma della setta dei sikh”). Un numero imprecisato di rumeni polacchi e quant'altro. Sei o sette su ventisette.
“È una classe multietnica. Un'occasione meravigliosa per suo figlio”, le spiegò l'insegnante: la stessa che gli aveva detto che era una classe difficile. A Elmo qualcosa non tornava. Se davvero la classe multietnica era un'occasione così meravigliosa, perché non l'avevano offerta anche alla figlia del suo vicino, l'ingegnere? Lei aveva la stessa età di Elmino, ma sembrava molto più avanti con gli studi. È normale, le diceva sua moglie, le bambine sono più diligenti. Una mattina però al bar non aveva resistito, e si era messo a discutere di scuola con l'ingegnere. Fino ad arrivare al fatidico argomento, i bambini stranieri...
“Sono più bravi degli italiani”, era stata la pronta risposta del vicino progressista. “Per esempio in classe con mia figlia c'è un bambino ungherese che è un genio del computer, pensi...”
“Ah sì? Beh, però poi ci sono anche quelli che... sì, insomma, fanno fatica a imparare l'italiano, e allora la classe resta indietro... cioè, li avrà anche sua figlia dei compagni così”.
“No, che io sappia no”.
Così era saltato fuori che Elmo aveva otto compagni stranieri e la figlia dell'Ingegnere soltanto uno (un genio del computer).
“Ma certo”, gli aveva detto la moglie, “l'Ingegnere ha iscritto suo figlio alla classe bilingue tedesco”.
“E gli stranieri non ci possono andare?”
“In teoria potrebbero”.
“E allora perché non ci vanno?”
“Perché il tedesco è difficile. E poi perché c'è la lista di attesa”.
“C'è una lista?”
“Certo che non ti sfugge niente, a te”.
“No, scusa, una lista per studiare tedesco alle medie? Cos'ha di così speciale questo tedesco?”
“Forse che gli alunni sono tutti bianchi”.
Ecco svelato l'arcano. Non c'è nessuna invasione di alunni stranieri: il problema è che sono tutti concentrati in un paio di classi, e una è quella di Elmino. Nelle altre (Elmo ha controllato i tabelloni affissi a settembre) i nomi stranieri diventano rarissimi. A quel punto, dentro di lui qualcosa si è rotto. Oppure è stata la quinta volta che ha sentito dire da un'insegnante che la classe era indietro col programma. Sia come sia, Elmo appena ha potuto ha votato la Lega.
Quando i suoi uomini in parlamento proposero di istituire le classi-ponte, ebbe un acceso diverbio al solito tavolino del bar. “Siamo alle leggi razziali!” tuonava l'ingegnere. “La verità è che avete paura degli stranieri, che tante volte sono più bravi dei nostri figli...” Qualche mese dopo si cominciò a parlare di quote, e anche lì l'ingegnere prospettava deportazioni, Buchenwald, Dachau... La verità è che quelli come l'ingegnere hanno sempre da dire su tutto. Perché sono comunisti. Invece Elmo, più ci pensa più trova che la quota sia la cosa più ragionevole. Finalmente (pensa) gli stranieri non saranno più tutti ammucchiati in una o due classi-lager, ma sparsi su tutta la superficie scolastica. E la sorella di Elmino, che comincia le medie in settembre, non finirà più in un ghetto di analfabeti. Forza Gelmini!
In agosto, leggendo il tabellone delle nuove classi, Elmo avrà un colpo al cuore. Su 29 compagni di Elmina, 15 avranno il cognome straniero. A questo punto magari andrà a chiedere al Preside: Cos'è, un'invasione? Dove sono finite le quote? Ma allora è vero che questa scuola è un covo di rossi dove si ignorano le direttive ministeriali? E il preside, che gli risponderà?
“Prima di tutto, vorrei tranquillizzarla. Una classe multietnica, come quella in sui è stato inserita sua figlia, è una meravigliosa opportunità...”
“Bla bla bla, conosco il discorso. Quello che vorrei sapere è come mai qui non si rispettano le quote di stranieri”.
“Ma noi le rispettiamo. Nella classe di suo figlia ci sono nove alunni stranieri”.
“Di più che tre anni fa! E le quote?”
“La quota è del 30%. Il problema è che con i tagli il numero di studenti per classe è aumentato. Nella classe di suo figlio sono in trenta: il 30% di trenta è un po' più di nove, un po' meno di dieci. Siamo in quota”.
“Ma scusi... io qui leggo almeno sedici cognomi che non sono italiani. Non nove. Sedici”.
“Certo, perché poi ci sono gli stranieri nati in Italia. Il Ministero ci ha detto che nella quota non vanno contati”.
“Ah, non vanno contati”.
“No”.
“Ma perché devono sempre finire tutti in classe coi miei figli... cioè, io non è che sono razzista, eh... ma non riesco a capire. Perché non ne mettete un po' anche in prima A?”
“La A è la classe di tedesco...”
“Sì, lo so, c'è una lista. E in B?”
“Il B è la sperimentazione musicale”.
“E allora? Sono tutti stonati gli stranieri?”
“No, ma c'è una lista d'attesa anche lì”.
“E la C?
“È una classe molto ambita, non ha rientri al pomeriggio. Sa, per i bambini che hanno molte attività extrascolastiche: nuoto, equitazione...”
“C'è la fila anche lì”.
“Diciamo che gli stranieri hanno meno attività extrascolastiche. È tutto chiaro, ora?”
Sì. Nella mente di Elmo ora è veramente tutto chiaro. Non è colpa della Gelmini, lei ha fatto quel che ha potuto. Il problema è che i comunisti sono veramente diabolici. Fatta la legge, trovano l'inganno. Fanno studiare ai loro figli tedesco, flauto traverso, equitazione, qualsiasi cosa per tenerli lontani dai negri... e quelli che ci rimettono sono i suoi figli. Comunisti maledetti. Ma verrà un giorno. Quando prenderemo il potere...
Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).
Elmo non è un razzista, secondo lui... [continua sull'Unità on line: potete commentarlo lì].
Ho una teoria. Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).
Elmo non è un razzista, secondo lui. In officina ha un apprendista moldavo che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Però questa cosa degli stranieri in classe non l'ha mai mandata giù, da quando il suo Elmino ha cominciato a frequentare la prima media.
All'inizio sembrava tutto normale: Qualche volta, è vero, a suo figlio capitava di infilare un nome strano nel resoconto delle sue giornate, ma del resto Elmo conosce tanti amici che hanno chiamato i figli Brandon o Sharon. Al primo colloquio le insegnanti gliel'avevano detto: “È una classe un po' difficile”. Ma quelle si lagnano sempre e comunque, si sa.
Il vero choc furono le foto della gita scolastica. Elmo scoprì che la classe di suo figlio era uno zoo. Tre neri, uno più nero dell'altro. Un marziano con un cappuccio in testa (“ma no, papà, è un indiano, ma della setta dei sikh”). Un numero imprecisato di rumeni polacchi e quant'altro. Sei o sette su ventisette.
“È una classe multietnica. Un'occasione meravigliosa per suo figlio”, le spiegò l'insegnante: la stessa che gli aveva detto che era una classe difficile. A Elmo qualcosa non tornava. Se davvero la classe multietnica era un'occasione così meravigliosa, perché non l'avevano offerta anche alla figlia del suo vicino, l'ingegnere? Lei aveva la stessa età di Elmino, ma sembrava molto più avanti con gli studi. È normale, le diceva sua moglie, le bambine sono più diligenti. Una mattina però al bar non aveva resistito, e si era messo a discutere di scuola con l'ingegnere. Fino ad arrivare al fatidico argomento, i bambini stranieri...
“Sono più bravi degli italiani”, era stata la pronta risposta del vicino progressista. “Per esempio in classe con mia figlia c'è un bambino ungherese che è un genio del computer, pensi...”
“Ah sì? Beh, però poi ci sono anche quelli che... sì, insomma, fanno fatica a imparare l'italiano, e allora la classe resta indietro... cioè, li avrà anche sua figlia dei compagni così”.
“No, che io sappia no”.
Così era saltato fuori che Elmo aveva otto compagni stranieri e la figlia dell'Ingegnere soltanto uno (un genio del computer).
“Ma certo”, gli aveva detto la moglie, “l'Ingegnere ha iscritto suo figlio alla classe bilingue tedesco”.
“E gli stranieri non ci possono andare?”
“In teoria potrebbero”.
“E allora perché non ci vanno?”
“Perché il tedesco è difficile. E poi perché c'è la lista di attesa”.
“C'è una lista?”
“Certo che non ti sfugge niente, a te”.
“No, scusa, una lista per studiare tedesco alle medie? Cos'ha di così speciale questo tedesco?”
“Forse che gli alunni sono tutti bianchi”.
Ecco svelato l'arcano. Non c'è nessuna invasione di alunni stranieri: il problema è che sono tutti concentrati in un paio di classi, e una è quella di Elmino. Nelle altre (Elmo ha controllato i tabelloni affissi a settembre) i nomi stranieri diventano rarissimi. A quel punto, dentro di lui qualcosa si è rotto. Oppure è stata la quinta volta che ha sentito dire da un'insegnante che la classe era indietro col programma. Sia come sia, Elmo appena ha potuto ha votato la Lega.
Quando i suoi uomini in parlamento proposero di istituire le classi-ponte, ebbe un acceso diverbio al solito tavolino del bar. “Siamo alle leggi razziali!” tuonava l'ingegnere. “La verità è che avete paura degli stranieri, che tante volte sono più bravi dei nostri figli...” Qualche mese dopo si cominciò a parlare di quote, e anche lì l'ingegnere prospettava deportazioni, Buchenwald, Dachau... La verità è che quelli come l'ingegnere hanno sempre da dire su tutto. Perché sono comunisti. Invece Elmo, più ci pensa più trova che la quota sia la cosa più ragionevole. Finalmente (pensa) gli stranieri non saranno più tutti ammucchiati in una o due classi-lager, ma sparsi su tutta la superficie scolastica. E la sorella di Elmino, che comincia le medie in settembre, non finirà più in un ghetto di analfabeti. Forza Gelmini!
In agosto, leggendo il tabellone delle nuove classi, Elmo avrà un colpo al cuore. Su 29 compagni di Elmina, 15 avranno il cognome straniero. A questo punto magari andrà a chiedere al Preside: Cos'è, un'invasione? Dove sono finite le quote? Ma allora è vero che questa scuola è un covo di rossi dove si ignorano le direttive ministeriali? E il preside, che gli risponderà?
“Prima di tutto, vorrei tranquillizzarla. Una classe multietnica, come quella in sui è stato inserita sua figlia, è una meravigliosa opportunità...”
“Bla bla bla, conosco il discorso. Quello che vorrei sapere è come mai qui non si rispettano le quote di stranieri”.
“Ma noi le rispettiamo. Nella classe di suo figlia ci sono nove alunni stranieri”.
“Di più che tre anni fa! E le quote?”
