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Collaborazioni

domenica 7 dicembre 2025

Tutti uguali davanti alla legge – ma davanti a Delrio?


Egregio onorevole Delrio,

credo che lei meriti almeno un po' di franchezza: chi le scrive questa lettera non la stima come politico, e soprattutto come legislatore. Anzi credo veramente che da questo punto di vista lei sia un disastro. A distanza ormai di dieci anni, se ogni tanto mi capita di pensare a un decreto approvato da un parlamento (e ahimè, sottoscritto dal Presidente della Repubblica) che contenga non soltanto caratteri di palese anticostituzionalità, ma un vero e proprio affronto al senso comune, a quella minima definizione di democrazia che impariamo tutti sui banchi di scuola quando sono ancora banchi molto piccoli, questa idea che i cittadini siano tutti uguali davanti alle legge, ecco: quando penso a una legge che nega questi minimi principi... mi viene sempre in mente il cosiddetto decreto Delrio, la legge 56 del 7/4/2014, e in particolare quell'asciuttissimo comma 19: "Il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo". Così, con uno sbrigativo colpo di penna, lei aveva tolto a milioni di italiani il diritto di essere rappresentati dal loro sindaco "di aria vasta", per il semplice e allucinante motivo che non sono cittadini del comune capoluogo, ma di altri comuni che a lei evidentemente non interessavano: a lei e ai suoi colleghi che la appoggiarono in quella iniziativa riformatrice clamorosamente anticostituzionale, che la maggioranza dei cittadini bocciò sonoramente appena ebbe la possibilità di farlo: così che di tutto quel grande disegno restano soltanto, qua e là, certi decreti orribili, purtroppo ancora in vigore, quasi a ricordarci di quanto sia fragile la democrazia se lasciamo responsabilità legislative alle persone non adatte. 

Ecco: a dieci anni di distanza, onorevole, io devo confermare quell'impressione; magari è soltanto una coincidenza, ma nel momento in cui si è trattato di nuovo scrivere una proposta di legge orribile, che che sfida il buon senso e la Costituzione – una proposta di legge che immagino nessuno dei suoi colleghi avesse troppa voglia di associare al proprio cognome e alla propria immagine pubblica – eccola di nuovo sul luogo del delitto, eccola di nuovo pronto a sobbarcarsi l'ennesima sfida a quell'articolo 3 della Costituzione che a questo punto forse davvero a lei non piace; sì, a volte è anche una questione di gusti. Glielo recito: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". E a questo punto glielo chiedo – e chiedo a lei la medesima franchezza, per favore: cosa c'è davvero che non sopporta in questo articolo? Perché non perde l'occasione per ignorarlo, per sfidarlo, per offenderlo?

Ho letto in giro che la sua bozza anti-antisemitismo va inquadrata soprattutto in un più generale conflitto di correnti all'interno del partito in cui non ha rinunciato a militare, il PD: e in effetti la ricordo, pochi mesi fa, piuttosto insoddisfatto della direzione imposta dalla segretaria Elly Schlein: segretaria eletta in regolari primarie, i cui risultati promettenti da un punto di vista elettorale sono davanti agli occhi di tutti. Ma lasciamo stare per un attimo la guerra di bande, la tendenza quasi automatica dei centristi di quel partito a sabotarlo quando non riescono a controllarlo. Ci sono tanti modi per opporsi a un progetto politico che non si condivide: tanti modi che non prevedano di legare il proprio nome a un'altra legge orribile e incostituzionale, che assume come punto di partenza un documento ridicolo (la definizione IHRA sull'antisemitismo), da anni irriso da chiunque affronti seriamente la questione in ambito accademico e legislativo. Ma le voglio chiedere, onorevole: avrebbe davvero bisogno di consulenze accademiche, e del parere di persone che l'antisemitismo lo conoscono davvero non per interposta persona, per comprendere le gravi contraddizioni logiche di quella paginetta, un documento che magari all'inizio era stato stilato in buona fede, ma poi è stato visibilmente distorto, e le tracce di quella distorsione appaiono evidenti (si comincia parlando di ebrei, e si finisce proibendo tout court le critiche allo Stato di Israele)? Non si diventa legislatori per diritto di nascita o divino; lei qualche studio deve averlo pur fatto, un minimo di analisi del testo dovrebbe rientrare nelle sue competenze: come può aver letto quella definizione e averla presa per buona? E se davvero l'ha fatto, come può in coscienza ritenersi in grado di promuovere iniziative legislative? Davvero dobbiamo presumere che lei sia troppo ingenuo per rendersi conto della trappola in cui è caduto?

