Un gioco, diceva lui
Conosco le abitudini, so i prezzi
e non voglio comperare né essere comprato.
Attratto, fortemente attratto,
civilizzato, sì, civilizzato.
Se non vi piacciono le statistiche e le auto-marchette, saltate.
Secondo Shinystat, in luglio ho fatto più di diecimila pagine viste (ad accessi unici siamo ancora sui novemila).
Non era mai successo, non è detto che succeda di nuovo. Tradizionalmente luglio è un buon mese per questo sito; ad agosto, invece, tutti vanno in ferie, i politici non raccontano più barzellette e i quotidiani si concentrano sulle catastrofi naturali e sui fatti di sangue, che da me non rendono molto.
Per cui si può dire che la stagione 2002/2003 finisce qui, e mi chiedevo se avesse un senso provare a fare un bilancio, con un po’ di statistiche, riflessioni, eccetera. Probabilmente no, ma fa lo stesso.
Un anno senza precedenti.
Questo è stato un anno importante per tutti i blog italiani, la stragrande maggioranza dei quali sono classe 2003. Ma anche i più vecchi si sono ritrovati al centro di un’attenzione non sempre sollecitata.
Per me è stato un anno folle, e la curva qui sopra vi può aiutare a capire il perché. L’anno scorso quella curva non c’era, il diagramma era fisso intorno ai settanta accessi giornalieri da quattro, cinque mesi. Io scrivevo due o tre volte alla settimana, e a giugno non trovavo più argomenti. Il Mondiale di calcio fu un grosso aiuto, ma finì subito e mi lasciò in braghe di tela. Pensavo che a settembre probabilmente avrei chiuso. Le cose non sono andate così.
A distanza di un anno, gli accessi si sono più che quadruplicati. Lasciando perdere l’incremento tra settembre e agosto (routine), gli altri scatti sono determinati dal successo di uno più pezzi che sono riusciti a ‘forare’ la cerchia dei lettori abituali. In ottobre salgo del 36 per cento; se andiamo a vedere cos’è successo, guardate un po’: Berlusconi ha sparlato di sua moglie in pubblico e io ho polemizzato con Luca Sofri e Gianluca Neri. A ottobre, insomma, la ricetta era già pronta: barzellette sul premier e polemiche coi blog più in vista.
A novembre mi contengo, con un buon 10%, dovuto principalmente al social forum di Firenze.
A dicembre un magro 8% che non deve trarre in inganno: dicembre è un mese più corto degli altri, se detraiamo le vacanze di Natale. Ma è proprio un post natalizio (Ungaretti) a determinare il grande balzo in avanti di gennaio: 85.9%, record, e considerate che fino all’epifania non si sono connessi in tanti. L’altro pezzo che mi fa conoscere in giro è Wittgenstein e Wittgenstein (in quel tempo basta un minuscolo link sul sito di Luca Sofri per fare da un giorno all’altro cento accessi in più: adesso mi pare che non sia più così). Entrambi i pezzi hanno avuto l’onore di ritrovarsi stampati su Mondo Blog.
Balzi come quello di gennaio non ci saranno più, ma il trend continua a essere positivo. C’è solo una battuta d’arresto in aprile, durante i grandi ponti tra Pasqua e il primo maggio (però a Natale gli accessi erano aumentati lo stesso…). In quel periodo stavo tentando di scrivere delle cose narrative che a me non dispiacevano affatto, ma voi non mi siete sembrati molto entusiasti. Tra maggio e giugno mi sono tenuto su coi bisticci con Camillo (e se mi linca lui, cosa ci posso fare? In un giorno grazie a lui ho fatto 800 accessi, record dei record) e ho cominciato a pensare di essere arrivato in cima alla parabola.
Luglio è stata una sorpresa. Ingredienti della sorpresa? Le barzellette di Berlusconi, i contributi a Gnu e (in misura minore) la polemica coi Neoconi. Una sorpresa, insomma, ma fino a un certo punto.
Insomma, se volete aumentare gli accessi del vostro blog, le regole sono due: prendere in giro Berlusconi e sfidare qualche altro blog in vista. In questo modo potete anche decuplicare le entrate per un giorno o due. Ma poi bisogna anche convincere i lettori a restare, e quello è un altro paio di maniche. Anch’io, devo ancora capire come faccio. Se posso dare qualche consiglio:
1. non scrivere mai quello che gli altri si aspettano che scrivi, almeno nelle prime righe (es.: se Sirchia consiglia la castità contro l’aids, fa i complimenti a Sirchia);
2. stupisci i lettori, ma attento a non stupirli troppo;
3. sulla vita privata, né troppe verità né troppe balle;
4. inventati dei tormentoni, falli girare; imponi dei ritornelli e la gente li canterà. Ritornelli, è questo quello che la gente vuole;
5. non perdere mai la calma (perdila sui blog degli altri, piuttosto), rifletti, non aver paura di aspettare un giorno o due prima di dire la tua su un argomento; se non sei sicuro al cento per cento di un link, nascondilo tra altri trenta link: nessuno controlla trenta link, mica lo pagano;
6. non fare tanto il superiore, c’è sempre qualcuno (col naso grosso, chissà), che è felice se può prenderti in castagna;
7. rispondi alle mail, ma con moderazione; linca e sarai lincato;
8. riassumi sempre le puntate, perché ci può essere sempre qualcuno appena arrivato che non sa di cosa si sta parlando, e se glielo spieghi te ne sarà grato;
9. sii semplice come una colomba, astuto come un serpente (questa devo averla copiata da qualcuno). Sii lento all’ira, ma se devi colpire, cerca il punto giusto e poi colpisci con più forza che puoi;
10. non desiderare la donna d’altri.
E ricordati che è un gioco, raccontati che è un gioco: lo fai per divertirti, e il giorno che non ti diverti più la smetterai. Puoi smetterla in qualsiasi momento, vero?
Più lincato che letto
Questo è un blog di successo? In linea di massima no. Come dice Neri (gnueconomy), è un po’ assurdo parlare di successo per un sito che se va al massimo fa tremila accessi giornalieri. Io ne faccio trecento.
Il mio piccolo orgoglio è la classifica dei blog più lincati in Italia, in basso a destra su skip pop. In questo momento sono in undicesima posizione, in eterno testa a testa con la Pizia, che è un avversario temibile anche quando non scrive da settimane. Meglio di noi fanno Gnu, Wittgenstein, Mantellini e Personalità Confusa. Non ho guardato i loro contatori, ma mi pare che tutti e quattro abbiano accennato al fatto che Shiny Stat gratis dopo i mille accessi giornalieri non funziona più. Io non mi sono mai dovuto porre il problema.
Insomma, sono un blog più lincato che letto. Questo perché molta gente che mi linca mi ha già letto, e quel link non lo clicca più. Non tutti i link veicolano accessi: alcuni sono soltanto attestati di stima. O di disapprovazione. Piano con gli insulti, comunque, perché di solito se mi lincate io me ne accorgo.
(Comunque anche la corsa al link è solo un gioco, no?).
Un altro piccolo orgoglio è Google (che però con Blogspot è un po’ in conflitto d’interessi): in questo momento sono il terzo Leonardo mondiale, il primo in Italia. Anni e anni all’ombra dell’inventore prima e dell’attore poi sono finalmente vendicati. Leonardo sono io. Il cognome è un dettaglio.
Piccola curiosità: su Google ci sono già tre pagine di risultati sui Neoconi. Tutta roba di questo mese. Piccole sordide soddisfazioni.
Non ce la fai proprio a essere più sintetico?
Il vero grande primato di questo blog è la logorrea. Dopo l’abbandono di Broono ho il fondato sospetto di possedere il blog più prolisso d’Italia. Quest’anno forse sto scrivendo pezzi più brevi, ma per molto tempo ne ho scritti cinque alla settimana, un ritmo che avrebbe dovuto stroncarvi. Perché non vi siete stroncati?
Mettiamo per pura ipotesi che qualcuno abbia letto tutto quello che è stato scritto qui dall’agosto 2002 a oggi: quel tipo si è sciroppato più di novecentomila battute (spazi inclusi). Poteva leggersi il Gattopardo due volte. E a quest’ora sarebbe un po’ più colto. Leggetevi qualche libro, ogni tanto! Non potete sempre far affidamento al Simulator…
E anch’io ripensandoci, nello stesso tempo avrei potuto scrivere il Gattopardo due volte. Vi immaginate? A quest’ora starei già lavorando a “Gattopardo IV – la riscossa di Tancredi”.
E vabbè.
Cosa pensi di ottenere?
È una domanda sbagliata. Vediamo piuttosto cosa ho ottenuto quest’anno.
Sono stato letto e segnalato da parecchia gente (per un pischello come me è parecchia). Sono stato intervistato da due riviste a diffusione nazionale (Internet News e, ehm, Grazia); miei pezzi sono comparsi su tre libri: Blogout (vi siete ricordati di comprarlo?); Mondo Blog e un altro, dell’Apogeo, senza il mio consenso (ma non mi sono offeso). Ho conosciuto molte belle persone, anche se quasi tutte di sfuggita. Sono stato invitato a un convegno a spese di un’università e sul mio cartellino non c’era il cognome, fantastico. C’è gente che mi scrive, pensate, e io gli rispondo. I miei amici mi rispettano. I miei vecchi sono fieri. La mia ragazza mi vuole bene.
E, d’accordo, non ho un euro di più in tasca. Anzi, pago bollette salate. Ma di tutto quello che ho combinato nella mia carriera lavorativa e accademica (e un po’ di cose ne ho combinate), nulla mi ha fruttato tante soddisfazioni. Quindi è inutile chiedersi il perché. Perché il pavone fa la ruota? Perché l’ape danza intorno al fiore? Per bullarsi, per procurarsi il cibo, per riprodursi, ma soprattutto perché Dio li ha fatti così e nessuno ci può fare niente. L’ape danza, la rondine migra, io scrivo. I miei eredi, se ne avrò, dovranno farsene una ragione.
Hai intenzione di continuare per molto?
Non lo so, ma non dipende soltanto da me.
In agosto sarò via (ma il blog continuerà, con delle novità, addirittura). A settembre ricomincerò a lavorare, ma non so ancora esattamente cosa farò. (Non è soltanto colpa del governo, comunque).
Se mi capitasse un lavoro adatto a me e stimolante, penso che scriverei molto meno. Ma in ogni caso dovrei cercare di usare Internet con più moderazione. Il problema è che ho scritto la stessa cosa nel settembre 2002. Gli archivi sono senza pietà, a volte.
In ogni caso, sappiate che questo per me è un gioco, e che posso smettere quando voglio, anche stasera, senza preavviso. Cosa credete, sono un duro, io. E se mi va di scrivere il Gattopardo, lo scrivo. Che ci vuole.
Ah, dimenticavo.
Vi amo tutti.
Ma proprio tutti. Anche Camillo. Mi dispiace che gli hanno fregato il motorino.
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giovedì 31 luglio 2003
martedì 29 luglio 2003
La democrazia delle tibie
(pezzo macabro, e siete avvertiti)
Poor skeleton, no doubt: one of these days
you can cast outside your human, be free…
Forse dovremmo piantarla, tutti quanti, di argomentare se sia stato giusto iniziarla. Giusta o sbagliata che sia, la guerra è cominciata, amen.
Da un po’ di tempo a questa parte il dibattito si è cristallizzato sulle armi di distruzione di massa, che non si trovano. Il che dà ai pacifisti un insperato vantaggio. Neanche un silos di gas nervino, una barra d’uranio, niente. Chi se lo sarebbe aspettato?
Dal canto loro, i Neoconi ribattono che ok, forse sulle armi di distruzione di massa si è un po’ esagerato, ma almeno così l’Iraq è stato liberato dalla tirannia di un clan di assassini. E giù notizie agghiaccianti sulle torture, le stragi, le fosse comuni, Uday che dava in pasto ai leoni i rivali in amore (via Rolli), ecc.
Tutto sommato si tratta di una posizione rispettabile: ma il problema dei Neoconi è la tendenza a strafare. Potrebbero limitarsi a fare informazione, ma si sentono obbligati a trasformarla in propaganda. Eclatante in questo senso è il caso del dissident frogman, un neocone francese che gode di un discreto seguito anche in Italia.
L’uomo-rana (frogman) è l’autore di quel disgustoso bannerino coi bimbi morti che, riprodotto su alcuni siti italiani, ci aveva orripilato mesi fa (ne parlavo qui). Il senso del bannerino era: voi, pacifisti siete complici delle stragi dei bambini curdi. Il fatto che la maggior parte di queste stragi siano avvenute più di dieci anni fa, quando magari non eravate nemmeno pacifisti, non ha naturalmente nessuna importanza. Assassini!
In un certo senso, chissà, aveva perfino ragione.
Ora il ranocchio è tornato all’attacco con un nuovo bannerino, di tutt’altro tenore: c’è sempre un bambino, ma adesso è vivo e vegeto e bacia la guancia del fiero U.S. Marine. Per me il ranocchio è una rivelazione: ero cresciuto credendo che la Propaganda fosse qualcosa che si impone dall’alto. Ma in questi mesi sto scoprendo che non è vero, che c’è un propagandista in ciascuno di noi, che la classica immagine del bambino in braccio al soldato è radicata evidentemente nel nostro inconscio: e che c’è gente che è disposta a tirarla fuori gratis; gente che nel suo tempo libero, invece di farsi un giro in bicicletta, si diverte facendo la propaganda su internet, e se c'è da mostrare bimbi morti non si tira indietro. La cosa, devo dire, mi spaventa un po’. E mi affascina, anche.
Il bannerino è ben fatto (probabilmente anche quello dei bimbi morti aveva le sue qualità, ma sono riuscito a guardarlo solo di sfuggita), ed è strutturato sul gioco di parole WMD-WDM: “Niente WMD?” (Weapons of Mass Destruction, armi di distruzione di massa)? “We Don’t Mind” (Non ce ne frega niente). A pronunciare questa seconda frase sono… i teschi delle fosse comuni irachene. Dare voce a un teschio non è poi così diverso dall’affidare i propri messaggi a un bimbo morto, ma è senza dubbio meno orripilante. Certo, un teschio è ancora una spoglia mortale, ma è una spoglia con cui siamo abituati a scherzare fin dall’infanzia: un fermacarte, un fumetto, un cartone animato.
Per questo motivo – perdonatemi – quando ho visto gli scheletri mobilitati per applaudire all’invasione, mi è venuto da sorridere. Umor nero, senza dubbio, ma scusate, l’idea che gli americani abbiano fatto questo popò di operazione militare per liberare gli scheletri ingiustamente confinati nel sottosuolo ha un che di buffo. Ora quindi gli scheletri di tutte le vittime del regime sono liberi di ballare la Totentanz per le strade di Bagdad. Bene. Ma non si poteva fare qualcosa per liberarli quando erano, ehm, ancora uomini in carne e ossa?
No, evidentemente non si poteva. C’era la guerra fredda, c’era un regime efferato quanto si vuole, ma che era riuscito a barcamenarsi tra Usa e Urss con ottimi risultati. C’era la rivoluzione khomeinista in Iran che faceva paura a tutti quanti, e non si poteva andare per il sottile. E poi, anche dopo la guerra del Golfo, c’erano una serie di ragioni che spinsero gli Usa a non deporre Saddam Hussein. Sono cose che sappiamo tutti benissimo, no?
E allora perché dovremmo emozionarci per un bimbo morto o per un teschio, quando per dieci o vent’anni li abbiamo tranquillamente ignorati? Quando erano vivi non erano così prioritari. Ora che sono un mucchio di ossa, improvvisamente diventano l’occasione per un conflitto di civiltà. Non è pretendere un po’ troppo dalle nostre coscienze occidentali? Il senso di colpa ce l’abbiamo. Anche retroattivo, se serve. Ma non è che possiamo indignarci a bacchetta, oggi per un tiranno, domani per un altro.
Se almeno la mattanza finisse qui. Ma non finirà. Molti adulti e bambini continueranno a morire o a storpiarsi in Iraq: perché? Perché gli anglo-americani hanno fatto largo uso di cluster bombs, che deflagrano prima di toccare il suolo, disseminando il terreno di detriti esplosivi. In Iraq ne hanno usate trecentomila. Sarebbe come dire che hanno realizzato trecentomila campi minati, in pochi giorni. A giugno le agenzie Onu parlavano già di centinaia di vittime tra morti e feriti.
A fine giugno, poi, c’è stata una conferenza ONU a Ginevra proprio sul problema della bonifica degli ordigni inesplosi. La corrotta ONU, l’insignificante ONU, sta infatti lavorando a un protocollo che preveda l’obbligo da parte dei Paesi belligeranti a ripulire i territori dalle cluster bombs. Ora, indovinate quali sono i due Paesi che a Ginevra facevano le orecchie da mercante? Usa e Regno Unito, esatto. I soldi per le operazioni militari le avevano. I soldi per esportare la democrazia si trovano sempre. I soldi per sminare l’Iraq, no.
(Nel frattempo, chissà, possono anche aver cambiato idea: da giugno in poi non ho aggiornamenti. Ma su notizie come questa non desidero altro che di essere smentito).
Se invece le cose stanno proprio così, i bambini iracheni dovranno rassegnarsi a vivere nella nuova Repubblica Democratica Minata Irachena, dove nessuno ti vieta di andare in giro per strada, tirare distrattamente un calcio a un sasso e perdere un piede o una gamba. Finché… finché non arriverà magari qualche altro esercito liberatore. Non è mai troppo tardi per essere liberati, come i teschi dei vostri padri ben sanno. Perciò su col morale, ragazzi, finché c’è un femore, una tibia, anche solo una misera vertebra, c’è speranza.
Save your dry and joyous shout
For the day poor skeleton steps out…
Landmine Action
Campagna italiana contro le mine
(Un grazie a tutto lo staff di Boffardi.net)
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Forse dovremmo piantarla, tutti quanti, di argomentare se sia stato giusto iniziarla. Giusta o sbagliata che sia, la guerra è cominciata, amen.
Da un po’ di tempo a questa parte il dibattito si è cristallizzato sulle armi di distruzione di massa, che non si trovano. Il che dà ai pacifisti un insperato vantaggio. Neanche un silos di gas nervino, una barra d’uranio, niente. Chi se lo sarebbe aspettato?
Dal canto loro, i Neoconi ribattono che ok, forse sulle armi di distruzione di massa si è un po’ esagerato, ma almeno così l’Iraq è stato liberato dalla tirannia di un clan di assassini. E giù notizie agghiaccianti sulle torture, le stragi, le fosse comuni, Uday che dava in pasto ai leoni i rivali in amore (via Rolli), ecc.
Tutto sommato si tratta di una posizione rispettabile: ma il problema dei Neoconi è la tendenza a strafare. Potrebbero limitarsi a fare informazione, ma si sentono obbligati a trasformarla in propaganda. Eclatante in questo senso è il caso del dissident frogman, un neocone francese che gode di un discreto seguito anche in Italia.
L’uomo-rana (frogman) è l’autore di quel disgustoso bannerino coi bimbi morti che, riprodotto su alcuni siti italiani, ci aveva orripilato mesi fa (ne parlavo qui). Il senso del bannerino era: voi, pacifisti siete complici delle stragi dei bambini curdi. Il fatto che la maggior parte di queste stragi siano avvenute più di dieci anni fa, quando magari non eravate nemmeno pacifisti, non ha naturalmente nessuna importanza. Assassini!
In un certo senso, chissà, aveva perfino ragione.
Ora il ranocchio è tornato all’attacco con un nuovo bannerino, di tutt’altro tenore: c’è sempre un bambino, ma adesso è vivo e vegeto e bacia la guancia del fiero U.S. Marine. Per me il ranocchio è una rivelazione: ero cresciuto credendo che la Propaganda fosse qualcosa che si impone dall’alto. Ma in questi mesi sto scoprendo che non è vero, che c’è un propagandista in ciascuno di noi, che la classica immagine del bambino in braccio al soldato è radicata evidentemente nel nostro inconscio: e che c’è gente che è disposta a tirarla fuori gratis; gente che nel suo tempo libero, invece di farsi un giro in bicicletta, si diverte facendo la propaganda su internet, e se c'è da mostrare bimbi morti non si tira indietro. La cosa, devo dire, mi spaventa un po’. E mi affascina, anche.
Il bannerino è ben fatto (probabilmente anche quello dei bimbi morti aveva le sue qualità, ma sono riuscito a guardarlo solo di sfuggita), ed è strutturato sul gioco di parole WMD-WDM: “Niente WMD?” (Weapons of Mass Destruction, armi di distruzione di massa)? “We Don’t Mind” (Non ce ne frega niente). A pronunciare questa seconda frase sono… i teschi delle fosse comuni irachene. Dare voce a un teschio non è poi così diverso dall’affidare i propri messaggi a un bimbo morto, ma è senza dubbio meno orripilante. Certo, un teschio è ancora una spoglia mortale, ma è una spoglia con cui siamo abituati a scherzare fin dall’infanzia: un fermacarte, un fumetto, un cartone animato.