“La quota è del 30%. Il problema è che con i tagli il numero di studenti per classe è aumentato. Nella classe di suo figlio sono in trenta: il 30% di trenta è un po' più di nove, un po' meno di dieci. Siamo in quota”.
“Ma scusi... io qui leggo almeno sedici cognomi che non sono italiani. Non nove. Sedici”.
“Certo, perché poi ci sono gli stranieri nati in Italia. Il Ministero ci ha detto che nella quota non vanno contati”.
“Ah, non vanno contati”.
“No”.
“Ma perché devono sempre finire tutti in classe coi miei figli... cioè, io non è che sono razzista, eh... ma non riesco a capire. Perché non ne mettete un po' anche in prima A?”
“La A è la classe di tedesco...”
“Sì, lo so, c'è una lista. E in B?”
“Il B è la sperimentazione musicale”.
“E allora? Sono tutti stonati gli stranieri?”
“No, ma c'è una lista d'attesa anche lì”.
“E la C?
“È una classe molto ambita, non ha rientri al pomeriggio. Sa, per i bambini che hanno molte attività extrascolastiche: nuoto, equitazione...”
“C'è la fila anche lì”.
“Diciamo che gli stranieri hanno meno attività extrascolastiche. È tutto chiaro, ora?”
Sì. Nella mente di Elmo ora è veramente tutto chiaro. Non è colpa della Gelmini, lei ha fatto quel che ha potuto. Il problema è che i comunisti sono veramente diabolici. Fatta la legge, trovano l'inganno. Fanno studiare ai loro figli tedesco, flauto traverso, equitazione, qualsiasi cosa per tenerli lontani dai negri... e quelli che ci rimettono sono i suoi figli. Comunisti maledetti. Ma verrà un giorno. Quando prenderemo il potere...
venerdì 15 gennaio 2010
Magari è stato Marx
Chi è stato?
Di fronte alle catastrofi naturali gli esseri umani seguono una procedura standard. Dopo lo shock iniziale, si razionalizza. Anche quando di razionale magari non c’è nulla. Ma ci proviamo lo stesso, perché così funziona la nostra testa: causa, effetto. Siamo programmati per chiederci il perché, anche se la domanda non ha risposta e forse nemmeno senso. Questa millenaria interrogazione a vuoto, prima di impattare negli ultimi secoli con il pensiero scientifico, ha creato mostri molto interessanti.
Il concetto di colpa, per esempio: se questo ci succede è perché abbiamo fatto qualcosa di male. Il diluvio, il rogo di Sodoma, il crollo di Babele: tutta gente che se l’era andata a cercare, se leggi bene. Anche il fatto di vivere del frutto del nostro sudore, o di partorire con dolore, sarà colpa di qualche nostro progenitore poco serio. Ecco: abbiamo interiorizzato le categorie di causa ed effetto. Ora si chiamano Colpa e Castigo, e al prossimo terremoto sapremo almeno che le vittime non erano proprio santarelline. L’uomo antico ragionava così.
E non ha mai cambiato idea, perché non si è estinto, l’Uomo Antico: è ancora in mezzo a noi. Dentro di noi. La modernità è una crosta che gli è cresciuta sottopelle, ma il cuore continua ad aver paura del buio e del fulmine. Prontissimo a dare la colpa a qualcuno o qualcosa: anche a sé stesso, in mancanza di meglio. Perché deve essere colpa di qualcuno. L’alternativa sarebbe ammettere che siamo al mondo senza un motivo, alla deriva su continenti malfermi che non sono stati creati per noi e che un giorno ci lasceranno crepare, e questo è molto duro da mandare giù. Trovare quindi un colpevole. Non è difficile, perché ogni catastrofe naturale ha il suo contorno di errori umani. Sono stati rispettati i criteri antisismici? È stato divulgato per tempo l’allarme tsunami? Non è per caso che nei pressi c’era un geniale studioso che aveva anticipato il terremoto ma lo Stato Cattivo e i Media Ufficiali non l’hanno ascoltato? Dai e dai, alla fine si riesce sempre a trovare qualcuno un po’ colpevole. E intanto è un po' passata la paura.
L’altro giorno un telepastore evangelista ha ricordato che c’è un motivo per cui gli haitiani soffrono costantemente di uragani e terremoti: un vecchio patto col diavolo, stipulato due secoli fa durante la guerra coi francesi. Ma se la storia, in questi termini, offende ancora il vostro sottile strato razionale, potete tentare col Giornale di Vittorio Feltri. Ieri infatti Nicola Porro vi proponeva questa interessante teoria: quella di Haiti sarebbe la "Catastrofe dell’anticapitalismo". Porro non arriva ad affermare che il comunismo (o qualsiasi altra teoria anticapitalista) sia in grado di tirare scosse di 7 gradi magnitudo, però… però… probabilmente 7 gradi magnitudo non avrebbero fatto lo stesso effetto in un Paese capitalista:
Mai. Il popolo haitiano, uno dei più sfortunati al mondo e della Storia, non ha mai rinnegato il capitalismo. Potremmo spingerci più in là e affermare addirittura che Haiti nasce col capitalismo, proprio nella sua fase più ruggente e globalizzata: il Commercio Triangolare. Prima Haiti era una costa tropicale, popolata da indigeni che l’economia globale del Seicento estinse rapidamente. Gli haitiani di oggi non sono un popolo autoctono: arrivarono sull’isola come merce, o se preferite forza lavoro a prezzi supervantaggiosi (un terzo moriva nel giro di pochi anni). Nel Settecento Haiti diventa una delle piantagioni meglio organizzate del mondo: un modello per le emergenti potenze coloniali. Poi gli schiavi si ribellano, è vero (ed è una storia appassionante, per chi è curioso); ma non cessano per un istante di essere inseriti nel mercato mondiale, e di creare profitto per le multinazionali dello zucchero e del caffè.
Non è capitalismo questo? Certo che lo è. E non è una versione sciatta o inefficiente del nostro: il capitalismo haitiano è lo stesso nostro capitalismo globale, visto da un’angolazione magari meno favorevole. “Noi occidentali”, scrive Porro, “abbiamo anche la consapevolezza di aver migliorato la nostra condizione, di aver costruito il nostro destino, di aver fatto un passo avanti”. Questo non lo nega nessuno. Il problema è accettare il fatto che questo passo lo abbiamo fatto calpestando qualcuno. Che il nostro benessere è fondato sullo sfruttamento: non credo sia anticapitalista dirlo. Anzi, credo che i capitalisti maturi lo sappiano benissimo (mica perdono tempo col Giornale, loro) e stiano bene così.
Almeno fino alla prossima scossa, alla prossima crepa nella scorza moderna e razionale, al prossimo interrogatorio al cospetto della nostra coscienza di antichi. Coi quali non c'è sismologia né tettonica a placche che tenga: gli Antichi sanno di aver fatto qualcosa di male. E non è poi detto che sbaglino.
Di fronte alle catastrofi naturali gli esseri umani seguono una procedura standard. Dopo lo shock iniziale, si razionalizza. Anche quando di razionale magari non c’è nulla. Ma ci proviamo lo stesso, perché così funziona la nostra testa: causa, effetto. Siamo programmati per chiederci il perché, anche se la domanda non ha risposta e forse nemmeno senso. Questa millenaria interrogazione a vuoto, prima di impattare negli ultimi secoli con il pensiero scientifico, ha creato mostri molto interessanti.
Il concetto di colpa, per esempio: se questo ci succede è perché abbiamo fatto qualcosa di male. Il diluvio, il rogo di Sodoma, il crollo di Babele: tutta gente che se l’era andata a cercare, se leggi bene. Anche il fatto di vivere del frutto del nostro sudore, o di partorire con dolore, sarà colpa di qualche nostro progenitore poco serio. Ecco: abbiamo interiorizzato le categorie di causa ed effetto. Ora si chiamano Colpa e Castigo, e al prossimo terremoto sapremo almeno che le vittime non erano proprio santarelline. L’uomo antico ragionava così.
E non ha mai cambiato idea, perché non si è estinto, l’Uomo Antico: è ancora in mezzo a noi. Dentro di noi. La modernità è una crosta che gli è cresciuta sottopelle, ma il cuore continua ad aver paura del buio e del fulmine. Prontissimo a dare la colpa a qualcuno o qualcosa: anche a sé stesso, in mancanza di meglio. Perché deve essere colpa di qualcuno. L’alternativa sarebbe ammettere che siamo al mondo senza un motivo, alla deriva su continenti malfermi che non sono stati creati per noi e che un giorno ci lasceranno crepare, e questo è molto duro da mandare giù. Trovare quindi un colpevole. Non è difficile, perché ogni catastrofe naturale ha il suo contorno di errori umani. Sono stati rispettati i criteri antisismici? È stato divulgato per tempo l’allarme tsunami? Non è per caso che nei pressi c’era un geniale studioso che aveva anticipato il terremoto ma lo Stato Cattivo e i Media Ufficiali non l’hanno ascoltato? Dai e dai, alla fine si riesce sempre a trovare qualcuno un po’ colpevole. E intanto è un po' passata la paura.
L’altro giorno un telepastore evangelista ha ricordato che c’è un motivo per cui gli haitiani soffrono costantemente di uragani e terremoti: un vecchio patto col diavolo, stipulato due secoli fa durante la guerra coi francesi. Ma se la storia, in questi termini, offende ancora il vostro sottile strato razionale, potete tentare col Giornale di Vittorio Feltri. Ieri infatti Nicola Porro vi proponeva questa interessante teoria: quella di Haiti sarebbe la "Catastrofe dell’anticapitalismo". Porro non arriva ad affermare che il comunismo (o qualsiasi altra teoria anticapitalista) sia in grado di tirare scosse di 7 gradi magnitudo, però… però… probabilmente 7 gradi magnitudo non avrebbero fatto lo stesso effetto in un Paese capitalista:
Eppure quei numeri ci dicono anche che i diversi modelli di sviluppo sociale che gli uomini adottano hanno un peso nel contrastare la forza della natura. Il dramma di una regione in cui l’aspettativa di vita è di 50 anni contro i quasi 80 dei Paesi sviluppati si riflette nelle immagini tragiche del terremoto dell’altro giorno. Un bambino su due (la percentuale è ancora peggiore e si attesta al 57 per cento) muore in fasce; solo metà della popolazione sa scrivere o ha accesso all’acqua potabile: il Paese è tra i più poveri al mondo e tra i meno attrezzati a resistere a qualsiasi calamità. [Ancora una volta grazie a Mazzetta].Vedete? Tutto risolto, è Colpa degli uomini che hanno adottato il modello di sviluppo sociale sbagliato. Basta dirlo, e passa la paura. Poveri haitiani, sì, però… la prossima volta ci pensino bene, al modello sociale da adottare. Senza bisogno di scomodare patti con Satana, perché noi non siamo fanatici oscurantisti. Noi abbiamo studiato Storia ed economia, quindi si tratta di un più prosaico patto con… Lenin? Fidel Castro? Di che anticapitalismo stiamo parlando, esattamente? L’ultimo regime haitiano è stato sostenuto dagli USA. Anche il penultimo a dire il vero. Quand’è stato esattamente che gli haitiani hanno firmato il loro subdolo patto con Marx?