Egregio onorevole, tenterò di spiegarle perché la definizione IHRA è un testo sciocco che nessun adulto dovrebbe prendere come punto di riferimento per iniziative legislative. Farò appello, per l'occasione, persino alla sua fede cattolica, perché anche da questo punto di vista c'è qualcosa che non va; insomma, lei è d'accordo con l'antica idea che le persone debbano essere giudicate – se proprio le vogliamo giudicare –  per le loro azioni? Non per la loro religione, non per la loro "razza", non per condizioni sociali o idee le quali, se restassero semplicemente "idee", non farebbero male a nessuno? Ci crede a questa cosa che è uno dei punti di partenza della nostra cultura millenaria? 

Perché chi ha pervertito la definizione dell'IHRA non ci crede, e l'ha scritto nero su bianco in frasi molto semplici. Qualcuno in quella stanza era convinto dell'esistenza di singole persone e di uno Stato che non possono essere giudicati per le proprie azioni – gli altri sì, quelle persone e quello Stato, no. Si è ben guardato di definire meglio questo carattere di eccezionalità (perché quello Stato sì e gli altri no?), ma è chiarissimo che questa eccezionalità esiste nella Definizione, ed è quello che vuole ottenere chi promuove la Definizione. Pensi solo a questo comma, davvero molto semplice: per la definizione è antisemitico "fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti". Lei lo legge e approva, ma certo, cosa c'è di più antisemitico di chiamare nazisti gli israeliani. Forse che io ho intenzione di paragonare Netanyahu a un nazista? No, onorevole, io non paragono Netanyahu a un nazista. Non ne ho bisogno, il nazismo è la risorsa dei polemisti senza fantasia. Ho così tante parole e argomenti per definire Netanyahu, che se le usassi qui ora tutte probabilmente sarebbe lei a implorarmi di dargli del nazista e farla finita. 


Ma sa che le dico? Lasciamo perdere Netanyahu. Lasciamo perdere qualsiasi riferimento alla "politica israeliana contemporanea". Fingiamo che non esista. Fingiamo che Israele sia il Paese più liberale del mondo, un Paese dove sia tutelata ogni scelta religiosa, politica ed esistenziale. Molti lo fanno già; fingiamo anche noi per amore di ipotesi. E immaginiamo che in questa nazione perfetta, faro delle nazioni, a un certo punto qualcuno voglia fondare un partito nazista. Perché no? Se tuteliamo ogni opinione, perché non potrebbe nascere un partito nazista anche tra Tel Aviv e Gerusalemme? Voglio specificare: un partito nazista vero, con le svastiche, le aquile, le SS, tutto il pacchetto. Un partito che se nascesse qui da noi, e le combinasse una sfilata sotto casa, lei stesso non potrebbe che esclamare: ma questi sono nazisti. Si tagliano anche i baffi quadrati, tutto. Ecco. Se succedesse a Reggio nell'Emilia (o a Chicago, Illinois) lei potrebbe esclamare pubblicamente: questi sono nazisti! Se poi andassero al governo, lei potrebbe denunciare: ma al governo ci sono i nazisti! Se poi perseguissero politiche coerenti col proprio programma elettorale (conquiste per acquisire "spazio vitale", minoranze in campi di sterminio), lei, finché riuscirebbe a parlare, confido che continuerebbe a protestare, insomma, ma questo è il nazismo! Ne sono sicuro. 