Per questo motivo – perdonatemi – quando ho visto gli scheletri mobilitati per applaudire all’invasione, mi è venuto da sorridere. Umor nero, senza dubbio, ma scusate, l’idea che gli americani abbiano fatto questo popò di operazione militare per liberare gli scheletri ingiustamente confinati nel sottosuolo ha un che di buffo. Ora quindi gli scheletri di tutte le vittime del regime sono liberi di ballare la Totentanz per le strade di Bagdad. Bene. Ma non si poteva fare qualcosa per liberarli quando erano, ehm, ancora uomini in carne e ossa?
No, evidentemente non si poteva. C’era la guerra fredda, c’era un regime efferato quanto si vuole, ma che era riuscito a barcamenarsi tra Usa e Urss con ottimi risultati. C’era la rivoluzione khomeinista in Iran che faceva paura a tutti quanti, e non si poteva andare per il sottile. E poi, anche dopo la guerra del Golfo, c’erano una serie di ragioni che spinsero gli Usa a non deporre Saddam Hussein. Sono cose che sappiamo tutti benissimo, no?
E allora perché dovremmo emozionarci per un bimbo morto o per un teschio, quando per dieci o vent’anni li abbiamo tranquillamente ignorati? Quando erano vivi non erano così prioritari. Ora che sono un mucchio di ossa, improvvisamente diventano l’occasione per un conflitto di civiltà. Non è pretendere un po’ troppo dalle nostre coscienze occidentali? Il senso di colpa ce l’abbiamo. Anche retroattivo, se serve. Ma non è che possiamo indignarci a bacchetta, oggi per un tiranno, domani per un altro.
Se almeno la mattanza finisse qui. Ma non finirà. Molti adulti e bambini continueranno a morire o a storpiarsi in Iraq: perché? Perché gli anglo-americani hanno fatto largo uso di cluster bombs, che deflagrano prima di toccare il suolo, disseminando il terreno di detriti esplosivi. In Iraq ne hanno usate trecentomila. Sarebbe come dire che hanno realizzato trecentomila campi minati, in pochi giorni. A giugno le agenzie Onu parlavano già di centinaia di vittime tra morti e feriti.
A fine giugno, poi, c’è stata una conferenza ONU a Ginevra proprio sul problema della bonifica degli ordigni inesplosi. La corrotta ONU, l’insignificante ONU, sta infatti lavorando a un protocollo che preveda l’obbligo da parte dei Paesi belligeranti a ripulire i territori dalle cluster bombs. Ora, indovinate quali sono i due Paesi che a Ginevra facevano le orecchie da mercante? Usa e Regno Unito, esatto. I soldi per le operazioni militari le avevano. I soldi per esportare la democrazia si trovano sempre. I soldi per sminare l’Iraq, no.
(Nel frattempo, chissà, possono anche aver cambiato idea: da giugno in poi non ho aggiornamenti. Ma su notizie come questa non desidero altro che di essere smentito).
Se invece le cose stanno proprio così, i bambini iracheni dovranno rassegnarsi a vivere nella nuova Repubblica Democratica Minata Irachena, dove nessuno ti vieta di andare in giro per strada, tirare distrattamente un calcio a un sasso e perdere un piede o una gamba. Finché… finché non arriverà magari qualche altro esercito liberatore. Non è mai troppo tardi per essere liberati, come i teschi dei vostri padri ben sanno. Perciò su col morale, ragazzi, finché c’è un femore, una tibia, anche solo una misera vertebra, c’è speranza.
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Landmine Action
Campagna italiana contro le mine
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lunedì 28 luglio 2003
Rideranno, rideranno (e come dargli torto).
Sul cavallo di Caligola ci sono due teorie:
Secondo alcuni, l’imperatore era pazzo, punto e basta: parente di pazzi, cresciuto in un contesto in cui sareste usciti pazzi pure voi. Sicché, quando ottenne il privilegio di nominare dei senatori, pensò bene di nominare il suo cavallo preferito, anche se sullo scranno non doveva trovarsi molto a suo agio. Questa la prima teoria. Divertente, no?
Secondo altri, Caligola non era così pazzo, aveva forse un senso un po’ esagerato della teatralità (metti quella volta che fece costruire un ponte di barche sulla baia di Pozzuoli solo per attraversarlo con un cocchio, vestito da Dio Apollo), e una precisa strategia: impressionare il popolino, umiliare il patriziato. Il suo modello era l’Egitto, dove l’imperatore era davvero onorato come un Dio, non sottoposto al vaglio dei senatori di una cosa che ufficialmente continuava a chiamarsi Res Publica. Tanti imperatori dopo di lui snobbarono il Senato e guardarono all’Oriente: Nerone, Commodo, Eliogabalo: tutti, non a caso, ritenuti pazzi dalla storiografia ufficiale. Ma la storiografia la facevano i senatori, appunto.
In questo senso, anche una pagliacciata come quella del cavallo senatore assume un senso politico: Caligola mandava a dire che considerava il Senato una succursale delle stalle imperiali, che non avrebbe dato retta ai senatori più di quanta non ne desse a un equino di pregio. Questa la seconda teoria.
Sul Ministro Castelli se ne potrebbero dire tante (tranne forse che è un pirla, ci dovrebbe essere da qualche parte una sentenza che stabilisce che non si può dare del pirla al Ministro Castelli: nel dubbio, preferisco non dargli del pirla. Anche voi, non azzardatevi a dire che è un pirla, il Ministro Castelli).
Siamo di fronte, mi rendo conto, a un mistero che divertirà gli storici a venire: perché questo signore, che qualcosa l’ha pur studiata, e in un qualche ramo sarà pur competente, si è trovato tre anni fa alla guida di un dicastero così importante, per il quale non aveva mai dimostrato (e non dimostra tuttora) nessuna inclinazione?
La prima ipotesi che viene in mente, la più banale, è sempre quella: pazzia. Berlusconi, soggetto da anni a uno stress psicofisico, vince le elezioni ma esce di senno. Bossi, poi, è uno che nel senno ci entra di rado, per uscirne sempre abbastanza rapidamente. Si incontrano ad Arcore, si mettono le dita nel naso e fanno tutte le cose che fanno i matti nei film, tra cui stilare una lista di ministri che più paradossale non si può: la Moratti all’istruzione, Scajola agli interni. E il signor Castelli (che non è un pirla), alla giustizia. Il tutto, immaginiamo, tra sberleffi e risolini. A leggerla, Ciampi ormai sviene: ma tanto la frittata è fatta. Magari gli storici del futuro racconteranno le cose così.
Ma io non sono tanto convinto. Secondo me Berlusconi e Bossi sono persone dall’intelletto brillante, ancorché un po’ rozzo, e con uno spiccato senso teatrale. Nominare un broker all’istruzione, per quanto possa sembrare assurdo, dà precisamente il senso della concezione che Berlusconi ha della scuola. Allo stesso modo anche la nomina di un non-pirla alla Giustizia assume un senso, ed è precisamente il senso del cavallo di Caligola: tanto poco Berlusconi dà importanza ai suoi ministri, ai magistrati, alle istituzioni, alla legge, da nominare come Guardiasigilli il primo equino che si trova tra i piedi.
Che poi Castelli possa essere assimilato a un equino, e non dei più pregiati, è cosa che possiamo dimostrare in talmente tanti modi che non vale nemmeno la pena. Per dirne una, passò a Bolzaneto nel pieno delle torture e non trovò niente da dire. Ma su queste cose non vorrei tornare. Preferisco insistere su qualche piccolo dettaglio di nessuna importanza, com’è mio tipico. Vi ricordate quando la settimana scorsa, per offendere un sottosegretario UDC, disse la frase “non ho mai visto un democristiano dimettersi”?
Lasciate stare un attimo la mancanza di stile, la rozzezza pura, sforzatevi: concentratevi un attimo sul significato della frase: ma vi sembra normale che una persona dica una cosa del genere? Vi sembra normale che un italiano nato senz’altro prima del 1993 possa dire che “non ha mai visto un democristiano dimettersi”?
Io, che di Castelli potrei esser figlio, e che della prima repubblica mi son perso più della metà, pure qualche vago ricordo ce l’ho: e questi vaghi ricordi, guarda caso, sono tutti di democristiani che si dimettono. Ministri, presidenti del consiglio, perfino un tal Leone, presidente della Repubblica. I democristiani si dimettevano in continuazione. Pare quasi fosse la cosa che gli riusciva meglio. Ricordo che i governi duravano un soffio e che i ministri avevano sempre un piede dentro e uno fuori: che quando si trattò di salvare i tre canali a Berlusconi, si dimisero in quattro o in cinque (roba da tornare alle urne), e Andreotti fece spallucce: l’evento potrebbe essere considerato la vera fine della DC, perché chi se ne andava erano le costole del futuro Partito Popolare; chi restava oggi è tuttora a corte di Berlusconi. Ricordo che io ero al mare coi miei. E Castelli, dove diavolo era? Dov’è stato fino al ’93, in una campana di vetro? Ha letto qualche giornale, a parte la gazzetta dello Sport?
Un’inezia, mi rendo conto, ma mi pare il sintomo di un’ignoranza grande, diffusa, perniciosa. Questo è l’uomo che da tre anni rappresenta il Governo nelle questioni della giustizia. Un pirla forse no, ma da qui a nominarlo Ministro, ce ne passa, ce ne dovrebbe passare. La democrazia, va bene, il consenso popolare, son d’accordo, ma fenomeni come Castelli alla giustizia non dovrebbero più accadere. Cosa penseranno i posteri di noi?
Rideranno, come noi ridiamo del cavallo di Caligola, senza riflettere. Rideranno di noi. Ok. Ma non doveva essere così divertente, la vita ai tempi di Caligola. E vi giuro, posteri, tre anni di governo Berlusconi non sono stati quel gran spasso che credete. Oh, posteri, mi sentite? E piantatela di ridere, una buona volta. Non ce niente da... oh, beh, fanculo pure a voi.
Sul cavallo di Caligola ci sono due teorie:
Secondo alcuni, l’imperatore era pazzo, punto e basta: parente di pazzi, cresciuto in un contesto in cui sareste usciti pazzi pure voi. Sicché, quando ottenne il privilegio di nominare dei senatori, pensò bene di nominare il suo cavallo preferito, anche se sullo scranno non doveva trovarsi molto a suo agio. Questa la prima teoria. Divertente, no?
Secondo altri, Caligola non era così pazzo, aveva forse un senso un po’ esagerato della teatralità (metti quella volta che fece costruire un ponte di barche sulla baia di Pozzuoli solo per attraversarlo con un cocchio, vestito da Dio Apollo), e una precisa strategia: impressionare il popolino, umiliare il patriziato. Il suo modello era l’Egitto, dove l’imperatore era davvero onorato come un Dio, non sottoposto al vaglio dei senatori di una cosa che ufficialmente continuava a chiamarsi Res Publica. Tanti imperatori dopo di lui snobbarono il Senato e guardarono all’Oriente: Nerone, Commodo, Eliogabalo: tutti, non a caso, ritenuti pazzi dalla storiografia ufficiale. Ma la storiografia la facevano i senatori, appunto.
In questo senso, anche una pagliacciata come quella del cavallo senatore assume un senso politico: Caligola mandava a dire che considerava il Senato una succursale delle stalle imperiali, che non avrebbe dato retta ai senatori più di quanta non ne desse a un equino di pregio. Questa la seconda teoria.
Sul Ministro Castelli se ne potrebbero dire tante (tranne forse che è un pirla, ci dovrebbe essere da qualche parte una sentenza che stabilisce che non si può dare del pirla al Ministro Castelli: nel dubbio, preferisco non dargli del pirla. Anche voi, non azzardatevi a dire che è un pirla, il Ministro Castelli).
Siamo di fronte, mi rendo conto, a un mistero che divertirà gli storici a venire: perché questo signore, che qualcosa l’ha pur studiata, e in un qualche ramo sarà pur competente, si è trovato tre anni fa alla guida di un dicastero così importante, per il quale non aveva mai dimostrato (e non dimostra tuttora) nessuna inclinazione?
La prima ipotesi che viene in mente, la più banale, è sempre quella: pazzia. Berlusconi, soggetto da anni a uno stress psicofisico, vince le elezioni ma esce di senno. Bossi, poi, è uno che nel senno ci entra di rado, per uscirne sempre abbastanza rapidamente. Si incontrano ad Arcore, si mettono le dita nel naso e fanno tutte le cose che fanno i matti nei film, tra cui stilare una lista di ministri che più paradossale non si può: la Moratti all’istruzione, Scajola agli interni. E il signor Castelli (che non è un pirla), alla giustizia. Il tutto, immaginiamo, tra sberleffi e risolini. A leggerla, Ciampi ormai sviene: ma tanto la frittata è fatta. Magari gli storici del futuro racconteranno le cose così.
Ma io non sono tanto convinto. Secondo me Berlusconi e Bossi sono persone dall’intelletto brillante, ancorché un po’ rozzo, e con uno spiccato senso teatrale. Nominare un broker all’istruzione, per quanto possa sembrare assurdo, dà precisamente il senso della concezione che Berlusconi ha della scuola. Allo stesso modo anche la nomina di un non-pirla alla Giustizia assume un senso, ed è precisamente il senso del cavallo di Caligola: tanto poco Berlusconi dà importanza ai suoi ministri, ai magistrati, alle istituzioni, alla legge, da nominare come Guardiasigilli il primo equino che si trova tra i piedi.
Che poi Castelli possa essere assimilato a un equino, e non dei più pregiati, è cosa che possiamo dimostrare in talmente tanti modi che non vale nemmeno la pena. Per dirne una, passò a Bolzaneto nel pieno delle torture e non trovò niente da dire. Ma su queste cose non vorrei tornare. Preferisco insistere su qualche piccolo dettaglio di nessuna importanza, com’è mio tipico. Vi ricordate quando la settimana scorsa, per offendere un sottosegretario UDC, disse la frase “non ho mai visto un democristiano dimettersi”?
Lasciate stare un attimo la mancanza di stile, la rozzezza pura, sforzatevi: concentratevi un attimo sul significato della frase: ma vi sembra normale che una persona dica una cosa del genere? Vi sembra normale che un italiano nato senz’altro prima del 1993 possa dire che “non ha mai visto un democristiano dimettersi”?
Io, che di Castelli potrei esser figlio, e che della prima repubblica mi son perso più della metà, pure qualche vago ricordo ce l’ho: e questi vaghi ricordi, guarda caso, sono tutti di democristiani che si dimettono. Ministri, presidenti del consiglio, perfino un tal Leone, presidente della Repubblica. I democristiani si dimettevano in continuazione. Pare quasi fosse la cosa che gli riusciva meglio. Ricordo che i governi duravano un soffio e che i ministri avevano sempre un piede dentro e uno fuori: che quando si trattò di salvare i tre canali a Berlusconi, si dimisero in quattro o in cinque (roba da tornare alle urne), e Andreotti fece spallucce: l’evento potrebbe essere considerato la vera fine della DC, perché chi se ne andava erano le costole del futuro Partito Popolare; chi restava oggi è tuttora a corte di Berlusconi. Ricordo che io ero al mare coi miei. E Castelli, dove diavolo era? Dov’è stato fino al ’93, in una campana di vetro? Ha letto qualche giornale, a parte la gazzetta dello Sport?
Un’inezia, mi rendo conto, ma mi pare il sintomo di un’ignoranza grande, diffusa, perniciosa. Questo è l’uomo che da tre anni rappresenta il Governo nelle questioni della giustizia. Un pirla forse no, ma da qui a nominarlo Ministro, ce ne passa, ce ne dovrebbe passare. La democrazia, va bene, il consenso popolare, son d’accordo, ma fenomeni come Castelli alla giustizia non dovrebbero più accadere. Cosa penseranno i posteri di noi?
Rideranno, come noi ridiamo del cavallo di Caligola, senza riflettere. Rideranno di noi. Ok. Ma non doveva essere così divertente, la vita ai tempi di Caligola. E vi giuro, posteri, tre anni di governo Berlusconi non sono stati quel gran spasso che credete. Oh, posteri, mi sentite? E piantatela di ridere, una buona volta. Non ce niente da... oh, beh, fanculo pure a voi.
venerdì 25 luglio 2003
Piccole porcate quotidiane
(In seguito magari, con una stagione più clemente, rileggeremo questi pezzi e penseremo a quanto eravamo nervosi, nel luglio 2003. Polemizzavamo per frasi e mezze frasi, per un nulla certe volte. Ci surriscaldavamo, vuoi per la temperatura, vuoi perché questa famosa blogosfera cominciava a stare stretta a tutti quanti. Ma per ora:)
Io non volevo scrivere a Giuliano Ferrara, lo giuro, non volevo. Mi c'hanno proprio costretto.
In altre parole:
Un filosofo di cui fino a qualche giorno fa sapevo al massimo il cognome, George Steiner, ebreo americano di origine austriaca (nato a Parigi), riceve un premio in Germania. Per l’occasione pronuncia un discorso apparentemente un po’ divagante, ma che in realtà è un inno al nomadismo culturale, all’universalismo della cultura, alla pace. L’uomo è un ospite della vita, dice, un ospite del mondo, e gli ospiti hanno il dovere di lasciare la casa più pulita di come l’hanno trovata. Una morale scoutistica che non posso che sottoscrivere.
Verso la fine forse si rende conto di aver esagerato un po’ con le tinte rosee, e riatterra bruscamente sul pianeta-ospite:
Lo so che molto probabilmente le mie attese e le mie speranze sono utopistiche. Dappertutto oggi divampa l’odio teologico, religioso e tribale. In Europa è in trionfale ascesa un fascismo del denaro, del filisteismo e dei media. Per tutto questo in Italia c’è un’espressione: il “berlusconismo”.
In Italia il discorso viene tradotto da Angelo Bolaffi e pubblicato su Micromega (2003, n.3, pagg-296-302). Naturalmente alla frase sul Berlusconismo (scritto proprio così, in italiano nel testo) è data una grande evidenza, anche nel cappello introduttivo. Bene.
C’è un quotidiano, in Italia, che si è posto il problema di creare una nuova élite culturale neoconservatrice. È un’impresa immane, in un Paese ancora sotto l’egemonia culturale della sinistra (in un Paese, notiamo per inciso, in cui l’espressione “egemonia culturale” è stata inventata, e inventata guarda caso da un quadro del Partito Comunista).
Per una serie di bizzarre concidenze che piacerebbero a Steiner, il quotidiano è diretto da un tale che studiava come quadro nello stesso partito, ma che poi cambiò parrocchia, ed è di proprietà della moglie dell’attuale Presidente del Consiglio, che guarda caso è Berlusconi, cioè l’indiscutibile radice del composto “Berlusconismo”. Gli scherzi del caso, eh?
Tra le varie operazioni svolte da questo quotidiano, fondamentale è la rassegna stampa. Per darsi un’immagine di autorevolezza, il quotidiano riporta spesso articoli interessanti apparsi su altri organi di stampa. In questo modo il lettore ha l’impressione di farsi un’informazione corretta, dirò di più, una cultura a tutto tondo. Se il Foglio cita il Financial Times, non c’è più bisogno di sfogliare il Financial Times. Se riporta un pezzo da Micromega, non c’è più bisogno di leggersi Micromega.
Il problema è che in realtà il lettore crede di leggere un pezzo del Financial Times. Invece sta leggendo la versione edulcorata per il neocone italiano. Successe così, per esempio, il 15 maggio di quest’anno: un articolo del Financial fu pubblicato con alcune sforbiciature. Guarda caso si trattava di pareri non molto lusinghieri sui trascorsi giudiziari di Silvio Berlusconi, il marito della proprietaria. Al Financial se ne accorsero, s’incazzarono, costrinsero il direttore ad ammettere l’errore e a scusarsi in prima pagina l'indomani. Il direttore chiosava così:
I lettori del Foglio sanno che si tratta di un errore dovuto a imperizia redazionale, perché questo giornale di porcate ne fa, ma belle, grandi, anzi, smisurate, e di queste piccolezze si vergognerebbe.
Così è toccato a noi di vergognarci per lui. Ma passiamo avanti. Arriviamo a questo lunedì. Il Foglio ripubblica il discorso di Steiner, con qualche taglio, senz’altro per motivi di spazio. Fatto sta, che per una coincidenza che ha del clamoroso, l'unica frase tagliata è proprio il riferimento al Berlusconismo. Sul quotidiano della signora Berlusconi!