Mai. Il popolo haitiano, uno dei più sfortunati al mondo e della Storia, non ha mai rinnegato il capitalismo. Potremmo spingerci più in là e affermare addirittura che Haiti nasce col capitalismo, proprio nella sua fase più ruggente e globalizzata: il Commercio Triangolare. Prima Haiti era una costa tropicale, popolata da indigeni che l’economia globale del Seicento estinse rapidamente. Gli haitiani di oggi non sono un popolo autoctono: arrivarono sull’isola come merce, o se preferite forza lavoro a prezzi supervantaggiosi (un terzo moriva nel giro di pochi anni). Nel Settecento Haiti diventa una delle piantagioni meglio organizzate del mondo: un modello per le emergenti potenze coloniali. Poi gli schiavi si ribellano, è vero (ed è una storia appassionante, per chi è curioso); ma non cessano per un istante di essere inseriti nel mercato mondiale, e di creare profitto per le multinazionali dello zucchero e del caffè.
Non è capitalismo questo? Certo che lo è. E non è una versione sciatta o inefficiente del nostro: il capitalismo haitiano è lo stesso nostro capitalismo globale, visto da un’angolazione magari meno favorevole. “Noi occidentali”, scrive Porro, “abbiamo anche la consapevolezza di aver migliorato la nostra condizione, di aver costruito il nostro destino, di aver fatto un passo avanti”. Questo non lo nega nessuno. Il problema è accettare il fatto che questo passo lo abbiamo fatto calpestando qualcuno. Che il nostro benessere è fondato sullo sfruttamento: non credo sia anticapitalista dirlo. Anzi, credo che i capitalisti maturi lo sappiano benissimo (mica perdono tempo col Giornale, loro) e stiano bene così.
Almeno fino alla prossima scossa, alla prossima crepa nella scorza moderna e razionale, al prossimo interrogatorio al cospetto della nostra coscienza di antichi. Coi quali non c'è sismologia né tettonica a placche che tenga: gli Antichi sanno di aver fatto qualcosa di male. E non è poi detto che sbaglino.
mercoledì 13 gennaio 2010
Il 30% di boh
Integratevi (è un ordine)
È andata: dall’anno prossimo nelle prime classi delle scuole italiane “di ogni ordine e grado” gli studenti stranieri non potranno essere più del 30% del totale. E già qualcuno comincia a gridare all’Apartheid - ehi, piano.
Un esempio lo fornisce il pur ottimo Gilioli, quando si chiede se il piccolo Naresh dovrà lasciare i suoi compagnucci di terza elementare. Ma no, basta leggere. I tetti verranno applicati soltanto nelle classi che devono essere ancora formate (prime elementari, prime medie, prime superiori): Naresh potrà continuare il suo percorso scolastico e gli auguro che sia di qualità.
A tutti quelli che non vogliono perdere l’occasione di scomodare le leggi razziali, ricordo che stiamo parlando di una proposta Gelmini, cioè di una cosa, per definizione, non seria. Avete presente come risolve i problemi la Gelmini? Un rapido riassunto: un anno fa gli studenti davano molti problemi disciplinari. Non rispettavano né le regole né gli insegnanti, picchiavano i loro compagni disabili e mettevano le foto su youtube (questa cosa in particolare fece scalpore, i filmini su youtube). Allora la Gelmini risolse il problema. Come? Inventando una cosa che prima non c’era: il “voto di condotta”. Prima si chiamava “valutazione del comportamento” e non funzionava: adesso invece si chiama “voto”, quindi funziona. Questo è un esempio di come risolve i problemi la Gelmini.
Un altro problema molto dibattuto era il rendimento. I nostri studenti non imparano più niente. Intervenne la Gelmini, con un’idea geniale: reintrodurre nella scuola dell'obbligo i voti numerici. Stabilendo così un discrimine insormontabile tra la scuola sessantottina che promuoveva tutti quelli che avevano una media superiore al “sufficiente” e l’inflessibile scuola gelminiana che falcia senza pietà tutti quelli che hanno una media inferiore al “6”. Un altro problema risolto.
E gli stranieri? Pare che siano troppi, e che tendano a iscriversi tutti nelle stesse classi, formando perniciosissime “classi ghetto”. Come ha risolto il problema la Gelmini? Anche qui, la sua implacabile falce non si è fatta pregare, e si è abbattuta su… su cosa? Una quota del 30% di stranieri? Perché secondo voi in Italia c’è uno studente straniero ogni due italiani? A meno che non siate affezionati lettori di Giornale e Padania, sapete benissimo che la quota di stranieri non è così alta da nessuna parte in Italia – tranne forse in qualche bassifondo metropolitano. Forse anche qualche paesino montano abbandonato dai nativi e ripopolato dagli stranieri (ce ne sono a nord come a sud). Quindi, se cambierà qualcosa, cambierà soltanto in quei casi.
Ma persino in quei casi, c’è un trucco. Molti di quei bambini stranieri in realtà sono nati in Italia, da genitori stranieri. Siccome non basta nascere su suolo italiano per ottenere la cittadinanza, costoro risultano all’anagrafe stranieri anche se sono qui da sei, undici, diciotto anni. Ed è brutto da dire, ma in tanti casi lo sono davvero. Perché non basta nascere in Italia, se cresci in una famiglia dove l’italiano non si parla o si parla male, la tv via sat manda solo film di Bollywood non sottotitolati, i tuoi amici sono tutti cinesi, eccetera eccetera eccetera.
A questo proposito, la Gelmini non ha perso l’occasione per confermarsi Gelmini, ovvero: nel giro di tre giorni ha già affermato una cosa e poi l’ha rimangiata. Prima ha detto ‘tetto del 30% per gli alunni stranieri’ (e giù titoloni in prima pagina), poi ha precisato ‘Esclusi dal tetto delle classi gli stranieri che sono nati in Italia’ (titoletto nelle brevi). Che differenza c’è? Per me, tutta la differenza del mondo. Le classi in cui insegno oggi sforano allegramente il 30% di stranieri. E non sono classi semplici, per inciso. Ma se conti soltanto quelli nati all’estero… ecco che rientra tutto nella norma. Fine del problema, anzi, quale problema? Se sono nati in un ospedale italiano sono perfettamente integrati, no? Le infermiere li avranno immediatamente attaccati al biberon della lingua italiana. I genitori avranno deciso di parlare soltanto italiano in casa per aiutarli a integrarsi meglio. Del resto gli stranieri della seconda generazione, si sa, sono quelli che si integrano più facilmente… (NB: STO SCHERZANDO. Gli stranieri della seconda generazione sono quelli che più faticano a integrarsi in generale. C’è una letteratura scientifica enorme sul problema. La generazione che la Gelmini non considera è quella che in Francia ogni tanto mette a ferro a fuoco la banlieue: forse perché li hanno integrati troppo, ragazzacci viziati).
Insomma, sul piano pratico, cosa succederà? In alcune aree metropolitane i presidi si scambieranno un po’ di iscrizioni alla prima classe, onde evitare i “ghetti”. Il che è relativamente facile, ora che sappiamo cos’è un “ghetto” per la Gelmini. Un “ghetto” è una classe con più di uno straniero su tre. Siccome si va verso una media di trenta studenti per classe, se undici sono nati all’estero, è ghetto. Se sono solo dieci su trenta, no, non è ghetto. Se dieci sono nati all’estero e altri venti sono bengalesi nati in un ospedale italiano, tutto ok! Probabilmente si sente fragranza di curry da tre isolati, ma per la Gelmini non è un ghetto.
Non so se vi rendete conto della portata di questa riforma. Da decenni in tutta Europa sociologi, pedagoghi e quant’altro si dedicano al problema dell’integrazione nelle scuole multietniche. Poi arriva il ministro Gelmini, e in poche ore risolve il problema: per legge. Da qui in poi se sei nato in Italia sei integrato. Fine. Il tuo compagno nato a Mumbai che vive qui da tredici anni e non sa parlare l’hindi potrebbe porre dei problemi d’integrazione, e quindi rientra in una quota stranieri: tu no, anche se vivi in un sotterraneo con la tua famiglia di cucitori cinesi e in otto anni di scuola dell’obbligo non hai ancora imparato a formulare una frase in italiano. Però sei dei nostri! Ce l’hai scritto sulla carta d’identità: nato in Italia! Come? No, non è valida per l’espatrio. Perché non sei cittadino. Sei dei nostri solo quando ci fa comodo. Per esempio, quando dobbiamo dimostrare all’Elettore Leghista Medio (d’ora in poi ELMO, per comodità) che gli abbiamo risolto un problema.
Quando poi Elmo si renderà conto che l’abbiamo fregato… quando suo figlio si ritroverà nella classe odorosa di curry di cui sopra… beh, probabilmente darà la colpa alla sinistra. Alla sua politica dell’accoglienza indiscriminata. Hanno rovinato questo Paese, maledetti.
È andata: dall’anno prossimo nelle prime classi delle scuole italiane “di ogni ordine e grado” gli studenti stranieri non potranno essere più del 30% del totale. E già qualcuno comincia a gridare all’Apartheid - ehi, piano.
Un esempio lo fornisce il pur ottimo Gilioli, quando si chiede se il piccolo Naresh dovrà lasciare i suoi compagnucci di terza elementare. Ma no, basta leggere. I tetti verranno applicati soltanto nelle classi che devono essere ancora formate (prime elementari, prime medie, prime superiori): Naresh potrà continuare il suo percorso scolastico e gli auguro che sia di qualità.
A tutti quelli che non vogliono perdere l’occasione di scomodare le leggi razziali, ricordo che stiamo parlando di una proposta Gelmini, cioè di una cosa, per definizione, non seria. Avete presente come risolve i problemi la Gelmini? Un rapido riassunto: un anno fa gli studenti davano molti problemi disciplinari. Non rispettavano né le regole né gli insegnanti, picchiavano i loro compagni disabili e mettevano le foto su youtube (questa cosa in particolare fece scalpore, i filmini su youtube). Allora la Gelmini risolse il problema. Come? Inventando una cosa che prima non c’era: il “voto di condotta”. Prima si chiamava “valutazione del comportamento” e non funzionava: adesso invece si chiama “voto”, quindi funziona. Questo è un esempio di come risolve i problemi la Gelmini.
Un altro problema molto dibattuto era il rendimento. I nostri studenti non imparano più niente. Intervenne la Gelmini, con un’idea geniale: reintrodurre nella scuola dell'obbligo i voti numerici. Stabilendo così un discrimine insormontabile tra la scuola sessantottina che promuoveva tutti quelli che avevano una media superiore al “sufficiente” e l’inflessibile scuola gelminiana che falcia senza pietà tutti quelli che hanno una media inferiore al “6”. Un altro problema risolto.