Se invece lo stesso partito vincesse le elezioni tra Tel Aviv e Gerusalemme, lei dovrebbe mordersi le labbra, perché la definizione IHRA lo considera antisemitismo. Se poi ottenessero una maggioranza alla Knesset, se le morderebbe ancora più forte, ma la definizione IHRA è pur sempre la definizione IHRA. Se infine cominciassero, non so, sempre per amore di ipotesi, ad allargare il proprio spazio vitale con offensive militari, a recintare le minoranze, ad affamarle e a bombardarle, lei dovrebbe continuare a stare zitto, perché chiamarli nazisti secondo la definizione IHRA è Holocaust inversion!, e l'Holocaust inversion è un peccato mortale di pensiero. Ora, lo capisce che qualcosa non va? La Definizione non dice semplicemente che paragonare un tale israeliano a un nazista è antisemita. Dice che sarà da qui in poi antisemitico "fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti". Si rende conto a quanto era goffo chi ha lasciato nel testo finale quell'aggettivo, "contemporanea"? Perché davvero leggendo quella frase dobbiamo presumere che Israele non possa essere paragonato al nazismo qualsiasi cosa faccia, in qualsiasi momento storico. Chi ha scritto questa cosa stava semplicemente chiedendo una deroga a quel principio di buon senso per cui qualsiasi persona, e qualsiasi Stato, sarà giudicato per le proprie azioni. No, chi ha scritto questa riga della Definizione ci teneva a sancire che lo Stato di Israele non potrà essere paragonato al nazismo, mai. Gli altri sì, Israele no. Lasciamo perdere i motivi storici per cui questo paragone è più fastidioso di altri: qui non si tratta di un semplice fastidio, qui si tratta di stabilire un carattere di eccezionalità. C'è uno Stato che non può essere giudicato con i metri degli altri, uno Stato che non può essere mai paragonato agli altri. Non importa che azioni nel frattempo stia commettendo, e pensa un po' la coincidenza: ultimamente sta commettendo crimini di guerra conclamati. 

Egregio senatore, credo che basterebbe questo esempio a spiegare a una persona in buona fede perché la definizione è irricevibile, e perché nei fatti provochi molto più antisemitismo di quanto ne riesca a combattere. Purtroppo io a questo punto non la do affatto per scontata, la sua buona fede. Cordiali saluti, buon Natale e buon Anno, eccetera.

venerdì 5 dicembre 2025

La stagione del consenso viene e va

Buongiorno, questo pezzo è un segnaposto per avvisarvi che ieri è uscito un mio pezzo per il Manifesto, che più tardi qui pubblicherò, ed è stato a quanto pare ripreso anche da Morning, e che sempre sullo stesso argomento dovrei balbettare due cose a Fahrenheit (Radio 3) oggi verso le 16:30. A presto. 

[L'intervento a Fahrenheit, a 1:30]

C'è stato un momento – all'inizio di questi anni '20 – in cui noi insegnanti all'improvviso ci siamo sentiti di nuovo importanti. Vi ricordate? A causa di un virus molto pericoloso, le scuole di ogni ordine e grado erano state chiuse da qualche settimana, quando intellettuali e politici di ogni schieramento cominciarono a invocare il ritorno della scuola in presenza, fondamentale baluardo di civiltà. Qualcuno arrivò persino a distorcere le statistiche per dimostrare che le scuole aperte non avrebbero aumentato il contagio: o forse un po', ma non così tanto; e comunque ne valeva la pena. I ragazzi avevano bisogno della scuola, molto più di quanto tutti avessimo bisogno della salute. E doveva essere una scuola reale, di cemento, con lavagne in ardesia e gessetti: un simulacro virtuale non avrebbe funzionato. Per quanto ogni cosa ormai si possa fare on line, la scuola no: la scuola doveva prendersi i vostri figli verso le otto e restituirli dopo mezzogiorno. Fu un periodo complicato, ma esaltante, in cui forse molti colleghi si illusero di avere recuperato un minimo di dignità: inoltre, se la scuola era davvero così importante, forse i governi si sarebbero decisi a rifinanziarla. 

Cinque anni dopo, è chiaro che le cose non sono andate così. Ce ne accorgiamo ogni giorno, mentre aderiamo alla spicciolata agli scioperi che i sindacati non riescono a organizzare nella stessa data. Ci hanno calato lo stipendio, anche se non si può dire perché la cifra in busta è un po' aumentata: però il bonus docenti è bloccato da settembre, un trucco contabile che ci fa sospettare che il governo non sappia più dove raccattare risorse. Sui giornali più di tanto non se ne parla; per un mese la notizia più chiacchierata è stata quella di una famiglia che piuttosto di mandarci i figli li lasciava nel bosco, in balia di animali selvaggi e funghi velenosi. Molti liberi pensatori ne hanno apprezzato la scelta; sembrano gli stessi che quattro anni ci intimavano di riaprire subito le scuole, ne andava della salute mentale dei ragazzi. Nel frattempo la Camera ha approvato il decreto che ci proibisce di attivare progetti di educazione sessuale/affettiva senza il consenso dei genitori. C'è una battaglia culturale in atto, e noi siamo un obiettivo, semplicemente perché facciamo il nostro lavoro, o almeno ci proviamo. Scopriamo di essere i nemici dell'istituzione famigliare, che sulla sessualità dei propri figli ha l'ultima parola. Come succede in battaglia, c'è una differenza sostanziale tra la propaganda – aneddoti piccanti di lezioni tenute da drag queen e pornoattori  – e la situazione sul campo: un campo dove i ragazzi l'educazione sessuale se la fanno da soli,  vivendo negli stessi ambienti per cinque ore al giorno; con risultati insoddisfacenti, se gli esperti ci dicono che le malattie sessualmente infettive sono in aumento nella fascia dei più giovani. 