Ora, succede che il Griso, un bloggatore super partes, dotato di buon fiuto e situato nei pressi di una buona biblioteca pubblica, se ne accorga, e ci scriva su un bel pezzo. Poi, siccome lui è convinto che non lo leggo mai, mi manda pure una mail. Io leggo, sorrido, e… passerei oltre, perché il peccato è comunque veniale, perché poi mi tocca litigare, perché l’ambiente è già surriscaldato ecc. ecc.
Ma.
Ma era martedì, non sapevo cosa scrivere, e il Blog Aggregator aveva appena cambiato grafica (complimenti). Per testare il nuovo sistema, decido di postare a mio nome il pezzo del Griso. Anche questa in fondo era una piccola scorrettezza (e me ne sono già scusato), perché i clic dati al Griso sarebbero stati conteggiati a me.
Sull’aggregator la notizia figurava così:
il foglio continua a fare brutte figure
finché lo dico io... ma stavolta è il Griso
Leonardo
E questo è tutto quello che avrei avuto da dire sulla faccenda, perché non avevo letto Steiner, non avevo letto il Foglio. Semplicemente avvertivo che il Griso aveva da fare una critica al Foglio.
Il nuovo aggregator, comunque, funziona molto bene. A me non era mai successo di fare più di settanta clic con una notizia. Di solito viaggio a quota 10, come potete vedere.
A questo punto arriva Rolli, un blog che del Foglio è una specie di difensore d’ufficio:
C'è un articolo, che non ha letto nessuno di quelli che l'hanno ripreso, a parte lui, che ne fa un attacco al Foglio.
Lo riporta solo per un' unica frase che non c'entra nulla nel contesto; è semplicemente una specificazione
Proserpina ci casca, e passi; lei non si fa vanto di fare le pulci a nessuno. Si è fidata.
Leonardo, invece, che si sente molto il Christian Rocca del web ci si butta a pesce e nemmeno sa di che parla.
Verrebbe da chiedere l'articolo al Foglio e postarlo tutto; giusto per far capire quanto la frase mancante non abbia alcun senso se la togli; ma soprattutto non ha senso se la metti.
[…]
Se si vuole fare il Rocca del web bisogna farlo bene.
Attendo quindi che il Griso e Leonardo postino integralmente l'articolo, visto che vogliono fare pulci e informazione; altrimenti, ribadisco, l'operazione è quella che è, e non fa onore a nessuno dei due.
Serve poco replicare che io non mi sono “buttato a pesce”, che non avevo nessun interesse a speculare sulla vicenda, ma che avevo solo riportato il parere di una persona che ritengo fidata e competente. A quanto pare ci si aspetta più da me, perché io sarei “il Rocca della situazione”, ovvero uno che va in giro a spulciare a destra e manca. Quindi gli altri possono citare e fidarsi: io no. Io devo riportare l’articolo in versione integrale.
Ora, è pur vero che mi è capitato un paio di volte di mettere il giornalista Rocca in difficoltà, ma credetemi, è un gioco da ragazzi. Qualsiasi diciottenne un po’ esperto d’inglese e d’internet e con un po’ di tempo a disposizione potrebbe farlo. A volte, del resto, Rocca riesce a mettersi in difficoltà praticamente da solo.
Questo perciò non fa di me un blog autorevole. Rivendico il mio diritto a essere un blog cazzone, a esprimere i miei pareri a suon di “vi piscio in testa” e “vaffanculo”. Ma soprattutto.
Ma soprattutto.
Non dovete tentarmi, ragazzi.
Non dovete accusarmi di non aver letto un libro, perché va a finire che io quel libro lo leggo davvero, e poi ve lo ficco intero laddove il sol non batte e la copertina in brossura duole. Chiedete a quello che blaterava di Tocqueville. (Anzi, no, lasciatelo stare, deve sbollire).
Non dovete chiedermi di riportare un articolo per intero, perché se mi capita che ho una mezza giornata di tempo, mi faccio il giro di quattro emeroteche ma lo trovo, quell’articolo, lo ribatto tutto intero e poi ve lo sbatto in faccia, con le sette camice che m’avete fatto sudare.
George Steiner ha scritto un pezzo commovente, in cui chiede alla cultura di essere un linguaggio universale, di superare le barriere della xenofobia. Contro l’idea neoconeggiante di “cultura” come “civilisation” in perenne scontro con altre “civilisations” per la sopravvivenza o per l’egemonia. La sua idea di cultura è datata, tradizionale. La sua idea di cultura è anche la mia. La sua idea di cultura è purtroppo in declino, minacciata da un fascismo del denaro che in Italia si chiama Berlusconismo. Dare a questa forza oscura le sembianze e il nome di un buffoncello brianzolo potrà sembrare inadeguato, ma in Italia siamo famosi per dare nomi e volti umani a movimenti terribili: il fascismo ha avuto lungo il secolo incarnazioni ben più terribili di Mussolini, ma il copyright è nostro e ce lo teniamo.
Io credo proprio che la frase sul berlusconismo non stia lì per caso. E credo anche che al Foglio non l’abbiano tolta per caso. Ma hanno fatto anche qualcosina di più:
nell’articolo Steiner parla di quella che forse sarà la patria dei suoi figli, Israele. Steiner avverte che il Sionismo di Israele per lui è “un motivo di sofferenza”, anche se crede di non avere nemmeno il diritto a quella sofferenza. Osserva che Israele per sopravvivere è costretta a torturare e umiliare i suoi oppositori. E si chiede se tutto ciò sia giusto.
Un titoletto del Foglio riporta la frase:
…anche Israele è costretto a torturare e umiliare in modo terribile i suoi vicini. Lo deve fare.
Sembra un imperativo categorico, invece Steiner si chiede subito dopo: È questo un prezzo troppo alto? Ha Israele privato l’ebraismo delle sue morali e metafisiche lettres de noblesse, del suo titolo di nobiltà?
Sono quelle piccole deformazioni che al lettore fedele passano probabilmente inosservate, ma che agli occhi di chi non condivide l’ideologia dei redattori suonano come il gesso spezzato sulla lavagna. Cercare di usare Steiner per giustificare gli abusi dell’occupazione israeliana è una missione impossible. Anche un po’ penosa.
Insomma, io di questa cosa non volevo parlare, mi ci avete tirato dentro, peggio per voi. Adesso scrivo anche al Direttore:
Al direttore:
certo che siete proprio dei bricconcelli impenitenti, voialtri del Foglio. Lunedì scorso avete riportato un discorso di George Steiner con qualche taglio: ma dovevate proprio togliere il riferimento alla definizione di “Berlusconismo” come “fascismo del denaro, del filisteismo e dei media”?
Non vi è venuto in mente che qualcuno avrebbe potuto accorgersene e pensar male?
La prego, non mi parli di imperizia redazionale, non mi dica che il suo giornale fa solo le porcate belle e grandi. La mia impressione è che di porcate ne faccia tutti i giorni, tante e tanto piccole che ormai non se ne accorge neanche più, e di conseguenza non riesce nemmeno a provarne vergogna. Suo.
Vediamo cosa succede (niente, direi).
E per un po’ credo che nessun altro pretenderà qualcosa da me. Mi sbaglio?
Appendice:
1) Sul "caso Steiner", vedi anche Buroggu che non ha tutti i torti (nel senso che proprio tutti non li ha) e Muttley. Caso mai non vi bastassero i link).
2) Nello stesso numero del Foglio è riportato un articolo del Secolo d’Italia in cui si criticano i “Neocon all’amatriciana”. Quest’espressione… non so… mi ricorda qualcosa).
(In seguito magari, con una stagione più clemente, rileggeremo questi pezzi e penseremo a quanto eravamo nervosi, nel luglio 2003. Polemizzavamo per frasi e mezze frasi, per un nulla certe volte. Ci surriscaldavamo, vuoi per la temperatura, vuoi perché questa famosa blogosfera cominciava a stare stretta a tutti quanti. Ma per ora:)
Io non volevo scrivere a Giuliano Ferrara, lo giuro, non volevo. Mi c'hanno proprio costretto.
In altre parole:
Un filosofo di cui fino a qualche giorno fa sapevo al massimo il cognome, George Steiner, ebreo americano di origine austriaca (nato a Parigi), riceve un premio in Germania. Per l’occasione pronuncia un discorso apparentemente un po’ divagante, ma che in realtà è un inno al nomadismo culturale, all’universalismo della cultura, alla pace. L’uomo è un ospite della vita, dice, un ospite del mondo, e gli ospiti hanno il dovere di lasciare la casa più pulita di come l’hanno trovata. Una morale scoutistica che non posso che sottoscrivere.
Verso la fine forse si rende conto di aver esagerato un po’ con le tinte rosee, e riatterra bruscamente sul pianeta-ospite:
Lo so che molto probabilmente le mie attese e le mie speranze sono utopistiche. Dappertutto oggi divampa l’odio teologico, religioso e tribale. In Europa è in trionfale ascesa un fascismo del denaro, del filisteismo e dei media. Per tutto questo in Italia c’è un’espressione: il “berlusconismo”.
In Italia il discorso viene tradotto da Angelo Bolaffi e pubblicato su Micromega (2003, n.3, pagg-296-302). Naturalmente alla frase sul Berlusconismo (scritto proprio così, in italiano nel testo) è data una grande evidenza, anche nel cappello introduttivo. Bene.
C’è un quotidiano, in Italia, che si è posto il problema di creare una nuova élite culturale neoconservatrice. È un’impresa immane, in un Paese ancora sotto l’egemonia culturale della sinistra (in un Paese, notiamo per inciso, in cui l’espressione “egemonia culturale” è stata inventata, e inventata guarda caso da un quadro del Partito Comunista).
Per una serie di bizzarre concidenze che piacerebbero a Steiner, il quotidiano è diretto da un tale che studiava come quadro nello stesso partito, ma che poi cambiò parrocchia, ed è di proprietà della moglie dell’attuale Presidente del Consiglio, che guarda caso è Berlusconi, cioè l’indiscutibile radice del composto “Berlusconismo”. Gli scherzi del caso, eh?
Tra le varie operazioni svolte da questo quotidiano, fondamentale è la rassegna stampa. Per darsi un’immagine di autorevolezza, il quotidiano riporta spesso articoli interessanti apparsi su altri organi di stampa. In questo modo il lettore ha l’impressione di farsi un’informazione corretta, dirò di più, una cultura a tutto tondo. Se il Foglio cita il Financial Times, non c’è più bisogno di sfogliare il Financial Times. Se riporta un pezzo da Micromega, non c’è più bisogno di leggersi Micromega.
Il problema è che in realtà il lettore crede di leggere un pezzo del Financial Times. Invece sta leggendo la versione edulcorata per il neocone italiano. Successe così, per esempio, il 15 maggio di quest’anno: un articolo del Financial fu pubblicato con alcune sforbiciature. Guarda caso si trattava di pareri non molto lusinghieri sui trascorsi giudiziari di Silvio Berlusconi, il marito della proprietaria. Al Financial se ne accorsero, s’incazzarono, costrinsero il direttore ad ammettere l’errore e a scusarsi in prima pagina l'indomani. Il direttore chiosava così:
I lettori del Foglio sanno che si tratta di un errore dovuto a imperizia redazionale, perché questo giornale di porcate ne fa, ma belle, grandi, anzi, smisurate, e di queste piccolezze si vergognerebbe.
Così è toccato a noi di vergognarci per lui. Ma passiamo avanti. Arriviamo a questo lunedì. Il Foglio ripubblica il discorso di Steiner, con qualche taglio, senz’altro per motivi di spazio. Fatto sta, che per una coincidenza che ha del clamoroso, l'unica frase tagliata è proprio il riferimento al Berlusconismo. Sul quotidiano della signora Berlusconi!
Ora, succede che il Griso, un bloggatore super partes, dotato di buon fiuto e situato nei pressi di una buona biblioteca pubblica, se ne accorga, e ci scriva su un bel pezzo. Poi, siccome lui è convinto che non lo leggo mai, mi manda pure una mail. Io leggo, sorrido, e… passerei oltre, perché il peccato è comunque veniale, perché poi mi tocca litigare, perché l’ambiente è già surriscaldato ecc. ecc.
Ma.
Ma era martedì, non sapevo cosa scrivere, e il Blog Aggregator aveva appena cambiato grafica (complimenti). Per testare il nuovo sistema, decido di postare a mio nome il pezzo del Griso. Anche questa in fondo era una piccola scorrettezza (e me ne sono già scusato), perché i clic dati al Griso sarebbero stati conteggiati a me.
Sull’aggregator la notizia figurava così:
il foglio continua a fare brutte figure
finché lo dico io... ma stavolta è il Griso
Leonardo
E questo è tutto quello che avrei avuto da dire sulla faccenda, perché non avevo letto Steiner, non avevo letto il Foglio. Semplicemente avvertivo che il Griso aveva da fare una critica al Foglio.
Il nuovo aggregator, comunque, funziona molto bene. A me non era mai successo di fare più di settanta clic con una notizia. Di solito viaggio a quota 10, come potete vedere.
A questo punto arriva Rolli, un blog che del Foglio è una specie di difensore d’ufficio:
C'è un articolo, che non ha letto nessuno di quelli che l'hanno ripreso, a parte lui, che ne fa un attacco al Foglio.
Lo riporta solo per un' unica frase che non c'entra nulla nel contesto; è semplicemente una specificazione
Proserpina ci casca, e passi; lei non si fa vanto di fare le pulci a nessuno. Si è fidata.
Leonardo, invece, che si sente molto il Christian Rocca del web ci si butta a pesce e nemmeno sa di che parla.
Verrebbe da chiedere l'articolo al Foglio e postarlo tutto; giusto per far capire quanto la frase mancante non abbia alcun senso se la togli; ma soprattutto non ha senso se la metti.
[…]
Se si vuole fare il Rocca del web bisogna farlo bene.
Attendo quindi che il Griso e Leonardo postino integralmente l'articolo, visto che vogliono fare pulci e informazione; altrimenti, ribadisco, l'operazione è quella che è, e non fa onore a nessuno dei due.
Serve poco replicare che io non mi sono “buttato a pesce”, che non avevo nessun interesse a speculare sulla vicenda, ma che avevo solo riportato il parere di una persona che ritengo fidata e competente. A quanto pare ci si aspetta più da me, perché io sarei “il Rocca della situazione”, ovvero uno che va in giro a spulciare a destra e manca. Quindi gli altri possono citare e fidarsi: io no. Io devo riportare l’articolo in versione integrale.
Ora, è pur vero che mi è capitato un paio di volte di mettere il giornalista Rocca in difficoltà, ma credetemi, è un gioco da ragazzi. Qualsiasi diciottenne un po’ esperto d’inglese e d’internet e con un po’ di tempo a disposizione potrebbe farlo. A volte, del resto, Rocca riesce a mettersi in difficoltà praticamente da solo.
Questo perciò non fa di me un blog autorevole. Rivendico il mio diritto a essere un blog cazzone, a esprimere i miei pareri a suon di “vi piscio in testa” e “vaffanculo”. Ma soprattutto.
Ma soprattutto.
Non dovete tentarmi, ragazzi.
Non dovete accusarmi di non aver letto un libro, perché va a finire che io quel libro lo leggo davvero, e poi ve lo ficco intero laddove il sol non batte e la copertina in brossura duole. Chiedete a quello che blaterava di Tocqueville. (Anzi, no, lasciatelo stare, deve sbollire).
Non dovete chiedermi di riportare un articolo per intero, perché se mi capita che ho una mezza giornata di tempo, mi faccio il giro di quattro emeroteche ma lo trovo, quell’articolo, lo ribatto tutto intero e poi ve lo sbatto in faccia, con le sette camice che m’avete fatto sudare.
George Steiner ha scritto un pezzo commovente, in cui chiede alla cultura di essere un linguaggio universale, di superare le barriere della xenofobia. Contro l’idea neoconeggiante di “cultura” come “civilisation” in perenne scontro con altre “civilisations” per la sopravvivenza o per l’egemonia. La sua idea di cultura è datata, tradizionale. La sua idea di cultura è anche la mia. La sua idea di cultura è purtroppo in declino, minacciata da un fascismo del denaro che in Italia si chiama Berlusconismo. Dare a questa forza oscura le sembianze e il nome di un buffoncello brianzolo potrà sembrare inadeguato, ma in Italia siamo famosi per dare nomi e volti umani a movimenti terribili: il fascismo ha avuto lungo il secolo incarnazioni ben più terribili di Mussolini, ma il copyright è nostro e ce lo teniamo.
Io credo proprio che la frase sul berlusconismo non stia lì per caso. E credo anche che al Foglio non l’abbiano tolta per caso. Ma hanno fatto anche qualcosina di più:
nell’articolo Steiner parla di quella che forse sarà la patria dei suoi figli, Israele. Steiner avverte che il Sionismo di Israele per lui è “un motivo di sofferenza”, anche se crede di non avere nemmeno il diritto a quella sofferenza. Osserva che Israele per sopravvivere è costretta a torturare e umiliare i suoi oppositori. E si chiede se tutto ciò sia giusto.
Un titoletto del Foglio riporta la frase:
…anche Israele è costretto a torturare e umiliare in modo terribile i suoi vicini. Lo deve fare.
Sembra un imperativo categorico, invece Steiner si chiede subito dopo: È questo un prezzo troppo alto? Ha Israele privato l’ebraismo delle sue morali e metafisiche lettres de noblesse, del suo titolo di nobiltà?
Sono quelle piccole deformazioni che al lettore fedele passano probabilmente inosservate, ma che agli occhi di chi non condivide l’ideologia dei redattori suonano come il gesso spezzato sulla lavagna. Cercare di usare Steiner per giustificare gli abusi dell’occupazione israeliana è una missione impossible. Anche un po’ penosa.
Insomma, io di questa cosa non volevo parlare, mi ci avete tirato dentro, peggio per voi. Adesso scrivo anche al Direttore:
Al direttore:
certo che siete proprio dei bricconcelli impenitenti, voialtri del Foglio. Lunedì scorso avete riportato un discorso di George Steiner con qualche taglio: ma dovevate proprio togliere il riferimento alla definizione di “Berlusconismo” come “fascismo del denaro, del filisteismo e dei media”?
Non vi è venuto in mente che qualcuno avrebbe potuto accorgersene e pensar male?
La prego, non mi parli di imperizia redazionale, non mi dica che il suo giornale fa solo le porcate belle e grandi. La mia impressione è che di porcate ne faccia tutti i giorni, tante e tanto piccole che ormai non se ne accorge neanche più, e di conseguenza non riesce nemmeno a provarne vergogna. Suo.
Vediamo cosa succede (niente, direi).
E per un po’ credo che nessun altro pretenderà qualcosa da me. Mi sbaglio?
Appendice:
1) Sul "caso Steiner", vedi anche Buroggu che non ha tutti i torti (nel senso che proprio tutti non li ha) e Muttley. Caso mai non vi bastassero i link).
2) Nello stesso numero del Foglio è riportato un articolo del Secolo d’Italia in cui si criticano i “Neocon all’amatriciana”. Quest’espressione… non so… mi ricorda qualcosa).
mercoledì 23 luglio 2003
Maestri di vita (8): Warren Beatty interpreta John Reed.
Io, d’altronde, chi mi credo di essere. Cosa sto facendo, dove voglio arrivare, e perché. Vediamo.
Ci fosse almeno uno shock infantile, “a cinque anni cadde da un albero”, eccetera. O qualcosa che ho letto in tenera età e mi ha fatto diventare quel che sono. Mah.
Io credo che l’infanzia sia un’età molto intellettuale, non fosse che il cervello è proporzionalmente più grande rispetto al resto del corpo, e può già dettar legge mentre gli altri organi devono ancora scoprire di aver voce in capitolo. Sui libri di lettura delle elementari (comunisti!) c’erano molte poesie di Bertolt Brecht (sì, proprio lui, il grande rapinatore). Ricordo che le leggevo per conto mio, le imparavo perfino a memoria. “La guerra che verrà non è la prima”, eccetera. Leggevo molto, in generale. Huck Finn, la capanna dello zio Tom, Asimov, la Bibbia. Un’educazione più giudaico-cristiana che greco-romana, tutto sommato.