E gli stranieri? Pare che siano troppi, e che tendano a iscriversi tutti nelle stesse classi, formando perniciosissime “classi ghetto”. Come ha risolto il problema la Gelmini? Anche qui, la sua implacabile falce non si è fatta pregare, e si è abbattuta su… su cosa? Una quota del 30% di stranieri? Perché secondo voi in Italia c’è uno studente straniero ogni due italiani? A meno che non siate affezionati lettori di Giornale e Padania, sapete benissimo che la quota di stranieri non è così alta da nessuna parte in Italia – tranne forse in qualche bassifondo metropolitano. Forse anche qualche paesino montano abbandonato dai nativi e ripopolato dagli stranieri (ce ne sono a nord come a sud). Quindi, se cambierà qualcosa, cambierà soltanto in quei casi.
Ma persino in quei casi, c’è un trucco. Molti di quei bambini stranieri in realtà sono nati in Italia, da genitori stranieri. Siccome non basta nascere su suolo italiano per ottenere la cittadinanza, costoro risultano all’anagrafe stranieri anche se sono qui da sei, undici, diciotto anni. Ed è brutto da dire, ma in tanti casi lo sono davvero. Perché non basta nascere in Italia, se cresci in una famiglia dove l’italiano non si parla o si parla male, la tv via sat manda solo film di Bollywood non sottotitolati, i tuoi amici sono tutti cinesi, eccetera eccetera eccetera.
A questo proposito, la Gelmini non ha perso l’occasione per confermarsi Gelmini, ovvero: nel giro di tre giorni ha già affermato una cosa e poi l’ha rimangiata. Prima ha detto ‘tetto del 30% per gli alunni stranieri’ (e giù titoloni in prima pagina), poi ha precisato ‘Esclusi dal tetto delle classi gli stranieri che sono nati in Italia’ (titoletto nelle brevi). Che differenza c’è? Per me, tutta la differenza del mondo. Le classi in cui insegno oggi sforano allegramente il 30% di stranieri. E non sono classi semplici, per inciso. Ma se conti soltanto quelli nati all’estero… ecco che rientra tutto nella norma. Fine del problema, anzi, quale problema? Se sono nati in un ospedale italiano sono perfettamente integrati, no? Le infermiere li avranno immediatamente attaccati al biberon della lingua italiana. I genitori avranno deciso di parlare soltanto italiano in casa per aiutarli a integrarsi meglio. Del resto gli stranieri della seconda generazione, si sa, sono quelli che si integrano più facilmente… (NB: STO SCHERZANDO. Gli stranieri della seconda generazione sono quelli che più faticano a integrarsi in generale. C’è una letteratura scientifica enorme sul problema. La generazione che la Gelmini non considera è quella che in Francia ogni tanto mette a ferro a fuoco la banlieue: forse perché li hanno integrati troppo, ragazzacci viziati).
Insomma, sul piano pratico, cosa succederà? In alcune aree metropolitane i presidi si scambieranno un po’ di iscrizioni alla prima classe, onde evitare i “ghetti”. Il che è relativamente facile, ora che sappiamo cos’è un “ghetto” per la Gelmini. Un “ghetto” è una classe con più di uno straniero su tre. Siccome si va verso una media di trenta studenti per classe, se undici sono nati all’estero, è ghetto. Se sono solo dieci su trenta, no, non è ghetto. Se dieci sono nati all’estero e altri venti sono bengalesi nati in un ospedale italiano, tutto ok! Probabilmente si sente fragranza di curry da tre isolati, ma per la Gelmini non è un ghetto.
Non so se vi rendete conto della portata di questa riforma. Da decenni in tutta Europa sociologi, pedagoghi e quant’altro si dedicano al problema dell’integrazione nelle scuole multietniche. Poi arriva il ministro Gelmini, e in poche ore risolve il problema: per legge. Da qui in poi se sei nato in Italia sei integrato. Fine. Il tuo compagno nato a Mumbai che vive qui da tredici anni e non sa parlare l’hindi potrebbe porre dei problemi d’integrazione, e quindi rientra in una quota stranieri: tu no, anche se vivi in un sotterraneo con la tua famiglia di cucitori cinesi e in otto anni di scuola dell’obbligo non hai ancora imparato a formulare una frase in italiano. Però sei dei nostri! Ce l’hai scritto sulla carta d’identità: nato in Italia! Come? No, non è valida per l’espatrio. Perché non sei cittadino. Sei dei nostri solo quando ci fa comodo. Per esempio, quando dobbiamo dimostrare all’Elettore Leghista Medio (d’ora in poi ELMO, per comodità) che gli abbiamo risolto un problema.
Quando poi Elmo si renderà conto che l’abbiamo fregato… quando suo figlio si ritroverà nella classe odorosa di curry di cui sopra… beh, probabilmente darà la colpa alla sinistra. Alla sua politica dell’accoglienza indiscriminata. Hanno rovinato questo Paese, maledetti.
lunedì 11 gennaio 2010
Ho una teoria #5
Rassegnamoci: è passata anche la Befana, e ha spazzato via le feste. Mentre mettiamo via gli addobbi e le statuine del presepe, ci resta una consolazione: anche quest'anno, abbiamo fatto quello che potevamo fare per salvare la nostra civiltà. Ma sarà bastato? (Continua sull'Unità on line). (Potete commentarlo lì).
di Leonardo Tondelli - Rassegnamoci: è passata anche la Befana, e ha spazzato via le feste. Mentre mettiamo via gli addobbi e le statuine del presepe, ci resta una consolazione: anche quest'anno, abbiamo fatto quello che potevamo fare per salvare la nostra civiltà. Ma sarà bastato?
Poche tradizioni natalizie ci sono care come il presepe. Forse perché ci fa tornare bambini, ai tempi meravigliosi in cui tutto era nuovo, e mamma e papà ci aiutavano a collocare Bue e Asinello accanto alla mangiatoia. Ora magari tocca a noi insegnarlo ai nostri figli, ed è una cosa che scalda il cuore. In più, è anche una delle poche tradizioni che possa vantare un pedigree 100% italiano. Non importa che la scena sia ambientata in Palestina e i protagonisti siano medio-orientali: qualcuno può avere inventato gli spaghetti prima di noi, e magari innalzato una torre più pendente della nostra, ma il presepe è sicuramente nato in Italia, nel secolo XIII. Lo dicono gli storici, e guai a chi ce lo tocca.
Negli ultimi anni però – anche a causa di questa origine doc – il presepe è diventato qualcosa di più di una bella tradizione: addirittura il simbolo di una civiltà che appare più in pericolo, assediata com'è da minacciosi stranieri. Fanno sempre più rumore gli istituti scolastici in cui qualche insegnante o preside decide di lasciar perdere Bue, Asinello e mangiatoia. Queste scuole non è che siano poi tante; e forse avrebbero altri problemi di cui varrebbe la pena di parlare (organici insufficienti, aule non a norma, le solite cose)... però è un presepe mancato che rischia di mandarle in prima pagina.
A lamentarsi per i presepi mancati non sono più quattro leghisti al bar, ma uomini di cultura: opinionisti prestigiosi, come Angelo Panebianco. Vale la pena di segnalare il suo coraggioso atto di accusa, comparso sul Corriere della Sera giovedì. A poche ore dallo scoppio della rivolta di Rosarno, con chi se la prendeva Panebianco? Con la malavita organizzata che sfrutta i braccianti? Con gli abitanti locali che tirano ai “negri” con fucili ad aria compressa? Col racket dell'immigrazione clandestina? No: con quegli educatori (“diseducatori” preferisce chiamarli) che non fanno più il presepe a scuola. Proprio così. I “futuri, probabilmente feroci scontri di civiltà” che ci attendono, non scoppieranno a causa dello sfruttamento della manodopera immigrata, vecchia causa demodé. Non perché, per tener bassi i prezzi di arance e pomodori, abbiamo fatto dormire i braccianti in baracche infestate dai topi, pagandoli venti euro per quattordici ore di lavoro quotidiano. No: gli scontri esploderanno perché siamo stati troppo tolleranti, come dice il ministro Maroni. Non abbiamo insegnato ai loro figli a mettere Bue e Asinello ai fianchi della mangiatoia. Naturale che poi crescano sprezzanti verso la nostra civiltà.
Colpa degli educatori, dunque? Sì, ma non soltanto. Panebianco non si tira indietro, e nel suo atto di accusa include anche quelli che il presepe lo hanno inventato: i religiosi. E che invece di difenderlo a spada tratta si sono dati all'accoglienza. Questi preti, lamenta Panebianco, “troppo accoglienti”, contagiati dal morbo del politicamente corretto... In effetti che razza di cristiani sono questi che invece di preoccuparsi di collocare correttamente il Bue e l'Asinello si sono messi in testa di sfamare gli affamati, soccorrere i bisognosi, alloggiare gli sfitti?
Cristiani che seguono il Vangelo, potremmo rispondergli. Un libro più citato che letto (come tutti i libri, del resto, in Italia). Anche per questo motivo, ottocento anni fa, un geniale religioso ebbe l'idea di trasformare una pagina di Vangelo in una rappresentazione vivente: affinché fosse comprensibile per quegli analfabeti che allora erano la stragrande maggioranza (e oggi dovrebbero essere un po' meno). Era una pagina che raccontava di una famiglia costretta a un viaggio difficile e a un alloggio di fortuna: ma proprio in quella famiglia, e in quelle condizioni così disagevoli, Dio sceglieva di farsi vivo. Di incarnarsi, in un bambino deposto in una mangiatoia, o praesepe. Da quella rappresentazione sacra, concepita nel 1223 da Francesco d'Assisi, deriva il nostro presepe: sì, proprio quello da cui, secondo Panebianco, dipende il futuro della nostra cultura. Prima di essere una tradizione, era una lezione sull'ospitalità: sulla possibilità di trovare Dio nelle persone più umili, nelle condizioni più difficili. Può darsi che l'ospitalità dei religiosi non sia la risposta più razionale al problema: del resto non è ai religiosi che si chiedono le risposte razionali. Da loro si pretende che mettano in pratica il Vangelo: proprio a partire da quella pagina famosa che ispirò il Presepe. O no?
Ho una teoria. A Panebianco il presepe non interessa in quanto pagina di Vangelo, lezione sull'ospitalità, eccetera. Quello che lui riesce a vedere del presepe è la stessa superficie che ci ammaliava da bambini: le statuette dipinte, il Bue, l'Asinello. Che dietro alle statuette ci fossero degli insegnamenti da mettere in pratica è cosa che probabilmente da bambino gli è sfuggita – e adesso è un po' tardi. Ottocento anni fa il presepe era un'innovazione, un modo di trasformare una pagina illeggibile in una scena reale, visibile, realizzabile. Ottocento anni dopo a Panebianco il Presepe interessa solo in quanto tradizione, statuetta dipinta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, perché rimanda solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo, però, se ci toccano le statuette dipinte.
di Leonardo Tondelli - Rassegnamoci: è passata anche la Befana, e ha spazzato via le feste. Mentre mettiamo via gli addobbi e le statuine del presepe, ci resta una consolazione: anche quest'anno, abbiamo fatto quello che potevamo fare per salvare la nostra civiltà. Ma sarà bastato?