Così se mi domando cosa vuole da me la società, la risposta è la stessa: prendermi i loro figli alle otto e restituirglieli dopo mezzogiorno. Il fatto che per queste quattro o cinque ore si ritrovino assieme, in aule non troppo spaziose, a contatto con coetanei di sessi e culture diversi, è un nodo che devo sbrigliarmi da solo, sapendo che in qualsiasi momento potrei dover fare rapporto ai genitori. Potrò portare i miei studenti al consultorio? Solo se sono d'accordo: e dovrò organizzare un'attività a costo zero per gli studenti che restano a scuola: il decreto mi obbliga a farlo, ma per ora non stanzia un soldo. Se ne staranno su un divanetto a trescare, magari qualcuno qualche cosa la imparerà. Molto spesso i genitori che non firmano l'autorizzazione sono quelli che provengono dai contesti in cui la sessualità degli adolescenti è un tabù. Valditara ha un bel da insistere che il suo decreto non nega a nessuno l'educazione sessuale: nei fatti la sta togliendo proprio alle famiglie che non osano parlarne, ai figli che vivono in famiglie abusanti che quell'autorizzazione non la firmeranno mai; alle ragazze a cui i genitori hanno già combinato un matrimonio (sì, succede, molto più spesso di quanto ne parlino i giornali), ai ragazzi che vivono in un contesto violento e non hanno strumenti per gestire la propria rabbia. Che sia questo che la società mi chiede, senza avere il coraggio di metterlo per iscritto? 

mercoledì 3 dicembre 2025

De reuelatione in hoc ipso tempore, IV



[Questo pezzo è da considerare il seguito del Gesuita nella giungla, che apparve per la prima volta sul Post proprio dieci anni fa. In mezzo in realtà ci sono altre puntate che sono andate perse, anche loro, come pagine di un dossier lasciate alla deriva sul Fiume delle Perle].

Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del commercio procede in una atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba surriscaldata; proseguimmo lungo la costa informe delimitata da una risacca pericolosa, quasi che la natura stessa avesse voluto respingere gli intrusi; entrando e uscendo dai fiumi, vive correnti di morte, le cui rive imputridivano nella melma, le cui acque, ispessite dal fango, invadevano le intricate mangrovie che sembravano torcersi verso di noi in un eccesso di disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché potessi ricavarne un’impressione particolare, ma sentivo crescere in me un sentimento diffuso di vago e opprimente stupore. Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso immagini da incubo...

Il profilo di una giunca contro il sole del tramonto, che tinge d'arancio un'ansa del Fiume delle Perle. La giunca è ormeggiata; da riva si sente qualcuno che grida in lontananza, con l'affanno di chi fugge per salvarsi la vita. Sottocoperta, nella penombra, fra Marcelo riceve un'ambasciata.

Davanti a me stava un ragazzino spaventosamente magro, dai lineamenti selvaggi. Non avesse portato il saio francescano della Piantagione, lo avrei creduto un figlio della giungla, allevato dalle scimmie. Per questo ammetto che mi spaventai a morte quando lo sentii parlare in uno spagnolo quasi credibile, lui che fino a un attimo prima si era spiegato soltanto a gesti.

"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".

Lo schiavetto era spuntato all'improvviso dalla boscaglia. Come avesse potuto raggiungerci da solo, senza un'imbarcazione, era un mistero che si sarebbe portato con sé. Don Guillermo aveva uomini lungo tutto il fiume? Mi faceva seguire? Cosa voleva da me?

"Come ti chiami?"

"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma..."

"Ho capito, ho capito".

"... rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".

"Ho capito".

Non mi avrebbe detto altro. Aveva imparato a memoria soltanto quella frase, da recitare nel caso mi avesse trovato, prima di essere mandato a morire nella giungla. Probabilmente Fra Guillermo non si aspettava che tornasse indietro. Chissà quanti ne aveva mandati in tutti i bracci del delta. Ci teneva, a quel flagello maledetto. Io nemmeno sapevo perché lo avevo raccolto. Lo avevo visto pendere da un paravento del santuario della Madonna della Guadalupe – quindici capanne al centro di una piantagione di papaveri, su un'isola del delta. Trecento schiavi, anche se se a fra Guillermo la parola non piaceva.