Poi, però, bisogna dirlo, c’è l’adolescenza, e l’adolescenza passa una spugna ormonale sulle velleità intellettuali dell’infanzia. Tra i quattordici e i sedici anni direi che ho smesso di pensare seriamente a qualunque cosa non fosse il sesso e metter su un complesso per spaccare chitarre e diventare più famoso dei Beatles. Entrambi gli obiettivi (sesso e successo) più sembravano irraggiungibili, più davano l’impressione di essere a portata di mano. Smisi di leggere con continuità: a tutt’oggi sono ancora un lettore discontinuo e svogliato. Il mio modello di rockstar era più o meno la sintesi tra Pete Townshend (timido compositore e selvaggio spaccachitarre), Jim Morrison (ubriacone trasognato, fantino da asta del microfono), Syd Barrett (fuori di testa oltre ogni limite consentibile). La domanda che sorge spontanea è: ma dove li trovavi quei dischi, in solaio? No, la paghetta era quella che era e mi consentiva soltanto dischi in Nice Price. E sono grato ai miei genitori per questo. Forse il motivo per cui non mi sono mai drogato è che le droghe dei miei idoli erano fuori commercio da vent’anni.
A questo punto della mia vita, ci fu una serata in cui avrei dovuto essere in giro coi miei amici del complesso e invece, per motivi che non ricordo, rimasi in casa da solo, e in tv davano Reds, di e con Warren Beatty (che nella mia testa resterà sempre Ellery Queen, comunque). Siccome non l’ho più visto da allora, non mi sento nemmeno di dire che fosse un bel film. Si tratta comunque della storia di John Reed, giornalista, membro di un partito comunista americano (ce ne fu più d’uno), che fu cronista alla Rivoluzione d’Ottobre e scrisse Le dieci giornate che sconvolsero il mondo, un libro che ogni tanto mi vien voglia di leggere… ehm, di rileggere. Nel film c’è anche una struggente storia d’amore che ho totalmente rimosso, perché a 15 anni le storie d’amore ti fanno pigiar tasti sul telecomando. Ricordo solo che a un certo punto lui si ritrova da qualche parte nella grande Russia, su un treno inseguito dalle guardie bianche, si rende conto che non gli interessa poi così tanto la rivoluzione, che preferirebbe tornare a casa da lei, quindi salta giù dal treno e corre verso i cannoni delle guardie bianche. O mi confondo col dottor Zivago? Un’altra scena è quando fanno una retata di sindacalisti in america, e chiudono Reed e i suoi amici in cella con delinquenti comuni, e c’è un vecchietto che fa: “Ehi, ma voi siete i rossi?” Reed, che è un gran bevitore, non si sente molto bene, va verso il secchio per urinare, e il vecchietto: “Diavolo, questo qui è talmente rosso che piscia perfino rosso”. Immaginatevi la reazione del telespettatore quindicenne: pisciare rosso, wow! Che roba è, cirrosi epatica? Voglio provarci anch’io!
No, in realtà la scena che ricordo molto bene è un’altra, verso l’inizio del film. È il 1914, e da qualche parte in America o in Europa danno un ricevimento, con tante persone rispettabili e un palcoscenico col microfono. Al microfono un oratore spiega con bravura che c’è una Grande guerra alle porte, una guerra tra la civiltà e la barbarie, una guerra che è indispensabile combattere, che probabilmente sarà l’ultima. Finché non introduce lo stimato giornalista John Reed, esperto di cose europee, “che ci spiegherà i motivi per cui si combatte questa guerra”.
E John Reed, cioè Warren Beatty, sale su un palco, si avvicina al microfono, e dice: “Profitti”.
E poi scende dal palco. Diane Keaton, che sta seduta a un tavolino sul fondo, s’innamora all’istante. E anch’io. “Figo”, mi sono detto, “lui lì è un figo da matti. Anch’io voglio essere così. Lui cos’è, un intellettuale? anch’io voglio essere un intellettuale”.
Un intellettuale, attenzione, non un agente dei soviet. Reed è uno che scende dal treno al momento giusto, almeno nel film.
Un intellettuale, non nel senso che avrei letto molti libri (quelli c’è sempre tempo per… per rileggerli), ma nel senso che prima o poi sarei salito su un palco e avrei detto “profitti” alla gente. Il che tutto sommato non è così diverso dallo spaccare una chitarra: si tratta, sempre e comunque, di épater les bourgois. Che non mancano mai, prevedibilissimi, che sono sempre lì pronti a farsi épater per un nonnulla, pronti ad applaudire a qualsiasi guerra venga loro proposta, a qualsiasi battaglia di civiltà, a qualsiasi stronzata.
Mentre qui ci sono solo profitti, signori. Ohi, avete presente quanto costa un marine di equipaggiamento? Credete che da qualche parte non ci sia qualcuno che fa i calcoli e decide se una guerra conviene o no, per cui, è chiaro, un’invasione in Iraq conviene, uno sbarco in Liberia col cazzo, signori. Profitti. Bush va a salvare l’Africa? In che senso? Promette soldi per i medicinali? Wow, abbiamo un eroe, qui! Soldi che torneranno immediatamente nelle tasche di Big Pharma, passando per qualche milione di malato terminale. Perché non convince piuttosto Big Pharma a mollare l’osso sui brevetti, così magari in Africa potrebbe nascere qualche polo farmaceutico alternativo? Già, perché? Ehm, non so. Aspetta. Forse che si tratta di profitti? Perché non condoniamo il debito ai Paesi africani, visto che è da vent’anni che li stiamo strangolando? Perché il Fondo Monetario non ammette di aver avuto torto sulle liberalizzazioni, di aver avuto torto sullo sviluppo? Già, perché? Profitti. Profitti. C’è gente che ci guadagna, e voi, sventolando le vostre bandierine, magari vi aspettate la mancia. Niente di personale, ma siete ridicoli. Coi vostri ritornelli, le vostre bugie, la vostra civiltà. Io vi piscio in testa, signori, con rispetto parlando. E andatevene affanculo.
Io vado a Riva del Garda.
Avvertenza. Per i lettori del Blog Aggregator: ieri ho usato l’aggregatore in modo scorretto, lincando a nome mio un post del Griso che secondo me era importante (più di quello che avrei potuto scrivere io, almeno), sull'ennesima figurina di merda del Foglio di Giuliano Ferrara. Da quel che ho capito, molta gente è venuta anche qui. Mi scuso per aver creato della confusione.
Io, d’altronde, chi mi credo di essere. Cosa sto facendo, dove voglio arrivare, e perché. Vediamo.
Ci fosse almeno uno shock infantile, “a cinque anni cadde da un albero”, eccetera. O qualcosa che ho letto in tenera età e mi ha fatto diventare quel che sono. Mah.
Io credo che l’infanzia sia un’età molto intellettuale, non fosse che il cervello è proporzionalmente più grande rispetto al resto del corpo, e può già dettar legge mentre gli altri organi devono ancora scoprire di aver voce in capitolo. Sui libri di lettura delle elementari (comunisti!) c’erano molte poesie di Bertolt Brecht (sì, proprio lui, il grande rapinatore). Ricordo che le leggevo per conto mio, le imparavo perfino a memoria. “La guerra che verrà non è la prima”, eccetera. Leggevo molto, in generale. Huck Finn, la capanna dello zio Tom, Asimov, la Bibbia. Un’educazione più giudaico-cristiana che greco-romana, tutto sommato.
Poi, però, bisogna dirlo, c’è l’adolescenza, e l’adolescenza passa una spugna ormonale sulle velleità intellettuali dell’infanzia. Tra i quattordici e i sedici anni direi che ho smesso di pensare seriamente a qualunque cosa non fosse il sesso e metter su un complesso per spaccare chitarre e diventare più famoso dei Beatles. Entrambi gli obiettivi (sesso e successo) più sembravano irraggiungibili, più davano l’impressione di essere a portata di mano. Smisi di leggere con continuità: a tutt’oggi sono ancora un lettore discontinuo e svogliato. Il mio modello di rockstar era più o meno la sintesi tra Pete Townshend (timido compositore e selvaggio spaccachitarre), Jim Morrison (ubriacone trasognato, fantino da asta del microfono), Syd Barrett (fuori di testa oltre ogni limite consentibile). La domanda che sorge spontanea è: ma dove li trovavi quei dischi, in solaio? No, la paghetta era quella che era e mi consentiva soltanto dischi in Nice Price. E sono grato ai miei genitori per questo. Forse il motivo per cui non mi sono mai drogato è che le droghe dei miei idoli erano fuori commercio da vent’anni.
A questo punto della mia vita, ci fu una serata in cui avrei dovuto essere in giro coi miei amici del complesso e invece, per motivi che non ricordo, rimasi in casa da solo, e in tv davano Reds, di e con Warren Beatty (che nella mia testa resterà sempre Ellery Queen, comunque). Siccome non l’ho più visto da allora, non mi sento nemmeno di dire che fosse un bel film. Si tratta comunque della storia di John Reed, giornalista, membro di un partito comunista americano (ce ne fu più d’uno), che fu cronista alla Rivoluzione d’Ottobre e scrisse Le dieci giornate che sconvolsero il mondo, un libro che ogni tanto mi vien voglia di leggere… ehm, di rileggere. Nel film c’è anche una struggente storia d’amore che ho totalmente rimosso, perché a 15 anni le storie d’amore ti fanno pigiar tasti sul telecomando. Ricordo solo che a un certo punto lui si ritrova da qualche parte nella grande Russia, su un treno inseguito dalle guardie bianche, si rende conto che non gli interessa poi così tanto la rivoluzione, che preferirebbe tornare a casa da lei, quindi salta giù dal treno e corre verso i cannoni delle guardie bianche. O mi confondo col dottor Zivago? Un’altra scena è quando fanno una retata di sindacalisti in america, e chiudono Reed e i suoi amici in cella con delinquenti comuni, e c’è un vecchietto che fa: “Ehi, ma voi siete i rossi?” Reed, che è un gran bevitore, non si sente molto bene, va verso il secchio per urinare, e il vecchietto: “Diavolo, questo qui è talmente rosso che piscia perfino rosso”. Immaginatevi la reazione del telespettatore quindicenne: pisciare rosso, wow! Che roba è, cirrosi epatica? Voglio provarci anch’io!
No, in realtà la scena che ricordo molto bene è un’altra, verso l’inizio del film. È il 1914, e da qualche parte in America o in Europa danno un ricevimento, con tante persone rispettabili e un palcoscenico col microfono. Al microfono un oratore spiega con bravura che c’è una Grande guerra alle porte, una guerra tra la civiltà e la barbarie, una guerra che è indispensabile combattere, che probabilmente sarà l’ultima. Finché non introduce lo stimato giornalista John Reed, esperto di cose europee, “che ci spiegherà i motivi per cui si combatte questa guerra”.
E John Reed, cioè Warren Beatty, sale su un palco, si avvicina al microfono, e dice: “Profitti”.
E poi scende dal palco. Diane Keaton, che sta seduta a un tavolino sul fondo, s’innamora all’istante. E anch’io. “Figo”, mi sono detto, “lui lì è un figo da matti. Anch’io voglio essere così. Lui cos’è, un intellettuale? anch’io voglio essere un intellettuale”.
Un intellettuale, attenzione, non un agente dei soviet. Reed è uno che scende dal treno al momento giusto, almeno nel film.
Un intellettuale, non nel senso che avrei letto molti libri (quelli c’è sempre tempo per… per rileggerli), ma nel senso che prima o poi sarei salito su un palco e avrei detto “profitti” alla gente. Il che tutto sommato non è così diverso dallo spaccare una chitarra: si tratta, sempre e comunque, di épater les bourgois. Che non mancano mai, prevedibilissimi, che sono sempre lì pronti a farsi épater per un nonnulla, pronti ad applaudire a qualsiasi guerra venga loro proposta, a qualsiasi battaglia di civiltà, a qualsiasi stronzata.
Mentre qui ci sono solo profitti, signori. Ohi, avete presente quanto costa un marine di equipaggiamento? Credete che da qualche parte non ci sia qualcuno che fa i calcoli e decide se una guerra conviene o no, per cui, è chiaro, un’invasione in Iraq conviene, uno sbarco in Liberia col cazzo, signori. Profitti. Bush va a salvare l’Africa? In che senso? Promette soldi per i medicinali? Wow, abbiamo un eroe, qui! Soldi che torneranno immediatamente nelle tasche di Big Pharma, passando per qualche milione di malato terminale. Perché non convince piuttosto Big Pharma a mollare l’osso sui brevetti, così magari in Africa potrebbe nascere qualche polo farmaceutico alternativo? Già, perché? Ehm, non so. Aspetta. Forse che si tratta di profitti? Perché non condoniamo il debito ai Paesi africani, visto che è da vent’anni che li stiamo strangolando? Perché il Fondo Monetario non ammette di aver avuto torto sulle liberalizzazioni, di aver avuto torto sullo sviluppo? Già, perché? Profitti. Profitti. C’è gente che ci guadagna, e voi, sventolando le vostre bandierine, magari vi aspettate la mancia. Niente di personale, ma siete ridicoli. Coi vostri ritornelli, le vostre bugie, la vostra civiltà. Io vi piscio in testa, signori, con rispetto parlando. E andatevene affanculo.
Io vado a Riva del Garda.
Avvertenza. Per i lettori del Blog Aggregator: ieri ho usato l’aggregatore in modo scorretto, lincando a nome mio un post del Griso che secondo me era importante (più di quello che avrei potuto scrivere io, almeno), sull'ennesima figurina di merda del Foglio di Giuliano Ferrara. Da quel che ho capito, molta gente è venuta anche qui. Mi scuso per aver creato della confusione.
lunedì 21 luglio 2003
Carlo Giuliani, per prima cosa, non vive e non lotta insieme a noi.
Carlo Giuliani è morto, nel corso di una manifestazione repressa dalle forze dell’ordine. Sono cose che purtroppo accadono ovunque nel mondo, ed è bene ricordarsene, è bene protestare. In questi giorni, per esempio, molti parlano della repressione in Iran. Il caso della giornalista picchiata a morte dalla polizia ha colpito il cuore di molti. Giustamente.
Ora, spiace constatare come nella volontà di far luce su quel caso il governo iraniano abbia mostrato una correttezza maggiore di quello italiano su Genova. Spiace, proprio perché non ci sono dubbi, non ci dovrebbero essere dubbi su quale sia il regime più democratico tra l’Italia e l’Iran. Quello che concede più libertà ai suoi cittadini e agli ospiti. E infatti io non ho il minimo dubbio: sono felice di vivere qui e non altrove.
Eppure non posso dimenticare di aver visto due anni fa una città italiana che non sembrava più in Italia, ma in Cile. Se è stata un’allucinazione, è stata collettiva, condivisa anche da molti agenti di pubblica sicurezza. Se è stato un miraggio, non è stato innocuo, ma ha lasciato dietro di sé una scia di contusioni, devastazioni, denti rotti, traumi. E un ragazzo di 23 anni che è morto. Un ragazzo che non rappresenta nessuno a parte sé stesso, un ragazzo che forse quel giorno avrebbe fatto meglio ad andare al mare.
Un ragazzo che, poco prima di cadere a terra, aveva un estintore in mano: il che lo ha reso, agli occhi di molti italiani, un pericolo pubblico, o perlomeno uno che se l’era cercata. Attenzione.
Non intendo discutere il buon senso: in generale, inseguire una camionetta dei carabinieri con un estintore in mano non è una buona idea.
Ma era una buona idea caricare un corteo pacifico che sfilava secondo il tragitto programmato? Fu una buona dividere i manifestanti, rastrellarli lungo i marciapiedi o accerchiarli in Piazza Alimonda? Fu una buona idea lasciare una camionetta in Piazza Alimonda? Fu una buona idea mandare a bordo delle camionette ragazzini di leva, accecati e intossicati dai gas controvento, più spaventati dei dimostranti?
Carlo Giuliani, che l’indomani la Repubblica definiva un “punk bestia”, non aveva passato la sua breve vita ad assaltare forze dell’ordine a mani nude. Se non si fosse trovato in Piazza Alimonda oggi sarebbe vivo, e magari incensurato. Ma era a Piazza Alimonda, come avrei potuto esserci io, come avreste potuto esserci voi; e a Piazza Alimonda c’erano in tanti – esasperati dai gas, dalle cariche, dall’adrenalina – che stimarono di dover far fronte alle cariche dando tempo al grosso del corteo di ritirarsi. In quei momenti ognuno decide per sé. Ma Carlo Giuliani ha pagato per tutti.
Qualcosa – anche se molto meno – l’ha pagata anche Placanica. E nessun altro. Nessun responsabile di polizia o carabinieri ha perso il posto. Alcuni stanno facendo anche carriera. Esportano la democrazia. Complimenti.
Piazza Alimonda è storia vecchia, ormai, lo so. Come il massacro alle Diaz, o gli abusi della caserma di Bolzaneto, commessi sotto gli occhi dell’ineffabile Ministro Castelli. Sono storie vecchie, ma prima di esportare nel mondo la nostra democrazia bisognerebbe risolverle. Qualcuno ha ammesso di aver sistemato delle molotov come in una caccia al tesoro, di essersi accoltellato da solo per ottenere la solidarietà dei commilitoni? Bene. Ma non ci basta. Qualcuno dovrebbe ammettere di aver torturato dei ragazzini rei di essersi fatti acchiappare. Qualcuno dovrebbe spiegarci il senso dell’irruzione nella scuola-palestra e nel media-center. Qualcuno dovrebbe scusarsi per aver giocato alla strategia della tensione. Qualcuno dovrebbe ammettere di avere preso la mira e ucciso un ragazzo, perché è ridicolo, umiliante, dover credere alla “pallottola deviata da un sasso”.
Se invece pensate che non valga la pena di chiedere giustizia per Genova, lasciateci almeno perdere. Non cercate il nostro consenso per altre campagne di democrazia. La democrazia non è una civiltà da esportare, la democrazia è una lotta continua, interna, sotterranea, disarmata, tra soggetti sociali che hanno interessi in conflitto. Niente di paradisiaco, niente di cui andar fieri, ma qualcosa per cui lottare. Non ci sono patrie della democrazia, ci sono solo frontiere della democrazia, l’Iran è una, l’Italia pure.
Una vergogna per uno Stato democratico come il nostro, uno tra i più democratici del mondo probabilmente…
(Giuliano Giuliani, in Un anno senza Carlo, Baldini & Castoldi, pag. 62)
Carlo Giuliani è morto, nel corso di una manifestazione repressa dalle forze dell’ordine. Sono cose che purtroppo accadono ovunque nel mondo, ed è bene ricordarsene, è bene protestare. In questi giorni, per esempio, molti parlano della repressione in Iran. Il caso della giornalista picchiata a morte dalla polizia ha colpito il cuore di molti. Giustamente.
Ora, spiace constatare come nella volontà di far luce su quel caso il governo iraniano abbia mostrato una correttezza maggiore di quello italiano su Genova. Spiace, proprio perché non ci sono dubbi, non ci dovrebbero essere dubbi su quale sia il regime più democratico tra l’Italia e l’Iran. Quello che concede più libertà ai suoi cittadini e agli ospiti. E infatti io non ho il minimo dubbio: sono felice di vivere qui e non altrove.
Eppure non posso dimenticare di aver visto due anni fa una città italiana che non sembrava più in Italia, ma in Cile. Se è stata un’allucinazione, è stata collettiva, condivisa anche da molti agenti di pubblica sicurezza. Se è stato un miraggio, non è stato innocuo, ma ha lasciato dietro di sé una scia di contusioni, devastazioni, denti rotti, traumi. E un ragazzo di 23 anni che è morto. Un ragazzo che non rappresenta nessuno a parte sé stesso, un ragazzo che forse quel giorno avrebbe fatto meglio ad andare al mare.
Un ragazzo che, poco prima di cadere a terra, aveva un estintore in mano: il che lo ha reso, agli occhi di molti italiani, un pericolo pubblico, o perlomeno uno che se l’era cercata. Attenzione.
Non intendo discutere il buon senso: in generale, inseguire una camionetta dei carabinieri con un estintore in mano non è una buona idea.
Ma era una buona idea caricare un corteo pacifico che sfilava secondo il tragitto programmato? Fu una buona dividere i manifestanti, rastrellarli lungo i marciapiedi o accerchiarli in Piazza Alimonda? Fu una buona idea lasciare una camionetta in Piazza Alimonda? Fu una buona idea mandare a bordo delle camionette ragazzini di leva, accecati e intossicati dai gas controvento, più spaventati dei dimostranti?
Carlo Giuliani, che l’indomani la Repubblica definiva un “punk bestia”, non aveva passato la sua breve vita ad assaltare forze dell’ordine a mani nude. Se non si fosse trovato in Piazza Alimonda oggi sarebbe vivo, e magari incensurato. Ma era a Piazza Alimonda, come avrei potuto esserci io, come avreste potuto esserci voi; e a Piazza Alimonda c’erano in tanti – esasperati dai gas, dalle cariche, dall’adrenalina – che stimarono di dover far fronte alle cariche dando tempo al grosso del corteo di ritirarsi. In quei momenti ognuno decide per sé. Ma Carlo Giuliani ha pagato per tutti.