Poche tradizioni natalizie ci sono care come il presepe. Forse perché ci fa tornare bambini, ai tempi meravigliosi in cui tutto era nuovo, e mamma e papà ci aiutavano a collocare Bue e Asinello accanto alla mangiatoia. Ora magari tocca a noi insegnarlo ai nostri figli, ed è una cosa che scalda il cuore. In più, è anche una delle poche tradizioni che possa vantare un pedigree 100% italiano. Non importa che la scena sia ambientata in Palestina e i protagonisti siano medio-orientali: qualcuno può avere inventato gli spaghetti prima di noi, e magari innalzato una torre più pendente della nostra, ma il presepe è sicuramente nato in Italia, nel secolo XIII. Lo dicono gli storici, e guai a chi ce lo tocca.
Negli ultimi anni però – anche a causa di questa origine doc – il presepe è diventato qualcosa di più di una bella tradizione: addirittura il simbolo di una civiltà che appare più in pericolo, assediata com'è da minacciosi stranieri. Fanno sempre più rumore gli istituti scolastici in cui qualche insegnante o preside decide di lasciar perdere Bue, Asinello e mangiatoia. Queste scuole non è che siano poi tante; e forse avrebbero altri problemi di cui varrebbe la pena di parlare (organici insufficienti, aule non a norma, le solite cose)... però è un presepe mancato che rischia di mandarle in prima pagina.
A lamentarsi per i presepi mancati non sono più quattro leghisti al bar, ma uomini di cultura: opinionisti prestigiosi, come Angelo Panebianco. Vale la pena di segnalare il suo coraggioso atto di accusa, comparso sul Corriere della Sera giovedì. A poche ore dallo scoppio della rivolta di Rosarno, con chi se la prendeva Panebianco? Con la malavita organizzata che sfrutta i braccianti? Con gli abitanti locali che tirano ai “negri” con fucili ad aria compressa? Col racket dell'immigrazione clandestina? No: con quegli educatori (“diseducatori” preferisce chiamarli) che non fanno più il presepe a scuola. Proprio così. I “futuri, probabilmente feroci scontri di civiltà” che ci attendono, non scoppieranno a causa dello sfruttamento della manodopera immigrata, vecchia causa demodé. Non perché, per tener bassi i prezzi di arance e pomodori, abbiamo fatto dormire i braccianti in baracche infestate dai topi, pagandoli venti euro per quattordici ore di lavoro quotidiano. No: gli scontri esploderanno perché siamo stati troppo tolleranti, come dice il ministro Maroni. Non abbiamo insegnato ai loro figli a mettere Bue e Asinello ai fianchi della mangiatoia. Naturale che poi crescano sprezzanti verso la nostra civiltà.
Colpa degli educatori, dunque? Sì, ma non soltanto. Panebianco non si tira indietro, e nel suo atto di accusa include anche quelli che il presepe lo hanno inventato: i religiosi. E che invece di difenderlo a spada tratta si sono dati all'accoglienza. Questi preti, lamenta Panebianco, “troppo accoglienti”, contagiati dal morbo del politicamente corretto... In effetti che razza di cristiani sono questi che invece di preoccuparsi di collocare correttamente il Bue e l'Asinello si sono messi in testa di sfamare gli affamati, soccorrere i bisognosi, alloggiare gli sfitti?
Cristiani che seguono il Vangelo, potremmo rispondergli. Un libro più citato che letto (come tutti i libri, del resto, in Italia). Anche per questo motivo, ottocento anni fa, un geniale religioso ebbe l'idea di trasformare una pagina di Vangelo in una rappresentazione vivente: affinché fosse comprensibile per quegli analfabeti che allora erano la stragrande maggioranza (e oggi dovrebbero essere un po' meno). Era una pagina che raccontava di una famiglia costretta a un viaggio difficile e a un alloggio di fortuna: ma proprio in quella famiglia, e in quelle condizioni così disagevoli, Dio sceglieva di farsi vivo. Di incarnarsi, in un bambino deposto in una mangiatoia, o praesepe. Da quella rappresentazione sacra, concepita nel 1223 da Francesco d'Assisi, deriva il nostro presepe: sì, proprio quello da cui, secondo Panebianco, dipende il futuro della nostra cultura. Prima di essere una tradizione, era una lezione sull'ospitalità: sulla possibilità di trovare Dio nelle persone più umili, nelle condizioni più difficili. Può darsi che l'ospitalità dei religiosi non sia la risposta più razionale al problema: del resto non è ai religiosi che si chiedono le risposte razionali. Da loro si pretende che mettano in pratica il Vangelo: proprio a partire da quella pagina famosa che ispirò il Presepe. O no?
Ho una teoria. A Panebianco il presepe non interessa in quanto pagina di Vangelo, lezione sull'ospitalità, eccetera. Quello che lui riesce a vedere del presepe è la stessa superficie che ci ammaliava da bambini: le statuette dipinte, il Bue, l'Asinello. Che dietro alle statuette ci fossero degli insegnamenti da mettere in pratica è cosa che probabilmente da bambino gli è sfuggita – e adesso è un po' tardi. Ottocento anni fa il presepe era un'innovazione, un modo di trasformare una pagina illeggibile in una scena reale, visibile, realizzabile. Ottocento anni dopo a Panebianco il Presepe interessa solo in quanto tradizione, statuetta dipinta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, perché rimanda solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo, però, se ci toccano le statuette dipinte.
sabato 9 gennaio 2010
Identità è una statuetta pitturata
Presepi viventi, presepi morti
Una cosa che non ho ancora capito, malgrado il meritevole sforzo dei giornalisti accorsi a Rosarno, è se questi immigrati clandestini, che raccolgono pomodori a venti euro la giornata, dormendo su giacigli di cartone in compagnia dei topi, e ogni tanto si prendono pure qualche pistolettata dai locali... dicevo: una cosa che non ho capito è se siano musulmani o no.
Ed è strano, perché fino a ieri mattina sembrava l’unica cosa importante, quando si parlava di stranieri in Italia. Qual è il motivo per cui non si integrano? Forse perché vengono pagati una miseria? No. Perché vivono in condizioni disumane? Macché. Il motivo per cui non si integrano – almeno a sentire i più prestigiosi corsivisti del Corriere – non ha niente a che vedere con queste banali condizioni materiali. È un motivo ben più alto, spirituale. Insomma, è Allah. Tant’è vero che, come dice Sartori, solo i musulmani rifiutano di integrarsi.
Gli altri si integrano benissimo, no? Prendi i cinesi. Chi di voi non ha un amico cinese. Son così simpatici i cinesi, e si sono integrati così bene. Quel loro modo così occidentale di comprare rustici in campagna, chiuderci dentro una ventina di cottimisti e farli lavorare giorno e notte… in fin dei conti è anche quello un modo per integrarsi, no? Perché alla fine dei conti quelli che gli danno le commesse sono imprenditori italiani, no? E i rustici, in campagna, o i garage in via Sarpi, chi glieli vende?
Ma il musulmano non fa così. Il musulmano ha delle brutte abitudini. La preghiera del venerdì. Il Ramadan. Vade retro. Sono tutte manifestazioni del suo rifiuto ad integrarsi. Ed è per quello che protesta.
Non vuole garanzie, non vuole diritti, no, lui vuole di più. Il musulmano vuole attentare alle nostre radici, punto e basta. Lo scriveva anche ieri Panebianco. I neri di Rosarno non avevano ancora smesso di prendersi le pistolettate, e Panebianco sul Corriere aveva già individuato i responsabili. Sapete di chi è colpa se c’è una rivolta a Rosarno? Non ci credereste mai, sono gli intellettali liberal, “(e cioè politicamente corretti)”. Siamo noi che li abbiamo invitati qui. O credevate che fuggissero da una carestia mondiale, seguendo inconsapevolmente, in quanto offerta di manodopera a basso costo, un principio del libero mercato?
No, probabilmente essi vivevano beati nei loro tucul africani finché noi intellettuali liberal “(e cioè politicamente corretti”) abbiamo bombardato i loro pacifici villaggi con copie gratuite di Micromega. Costringendoli a venire qui. In cerca di condizioni migliori? No. Quello che veramente li ha spinti sulle nostre belle spiagge è il desiderio di toglierci le nostre belle tradizioni, a cominciare, indovinate… dalle statuine del presepe.
Proprio così. Il giorno che ricorderemo come l’inizio della rivolta di Rosarno, Panebianco dedica un capoverso del suo atto di accusa a quelle scuole (cinque? Sei? Fossero anche una dozzina?) che per risibili questioni di integrazione non hanno fatto il presepe. Altro che topi nelle baracche: il presepe. È quello il problema, secondo Panebianco.
Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà.
Voi capite, il bimbo musulmano che non fa il presepe comincia a pensare “ehi, non lo fanno per rispetto a me, che mammolette! Non vedo l’ora di crescere e chiedere l’abolizione degli spaghetti! Oggi il presepe, domani il festival di Sanremo!” Ecco, nel cervello di Panebianco (e dei suoi lettori) il futuro probabilmente feroce scontro di civiltà scoppierà così. Non saranno neri derelitti che escono dalle loro tane puzzolenti e chiedono di essere rispettati per il lavoro che fanno: no, saranno adolescenti arroganti perché da bambini non li abbiamo esposti alla miniatura di Bue, Asinello e Bambino Gesù.
E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.
Già, chissà cosa raccontano. No, sul serio, cosa raccontano? Che la polenta è un cibo demoniaco? Che la pizza in realtà è un’invenzione africana? Che il campionato italiano di calcio ultimamente è una palla tremenda? Sia come sia, quello che succede a Rosarno è anche colpa loro. Ovvero, nostra. Insomma, mia. Soltanto mia? Eh, no, troppo facile. Panebianco, sapete, non è uno che si nasconde: e ha il coraggio (notevole, diciamo, per un corsivista del Corriere) di prendersela con una categoria molto meno toccabile: i preti.
Questi preti che invece di pensare alle tradizionali statuette, si dedicano all’accoglienza del loro prossimo. Questi preti che sfamano chi è affamato, dissetano chi è assetato, alloggiano chi è sfitto, curano chi è malato, ma che razza di cristiani sono? Pensassero di più a collocare il Bue e l’Asinello e meno alla cura di ‘sti maledetti samaritani a venti euro la giornata, che tolgono lavoro agli schiavi italiani.
Una cosa che non ho ancora capito, malgrado il meritevole sforzo dei giornalisti accorsi a Rosarno, è se questi immigrati clandestini, che raccolgono pomodori a venti euro la giornata, dormendo su giacigli di cartone in compagnia dei topi, e ogni tanto si prendono pure qualche pistolettata dai locali... dicevo: una cosa che non ho capito è se siano musulmani o no.