La Guadalupe era l'avamposto domenicano sul Fiume delle Perle, l'ultima località sulle mappe dei portoghesi, che da lì in poi si sospendevano nel vuoto. Lo gestiva fra Guillermo della Guadalupe medesima, un francescano che sembrava precipitato lì durante un monsone, il suo scopo dichiarato era conquistare quante più anime a Dio. 

Anche Felipe, il mio attendente, era sbiancato.
"Il ragazzo resta con noi. Dagli qualcosa da mangiare, Felipe".
"Non abbiamo più molto, padre".
"Il cuoco è a caccia, no? Troverà qualcosa".
"È da un po' che non torna".
"Va bene adesso scendo un po' sottocoperta Felipe, non disturbarmi".
"È già l'ora delle preghiere?"
"È già l'ora dei fatti tuoi, Felipe".

Forse il flagello l'avevo raccolto per lui. O per me? Molto presto avrei finito la scorta di oppio che avevo con me, e poi sarei stato male, nel bel mezzo del Fiume delle Perle, nella giungla. Avrei avuto nausea e diarrea e se la diarrea non si fosse fermata, sarei morto, disidratato e febbricitante. Sarei morto forse a mille passi dalla dimora di Francesco Xavier, senza sentire la sua voce, la voce che aveva convertito milioni di uomini. 

Il suo dossier era sconcertante. 

3 dicembre: San Francesco Saverio, missionario ed esploratore, evangelizzatore di massa

Figlio di nobili navarresi caduti in disgrazia dopo la conquista spagnola, entra alla Sorbona e si laurea nel giro di tre anni. A salvarlo da una carriera di precettore presso qualche signorotto castigliano è quel fottuto veterano basco, Ignazio di Loyola. Più ne sentivo parlare, più lo ammiravo. La maggior parte dei sant'uomini che conoscevo non avrebbero saputo fare nient'altro nella vita, ma Ignazio prima di scegliere la santità era stato un mascalzone. Avrebbe potuto diventare un generale in qualche esercito, ma cercava qualcos'altro. Sé stesso? Va in Terrasanta, ma i francescani lo cacciano perché fiutano l'eretico. L'Inquisizione spagnola in effetti lo tiene in carcere per un mese e mezzo, dopodiché tutte le imputazioni cadono come per miracolo, e in un qualche modo riesce a entrare alla Sorbona. A trentotto anni, madre di Dio. Il più giovane compagno di classe aveva la metà dei suoi anni. Io mi ci iscrissi a diciannove e a momenti ci restavo. Lui completò il corso. Sette anni. E nel frattempo aveva convertito i suoi migliori compagni di collegio, tra cui appunto il nostro amico Francesco X. Il dossier riportava la celebre frase celebre che il vecchio compagno avrebbe detto al giovane: "Che senso ha conquistare il mondo, se si perde la propria anima?" Suona molto bene [e infatti probabilmente è apocrifa] ma a rifletterci non ha molto senso. Francesco era uno studente di legge, o filosofia, più o meno spiantato; senz'altro non un aspirante conquistatore del mondo. O lo era? O Ignazio aveva fiutato la sua preda, o aveva riconosciuto in quel ragazzo la stessa ansia di conquista che lo aveva spinto tanti anni prima, da ragazzino, a farsi soldato?

"Sangue di Cristo, non ne posso più!"

Mentre ci riflettevo dovevo essermi appisolato. Mi svegliarono le bestemmie e i passi nervosi sulla tolda, proprio sopra il mio alloggiamento.
"Io taglio la corda, madre di Dio, non ero entrato nell'Ordine per queste porcherie. Una tigre! Una maledettissima tigre! Io volevo fare il cuoco in un convento, non andare a caccia in una giungla dimenticata di Dio e piena di tigri! 

Portas vultus eius quis aperiet?

Per gyrum dentium eius formido...

Il cuoco era tornato a mani vuote e in stato di choc. Avremmo pranzato a manghi e preghiere, anche oggi. 

Sternutatio eius favillae ignis,

et oculi eius ut palpebrae diluculi...

"Io non scendo più dalla nave, ve lo dico. Mai più. Il diluvio ci vorrebbe qui intorno, è l'inferno questo, Signore Dio! Il diluvio! Che anneghi tutto quanto!"

[Continua, magari nel 2035].