Qualcosa – anche se molto meno – l’ha pagata anche Placanica. E nessun altro. Nessun responsabile di polizia o carabinieri ha perso il posto. Alcuni stanno facendo anche carriera. Esportano la democrazia. Complimenti.
Piazza Alimonda è storia vecchia, ormai, lo so. Come il massacro alle Diaz, o gli abusi della caserma di Bolzaneto, commessi sotto gli occhi dell’ineffabile Ministro Castelli. Sono storie vecchie, ma prima di esportare nel mondo la nostra democrazia bisognerebbe risolverle. Qualcuno ha ammesso di aver sistemato delle molotov come in una caccia al tesoro, di essersi accoltellato da solo per ottenere la solidarietà dei commilitoni? Bene. Ma non ci basta. Qualcuno dovrebbe ammettere di aver torturato dei ragazzini rei di essersi fatti acchiappare. Qualcuno dovrebbe spiegarci il senso dell’irruzione nella scuola-palestra e nel media-center. Qualcuno dovrebbe scusarsi per aver giocato alla strategia della tensione. Qualcuno dovrebbe ammettere di avere preso la mira e ucciso un ragazzo, perché è ridicolo, umiliante, dover credere alla “pallottola deviata da un sasso”.
Se invece pensate che non valga la pena di chiedere giustizia per Genova, lasciateci almeno perdere. Non cercate il nostro consenso per altre campagne di democrazia. La democrazia non è una civiltà da esportare, la democrazia è una lotta continua, interna, sotterranea, disarmata, tra soggetti sociali che hanno interessi in conflitto. Niente di paradisiaco, niente di cui andar fieri, ma qualcosa per cui lottare. Non ci sono patrie della democrazia, ci sono solo frontiere della democrazia, l’Iran è una, l’Italia pure.
Una vergogna per uno Stato democratico come il nostro, uno tra i più democratici del mondo probabilmente…
(Giuliano Giuliani, in Un anno senza Carlo, Baldini & Castoldi, pag. 62)
venerdì 18 luglio 2003
You'll never shut down the real Napster.
(scritto su un monitor dell'ufficio del traffico di Los Angeles)
Il prezzo del biglietto intero forse no, non lo vale, ma se vi capita di trovarvi in un cinema mentre proiettano The Italian job, state in campana: a un certo punto compare Shawn Fanning, nel ruolo di Shawn Fanning.
The Italian job è un film di ladri, con Donald Sutherland che fa il nonno ladro (era meglio Connery), ed Edward Norton fa il cattivo (ma era meglio come spacciatore). È il remake di un film di ladri di quando sapevano farli. I dialoghi probabilmente li hanno scritti in ascensore mentre salivano al superattico del produttore, e poi, scendendo fino al garage sotterraneo, hanno fatto in tempo a farli tradurre in italiano. Si perde mica tempo, a Hollywood. Comunque non volevo farvi la recensione, volevo riflettere su Shawn Fanning.
Shawn Fanning è il creatore di Napster, il programma per la condivisione degli mp3 che ci ha fatto sentire tutti un po’ rivoluzionari, mentre scaricavamo musica a ufo (forse abbiamo sborsato in connessione alla telecom più di quanto non avremmo versato alle odiate case discografiche, ma vuoi mettere il divertimento).
Nel film, il 22enne ex inventore di Napster interpreta sé stesso 18enne in un flashback, mentre… inventa Napster, direte voi. Sbagliato. Nel film, invece di inventare Napster, sgraffigna il programma a un suo compagno di college addormentato davanti al monitor. (Tra i vari significati di nap, c’è anche dormicchiare). Quattro anni dopo Fanning è famoso in tutto il mondo come mr. Napster, l’uomo che mise in ginocchio le case discografiche, mentre “il vero Napster” è un oscuro nerd che lavora in una banda di ladri internazionali.
Ora, voi ve lo immaginate Thomas Alva Edison che fa un cameo in un film sgraffignando la prima lampadina a Clark Gable? I fratelli Wright che attirano Gary Cooper in un tranello e gli fregano il prototipo dell’aeroplano? Einstein che copia E=mc(2) dal taccuino di Cary Grant? Fanning non è geniale come Edison o Einstein, ma ha dimostrato un autoironia invidiabile. Ma è solo autorionia?
Nel film il suo cameo fa parte di un gruppo di flashback che mostrano l’infanzia dei personaggi della banda: tutti sembravano geneticamente predestinati al furto. Il capo, per esempio, è talmente ladro che da bambino organizzava furti con destrezza nel corridoio della scuola elementare. E il nerd è talmente ladro che… che ha inventato Napster. Il messaggio, neanche tanto subliminale, è: Napster = furto. Furto internazionale, furto con scasso, furto punto e basta. La faccia sorniona di Fanning ribadisce il messaggio: Fanning è un ladro che ruba a un altro ladro qualcosa che trasformerà in ladri milioni di placidi consumatori. Tutto il film, del resto, ruota intorno al tema del “rubare al ladro”. Chi ruba a un ladro non è meno ladro, ma è un po' più simpatico.
Quanto al “vero Napster”, che tipo è? Oltre a essere, naturalmente lo stereotipato “genio dei computer” che sta in ogni banda di ladri cinematografici che si rispetti?
È uno sfigato. Conferma tutte le peggiori voci sui nerd. Irrompe nel film alla guida di una moto, ma al primo ostacolo inciampa ingloriosamente. Quando non ha un portatile in mano non fa che parlare di quanto odia Shawn Fanning. Vuole essere chiamato Napster, se i colleghi non lo chiamano Napster lui non risponde. Un bamboccio.
Ma, naturalmente, è un genio dei computer. “Napster, mi fai una ricostruzione tridimensionale della villa di Norton senza passare dal catasto?” “Fatto”. “Ah, già che ci sei, potresti hackare l’ufficio del traffico di Los Angeles e bloccare tutti i semafori?” “Ecco qui, basta spingere il dito indice sul tasto rosso”. Un mago.
Poi, quando cominciano a schiantarsi utilitarie e fuoristrada, lui sorride eccitato. Morale: chi ha inventato Napster (“il vero Napster”) non può essere che un ladro, un bamboccio irresponsabile. Sotto il suo balcone il sistema si schianta, e lui sghignazza. È abbastanza chiaro?
C’è da chiedersi perché Fanning, un giovanotto brillante con tutta una vita davanti, si sia prestato a questa ennesima umiliazione. Sì, perché “il ragazzo che mise in ginocchio le case discografiche” è già stato messo in ginocchio da un pezzo: Napster fu processata, poi acquistata da una casa discografica che doveva trasformarla nella piattaforma del futuro per la musica on line, e che invece la rottamò. Oggi il sito è niente più che un indirizzo morto. Stringe il cuore. Se ne parlava due anni fa:
È brutale quello che hanno fatto a Napster. Comprato e rottamato. È qualcosa che va al di là della semplice ritorsione commerciale. Napster è stato il capro espiatorio, il caso esemplare. Colpirne uno per educarli tutti. Abbiamo imparato la lezione? Ceerto! E infatti le vendite di CD sono calate, i programmi di condivisione si sono moltiplicati, i nuovi napster a pagamento si preannunciano da lontano come smagliantissimi flop.
I padroni dei dischi non potevano fermare il peer-to-peer: potevano solo avere la testa di Fanning, e l’hanno avuta. Una vittima simbolica. Niente di più, ma non è giusto. Oggi il ragazzo si è rifatto vivo, vorrebbe vendere un sistema di peer-to-peer a pagamento. Vecchia chimera che nessuno ancora è riuscito a far funzionare: ma chissà, questa potrebbe essere la volta buona. Il problema è che, rispetto a quattro anni fa, gli utenti hanno ancora meno voglia di spender soldi in canzoni, e la loro antipatia nei confronti delle case discografiche è molto cresciuta. Anche grazie al caso Napster.
Tirando le somme, la morale è la stessa del film: rubare è divertente, in certi casi perfino giusto. E chi ruba a un ladro non è meno ladro, certo. Ma è più simpatico.
(scritto su un monitor dell'ufficio del traffico di Los Angeles)
Il prezzo del biglietto intero forse no, non lo vale, ma se vi capita di trovarvi in un cinema mentre proiettano The Italian job, state in campana: a un certo punto compare Shawn Fanning, nel ruolo di Shawn Fanning.
The Italian job è un film di ladri, con Donald Sutherland che fa il nonno ladro (era meglio Connery), ed Edward Norton fa il cattivo (ma era meglio come spacciatore). È il remake di un film di ladri di quando sapevano farli. I dialoghi probabilmente li hanno scritti in ascensore mentre salivano al superattico del produttore, e poi, scendendo fino al garage sotterraneo, hanno fatto in tempo a farli tradurre in italiano. Si perde mica tempo, a Hollywood. Comunque non volevo farvi la recensione, volevo riflettere su Shawn Fanning.
Shawn Fanning è il creatore di Napster, il programma per la condivisione degli mp3 che ci ha fatto sentire tutti un po’ rivoluzionari, mentre scaricavamo musica a ufo (forse abbiamo sborsato in connessione alla telecom più di quanto non avremmo versato alle odiate case discografiche, ma vuoi mettere il divertimento).
Nel film, il 22enne ex inventore di Napster interpreta sé stesso 18enne in un flashback, mentre… inventa Napster, direte voi. Sbagliato. Nel film, invece di inventare Napster, sgraffigna il programma a un suo compagno di college addormentato davanti al monitor. (Tra i vari significati di nap, c’è anche dormicchiare). Quattro anni dopo Fanning è famoso in tutto il mondo come mr. Napster, l’uomo che mise in ginocchio le case discografiche, mentre “il vero Napster” è un oscuro nerd che lavora in una banda di ladri internazionali.
Ora, voi ve lo immaginate Thomas Alva Edison che fa un cameo in un film sgraffignando la prima lampadina a Clark Gable? I fratelli Wright che attirano Gary Cooper in un tranello e gli fregano il prototipo dell’aeroplano? Einstein che copia E=mc(2) dal taccuino di Cary Grant? Fanning non è geniale come Edison o Einstein, ma ha dimostrato un autoironia invidiabile. Ma è solo autorionia?
Nel film il suo cameo fa parte di un gruppo di flashback che mostrano l’infanzia dei personaggi della banda: tutti sembravano geneticamente predestinati al furto. Il capo, per esempio, è talmente ladro che da bambino organizzava furti con destrezza nel corridoio della scuola elementare. E il nerd è talmente ladro che… che ha inventato Napster. Il messaggio, neanche tanto subliminale, è: Napster = furto. Furto internazionale, furto con scasso, furto punto e basta. La faccia sorniona di Fanning ribadisce il messaggio: Fanning è un ladro che ruba a un altro ladro qualcosa che trasformerà in ladri milioni di placidi consumatori. Tutto il film, del resto, ruota intorno al tema del “rubare al ladro”. Chi ruba a un ladro non è meno ladro, ma è un po' più simpatico.
Quanto al “vero Napster”, che tipo è? Oltre a essere, naturalmente lo stereotipato “genio dei computer” che sta in ogni banda di ladri cinematografici che si rispetti?
È uno sfigato. Conferma tutte le peggiori voci sui nerd. Irrompe nel film alla guida di una moto, ma al primo ostacolo inciampa ingloriosamente. Quando non ha un portatile in mano non fa che parlare di quanto odia Shawn Fanning. Vuole essere chiamato Napster, se i colleghi non lo chiamano Napster lui non risponde. Un bamboccio.
Ma, naturalmente, è un genio dei computer. “Napster, mi fai una ricostruzione tridimensionale della villa di Norton senza passare dal catasto?” “Fatto”. “Ah, già che ci sei, potresti hackare l’ufficio del traffico di Los Angeles e bloccare tutti i semafori?” “Ecco qui, basta spingere il dito indice sul tasto rosso”. Un mago.
Poi, quando cominciano a schiantarsi utilitarie e fuoristrada, lui sorride eccitato. Morale: chi ha inventato Napster (“il vero Napster”) non può essere che un ladro, un bamboccio irresponsabile. Sotto il suo balcone il sistema si schianta, e lui sghignazza. È abbastanza chiaro?
C’è da chiedersi perché Fanning, un giovanotto brillante con tutta una vita davanti, si sia prestato a questa ennesima umiliazione. Sì, perché “il ragazzo che mise in ginocchio le case discografiche” è già stato messo in ginocchio da un pezzo: Napster fu processata, poi acquistata da una casa discografica che doveva trasformarla nella piattaforma del futuro per la musica on line, e che invece la rottamò. Oggi il sito è niente più che un indirizzo morto. Stringe il cuore. Se ne parlava due anni fa:
È brutale quello che hanno fatto a Napster. Comprato e rottamato. È qualcosa che va al di là della semplice ritorsione commerciale. Napster è stato il capro espiatorio, il caso esemplare. Colpirne uno per educarli tutti. Abbiamo imparato la lezione? Ceerto! E infatti le vendite di CD sono calate, i programmi di condivisione si sono moltiplicati, i nuovi napster a pagamento si preannunciano da lontano come smagliantissimi flop.
I padroni dei dischi non potevano fermare il peer-to-peer: potevano solo avere la testa di Fanning, e l’hanno avuta. Una vittima simbolica. Niente di più, ma non è giusto. Oggi il ragazzo si è rifatto vivo, vorrebbe vendere un sistema di peer-to-peer a pagamento. Vecchia chimera che nessuno ancora è riuscito a far funzionare: ma chissà, questa potrebbe essere la volta buona. Il problema è che, rispetto a quattro anni fa, gli utenti hanno ancora meno voglia di spender soldi in canzoni, e la loro antipatia nei confronti delle case discografiche è molto cresciuta. Anche grazie al caso Napster.
Tirando le somme, la morale è la stessa del film: rubare è divertente, in certi casi perfino giusto. E chi ruba a un ladro non è meno ladro, certo. Ma è più simpatico.
mercoledì 16 luglio 2003
La storia che non vuole finire (seconda e ultima).
Capitava infatti che in quei giorni la ragazza, che abitava a 200 chilometri di distanza, avesse sentito dire che era appena nato un sito di informazione indipendente molto ambizioso. Così, un bel giorno, lo cliccò, lesse la recensione sul film dei registi e, già che c’era, cliccò anche su quel link laggiù in fondo, capitando così in un blog.
Chissà, forse era la sua prima volta. O forse no. Comunque sia, quel blog le piacque, per i motivi per cui di solito piacciono i blog: perché sono pieni di cose interessanti e cose futili, canzoni, appelli, riflessioni, fuffa, tutto assieme, esattamente come succede nella vita; così che alla fine leggendo il blog di uno sconosciuto hai come l’impressione di conoscerlo: impressione falsa, beninteso, ma piacevole. Alla ragazza il blog piacque talmente che scrisse ai redattori.
Fu così che un bel giorno il nostro uomo ricevette la mail da una sconosciuta, e non rispose.
A quel tempo rispondere alle mail era il suo mestiere, e non lo svolgeva volentieri. Se vogliamo prestar fede alle sue giustificazioni, si trattava di un brutto periodo: si dice sempre così, ma in questo caso stava cambiando casa, cambiando lavoro, cambiando vita. Per giunta non credeva agli incontri via internet, in generale non credeva alle favole, perché era un adulto, questo almeno credeva. Per cui la storia poteva anche finire lì.
Ma i mesi passavano, e la ragazza continuava ad apprezzare il blog, anche se uno dei redattori non rispondeva quasi mai (in compenso gli altri rispondevano, ed erano molto simpatici e alla mano). Venne l’estate, quando fa caldo e i locali all’aperto per distinguersi cercano qualsiasi pretesto. I titolari del blog in questione riuscirono a trovare una birreria all’aperto dove presentare il loro libro con un reading. Era un piccolo libro di racconti, scritto molto bene, davvero. Non lo dico per far pubblicità a nessuno, perché tanto è fuori commercio.
Il reading era fissato per lunedì 15 luglio 2002. Alla ragazza sarebbe piaciuto assistere, ma lavorava a 200 km. di distanza. E la storia sarebbe finita qui, sennonché lei pensò di prendersi un giorno di ferie. Voi forse al suo posto non vi sareste presi un giorno di ferie per andare a un reading di simpatici sconosciuti in una birreria all’aperto a 200 km. di distanza, ma lei sì. Con tutto che magari a voi la birra piace. Lei era astemia.
Siccome era la sostenitrice che veniva da più lontano, anzi, era praticamente l’unica, si decise di trattarla con tutti gli onori: sicché il nostro uomo acconsentì a ospitarla a casa sua per la notte.
Insomma, tutto era pronto per il fatale incontro.
Quand’ecco che lunedì mattina grosse nuvole grigie riempirono tutto il cielo che stava sopra i 200 chilometri in questione, mettendo per sempre fine a ogni speranza di presentare il libro all'aperto quella sera. E la storia, pensate, poteva anche finire qui.
Ma niente da fare, ormai la ragazza aveva preso le ferie, e venne a Modena lo stesso. Quando il nostro uomo seppe che arrivava, si sentì un po’ nervoso, perché non aveva pulito la casa come avrebbe voluto. Si mise in macchina per andarle incontro, ma la macchina non voleva saperne di partire, la pioggia aveva bagnato le candele. Quando tutto sembrava perduto passò di lì un suo amico (che aveva un blog pure lui, ma soprattutto aveva una twingo che non ti lascia a piedi nei momenti solenni).
“Ti prego! Accompagnami al casello! C’è una ragazza che mi sta aspettando!”
"Una ragazza? Quale?"
"Non so, non la conosco".
Tutto questo succedeva un anno fa. In seguito la storia sarebbe potuta finire tante altre volte, e invece non è ancora finita, ha l’aria di non voler finire ancora per un bel pezzo. Oggi quei due ragazzi sono un uomo e una donna, e stanno assieme. A duecento chilometri non è proprio il massimo, ma io ne ho viste di peggio.
Quando si incontrano, non parlano quasi mai di blog. Solo, quando qualche giornalista accusa i blog di essere futili e banali, loro si offendono un po’, ma poi lasciano perdere. Come se la vita non fosse banale. Come se non fosse la banalità, la futilità, a tenerci in vita, e tante volte a decidere il nostro destino, triste o felice che sia. C’è gente che ha studiato sodo, ha fatto i concorsi, ha lavorato, tanto che adesso riesce a citare filosofi tedeschi senza sbagliare il nome quasi mai, e crede di essersi fatto da sé e di non dover ringraziare nessuno: beati loro. Quell'uomo invece ringrazia Internet, i registi italiani, la tipa che quella sera lo bidonò (se solo si ricordasse chi è), Philip Glass che continua a non piacergli, ma adesso se lo ascolta gli si stampa un sorriso ebete in faccia. Ringrazia i suoi amici che lo ospitarono su un blog proprio simpatico, ringrazia il sito di informazione indipendente perché era ambizioso e indipendente, e tutti potevano commentare le notizie. Ringrazia il suo amico che scuotendo la testa gli diede un passaggio.
Ringrazia tutti.
E se gli scrivete una mail, adesso risponde.
(Sì, insomma, quasi sempre).
Capitava infatti che in quei giorni la ragazza, che abitava a 200 chilometri di distanza, avesse sentito dire che era appena nato un sito di informazione indipendente molto ambizioso. Così, un bel giorno, lo cliccò, lesse la recensione sul film dei registi e, già che c’era, cliccò anche su quel link laggiù in fondo, capitando così in un blog.
Chissà, forse era la sua prima volta. O forse no. Comunque sia, quel blog le piacque, per i motivi per cui di solito piacciono i blog: perché sono pieni di cose interessanti e cose futili, canzoni, appelli, riflessioni, fuffa, tutto assieme, esattamente come succede nella vita; così che alla fine leggendo il blog di uno sconosciuto hai come l’impressione di conoscerlo: impressione falsa, beninteso, ma piacevole. Alla ragazza il blog piacque talmente che scrisse ai redattori.
Fu così che un bel giorno il nostro uomo ricevette la mail da una sconosciuta, e non rispose.
A quel tempo rispondere alle mail era il suo mestiere, e non lo svolgeva volentieri. Se vogliamo prestar fede alle sue giustificazioni, si trattava di un brutto periodo: si dice sempre così, ma in questo caso stava cambiando casa, cambiando lavoro, cambiando vita. Per giunta non credeva agli incontri via internet, in generale non credeva alle favole, perché era un adulto, questo almeno credeva. Per cui la storia poteva anche finire lì.
Ma i mesi passavano, e la ragazza continuava ad apprezzare il blog, anche se uno dei redattori non rispondeva quasi mai (in compenso gli altri rispondevano, ed erano molto simpatici e alla mano). Venne l’estate, quando fa caldo e i locali all’aperto per distinguersi cercano qualsiasi pretesto. I titolari del blog in questione riuscirono a trovare una birreria all’aperto dove presentare il loro libro con un reading. Era un piccolo libro di racconti, scritto molto bene, davvero. Non lo dico per far pubblicità a nessuno, perché tanto è fuori commercio.