Ed è strano, perché fino a ieri mattina sembrava l’unica cosa importante, quando si parlava di stranieri in Italia. Qual è il motivo per cui non si integrano? Forse perché vengono pagati una miseria? No. Perché vivono in condizioni disumane? Macché. Il motivo per cui non si integrano – almeno a sentire i più prestigiosi corsivisti del Corriere – non ha niente a che vedere con queste banali condizioni materiali. È un motivo ben più alto, spirituale. Insomma, è Allah. Tant’è vero che, come dice Sartori, solo i musulmani rifiutano di integrarsi.
Gli altri si integrano benissimo, no? Prendi i cinesi. Chi di voi non ha un amico cinese. Son così simpatici i cinesi, e si sono integrati così bene. Quel loro modo così occidentale di comprare rustici in campagna, chiuderci dentro una ventina di cottimisti e farli lavorare giorno e notte… in fin dei conti è anche quello un modo per integrarsi, no? Perché alla fine dei conti quelli che gli danno le commesse sono imprenditori italiani, no? E i rustici, in campagna, o i garage in via Sarpi, chi glieli vende?
Ma il musulmano non fa così. Il musulmano ha delle brutte abitudini. La preghiera del venerdì. Il Ramadan. Vade retro. Sono tutte manifestazioni del suo rifiuto ad integrarsi. Ed è per quello che protesta.
Non vuole garanzie, non vuole diritti, no, lui vuole di più. Il musulmano vuole attentare alle nostre radici, punto e basta. Lo scriveva anche ieri Panebianco. I neri di Rosarno non avevano ancora smesso di prendersi le pistolettate, e Panebianco sul Corriere aveva già individuato i responsabili. Sapete di chi è colpa se c’è una rivolta a Rosarno? Non ci credereste mai, sono gli intellettali liberal, “(e cioè politicamente corretti)”. Siamo noi che li abbiamo invitati qui. O credevate che fuggissero da una carestia mondiale, seguendo inconsapevolmente, in quanto offerta di manodopera a basso costo, un principio del libero mercato?
No, probabilmente essi vivevano beati nei loro tucul africani finché noi intellettuali liberal “(e cioè politicamente corretti”) abbiamo bombardato i loro pacifici villaggi con copie gratuite di Micromega. Costringendoli a venire qui. In cerca di condizioni migliori? No. Quello che veramente li ha spinti sulle nostre belle spiagge è il desiderio di toglierci le nostre belle tradizioni, a cominciare, indovinate… dalle statuine del presepe.
Proprio così. Il giorno che ricorderemo come l’inizio della rivolta di Rosarno, Panebianco dedica un capoverso del suo atto di accusa a quelle scuole (cinque? Sei? Fossero anche una dozzina?) che per risibili questioni di integrazione non hanno fatto il presepe. Altro che topi nelle baracche: il presepe. È quello il problema, secondo Panebianco.
Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà.
Voi capite, il bimbo musulmano che non fa il presepe comincia a pensare “ehi, non lo fanno per rispetto a me, che mammolette! Non vedo l’ora di crescere e chiedere l’abolizione degli spaghetti! Oggi il presepe, domani il festival di Sanremo!” Ecco, nel cervello di Panebianco (e dei suoi lettori) il futuro probabilmente feroce scontro di civiltà scoppierà così. Non saranno neri derelitti che escono dalle loro tane puzzolenti e chiedono di essere rispettati per il lavoro che fanno: no, saranno adolescenti arroganti perché da bambini non li abbiamo esposti alla miniatura di Bue, Asinello e Bambino Gesù.
E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.
Già, chissà cosa raccontano. No, sul serio, cosa raccontano? Che la polenta è un cibo demoniaco? Che la pizza in realtà è un’invenzione africana? Che il campionato italiano di calcio ultimamente è una palla tremenda? Sia come sia, quello che succede a Rosarno è anche colpa loro. Ovvero, nostra. Insomma, mia. Soltanto mia? Eh, no, troppo facile. Panebianco, sapete, non è uno che si nasconde: e ha il coraggio (notevole, diciamo, per un corsivista del Corriere) di prendersela con una categoria molto meno toccabile: i preti.
Questi preti che invece di pensare alle tradizionali statuette, si dedicano all’accoglienza del loro prossimo. Questi preti che sfamano chi è affamato, dissetano chi è assetato, alloggiano chi è sfitto, curano chi è malato, ma che razza di cristiani sono? Pensassero di più a collocare il Bue e l’Asinello e meno alla cura di ‘sti maledetti samaritani a venti euro la giornata, che tolgono lavoro agli schiavi italiani.
La prossima volta che vi friggono un discorso a base di paroloni come Identità o Tradizione, pensate, per favore, al presepe di Panebianco. Secondo lui i preti sono "troppo accoglienti": da un punto di vista razionale potrebbe avere anche ragione, qualsiasi spazio limitato non può accogliere tutti, e l'Italia non fa eccezione. Ma i preti non sono razionali: sono preti. Se accolgono tutti indiscriminatamente, è perché glielo ha detto Gesù, a chiare lettere, nel Vangelo. E quando a saper leggere il Vangelo erano ancora pochi, i preti hanno inventato strumenti come il Presepe, che servivano proprio a ricordare il principio: Giuseppe e Maria erano due viaggiatori senza un tetto, e Dio si è incarnato in mezzo a loro. Prima di essere una tradizione, il Presepe era una lezione sull'ospitalità. Ma Panebianco non lo sa, o se l'è dimenticato, o non gli interessa. A lui interessa il Presepe in quanto tradizione, ovvero statuetta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, rimandando solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo se ci toccano le statuette dipinte.
giovedì 7 gennaio 2010
Non ci incarteremo il pesce
Beniamino Placido nella sua vita ha scritto moltissimo, come tutti i giornalisti del resto. Però a differenza di tante firme prestigiose del giornalismo italiano (a fine ’80 Placido era un’istituzione), non ci lascia molti libri. Se poi per “libro” s’intende “mattone cartonato con firma prestigiosa, da presentare nei talk e farci soldi soldi soldi”, Beniamino Placido non ci lascia proprio niente, e sì che avrebbe potuto: con poco sforzo e ottima resa. Invece no. I pochi libri pubblicati sono divertimenti – uno si chiama proprio così, “Tre divertimenti”, e riprende una serie di parodie che aveva buttato giù per l’inserto culturale di Repubblica. Cosucce a margine, perché Placido non si considerava uno scrittore di libri. I libri a volte restano, e forse lui di restare non aveva tutta questa voglia (che è una delle molle che ti spinge a firmare cartonati, o la Divina Commedia). Preferiva stare sul giornale, che oggi c’è e domani è buono per incartare il pesce. Immagine sua. Non saprei dire da dove l’ho presa (non ho una sola pagina di Placido in casa), ma è sua. Probabilmente il quaranta per cento di quello che butto fuori è roba sua.
Io comunque non sono del tutto d’accordo. Anche il giornalismo, si capisce, mica tutto, ma il buon giornalismo può durare. Oggi poi c’è l’archivio di Repubblica on line, e con un piccolo sforzo posso andare a trovare il primo pezzo di Placido che ho letto. Eccolo qui.
Potrebbe essere stato scritto ieri, o perlomeno fino a tre giorni fa, quando hanno rinnovato la convenzione alla sempre-in-punto-di-morte Radio Radicale. C’è una notazione di psicologia delle masse che sembra scritta apposta per descrivere Internet e i Social Network, salvo che era il 1986 e i radicali si erano limitati a liberare il microfono per qualche ora. C’è tutto Placido nel modo in cui è costruito il pezzo: lo vedi che guarda alla finestra, uffa, potrei andare a Radio Radicale, ma fa caldo… poi servono dieci lire per l’ascensore, ma dove le trovo dieci lire… un dettaglio di colore, le dieci lire, che tre capoversi dopo ricompare ed è diventato la metafora del valore della vita, del tutto e del niente, ma quanto era bravo Beniamino Placido? E quanto ci manca? A me, tantissimo.
Se n’è andato, senza neanche lasciarmi libri da leggere. Ma sul serio poteva pensare di sparire così? Di non aver lasciato ai suoi lettori segni indelebili, a vent’anni di distanza – insomma, Mister Trionfo dell’Oblio, spiegami questa: come faccio a ricordarmi ancora bene il titolo di un pezzo letto a tredici anni, su un pezzo di giornale che qualcuno mezz’ora dopo buttò via … che cos’è questo, come facciamo a chiamarlo ancora “giornalismo”? e allora cos’è, “letteratura”? Filosofia, poesia, sia quel che sia, signori eredi di Beniamino Placido, vi rincrescerebbe far pubblicare un’antologia di “A parer mio” in volume? Lo so che parla per lo più di trasmissioni dimenticate e personaggi evaporati, eppure sono disposto a scommettere che molte di quelle pagine funzionano ancora. Poi chissà, non è detto: quante volte abbiamo provato a rivedere un vecchio telefilm e siamo rimasti delusi. Però l’effetto che ci faceva aprire il giornale alla pagina spettacoli, e trovarci quel rettangolino d’intelligenza, è una cosa che ci porteremo dentro ancora per molto tempo.
Noi che guardavamo la tv e studiavamo i libri, ed eravamo convinti che fossero due dimensioni incommensurabili, senza niente da dirsi: e poi leggevamo Placido che le metteva in contatto, ed era l’emisfero destro del nostro cervello che scopriva il sinistro, finalmente. Se metteva Nietzsche e Boncompagni nello stesso pezzo, Placido non lo faceva per provocare, o per sembrare pop, ma con la naturalezza dello studioso che si è scelto un campo di ricerca interessante (la tv) e non disdegna di usare gli strumenti più raffinati che conosce. L’umanità lo incuriosiva, e la tv gli serviva a volte da microscopio, a volte da cannocchiale. Ma era una curiosità filosofica, non aveva nulla di morboso. Placido non si sarebbe fatto ipnotizzare dalla finta umanità di Uomini e Donne, o del Grande Fratello. C’è un suo pezzo, che non riesco a trovare, in cui si ritrova a parlare del “bingo”, ovvero (come non avrebbe mai omesso di spiegare, per rispetto ai lettori) della tombola inglese. Racconta di un suo soggiorno in Inghilterra, trascorso nelle nobili stanze di una qualche prestigiosa università, a studiare autori immortali; e di come un giorno gli fosse capitato di sbagliare il percorso tra la stazione e la biblioteca – o forse aveva voluto semplicemente cambiare strada, per curiosità. E di essersi trovato in un’Inghilterra totalmente diversa, parcheggi grigi tra case cadenti, e un locale dove i nativi giocavano a bingo, “tra pessimi odori” (la notazione olfattiva era quasi un suo marchio di fabbrica). L’Inghilterra era anche quello, scriveva, e scriveva di aver viaggiato a lungo anche per scoprire quello, e di non volersene dimenticare. Tutto lì: nessuna pretesa di nobilitare il bingo, di trovarci l’espressione dell’umanità della working class… balle: il bingo è imbarbarimento. Stava a noi decidere di farne a meno, scegliendo con più cura i nostri percorsi. E magari poi produrre una televisione più biblioteca che bingo, o almeno provarci. Lui tra l’altro fece ottimi tentativi, anche quelli da rivedere (non soltanto la trasmissione con Montanelli, un po’ tarda, che purtroppo è l’unica che si trova su Youtube. Le cose che fece su Mussolini o Manzoni erano dirompenti: o forse sono io che me le ricordo così).
Detto questo, sapeva anche provocare, Beniamino Placido. Tanti suoi pezzi fiorivano come sbuffi di repressa cattiveria. Ho trovato questo contro l’"anarchinfantilista" Piperno, abbastanza ingiusto col senno del poi. Ma c’è di meglio: una prefazione all’Eneide in cui lui scrive una cosa fantastica: di aver letto l’Eneide. Ma non da ragazzo al liceo, no: lui al liceo aveva fatto finto, come tutti. Perché al liceo, spiegava, non t’insegnano il latino: al più ti fanno credere di averlo imparato, e magari di aver letto l’Eneide. Non che ti capiti mai più di prenderla in mano e verificare… a meno che tu non sia Beniamino Placido. Lui ci aveva provato, vocabolario in mano, in un’estate. E confessava di aver sofferto tantissimo, e che insomma, forse l’istruzione classica italiana aveva qualcosa che non andava. Mentre prefazionava l’Eneide: come non volergli bene?
Un’altra pagina fantastica è quella in cui ricorda il suo maestro di letteratura inglese, Mario Praz. E si scaglia contro le persone – e non sono giocatori di bingo, ma docenti universitari con nomi e cognomi – che portano avanti la leggenda dell’Anglista innominabile, poiché jettatore. Un mito che in ambito accademico fa impallidire quello di Mia Martini nello showbiz (anche perché un po’ di superstizione, agli operatori dello showbiz, gliela potresti perfino perdonare: ma agli universitari?) Placido ricorda di avergli stretto la mano prima di un volo intercontinentale, e di essere ancora tra noi per raccontarlo. E poi, in poche frasi ci regala un ricordo di Praz che è commovente. Tanto commovente che verso la fine forse Placido si tradisce. Quando scrive: "Forse temeva che anche la sua opera sarebbe stata inesorabilmente dimenticata. Non è così. Non ancora, per fortuna". Per fortuna? Quindi l’oblio non è sempre auspicabile, è così? E allora abbiamo il diritto di ricordare anche te, Beniamino Placido, per quello che sei stato? Un grande studioso, tra i primi nel suo campo, un piacevolissimo scrittore? Dateci un suo libro, qualcosa che possiamo tenere vicino a noi. Lo spazio si trova - c'è sempre qualche vecchio cartonato che si può buttare via.
Io comunque non sono del tutto d’accordo. Anche il giornalismo, si capisce, mica tutto, ma il buon giornalismo può durare. Oggi poi c’è l’archivio di Repubblica on line, e con un piccolo sforzo posso andare a trovare il primo pezzo di Placido che ho letto. Eccolo qui.
Potrebbe essere stato scritto ieri, o perlomeno fino a tre giorni fa, quando hanno rinnovato la convenzione alla sempre-in-punto-di-morte Radio Radicale. C’è una notazione di psicologia delle masse che sembra scritta apposta per descrivere Internet e i Social Network, salvo che era il 1986 e i radicali si erano limitati a liberare il microfono per qualche ora. C’è tutto Placido nel modo in cui è costruito il pezzo: lo vedi che guarda alla finestra, uffa, potrei andare a Radio Radicale, ma fa caldo… poi servono dieci lire per l’ascensore, ma dove le trovo dieci lire… un dettaglio di colore, le dieci lire, che tre capoversi dopo ricompare ed è diventato la metafora del valore della vita, del tutto e del niente, ma quanto era bravo Beniamino Placido? E quanto ci manca? A me, tantissimo.
Se n’è andato, senza neanche lasciarmi libri da leggere. Ma sul serio poteva pensare di sparire così? Di non aver lasciato ai suoi lettori segni indelebili, a vent’anni di distanza – insomma, Mister Trionfo dell’Oblio, spiegami questa: come faccio a ricordarmi ancora bene il titolo di un pezzo letto a tredici anni, su un pezzo di giornale che qualcuno mezz’ora dopo buttò via … che cos’è questo, come facciamo a chiamarlo ancora “giornalismo”? e allora cos’è, “letteratura”? Filosofia, poesia, sia quel che sia, signori eredi di Beniamino Placido, vi rincrescerebbe far pubblicare un’antologia di “A parer mio” in volume? Lo so che parla per lo più di trasmissioni dimenticate e personaggi evaporati, eppure sono disposto a scommettere che molte di quelle pagine funzionano ancora. Poi chissà, non è detto: quante volte abbiamo provato a rivedere un vecchio telefilm e siamo rimasti delusi. Però l’effetto che ci faceva aprire il giornale alla pagina spettacoli, e trovarci quel rettangolino d’intelligenza, è una cosa che ci porteremo dentro ancora per molto tempo.
Noi che guardavamo la tv e studiavamo i libri, ed eravamo convinti che fossero due dimensioni incommensurabili, senza niente da dirsi: e poi leggevamo Placido che le metteva in contatto, ed era l’emisfero destro del nostro cervello che scopriva il sinistro, finalmente. Se metteva Nietzsche e Boncompagni nello stesso pezzo, Placido non lo faceva per provocare, o per sembrare pop, ma con la naturalezza dello studioso che si è scelto un campo di ricerca interessante (la tv) e non disdegna di usare gli strumenti più raffinati che conosce. L’umanità lo incuriosiva, e la tv gli serviva a volte da microscopio, a volte da cannocchiale. Ma era una curiosità filosofica, non aveva nulla di morboso. Placido non si sarebbe fatto ipnotizzare dalla finta umanità di Uomini e Donne, o del Grande Fratello. C’è un suo pezzo, che non riesco a trovare, in cui si ritrova a parlare del “bingo”, ovvero (come non avrebbe mai omesso di spiegare, per rispetto ai lettori) della tombola inglese. Racconta di un suo soggiorno in Inghilterra, trascorso nelle nobili stanze di una qualche prestigiosa università, a studiare autori immortali; e di come un giorno gli fosse capitato di sbagliare il percorso tra la stazione e la biblioteca – o forse aveva voluto semplicemente cambiare strada, per curiosità. E di essersi trovato in un’Inghilterra totalmente diversa, parcheggi grigi tra case cadenti, e un locale dove i nativi giocavano a bingo, “tra pessimi odori” (la notazione olfattiva era quasi un suo marchio di fabbrica). L’Inghilterra era anche quello, scriveva, e scriveva di aver viaggiato a lungo anche per scoprire quello, e di non volersene dimenticare. Tutto lì: nessuna pretesa di nobilitare il bingo, di trovarci l’espressione dell’umanità della working class… balle: il bingo è imbarbarimento. Stava a noi decidere di farne a meno, scegliendo con più cura i nostri percorsi. E magari poi produrre una televisione più biblioteca che bingo, o almeno provarci. Lui tra l’altro fece ottimi tentativi, anche quelli da rivedere (non soltanto la trasmissione con Montanelli, un po’ tarda, che purtroppo è l’unica che si trova su Youtube. Le cose che fece su Mussolini o Manzoni erano dirompenti: o forse sono io che me le ricordo così).
Detto questo, sapeva anche provocare, Beniamino Placido. Tanti suoi pezzi fiorivano come sbuffi di repressa cattiveria. Ho trovato questo contro l’"anarchinfantilista" Piperno, abbastanza ingiusto col senno del poi. Ma c’è di meglio: una prefazione all’Eneide in cui lui scrive una cosa fantastica: di aver letto l’Eneide. Ma non da ragazzo al liceo, no: lui al liceo aveva fatto finto, come tutti. Perché al liceo, spiegava, non t’insegnano il latino: al più ti fanno credere di averlo imparato, e magari di aver letto l’Eneide. Non che ti capiti mai più di prenderla in mano e verificare… a meno che tu non sia Beniamino Placido. Lui ci aveva provato, vocabolario in mano, in un’estate. E confessava di aver sofferto tantissimo, e che insomma, forse l’istruzione classica italiana aveva qualcosa che non andava. Mentre prefazionava l’Eneide: come non volergli bene?
Un’altra pagina fantastica è quella in cui ricorda il suo maestro di letteratura inglese, Mario Praz. E si scaglia contro le persone – e non sono giocatori di bingo, ma docenti universitari con nomi e cognomi – che portano avanti la leggenda dell’Anglista innominabile, poiché jettatore. Un mito che in ambito accademico fa impallidire quello di Mia Martini nello showbiz (anche perché un po’ di superstizione, agli operatori dello showbiz, gliela potresti perfino perdonare: ma agli universitari?) Placido ricorda di avergli stretto la mano prima di un volo intercontinentale, e di essere ancora tra noi per raccontarlo. E poi, in poche frasi ci regala un ricordo di Praz che è commovente. Tanto commovente che verso la fine forse Placido si tradisce. Quando scrive: "Forse temeva che anche la sua opera sarebbe stata inesorabilmente dimenticata. Non è così. Non ancora, per fortuna". Per fortuna? Quindi l’oblio non è sempre auspicabile, è così? E allora abbiamo il diritto di ricordare anche te, Beniamino Placido, per quello che sei stato? Un grande studioso, tra i primi nel suo campo, un piacevolissimo scrittore? Dateci un suo libro, qualcosa che possiamo tenere vicino a noi. Lo spazio si trova - c'è sempre qualche vecchio cartonato che si può buttare via.
mercoledì 6 gennaio 2010
Per le zanne del profeta
Se Maometto non va al Pantheon
Insomma io, alle Medie, quando affronto l’India, spiego che è un Paese di religione indù con una minoranza islamica. L’Islam più o meno sanno tutti cos’è, quindi mi soffermo una mezzoretta sull’induismo (le caste, la metempsicosi, il politeismo, fine). A questo punto di solito qualcuno chiede se c’entra Buddha e io scantono spiegando che il buddismo è sì nato in India, ma si è sviluppato prevalentemente in altri Paesi, per cui magari di Nirvana e ottuplice via se ne parla un’altra volta, eh? Piuttosto qualcosa sui Sikh, visto che da noi c’è anche una minoranza di studenti Sikh. Poi c’è da raccontare qualcosa su Gandhi (se c'è un po' di tempo vale la pena di mostrare il film, tagliato ovviamente), la lotta per l’indipendenza e contro le caste, il dramma della secessione India-Pakistan, eccetera eccetera. In capo a due settimane faccio una verifica, e se queste cose non le sanno, prendono 5. Fine.