Il reading era fissato per lunedì 15 luglio 2002. Alla ragazza sarebbe piaciuto assistere, ma lavorava a 200 km. di distanza. E la storia sarebbe finita qui, sennonché lei pensò di prendersi un giorno di ferie. Voi forse al suo posto non vi sareste presi un giorno di ferie per andare a un reading di simpatici sconosciuti in una birreria all’aperto a 200 km. di distanza, ma lei sì. Con tutto che magari a voi la birra piace. Lei era astemia.
Siccome era la sostenitrice che veniva da più lontano, anzi, era praticamente l’unica, si decise di trattarla con tutti gli onori: sicché il nostro uomo acconsentì a ospitarla a casa sua per la notte.
Insomma, tutto era pronto per il fatale incontro.
Quand’ecco che lunedì mattina grosse nuvole grigie riempirono tutto il cielo che stava sopra i 200 chilometri in questione, mettendo per sempre fine a ogni speranza di presentare il libro all'aperto quella sera. E la storia, pensate, poteva anche finire qui.
Ma niente da fare, ormai la ragazza aveva preso le ferie, e venne a Modena lo stesso. Quando il nostro uomo seppe che arrivava, si sentì un po’ nervoso, perché non aveva pulito la casa come avrebbe voluto. Si mise in macchina per andarle incontro, ma la macchina non voleva saperne di partire, la pioggia aveva bagnato le candele. Quando tutto sembrava perduto passò di lì un suo amico (che aveva un blog pure lui, ma soprattutto aveva una twingo che non ti lascia a piedi nei momenti solenni).
“Ti prego! Accompagnami al casello! C’è una ragazza che mi sta aspettando!”
"Una ragazza? Quale?"
"Non so, non la conosco".
Tutto questo succedeva un anno fa. In seguito la storia sarebbe potuta finire tante altre volte, e invece non è ancora finita, ha l’aria di non voler finire ancora per un bel pezzo. Oggi quei due ragazzi sono un uomo e una donna, e stanno assieme. A duecento chilometri non è proprio il massimo, ma io ne ho viste di peggio.
Quando si incontrano, non parlano quasi mai di blog. Solo, quando qualche giornalista accusa i blog di essere futili e banali, loro si offendono un po’, ma poi lasciano perdere. Come se la vita non fosse banale. Come se non fosse la banalità, la futilità, a tenerci in vita, e tante volte a decidere il nostro destino, triste o felice che sia. C’è gente che ha studiato sodo, ha fatto i concorsi, ha lavorato, tanto che adesso riesce a citare filosofi tedeschi senza sbagliare il nome quasi mai, e crede di essersi fatto da sé e di non dover ringraziare nessuno: beati loro. Quell'uomo invece ringrazia Internet, i registi italiani, la tipa che quella sera lo bidonò (se solo si ricordasse chi è), Philip Glass che continua a non piacergli, ma adesso se lo ascolta gli si stampa un sorriso ebete in faccia. Ringrazia i suoi amici che lo ospitarono su un blog proprio simpatico, ringrazia il sito di informazione indipendente perché era ambizioso e indipendente, e tutti potevano commentare le notizie. Ringrazia il suo amico che scuotendo la testa gli diede un passaggio.
Ringrazia tutti.
E se gli scrivete una mail, adesso risponde.
(Sì, insomma, quasi sempre).
martedì 15 luglio 2003
La storia che non voleva finire (prima parte)
Del resto è vero, i blog sono futili e noiosi, privi di qualunque utilità, come la storia che vi vado a raccontare.
C’erano, tanto tempo fa, un ragazzo e una ragazza, e in mezzo duecento chilometri.
Duecento chilometri non è così male, voglio dire, ne ho viste di peggio: il problema è che il ragazzo non conosceva la ragazza, e nemmeno qualcuno che la conoscesse; nessuno che potesse indicare l’indirizzo, il paese, perlomeno la direzione da prendere e la distanza da coprire, nessuno in grado di assicurare nemmeno se quella ragazza esistessa o no, per cui la cosa cominciava a diventare sconfortante. Se capite quello che intendo.
Finché un giorno, per la precisione due anni fa, a Genova ci fu la riunione dei potenti della Terra, e molta gente andò a protestare: e ci andò il ragazzo, e ci andò anche la ragazza.
Ma la città era molto grande, e la confusione tantissima, sicché i due ragazzi non si incontrarono; tornarono entrambi nelle loro case con le sirene nelle orecchie e una certa rabbia nel cuore, e questa storia sarebbe potuta finire qui.
Una storia estremamente insulsa, ne converrete.
Ma a quei tempi, bambini, c’era Internet.
Per la verità c’era anche la televisione, e il cinema, e anche loro giocarono la loro parte. Infatti, una sera di novembre il ragazzo (ma chiamiamolo uomo, a 28 sarebbe ora) doveva uscire con una ragazza, di cui in seguito si è perso il ricordo. Di lei si sa solo che doveva andare al cinema col nostro eroe, ma all’ultimo momento disse di no. Così il nostro uomo se ne restò sul divano di casa, a pigiar tasti di telecomando, finché non scoprì che la Rai dava un documentario su Genova.
Non gli piacque. Avrebbe voluto sentire le parole di Walden Bello o Susan George, ma si sentiva soltanto Manu Chao e ragazzini che suonavano i tamburi. E quel che peggio, i violini di Philip Glass. Il nostro uomo detestava Philip Glass. Sono quelle idiosincrasie assurde che possono decidere il nostro destino.
Forse, chissà, se quel giorno la ragazza dimenticata non avesse tirato il pacco; se la rai non avesse trasmesso il film dei registi italiani su Genova; se i registi italiani si fossero preoccupati di montare qualcosa di più interessante; ma soprattutto, se non avessero scelto Philip Glass come colonna sonora dei pestaggi, la storia sarebbe davvero finita qui. Ma tutte queste cose sono accadute, e altre ancora.
Accadde per esempio che l’indomani il nostro uomo, accecato dall’ira di ritrovarsi comparsa in una sceneggiata musicale di Glass, invece di rispondere alle mail di lavoro, scrisse un pezzo critico e spocchioso su un blog di certi suoi amici. Questi suoi amici avevano e hanno un blog molto bello, dove si parla di musica e ogni tanto, senza dar nell’occhio, si fa un po’ di lettteratura. Avevano anche pubblicato un piccolo libro, dettaglio non secondario, come si vedrà. Dunque, il pezzo critico e spocchioso cominciava così.
Un altro mondo è.... bleeeargh!
Era di sicuro meglio andare al cinema ma, paccato dall’ennesima fanciulla, domenica sera non mi è restato di meglio che sistemarmi sul divano ad aspettare Un altro mondo è possibile, il Documentario Finale sui giorni di Genova, firmato da praticamente tutti i registi italiani (per evitare polemiche quelli che non c’erano sono comunque stati inseriti nei titoli di coda).
Ora, è vero che c’è gente che scrive sui blog per far colpo sulle ragazze, e lo trovo più che giusto: ma direi che se uno vuol far colpo sulle ragazze non comincia un pezzo così. Però chissà, magari mi sbaglio. Non sono il massimo esperto mondiale di blog, tantomeno di ragazze.
Non pago di aver esternato il suo livore, il nostro uomo decise di farsi pubblicità (con la scusa che dopotutto la faceva per il sito dei suoi amici). A quei tempi era appena nato un sito di informazione indipendente molto ambizioso, e chiunque poteva commentare gli articoli. Orbene, anche ai redattori del sito il film dei registi non era affatto piaciuto. Il nostro uomo ne approfittò. Si iscrisse al sito, trovò la recensione al film, e scrisse un piccolo commento in cui lincava il blog dei suoi amici. Poi si vergognò, ma poco.
Ma se avesse saputo la conseguenza del suo gesto, ragazzi miei, non si sarebbe vergognato manco per niente. Quel commentino, che esiste ancora, era probabilmente la cosa migliore che avesse combinato in 28 anni di vita.
(Continua domani).
Del resto è vero, i blog sono futili e noiosi, privi di qualunque utilità, come la storia che vi vado a raccontare.
C’erano, tanto tempo fa, un ragazzo e una ragazza, e in mezzo duecento chilometri.
Duecento chilometri non è così male, voglio dire, ne ho viste di peggio: il problema è che il ragazzo non conosceva la ragazza, e nemmeno qualcuno che la conoscesse; nessuno che potesse indicare l’indirizzo, il paese, perlomeno la direzione da prendere e la distanza da coprire, nessuno in grado di assicurare nemmeno se quella ragazza esistessa o no, per cui la cosa cominciava a diventare sconfortante. Se capite quello che intendo.
Finché un giorno, per la precisione due anni fa, a Genova ci fu la riunione dei potenti della Terra, e molta gente andò a protestare: e ci andò il ragazzo, e ci andò anche la ragazza.
Ma la città era molto grande, e la confusione tantissima, sicché i due ragazzi non si incontrarono; tornarono entrambi nelle loro case con le sirene nelle orecchie e una certa rabbia nel cuore, e questa storia sarebbe potuta finire qui.
Una storia estremamente insulsa, ne converrete.
Ma a quei tempi, bambini, c’era Internet.
Per la verità c’era anche la televisione, e il cinema, e anche loro giocarono la loro parte. Infatti, una sera di novembre il ragazzo (ma chiamiamolo uomo, a 28 sarebbe ora) doveva uscire con una ragazza, di cui in seguito si è perso il ricordo. Di lei si sa solo che doveva andare al cinema col nostro eroe, ma all’ultimo momento disse di no. Così il nostro uomo se ne restò sul divano di casa, a pigiar tasti di telecomando, finché non scoprì che la Rai dava un documentario su Genova.
Non gli piacque. Avrebbe voluto sentire le parole di Walden Bello o Susan George, ma si sentiva soltanto Manu Chao e ragazzini che suonavano i tamburi. E quel che peggio, i violini di Philip Glass. Il nostro uomo detestava Philip Glass. Sono quelle idiosincrasie assurde che possono decidere il nostro destino.
Forse, chissà, se quel giorno la ragazza dimenticata non avesse tirato il pacco; se la rai non avesse trasmesso il film dei registi italiani su Genova; se i registi italiani si fossero preoccupati di montare qualcosa di più interessante; ma soprattutto, se non avessero scelto Philip Glass come colonna sonora dei pestaggi, la storia sarebbe davvero finita qui. Ma tutte queste cose sono accadute, e altre ancora.
Accadde per esempio che l’indomani il nostro uomo, accecato dall’ira di ritrovarsi comparsa in una sceneggiata musicale di Glass, invece di rispondere alle mail di lavoro, scrisse un pezzo critico e spocchioso su un blog di certi suoi amici. Questi suoi amici avevano e hanno un blog molto bello, dove si parla di musica e ogni tanto, senza dar nell’occhio, si fa un po’ di lettteratura. Avevano anche pubblicato un piccolo libro, dettaglio non secondario, come si vedrà. Dunque, il pezzo critico e spocchioso cominciava così.
Un altro mondo è.... bleeeargh!
Era di sicuro meglio andare al cinema ma, paccato dall’ennesima fanciulla, domenica sera non mi è restato di meglio che sistemarmi sul divano ad aspettare Un altro mondo è possibile, il Documentario Finale sui giorni di Genova, firmato da praticamente tutti i registi italiani (per evitare polemiche quelli che non c’erano sono comunque stati inseriti nei titoli di coda).
Ora, è vero che c’è gente che scrive sui blog per far colpo sulle ragazze, e lo trovo più che giusto: ma direi che se uno vuol far colpo sulle ragazze non comincia un pezzo così. Però chissà, magari mi sbaglio. Non sono il massimo esperto mondiale di blog, tantomeno di ragazze.
Non pago di aver esternato il suo livore, il nostro uomo decise di farsi pubblicità (con la scusa che dopotutto la faceva per il sito dei suoi amici). A quei tempi era appena nato un sito di informazione indipendente molto ambizioso, e chiunque poteva commentare gli articoli. Orbene, anche ai redattori del sito il film dei registi non era affatto piaciuto. Il nostro uomo ne approfittò. Si iscrisse al sito, trovò la recensione al film, e scrisse un piccolo commento in cui lincava il blog dei suoi amici. Poi si vergognò, ma poco.
Ma se avesse saputo la conseguenza del suo gesto, ragazzi miei, non si sarebbe vergognato manco per niente. Quel commentino, che esiste ancora, era probabilmente la cosa migliore che avesse combinato in 28 anni di vita.
(Continua domani).
lunedì 14 luglio 2003
Qualcuno se l’è presa. Mi spiace. Non credevo di risultare così offensivo. Mi appello al Primo Emendamento.
Qualcuno poi mi dà dell’ignorante, perché non conosco Tocqueville. Vorrà dire che mi... rileggerò Tocqueville. Anzi, già che ci siamo:
Basic Culture Simulator: speciale Alexis-Charles-Henri Clérel de Tocqueville
Classe 1805. Figlio di conti, esercitando la professione di magistrato si scopre di fede liberale e litiga coi genitori (che erano stati incarcerati ai tempi della Rivoluzione). Decide così di cambiare aria, e a 26 anni si fa sponsorizzare dal Ministero degli Interni un viaggio studio negli Stati Uniti. L’idea iniziale era di studiare il sistema penitenziario americano (già a quei tempi le galere americane attiravano l’attenzione internazionale). Ma una volta sbarcato nel Nuovo Mondo, Tocqueville si rivela un reporter dalla curiosità insaziabile: si fa accompagnare dal Canada all’Ohio, intervista chiunque gli capiti a tiro, raccoglie quintali di appunti su ogni aspetto della cultura americana, del diritto, della religione, dell’economia. Il risultato di tante ricerche sarà il best seller internazionale La democrazia in America (1835-1840), ma giù in Biblioteca non l’avevano, stasera devo ripiegare sul pur godibilissimo Viaggio negli Stati Uniti, la raccolta degli appunti a cura di Emilio Faccioli (Nuova Universale Einaudi, Torino 1990).
Come ogni viaggiatore onesto, Tocqueville parte con dei pregiudizi dichiarati, ed è ansioso di ridiscuterli a ogni passo. Il suo sguardo è disincantato, il suo approccio ai problemi meravigliosamente pragmatico. Per dimostrare i cattivi effetti della schiavitù, non c’è niente di meglio che confrontare due Stati confinanti, il Kentucky schiavista e l’Ohio non schiavista:
Là il lavoro è disprezzato, qui è tenuto in grande considerazione. Là domina la pigrizia, qui un’attività sfrenata. Il Kentucky non accoglie emigranti, l’Ohio attira a sé gli abitanti industriosi da ogni parte dell’Unione… (Seconda conversazione con Mr. Walker, pag. 94).
Tocqueville osserva con stupore la società americana: una società composita, ma priva di grandi demarcazioni di classe, dove nessuno ha una carrozza privata e il servo mangia a tavola col padrone; una società tenuta insieme da un solo grande principio: “l’interesse”.
È un mondo che Tocqueville senza dubbio ammira, ma che riesce a descrivere senza il minimo timore reverenziale. Per lui il popolo americano, “considerato nel suo complesso… è il popolo che possiede l’educazione politico-pratica più evoluta”. Eppure è il popolo che sta costruendo la sua ricchezza su un genocidio: Tocqueville ha la sensazione di assistere in diretta all’estinzione dei nativi americani. A questa tragedia Tocqueville dedica alcune pagine struggenti. Quando si imbatte, per esempio, in una delegazione di Irochesi:
Eppure quegli esseri deboli e depravati appartenevano a una delle tribù più famose dell’antico mondo americano. Avevamo davanti, è penoso dirlo, gli ultimi avanzi di quella celebre Confederazione degli Irochesi la cui matura saggezza non era meno famosa del loro coraggio e che per molto tempo furono l’ago della bilancia fra le due più grandi nazioni europee. […]
Alla sera uscimmo dalla città e a poca distanza dalle ultime case scorgemmo un Indiano sdraiato sul bordo della strada. Era un uomo giovane e stava così immobile che lo credemmo morto. Qualche gemito soffocato che sfuggiva penosamente dal suo petto ci rivelò che viveva ancora e che lottava contro la pericolosa ubbriachezza causata dall’acquavite. Il sole era già tramontato e il terreno diventava sempre più umido. Tutto lasciava credere che quel disgraziato sarebbe morto lì se nessuno l’avesse soccorso in tempo. A quell’ora gli Indiani lasciavano Buffalo per rientrare al villaggio e ogni tanto qualche gruppetto ci passava accanto. Si avvicinavano, rivoltavano brutalmente il corpo del compatriota per sapere chi fosse e poi se ne andavano senza degnarsi di rispondere ai nostri avvertimenti. Per lo più, erano ubbriachi anche loro.
[Arriva una squaw che infierisce sul poveretto con calci e pugni, Alexis riesce a mandarla via con le buone].
Ritornati in città parlammo a parecchi del giovane Indiano, descrivendo il pericolo mortale che stava correndo. Ci offrimmo anche di sostenere le spese di un suo ricovero, ma fu tutto inutile. Non riuscimmo a convincere nessuno a interessarsene. Qualcuno diceva: “Gli Indiani sono abituati a ubriacarsi e a dormire per terra. Non muoiono per così poco” Altri ammettevano che poteva anche morire, ma gli si leggeva in viso quello che pensavano […]: “Cosa vale la vita di un Indiano?” Questo era il sentimento di fondo condiviso da tutti. In una società così civile, così austera, così pedante in tema di morale e di virtù, affiora una totale insensibilità, una specie di egoismo freddo e implacabile quando il problema riguarda gli indiani d’America […] Quante volte durante i nostri viaggi abbiamo incontrato onesti cittadini che alla sera tranquillamente seduti vicino al focolare ci dicevano: “Il numero degli Indiani va diminuendo di giorno in giorno. Non è che li combattiamo spesso con le armi, ma l’acquavite che vendiamo loro a poco prezzo li stermina tutti gli anni molto di più di quanto farebbero le armi. Queste terre ci appartengono, – aggiungevano. – Dio non ha concesso ai primi abitanti la capacità di civilizzarsi e quindi li ha destinati a essere inevitabilmente distrutti. I veri padroni di questo continente sono quelli che sanno sfruttare le sue ricchezze”.
Soddisfatto di questo modo di ragionare, l’Americano va in chiesa dove ascolta un ministro del vangelo affermare che tutti gli uomini sono fratelli e che l’essere eterno che li ha creati secondo un identico modello ha imposto a tutti il dovere di aiutarsi reciprocamente (pag. 371).
In un’altra stesura, Tocqueville, ancora più cattivo, mette in bocca al colono le parole: “Del resto non voglio impicciarmene, non farò niente contro di loro, mi limiterò a fornirli di tutto quanto servirà a distruggerli più alla svelta. Col tempo avrò le loro terre e non sarò colpevole della loro morte” (pag. 216).
Mi piace Tocqueville. È un osservatore spietato. Inciampa in un genocidio e lo mette a fuoco. Sa distinguere la retorica della civiltà dalla violenza dei fatti. È un’ottima lettura, ringrazio chi me l’ha consigliata.
Mi fornisce perfino qualche spunto per leggere il presente: per esempio, perché i palestinesi innervosiscono tanto i Neoconi? Forse perché non consumano acquavite, non si ritirano nelle riserve, preferiscono ammazzare e farsi ammazzare. Certo, è molto incivile da parte loro.
Qualcuno poi mi dà dell’ignorante, perché non conosco Tocqueville. Vorrà dire che mi... rileggerò Tocqueville. Anzi, già che ci siamo:
Basic Culture Simulator: speciale Alexis-Charles-Henri Clérel de Tocqueville
Classe 1805. Figlio di conti, esercitando la professione di magistrato si scopre di fede liberale e litiga coi genitori (che erano stati incarcerati ai tempi della Rivoluzione). Decide così di cambiare aria, e a 26 anni si fa sponsorizzare dal Ministero degli Interni un viaggio studio negli Stati Uniti. L’idea iniziale era di studiare il sistema penitenziario americano (già a quei tempi le galere americane attiravano l’attenzione internazionale). Ma una volta sbarcato nel Nuovo Mondo, Tocqueville si rivela un reporter dalla curiosità insaziabile: si fa accompagnare dal Canada all’Ohio, intervista chiunque gli capiti a tiro, raccoglie quintali di appunti su ogni aspetto della cultura americana, del diritto, della religione, dell’economia. Il risultato di tante ricerche sarà il best seller internazionale La democrazia in America (1835-1840), ma giù in Biblioteca non l’avevano, stasera devo ripiegare sul pur godibilissimo Viaggio negli Stati Uniti, la raccolta degli appunti a cura di Emilio Faccioli (Nuova Universale Einaudi, Torino 1990).