Ora ditemi cosa dovrei dare a uno studente di terza media che mi scrivesse una cosa del genere:
Il caso esemplare è l'India, dove le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominarono l’intero Paese. Si avverta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi paciosi, pacifici; e la maggioranza è indù, e cioè politeista capace di accogliere nel suo pantheon di divinità persino un Maometto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventare il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finissero in un mare di sangue.
Ok, il primo errore te lo potrei anche passare: c’erano comunità musulmane in India sette secoli prima dei Moghul, ma questo forse sul libro di terza media non c’è… magari alle superiori te lo spiegano… pazienza. Ma indiani “indigeni” buddisti e quindi paciosi pacifici” che roba è? Che roba è? Hai di nuovo fatto le ricerche con Yahoo Answers? Ti avevo ben detto di stare lontano da quel sito demoniaco.
Ma anche quel Maometto in un pantheon di divinità indù è favoloso. Perché se ci rifletti bene, per il musulmano medio Maometto è un profeta, mica un dio, per cui se arriva l’indù e gli dice: “Ehi, adesso il tuo profeta è nel mio pantheon” lui come minimo s’incazza un po’. Anche perché li conosci gli indù, no? Loro gli dei li raffigurano volentieri. E quindi a quel punto l’Indù che deve decorare il suo Pantheon si porrà il fatale problema: questo dio Maometto, ma che faccia avrà? La barba, ok, ma di che colore? Aspetta aspetta che chiedo al mio vicino musulmano Omar.
“Ehi, Omar”
“…”
“Senti, non te la sarai mica presa perché ho messo il tuo Dio nel mio pantheon”.
“Non è un Dio, è un profeta”.
“Vabbè, stessa cosa”.
“Non è la stessa cosa”.
“Sì, ok, non è la stessa cosa, comunque senti, mi dici un po’ che faccia aveva? Perché devo fare il ritratto per il mio pantheon pacioso, capisci…”
“Il volto non si può raffigurare”.
“Ah no?”
“No”.
“Ma neanche se ci metto, che so, una testa di elefante, stile Ganesh...”
“MpfffffffffffffffffffFAAAAAAAAAATWA! MALEDETTI CANI IDOLATRI!”
“Uff, che carattere. Ma perché non sei pacioso come noi budd… ahem, come noialtri?”
“Paciosi? Dopo il massacro dei Sikh? E le stragi di Mumbai? Voi sareste quelli paciosi?”
“Ma certo, non hai letto Sartori?”
E poi gli inglesi che inventano il Pakistan. Certo, come no. E in questo modo risparmiano un mare di sangue. E in effetti, vuoi mettere quattro guerre indopakistane con un mare di sangue? Insomma, professor Sartori, quel che ha lasciato firmare col suo cognome è imbarazzante. Rientri dalle vacanze, licenzi quel ghostwriter, se ne trovi uno con una licenza media vera. Qualcuno che non scriva più cose come “l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto)”. Certo, nessun'altra cultura: è per questo che per trovare un nome all’uomo-che-si-uccide-per-uccidere abbiamo dovuto prendere in prestito il noto termine arabo Kamikaze. Ed è noto che Pietro Micca era un attento lettore del Corano, libro nel quale si trova del resto la leggenda di Sansone, l'antesignano dei… basta. I lettori del Corriere si meritano di meglio, professor Sartori.
Anche perché il compito che si è preso, con Rutelli, è abbastanza complicato. Da una parte c’è Fini che si è messo in testa questa storia del voto agli immigrati, e le sinistre ovviamente gli vanno dietro per le solite risibili questioni di principio. Dall’altra ci sono quelli che l’Islam è il male, i minareti ci terrorizzano, le moschee ci inquinano con l’onda. In mezzo ci siete voi che provate la solita melina terzista, ma insomma, qui ci vorrebbero argomenti degni di questo nome, e per ora non ci sono. Come si fa a non voler dare dei diritti civili senza sembrare incivili, ahi, è dura... C’è Rutelli che dice che il multiculturalismo è sbagliato e tre righe dopo parla di “pluralismo culturale e integrazione” Sarebbe addi’? No, sul serio, in pratica, la differenza sarebbe? Dice che il diritto di voto deve arrivare alla fine e non all’inizio di un percorso di integrazione… come se dall’altra parte ci fosse Gianfranco Fini che regala passaporti sulla spiaggia di Lampedusa. Tranquillo che si parla di cinque anni minimo, non ti sembrano abbastanza per fare un percorso serio, France’? Tu quanti partiti sei riuscito a fondare in cinque anni? Dice che “occorre anche una “dichiarazione di laicità”. Che valga per tutti, e serva per separare esplicitamente il comando religioso dai doveri verso la Repubblica»”. E questo sarebbe un pensiero terzista? E Rutelli spera di intercettare i moderati con una “dichiarazione di laicità”? E sul serio, qualcuno a sinistra potrebbe dirsi contrario a una “dichiarazione di laicità che valga per tutti”? Sì, effettivamente qualcuno potrebbe. La Binetti.
(Quasi tutto via Gilioli).
Insomma io, alle Medie, quando affronto l’India, spiego che è un Paese di religione indù con una minoranza islamica. L’Islam più o meno sanno tutti cos’è, quindi mi soffermo una mezzoretta sull’induismo (le caste, la metempsicosi, il politeismo, fine). A questo punto di solito qualcuno chiede se c’entra Buddha e io scantono spiegando che il buddismo è sì nato in India, ma si è sviluppato prevalentemente in altri Paesi, per cui magari di Nirvana e ottuplice via se ne parla un’altra volta, eh? Piuttosto qualcosa sui Sikh, visto che da noi c’è anche una minoranza di studenti Sikh. Poi c’è da raccontare qualcosa su Gandhi (se c'è un po' di tempo vale la pena di mostrare il film, tagliato ovviamente), la lotta per l’indipendenza e contro le caste, il dramma della secessione India-Pakistan, eccetera eccetera. In capo a due settimane faccio una verifica, e se queste cose non le sanno, prendono 5. Fine.
Ora ditemi cosa dovrei dare a uno studente di terza media che mi scrivesse una cosa del genere:
Il caso esemplare è l'India, dove le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominarono l’intero Paese. Si avverta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi paciosi, pacifici; e la maggioranza è indù, e cioè politeista capace di accogliere nel suo pantheon di divinità persino un Maometto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventare il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finissero in un mare di sangue.
Ok, il primo errore te lo potrei anche passare: c’erano comunità musulmane in India sette secoli prima dei Moghul, ma questo forse sul libro di terza media non c’è… magari alle superiori te lo spiegano… pazienza. Ma indiani “indigeni” buddisti e quindi paciosi pacifici” che roba è? Che roba è? Hai di nuovo fatto le ricerche con Yahoo Answers? Ti avevo ben detto di stare lontano da quel sito demoniaco.
Ma anche quel Maometto in un pantheon di divinità indù è favoloso. Perché se ci rifletti bene, per il musulmano medio Maometto è un profeta, mica un dio, per cui se arriva l’indù e gli dice: “Ehi, adesso il tuo profeta è nel mio pantheon” lui come minimo s’incazza un po’. Anche perché li conosci gli indù, no? Loro gli dei li raffigurano volentieri. E quindi a quel punto l’Indù che deve decorare il suo Pantheon si porrà il fatale problema: questo dio Maometto, ma che faccia avrà? La barba, ok, ma di che colore? Aspetta aspetta che chiedo al mio vicino musulmano Omar.
“Ehi, Omar”
“…”
“Senti, non te la sarai mica presa perché ho messo il tuo Dio nel mio pantheon”.
“Non è un Dio, è un profeta”.
“Vabbè, stessa cosa”.
“Non è la stessa cosa”.
“Sì, ok, non è la stessa cosa, comunque senti, mi dici un po’ che faccia aveva? Perché devo fare il ritratto per il mio pantheon pacioso, capisci…”
“Il volto non si può raffigurare”.
“Ah no?”
“No”.
“Ma neanche se ci metto, che so, una testa di elefante, stile Ganesh...”
“MpfffffffffffffffffffFAAAAAAAAAATWA! MALEDETTI CANI IDOLATRI!”
“Uff, che carattere. Ma perché non sei pacioso come noi budd… ahem, come noialtri?”
“Paciosi? Dopo il massacro dei Sikh? E le stragi di Mumbai? Voi sareste quelli paciosi?”
“Ma certo, non hai letto Sartori?”
E poi gli inglesi che inventano il Pakistan. Certo, come no. E in questo modo risparmiano un mare di sangue. E in effetti, vuoi mettere quattro guerre indopakistane con un mare di sangue? Insomma, professor Sartori, quel che ha lasciato firmare col suo cognome è imbarazzante. Rientri dalle vacanze, licenzi quel ghostwriter, se ne trovi uno con una licenza media vera. Qualcuno che non scriva più cose come “l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto)”. Certo, nessun'altra cultura: è per questo che per trovare un nome all’uomo-che-si-uccide-per-uccidere abbiamo dovuto prendere in prestito il noto termine arabo Kamikaze. Ed è noto che Pietro Micca era un attento lettore del Corano, libro nel quale si trova del resto la leggenda di Sansone, l'antesignano dei… basta. I lettori del Corriere si meritano di meglio, professor Sartori.
Anche perché il compito che si è preso, con Rutelli, è abbastanza complicato. Da una parte c’è Fini che si è messo in testa questa storia del voto agli immigrati, e le sinistre ovviamente gli vanno dietro per le solite risibili questioni di principio. Dall’altra ci sono quelli che l’Islam è il male, i minareti ci terrorizzano, le moschee ci inquinano con l’onda. In mezzo ci siete voi che provate la solita melina terzista, ma insomma, qui ci vorrebbero argomenti degni di questo nome, e per ora non ci sono. Come si fa a non voler dare dei diritti civili senza sembrare incivili, ahi, è dura... C’è Rutelli che dice che il multiculturalismo è sbagliato e tre righe dopo parla di “pluralismo culturale e integrazione” Sarebbe addi’? No, sul serio, in pratica, la differenza sarebbe? Dice che il diritto di voto deve arrivare alla fine e non all’inizio di un percorso di integrazione… come se dall’altra parte ci fosse Gianfranco Fini che regala passaporti sulla spiaggia di Lampedusa. Tranquillo che si parla di cinque anni minimo, non ti sembrano abbastanza per fare un percorso serio, France’? Tu quanti partiti sei riuscito a fondare in cinque anni? Dice che “occorre anche una “dichiarazione di laicità”. Che valga per tutti, e serva per separare esplicitamente il comando religioso dai doveri verso la Repubblica»”. E questo sarebbe un pensiero terzista? E Rutelli spera di intercettare i moderati con una “dichiarazione di laicità”? E sul serio, qualcuno a sinistra potrebbe dirsi contrario a una “dichiarazione di laicità che valga per tutti”? Sì, effettivamente qualcuno potrebbe. La Binetti.
(Quasi tutto via Gilioli).