Come ogni viaggiatore onesto, Tocqueville parte con dei pregiudizi dichiarati, ed è ansioso di ridiscuterli a ogni passo. Il suo sguardo è disincantato, il suo approccio ai problemi meravigliosamente pragmatico. Per dimostrare i cattivi effetti della schiavitù, non c’è niente di meglio che confrontare due Stati confinanti, il Kentucky schiavista e l’Ohio non schiavista:
Là il lavoro è disprezzato, qui è tenuto in grande considerazione. Là domina la pigrizia, qui un’attività sfrenata. Il Kentucky non accoglie emigranti, l’Ohio attira a sé gli abitanti industriosi da ogni parte dell’Unione… (Seconda conversazione con Mr. Walker, pag. 94).
Tocqueville osserva con stupore la società americana: una società composita, ma priva di grandi demarcazioni di classe, dove nessuno ha una carrozza privata e il servo mangia a tavola col padrone; una società tenuta insieme da un solo grande principio: “l’interesse”.
È un mondo che Tocqueville senza dubbio ammira, ma che riesce a descrivere senza il minimo timore reverenziale. Per lui il popolo americano, “considerato nel suo complesso… è il popolo che possiede l’educazione politico-pratica più evoluta”. Eppure è il popolo che sta costruendo la sua ricchezza su un genocidio: Tocqueville ha la sensazione di assistere in diretta all’estinzione dei nativi americani. A questa tragedia Tocqueville dedica alcune pagine struggenti. Quando si imbatte, per esempio, in una delegazione di Irochesi:
Eppure quegli esseri deboli e depravati appartenevano a una delle tribù più famose dell’antico mondo americano. Avevamo davanti, è penoso dirlo, gli ultimi avanzi di quella celebre Confederazione degli Irochesi la cui matura saggezza non era meno famosa del loro coraggio e che per molto tempo furono l’ago della bilancia fra le due più grandi nazioni europee. […]
Alla sera uscimmo dalla città e a poca distanza dalle ultime case scorgemmo un Indiano sdraiato sul bordo della strada. Era un uomo giovane e stava così immobile che lo credemmo morto. Qualche gemito soffocato che sfuggiva penosamente dal suo petto ci rivelò che viveva ancora e che lottava contro la pericolosa ubbriachezza causata dall’acquavite. Il sole era già tramontato e il terreno diventava sempre più umido. Tutto lasciava credere che quel disgraziato sarebbe morto lì se nessuno l’avesse soccorso in tempo. A quell’ora gli Indiani lasciavano Buffalo per rientrare al villaggio e ogni tanto qualche gruppetto ci passava accanto. Si avvicinavano, rivoltavano brutalmente il corpo del compatriota per sapere chi fosse e poi se ne andavano senza degnarsi di rispondere ai nostri avvertimenti. Per lo più, erano ubbriachi anche loro.
[Arriva una squaw che infierisce sul poveretto con calci e pugni, Alexis riesce a mandarla via con le buone].
Ritornati in città parlammo a parecchi del giovane Indiano, descrivendo il pericolo mortale che stava correndo. Ci offrimmo anche di sostenere le spese di un suo ricovero, ma fu tutto inutile. Non riuscimmo a convincere nessuno a interessarsene. Qualcuno diceva: “Gli Indiani sono abituati a ubriacarsi e a dormire per terra. Non muoiono per così poco” Altri ammettevano che poteva anche morire, ma gli si leggeva in viso quello che pensavano […]: “Cosa vale la vita di un Indiano?” Questo era il sentimento di fondo condiviso da tutti. In una società così civile, così austera, così pedante in tema di morale e di virtù, affiora una totale insensibilità, una specie di egoismo freddo e implacabile quando il problema riguarda gli indiani d’America […] Quante volte durante i nostri viaggi abbiamo incontrato onesti cittadini che alla sera tranquillamente seduti vicino al focolare ci dicevano: “Il numero degli Indiani va diminuendo di giorno in giorno. Non è che li combattiamo spesso con le armi, ma l’acquavite che vendiamo loro a poco prezzo li stermina tutti gli anni molto di più di quanto farebbero le armi. Queste terre ci appartengono, – aggiungevano. – Dio non ha concesso ai primi abitanti la capacità di civilizzarsi e quindi li ha destinati a essere inevitabilmente distrutti. I veri padroni di questo continente sono quelli che sanno sfruttare le sue ricchezze”.
Soddisfatto di questo modo di ragionare, l’Americano va in chiesa dove ascolta un ministro del vangelo affermare che tutti gli uomini sono fratelli e che l’essere eterno che li ha creati secondo un identico modello ha imposto a tutti il dovere di aiutarsi reciprocamente (pag. 371).
In un’altra stesura, Tocqueville, ancora più cattivo, mette in bocca al colono le parole: “Del resto non voglio impicciarmene, non farò niente contro di loro, mi limiterò a fornirli di tutto quanto servirà a distruggerli più alla svelta. Col tempo avrò le loro terre e non sarò colpevole della loro morte” (pag. 216).
Mi piace Tocqueville. È un osservatore spietato. Inciampa in un genocidio e lo mette a fuoco. Sa distinguere la retorica della civiltà dalla violenza dei fatti. È un’ottima lettura, ringrazio chi me l’ha consigliata.
Mi fornisce perfino qualche spunto per leggere il presente: per esempio, perché i palestinesi innervosiscono tanto i Neoconi? Forse perché non consumano acquavite, non si ritirano nelle riserve, preferiscono ammazzare e farsi ammazzare. Certo, è molto incivile da parte loro.
giovedì 10 luglio 2003
L'anno del Neocone (seconda parte)
Il complesso di Fort Alamo
L’americanismo dei Neoconi è comunque un sentimento nobile. Apparentemente i Neoconi non farebbero altro che prolungare una celebrata tradizione italiana, che consiste nel mettersi sempre e comunque dalla parte del vincitore: eppure non sono affatto arroganti. Non si capisce il Neocone se non si entra un po’ nel suo immaginario. Certo, occorre fare un piccolo sforzo, perché noi e i Neoconi viviamo in due mondi diversi.
Noi pensiamo di vivere in una nazione vagamente destrorsa, vagamente razzista, che ha bisogno di immigrati ma non è ansiosa di riconoscerne i diritti civili: con una classe dirigente inadeguata e un po’ disonesta, ben rappresentata dal buffone in capo, con le sue eterne pendenze con la giustizia, il suo conflitto d’ìnteressi: una persona che non ci è simpatica per niente, e non ha mai fatto nessuno sforzo per diventarlo.
Il Neocone vive altrove: in un Paese che è stato ed è tuttora sotto il controllo dei… chiamiamoli “comunisti”, anche se il concetto non rende del tutto l’idea. Anche se incidentalmente i comunisti hanno perso le elezioni, non hanno mollato la loro presa sulla coscienza degli italiani. Controllano le aule di giustizia e le aule di scuola, l’ottanta per cento dei quotidiani e tutti i programmi televisivi che valga la pena vedere (i Neoconi, è buffo, non si perdevano una puntata di Santoro).
I comunisti sono i no global, i girotondini, l’ex sinistra di governo, i magistrati, i giornalisti; perfino Andreotti, quando faceva una politica cautamente filoaraba, era in qualche modo un comunista. Gli immigrati non sono comunisti, ma lo diventeranno, e a quel punto l’Italia sarà definitivamente perduta. I comunisti, l’11 settembre, andavano in giro a dire che l’america se l’era cercata. I comunisti hanno esposto le bandiere della pace, probabilmente lucrando sul prezzo. I comunisti vanno alle manifestazioni, vanno ai concerti, consumano droghe leggere, fanno casino fino a tardi e impediscono alla gente onesta di dormire. Ora, sto esagerando, mi rendo conto: la maggior parte dei Neoconi è sana di mente e non soffre di paranoie più di chiunque altro. Ma non c’è dubbio che il Neocone medio si senta assediato. Sventolare la bandiera stelle e strisce allegata a Panorama non è un gesto di vittoria, ma una disperata richiesta di aiuto. I Neoconi si sentono a Fort Alamo. Fuori, orde di pancabbestia, talebani, magistrati, filosofi, giornalisti italiani, giornalisti europei, europarlamentari. È il punto del film in cui di solito arrivano i Nostri.
Ora che sappiamo in che mondo vive il Neocone, non possiamo non provare un po’ di simpatia per lui. Ci vuole del coraggio a infilarsi in un fortino e resistere ad assalti da ogni parte, con abnegazione e sprezzo del buon senso. Prendiamo il caso Schulz, che in sé e per sé non era nulla di eccezionale: Berlusconi ha fatto una gaffe madornale e avrebbe dovuto scusarsi con più convinzione, tutto qui. Alcuni Neoconi se ne sono resi conto. Altri no. Altri si sono cimentati nella missione impossibile di difendere Berlusconi, brutalmente provocato da Schulz. Dibattiti sulla definizione di kapò. (“Ignoranti! Kapò non vuol mica dire nazista!”). Digressioni sulla storia del kapò nel cinema e nella televisione. Scottanti retroscena: Schulz era stato fomentato da Vattimo e Travaglio. Eccetera, eccetera. Fino all’apoteosi finale: Berlusconi è inviso ai tedeschi perché è l’inventore del nuovo asse portante europeo, con Blair e Aznar (lo dice un pezzo del Times, mica bruscolini). Avevamo lasciato Totò de Curtis, ci ritroviamo Winston Churchill. La mente vacilla. Ecco, dopo un po’ di frequentazione dei Neoconi bisogna fare uno sforzo per tornare al nostro mondo, per ricordarci che in Italia c’è un’ampia maggioranza di centrodestra e un leader che controlla più di metà dell’informazione.
Nato l’undici settembre
Un’altra cosa che mi rende simpatici i Neoconi (e che probabilmente mi rende antipatico ai loro occhi) è la loro giovinezza interiore. I Neoconi vedono il mondo con occhi nuovi. Si capisce che per loro è “la prima volta”. È la prima volta che s’interessano a un movimento popolare (in Iran). È la prima volta che si appassionano ai problemi dell’Africa (Bush sta facendo il consueto tour africano di metà mandato). È la prima volta che si scandalizzano per le torture in Iraq, per i diritti civili, per il caso Sofri e tante altre cose. Siccome è la prima volta, lo fanno con un’intensità invidiabile. Siccome è la prima volta, guardano con sospetto chiunque vanti dei trascorsi. E io, che arrivo da un’ondata appena appena precedente, mi ritrovo nei panni detestabili dell’attivista veterano, sempre pronto a dire: “Eh… anche noi, ai loro tempi abbiamo lottato per tante cose…” Come i sessantottini del riflusso, insopportabili.
Il paradosso è che tutto sommato abbiamo la stessa età. E vabbè, si sa, io ho lottato per varie cose, di solito mi è andata male, ecc.. Ma loro? Dove sono stati negli ultimi trent’anni? Quando Saddam Hussein gasava i curdi, quando gli studenti iraniani venivano giustiziati, quando Sofri entrava in galera?
C’erano. Senza dubbio c’erano, anche se non avevano i blog. E forse qualcuno di loro avrà anche partecipato a delle proteste, firmato petizioni, scritto ai giornali, eccetera. Ma tutto questo non ha molta importanza. Non ha molto senso rimproverare al Neocone il suo passato, perché il Neocone è un uomo nuovo, rinato all’improvviso l’11 settembre. Se vogliamo capire il Neocone, dobbiamo azzerare l’orologio e ripartire da lì.
Per i Neoconi l’11 settembre non è stata solo una spaventosa tragedia, ma l’inizio di una nuova era: l’era dell’incertezza endemica, della guerra al terrorismo, della Giustizia Infinita. Come diceva Casarini: “anno zero della guerra globale”… (Casarini è un punto di riferimento per i Neoconi, che ultimamente seguono le sue vicende forse con più attenzione degli stessi disobbedienti). È dall’11 settembre che il Neocone ha capito di essere americano. Nel rogo delle torri ha visto la caduta dell’Occidente sotto i colpi di un Islam infido e traditore. Le torri che crollano hanno colpito il suo immaginario: sono il simbolo di una civiltà razionale, quadrata, infinitamente superiore, ma anche fragile, proprio in virtù della sua superiorità: facile obiettivo dell’invidia del mondo. Proprio come il Neocone, che vive assediato nel suo appartamento. Lo stesso assedio, lo stesso scontro di civiltà. Il momento era grave: come ha detto il Neocone Berlusconi a Strasburgo, “le borse sono crollate l’11 settembre” (e questa è un’altra bella cazzata: l’economia era già in recessione da un anno, anche se Greenspan non aveva il coraggio di dircelo). I Neoconi si sono stretti intorno al Presidente degli Stati Uniti, un buffo figlio di papà eletto a minoranza, che di colpo si è trasformato in un grande statista, l’uomo del destino. La svolta in politica estera è stata spettacolare: due invasioni in due anni.
Ora, non importa tanto che sia l’Afganistan che l’Iraq siano due ferite ancora aperte, perché il Neocone non giudica i risultati: giudica le intenzioni. La guerra in Afganistan era Ok, perché bisognava fermare Bin Laden (Bin Laden è scomparso). La guerra in Iraq era Ok, perché bisognava importare la democrazia in Medio Oriente. Il resto (bombe a grappolo, uranio impoverito, petrolio, oppio, guerriglia endemica su entrambi i fronti, armi di distruzione di massa che non si trovano) sono dettagli, e al Neocone non piace parlarne. Preferisce parlare degli orrori del regime iracheno. E va bene, ognuno sceglie i dettagli che preferisce. I blog servono proprio a questo: isolare un dettaglio dal caos informe delle informazioni, trasformarlo in un argomento, uno slogan, un tormentone. I Neoconi sono bravissimi in questo.
Essendo giovani, e sotto assedio, i Neoconi hanno una dannatissima fretta. Cosa aspetta l’Iran a diventare una democrazia moderna? Cosa aspettano i palestinesi a ritirarsi ordinatamente nelle loro riserve? A voler consigliare prudenza, a spiegare che le cose sono un po’ complesse, che molti problemi vengono da prima dell’11 settembre e ci vorranno secoli a risolverli… si fa la figura che ci sto facendo io, e cioè del barbogio saccente.
D’altro canto i Neoconi non sono fondamentalmente cattivi, e anche se tollerano cose come Guantanamo o le cluster bombs, chi siamo noi per voler giudicare? Non abbiamo tutti tollerato tanti orrori del mondo?
Ma intanto il Neocone s’informa, è vorace di notizie, si dà da fare, cresce. Forse conviene sedersi sulla riva del fiume e vedere cosa succede. Le fedi sono come le scorie radioattive: sembrano incrollabili, in realtà hanno tempi di dimezzamento che si possono perfino calcolare. Certi Neoconi continueranno a essere Neoconi per centinaia d’anni: ma altri no. Il tempo s’incaricherà di corrodere le loro convinzioni, addolcirli, e alla fine verranno anche loro a sedersi qui di fianco. Che c’è posto.
Il complesso di Fort Alamo
L’americanismo dei Neoconi è comunque un sentimento nobile. Apparentemente i Neoconi non farebbero altro che prolungare una celebrata tradizione italiana, che consiste nel mettersi sempre e comunque dalla parte del vincitore: eppure non sono affatto arroganti. Non si capisce il Neocone se non si entra un po’ nel suo immaginario. Certo, occorre fare un piccolo sforzo, perché noi e i Neoconi viviamo in due mondi diversi.
Noi pensiamo di vivere in una nazione vagamente destrorsa, vagamente razzista, che ha bisogno di immigrati ma non è ansiosa di riconoscerne i diritti civili: con una classe dirigente inadeguata e un po’ disonesta, ben rappresentata dal buffone in capo, con le sue eterne pendenze con la giustizia, il suo conflitto d’ìnteressi: una persona che non ci è simpatica per niente, e non ha mai fatto nessuno sforzo per diventarlo.
Il Neocone vive altrove: in un Paese che è stato ed è tuttora sotto il controllo dei… chiamiamoli “comunisti”, anche se il concetto non rende del tutto l’idea. Anche se incidentalmente i comunisti hanno perso le elezioni, non hanno mollato la loro presa sulla coscienza degli italiani. Controllano le aule di giustizia e le aule di scuola, l’ottanta per cento dei quotidiani e tutti i programmi televisivi che valga la pena vedere (i Neoconi, è buffo, non si perdevano una puntata di Santoro).
I comunisti sono i no global, i girotondini, l’ex sinistra di governo, i magistrati, i giornalisti; perfino Andreotti, quando faceva una politica cautamente filoaraba, era in qualche modo un comunista. Gli immigrati non sono comunisti, ma lo diventeranno, e a quel punto l’Italia sarà definitivamente perduta. I comunisti, l’11 settembre, andavano in giro a dire che l’america se l’era cercata. I comunisti hanno esposto le bandiere della pace, probabilmente lucrando sul prezzo. I comunisti vanno alle manifestazioni, vanno ai concerti, consumano droghe leggere, fanno casino fino a tardi e impediscono alla gente onesta di dormire. Ora, sto esagerando, mi rendo conto: la maggior parte dei Neoconi è sana di mente e non soffre di paranoie più di chiunque altro. Ma non c’è dubbio che il Neocone medio si senta assediato. Sventolare la bandiera stelle e strisce allegata a Panorama non è un gesto di vittoria, ma una disperata richiesta di aiuto. I Neoconi si sentono a Fort Alamo. Fuori, orde di pancabbestia, talebani, magistrati, filosofi, giornalisti italiani, giornalisti europei, europarlamentari. È il punto del film in cui di solito arrivano i Nostri.
Ora che sappiamo in che mondo vive il Neocone, non possiamo non provare un po’ di simpatia per lui. Ci vuole del coraggio a infilarsi in un fortino e resistere ad assalti da ogni parte, con abnegazione e sprezzo del buon senso. Prendiamo il caso Schulz, che in sé e per sé non era nulla di eccezionale: Berlusconi ha fatto una gaffe madornale e avrebbe dovuto scusarsi con più convinzione, tutto qui. Alcuni Neoconi se ne sono resi conto. Altri no. Altri si sono cimentati nella missione impossibile di difendere Berlusconi, brutalmente provocato da Schulz. Dibattiti sulla definizione di kapò. (“Ignoranti! Kapò non vuol mica dire nazista!”). Digressioni sulla storia del kapò nel cinema e nella televisione. Scottanti retroscena: Schulz era stato fomentato da Vattimo e Travaglio. Eccetera, eccetera. Fino all’apoteosi finale: Berlusconi è inviso ai tedeschi perché è l’inventore del nuovo asse portante europeo, con Blair e Aznar (lo dice un pezzo del Times, mica bruscolini). Avevamo lasciato Totò de Curtis, ci ritroviamo Winston Churchill. La mente vacilla. Ecco, dopo un po’ di frequentazione dei Neoconi bisogna fare uno sforzo per tornare al nostro mondo, per ricordarci che in Italia c’è un’ampia maggioranza di centrodestra e un leader che controlla più di metà dell’informazione.
Nato l’undici settembre
Un’altra cosa che mi rende simpatici i Neoconi (e che probabilmente mi rende antipatico ai loro occhi) è la loro giovinezza interiore. I Neoconi vedono il mondo con occhi nuovi. Si capisce che per loro è “la prima volta”. È la prima volta che s’interessano a un movimento popolare (in Iran). È la prima volta che si appassionano ai problemi dell’Africa (Bush sta facendo il consueto tour africano di metà mandato). È la prima volta che si scandalizzano per le torture in Iraq, per i diritti civili, per il caso Sofri e tante altre cose. Siccome è la prima volta, lo fanno con un’intensità invidiabile. Siccome è la prima volta, guardano con sospetto chiunque vanti dei trascorsi. E io, che arrivo da un’ondata appena appena precedente, mi ritrovo nei panni detestabili dell’attivista veterano, sempre pronto a dire: “Eh… anche noi, ai loro tempi abbiamo lottato per tante cose…” Come i sessantottini del riflusso, insopportabili.
Il paradosso è che tutto sommato abbiamo la stessa età. E vabbè, si sa, io ho lottato per varie cose, di solito mi è andata male, ecc.. Ma loro? Dove sono stati negli ultimi trent’anni? Quando Saddam Hussein gasava i curdi, quando gli studenti iraniani venivano giustiziati, quando Sofri entrava in galera?
C’erano. Senza dubbio c’erano, anche se non avevano i blog. E forse qualcuno di loro avrà anche partecipato a delle proteste, firmato petizioni, scritto ai giornali, eccetera. Ma tutto questo non ha molta importanza. Non ha molto senso rimproverare al Neocone il suo passato, perché il Neocone è un uomo nuovo, rinato all’improvviso l’11 settembre. Se vogliamo capire il Neocone, dobbiamo azzerare l’orologio e ripartire da lì.
Per i Neoconi l’11 settembre non è stata solo una spaventosa tragedia, ma l’inizio di una nuova era: l’era dell’incertezza endemica, della guerra al terrorismo, della Giustizia Infinita. Come diceva Casarini: “anno zero della guerra globale”… (Casarini è un punto di riferimento per i Neoconi, che ultimamente seguono le sue vicende forse con più attenzione degli stessi disobbedienti). È dall’11 settembre che il Neocone ha capito di essere americano. Nel rogo delle torri ha visto la caduta dell’Occidente sotto i colpi di un Islam infido e traditore. Le torri che crollano hanno colpito il suo immaginario: sono il simbolo di una civiltà razionale, quadrata, infinitamente superiore, ma anche fragile, proprio in virtù della sua superiorità: facile obiettivo dell’invidia del mondo. Proprio come il Neocone, che vive assediato nel suo appartamento. Lo stesso assedio, lo stesso scontro di civiltà. Il momento era grave: come ha detto il Neocone Berlusconi a Strasburgo, “le borse sono crollate l’11 settembre” (e questa è un’altra bella cazzata: l’economia era già in recessione da un anno, anche se Greenspan non aveva il coraggio di dircelo). I Neoconi si sono stretti intorno al Presidente degli Stati Uniti, un buffo figlio di papà eletto a minoranza, che di colpo si è trasformato in un grande statista, l’uomo del destino. La svolta in politica estera è stata spettacolare: due invasioni in due anni.
Ora, non importa tanto che sia l’Afganistan che l’Iraq siano due ferite ancora aperte, perché il Neocone non giudica i risultati: giudica le intenzioni. La guerra in Afganistan era Ok, perché bisognava fermare Bin Laden (Bin Laden è scomparso). La guerra in Iraq era Ok, perché bisognava importare la democrazia in Medio Oriente. Il resto (bombe a grappolo, uranio impoverito, petrolio, oppio, guerriglia endemica su entrambi i fronti, armi di distruzione di massa che non si trovano) sono dettagli, e al Neocone non piace parlarne. Preferisce parlare degli orrori del regime iracheno. E va bene, ognuno sceglie i dettagli che preferisce. I blog servono proprio a questo: isolare un dettaglio dal caos informe delle informazioni, trasformarlo in un argomento, uno slogan, un tormentone. I Neoconi sono bravissimi in questo.
Essendo giovani, e sotto assedio, i Neoconi hanno una dannatissima fretta. Cosa aspetta l’Iran a diventare una democrazia moderna? Cosa aspettano i palestinesi a ritirarsi ordinatamente nelle loro riserve? A voler consigliare prudenza, a spiegare che le cose sono un po’ complesse, che molti problemi vengono da prima dell’11 settembre e ci vorranno secoli a risolverli… si fa la figura che ci sto facendo io, e cioè del barbogio saccente.
D’altro canto i Neoconi non sono fondamentalmente cattivi, e anche se tollerano cose come Guantanamo o le cluster bombs, chi siamo noi per voler giudicare? Non abbiamo tutti tollerato tanti orrori del mondo?
Ma intanto il Neocone s’informa, è vorace di notizie, si dà da fare, cresce. Forse conviene sedersi sulla riva del fiume e vedere cosa succede. Le fedi sono come le scorie radioattive: sembrano incrollabili, in realtà hanno tempi di dimezzamento che si possono perfino calcolare. Certi Neoconi continueranno a essere Neoconi per centinaia d’anni: ma altri no. Il tempo s’incaricherà di corrodere le loro convinzioni, addolcirli, e alla fine verranno anche loro a sedersi qui di fianco. Che c’è posto.
mercoledì 9 luglio 2003
L’anno del Neocone (prima parte)
C’è sempre qualcosa di nuovo sotto il sole.
In Italia, poi, non ci facciamo mancare niente: si può dire che non passa un anno senza una rivoluzione, un’ondata, un trend. Ogni estate ci regala un tormentone e una generazione. Quattro anni fa (sembra un secolo) c’erano i Papa Boys; l’anno dopo (sembra ieri) i black bloc incendiavano Genova. L’anno dopo, sempre a Genova e a Firenze, i no global sfilavano compatti e pacifici. E quest’anno? Anche quest’anno c’è una grande novità. Ancora un po’ in sordina, ma promette bene. Sto parlando del Neocone.
Chi è il Neocone?
Il Neocone è un personaggio un po’ diverso dal solito. Ormai c’eravamo abituati alle chiassate di piazza. Il Neocone è più timido. Non va spesso alle manifestazioni, di solito preferisce indirle e lamentarsi perché gli altri non ci vanno; oppure lamentarsi perché nessuno indice la manifestazioni a cui andrebbe lui. Un po’ snob, forse. Ma sotto sotto c’è altro.
Il Neocone ha paura della piazza. E non ha del tutto i torti, anche io ne ho avuta. Il Neocone, poi, ha visto Genova in tv, probabilmente ha tifato per i poveri poliziotti accoltellati alle Diaz. Si è fatto una certa idea dei manifestanti, un’orda di pancabbestia senza niente di meglio da fare. Un pregiudizio dal quale risulta tuttora difficile smuoverlo.
Poi c’è stata la guerra in Iraq.
È stata una guerra lunghissima (non è ancora finita), soprattutto nella fase preparatoria: l’estate, l’autunno del 2002, l’inverno 2002/2003: in questo periodo gli angloamericani non hanno sparato molto. In compenso hanno rovesciato sull’occidente una quantità di argomenti (non del tutto convincenti, non del tutto sinceri) su quanto fosse giusto fare questa guerra. Le armi di distruzioni di massa, l’esportazione della democrazia, l’asse Bin Laden – Saddam Hussein, ecc. ecc.. Si trattava di ottenere il consenso popolare (del grasso popolo d’occidente) a una guerra d’invasione. Uno sforzo notevole. Risultati? Scarsi.
In questo periodo il Neocone ha vissuto uno choc dal quale deve ancora rimettersi. Ha cominciato a vedere esposte alle finestre bandiere di sette, otto colori, di dubbio gusto. All’inizio appena una o due. Poi, sempre di più. Anche il vicino di casa. Anche il nonno che vota ancora democristiano. In tre mesi il quartiere si è riempito. E il Neocone è diventato quello che è oggi.
Il Neocone aveva sempre creduto di far parte di una maggioranza silenziosa, al massimo un po’ brontolona. Filogovernativo, filoamericano, non per piaggeria ma per intima convinzione, lo scorso inverno il Neocone si è reso conto di essere in qualche modo diverso dalla portinaia, dal fruttivendolo, dal commercialista che pure vota per lo stesso partito. Il Neocone ha preso coscienza di sé. E noi abbiamo preso coscienza di lui, da una posizione privilegiata, perché il Neocone italiano è nato su Internet. Sui blog. E che nessuno più si azzardi a parlare di fuffa. Il blog, sì, proprio lo stupido blog italiano, ha dato forma a quello che fino a pochi mesi prima sarebbe stato soltanto un’umore diffuso, un mucchietto di lettere a un direttore, un niente – e che domani potrebbe diventare, perché no, un pensiero dominante o una classe dirigente.
Ed è bastato poco: è bastato offrire ai Neoconi uno strumento, un luogo di discussione e di argomentazione, alcuni pensatori e opinionisti di riferimento, un terreno di scontro: e in poco tempo sono nate le parole d’ordine, i tormentoni, un sistema di credenze solido e complesso. Oggi i Neoconi sono una delle comunità più agguerrite e interessanti del mondo blog italiano. Non sono tantissimi, è vero. Ma qui non siamo in piazza, la quantità ha valore fino a un certo punto. Se non temessi di passare per marxista, qui parlerei di egemonia culturale. (I Neoconi hanno letto Gramsci? Qualcuno sicuramente sì).
Il Neocone è un coglione? In linea di massima, no. Come in tutti i movimenti, del resto: non si può generalizzare. Prendi i Papaboys: c’erano i bravi ragazzi, i fanatici, i furbastri che andavano a rimorchiare. A Genova, l’anno seguente, idem. La stessa cosa varrà per i Neoconi. Ci sono i bravi ragazzi, le persone intelligenti, i fanatici, i cinici. E alla fine ci sarà anche chi rimorchia, dopotutto i movimenti si fanno anche per questo (dopo tutto il genere umano esiste per questo).
Il mondo è migliorato, da quando ci sono i Neoconi? Difficile dirlo. Io non ho notato grossi cambiamenti, salvo forse il fatto che sempre più la geopolitica sta diventando l’argomento di conversazioni da bar (come negli anni Cinquanta qui da noi). Da un lato la cosa mi fa piacere, perché il calcio alla lunga annoia. Dall’altra, il bar rimane sempre un bar, non il Palazzo di Vetro: prima gli affanculo se li prendeva Trapattoni, oggi se li prende Hans Blix, ma sempre vaffanculo restano.
Ma, insomma, in cosa crede il Neocone? Per prima cosa, crede nell’Avvenire. E io lo invidio. Sì, perché il Neocone è un ottimista olimpico. Sa benissimo che al mondo le cose vanno male, ma è convinto che ci sia chi ha i mezzi per rimettere tutto a posto in tempi brevi.
Questo Deus ex machina, questo autentico demiurgo, è naturalmente rappresentato dalla grande superpotenza democratica: gli Stati Uniti d’America. I Neoconi amano gli USA con un’intensità che è difficile immaginare. Di recente hanno festeggiato il 4 luglio in un tripudio di stelle e di strisce (per contro, 25 aprile e 2 giugno sono passati senza grandi sussulti). Viene da pensare che i Neoconi siano italiani per errore, tanto forte è il loro patriottismo per una patria altrui. Ma poi viene da pensare che un amore così intenso per una nazione lo si possa provare solo da lontano: somiglia un po’ all’amore platonico del compagno Peppone per l’URSS.
(continua)
C’è sempre qualcosa di nuovo sotto il sole.
In Italia, poi, non ci facciamo mancare niente: si può dire che non passa un anno senza una rivoluzione, un’ondata, un trend. Ogni estate ci regala un tormentone e una generazione. Quattro anni fa (sembra un secolo) c’erano i Papa Boys; l’anno dopo (sembra ieri) i black bloc incendiavano Genova. L’anno dopo, sempre a Genova e a Firenze, i no global sfilavano compatti e pacifici. E quest’anno? Anche quest’anno c’è una grande novità. Ancora un po’ in sordina, ma promette bene. Sto parlando del Neocone.
Chi è il Neocone?
Il Neocone è un personaggio un po’ diverso dal solito. Ormai c’eravamo abituati alle chiassate di piazza. Il Neocone è più timido. Non va spesso alle manifestazioni, di solito preferisce indirle e lamentarsi perché gli altri non ci vanno; oppure lamentarsi perché nessuno indice la manifestazioni a cui andrebbe lui. Un po’ snob, forse. Ma sotto sotto c’è altro.
Il Neocone ha paura della piazza. E non ha del tutto i torti, anche io ne ho avuta. Il Neocone, poi, ha visto Genova in tv, probabilmente ha tifato per i poveri poliziotti accoltellati alle Diaz. Si è fatto una certa idea dei manifestanti, un’orda di pancabbestia senza niente di meglio da fare. Un pregiudizio dal quale risulta tuttora difficile smuoverlo.
Poi c’è stata la guerra in Iraq.
È stata una guerra lunghissima (non è ancora finita), soprattutto nella fase preparatoria: l’estate, l’autunno del 2002, l’inverno 2002/2003: in questo periodo gli angloamericani non hanno sparato molto. In compenso hanno rovesciato sull’occidente una quantità di argomenti (non del tutto convincenti, non del tutto sinceri) su quanto fosse giusto fare questa guerra. Le armi di distruzioni di massa, l’esportazione della democrazia, l’asse Bin Laden – Saddam Hussein, ecc. ecc.. Si trattava di ottenere il consenso popolare (del grasso popolo d’occidente) a una guerra d’invasione. Uno sforzo notevole. Risultati? Scarsi.
In questo periodo il Neocone ha vissuto uno choc dal quale deve ancora rimettersi. Ha cominciato a vedere esposte alle finestre bandiere di sette, otto colori, di dubbio gusto. All’inizio appena una o due. Poi, sempre di più. Anche il vicino di casa. Anche il nonno che vota ancora democristiano. In tre mesi il quartiere si è riempito. E il Neocone è diventato quello che è oggi.
Il Neocone aveva sempre creduto di far parte di una maggioranza silenziosa, al massimo un po’ brontolona. Filogovernativo, filoamericano, non per piaggeria ma per intima convinzione, lo scorso inverno il Neocone si è reso conto di essere in qualche modo diverso dalla portinaia, dal fruttivendolo, dal commercialista che pure vota per lo stesso partito. Il Neocone ha preso coscienza di sé. E noi abbiamo preso coscienza di lui, da una posizione privilegiata, perché il Neocone italiano è nato su Internet. Sui blog. E che nessuno più si azzardi a parlare di fuffa. Il blog, sì, proprio lo stupido blog italiano, ha dato forma a quello che fino a pochi mesi prima sarebbe stato soltanto un’umore diffuso, un mucchietto di lettere a un direttore, un niente – e che domani potrebbe diventare, perché no, un pensiero dominante o una classe dirigente.
Ed è bastato poco: è bastato offrire ai Neoconi uno strumento, un luogo di discussione e di argomentazione, alcuni pensatori e opinionisti di riferimento, un terreno di scontro: e in poco tempo sono nate le parole d’ordine, i tormentoni, un sistema di credenze solido e complesso. Oggi i Neoconi sono una delle comunità più agguerrite e interessanti del mondo blog italiano. Non sono tantissimi, è vero. Ma qui non siamo in piazza, la quantità ha valore fino a un certo punto. Se non temessi di passare per marxista, qui parlerei di egemonia culturale. (I Neoconi hanno letto Gramsci? Qualcuno sicuramente sì).
Il Neocone è un coglione? In linea di massima, no. Come in tutti i movimenti, del resto: non si può generalizzare. Prendi i Papaboys: c’erano i bravi ragazzi, i fanatici, i furbastri che andavano a rimorchiare. A Genova, l’anno seguente, idem. La stessa cosa varrà per i Neoconi. Ci sono i bravi ragazzi, le persone intelligenti, i fanatici, i cinici. E alla fine ci sarà anche chi rimorchia, dopotutto i movimenti si fanno anche per questo (dopo tutto il genere umano esiste per questo).
Il mondo è migliorato, da quando ci sono i Neoconi? Difficile dirlo. Io non ho notato grossi cambiamenti, salvo forse il fatto che sempre più la geopolitica sta diventando l’argomento di conversazioni da bar (come negli anni Cinquanta qui da noi). Da un lato la cosa mi fa piacere, perché il calcio alla lunga annoia. Dall’altra, il bar rimane sempre un bar, non il Palazzo di Vetro: prima gli affanculo se li prendeva Trapattoni, oggi se li prende Hans Blix, ma sempre vaffanculo restano.
Ma, insomma, in cosa crede il Neocone? Per prima cosa, crede nell’Avvenire. E io lo invidio. Sì, perché il Neocone è un ottimista olimpico. Sa benissimo che al mondo le cose vanno male, ma è convinto che ci sia chi ha i mezzi per rimettere tutto a posto in tempi brevi.
Questo Deus ex machina, questo autentico demiurgo, è naturalmente rappresentato dalla grande superpotenza democratica: gli Stati Uniti d’America. I Neoconi amano gli USA con un’intensità che è difficile immaginare. Di recente hanno festeggiato il 4 luglio in un tripudio di stelle e di strisce (per contro, 25 aprile e 2 giugno sono passati senza grandi sussulti). Viene da pensare che i Neoconi siano italiani per errore, tanto forte è il loro patriottismo per una patria altrui. Ma poi viene da pensare che un amore così intenso per una nazione lo si possa provare solo da lontano: somiglia un po’ all’amore platonico del compagno Peppone per l’URSS.
(continua)
lunedì 7 luglio 2003
Stupido a chi?
Gentile Francesca Reboli,
chi le scrive non è nessuno in particolare.
Sono solo l’autore di un blog (niente indirizzo, dopo le spiegherò) che, per il fatto di avere ormai trenta mesi di età e trecento accessi al giorno (niente di eccezionale, davvero), si sente un po’ preso in causa dal suo servizio sull’Espresso, “Stupido Blog”.
Leggendo il suo articolo, infatti, mi sono reso conto di fare parte di un élite autoreferenziale e narcisista, una lobby di “pionieri del blog” che occuperebbe uno spazio prezioso “citandosi addosso” in “un gioco sterile di rimandi reciproci”.
Beh, sono accuse gravi. E non del tutto infondate.
È quello che le ha detto lo scrittore Tiziano Scarpa, che le ha ribadito il critico Giuseppe Genna e il giornalista Stefano Porro. Al confronto, io sono davvero un signor Nessuno, anche se incidentalmente il mio blog è più linkato dei loro. Credo però di avere diritto a una replica.
Gentile Francesca Reboli, nel suo articolo lei paragona la scena blog mondiale a quella italiana.
Dice: in America c’è fior di giornalisti che usano i blog per fare informazione, in Italia no. Vero. Ma la colpa non è nostra. La colpa è dei tanti giornalisti italiani che non ha ancora preso confidenza con il tasto Publish. Perché alla fine tutta l’incredibile tecnologia dei blog si riassume in questo: un tasto che ti consente di pubblicare subito. Il blog è uno strumento semplicissimo da usare: perché i giornalisti non lo usano ancora? È un piccolo mistero. In realtà, ci sono anche ottimi giornalisti che nel dopolavoro tengono blog indipendenti, dove scrivono cose notevoli: potrei citargliene una manciata, ma non lo farò. Ho deciso che non le darò nessun indirizzo stasera. Alla fine capirà il perché.
Dice: in Iraq c’è chi ha postato sotto i bombardamenti, in Italia no. Vero. E meno male: io sono contento di vivere in un Paese dove sono libero di parlare dei fatti miei senza l’assillo dei bombardamenti. D’altro canto questo non è il migliore dei Paesi possibili, e una piccolissima guerra civile l’abbiamo avuta anche noi, due anni fa, a Genova. In quei giorni io ero accampato vicino alle Diaz, e spesso andavo al Media Center, aggiravo una cinquantina di giornalisti col taccuino in mano, occupavo un pc e usavo il tasto publish per dare aggiornamenti sui fatti di Genova in tempo reale. La cosa mi ha fruttato una certa notorietà tra i blog (non tra i giornalisti). Poi una sera un mio amico mi ha chiesto di andare a prendere una birra all’angolo, e quando sono tornato la polizia aveva staccato i server e massacrato una cinquantina di persone. Da allora non mi è più capitato di usare il blog come strumento di informazione in diretta, ma se devo essere sincero non ne ho molta nostalgia. Fortunata la terra che non ha bisogno di blog d’assalto… In compenso ci sono ottimi blog d’informazione, d’opinione e di approfondimento in Italia. Potrei segnalargliene parecchi. Ma non lo farò. In seguito le spiegherò il perché.
Vede, gentile Francesca Reboli, la particolarità della scena blog italiana non è il diarismo, l’autoreferenzialità, ecc. ecc.. Anche negli USA ci sono decine di migliaia di blog insulsi e autoreferenziali. Quello che distingue semmai la scena italiana è la presenza di una piccola non-élite di professionisti del giornalismo e della scrittura che hanno cercato di attirare l’attenzione su di sé coi blog, senza riuscirci. È stato un piccolo trauma, per questri professionisti, scoprire che sui blog il loro materiale non valeva quello prodotto da comuni mortali, non professionisti, ma hobbisti (non lobbisti). Così hanno reagito scompostamente, pretendendo di insegnare come si scrive sul web a gente che ci scrive da più tempo e riesce a farsi leggere da più utenti di loro. È una scena imbarazzante, che si prolunga da diverso tempo.
A chiunque si dia ancora la pena di ascoltarli, costoro ripetono che i blog italiani sono pieni di fregnacce. Naturalmente questo è vero: se diamo a tutti il permesso di premere il tasto Publish, è chiaro che molti imbecilli ne approfitteranno. Ma questo non è un motivo per sconsigliare le persone intelligenti a premere lo stesso benedetto tasto. In più, ci sono già persone di valore che hanno capito come si preme il tasto, e stanno pubblicando cose egregie. (No, niente indirizzi, le spiegherò poi).
Ma loro, i giornalisti e gli scrittori della non-élite dei blog italiani, fanno finta di niente. Fingono di salire in cattedra, come se ci fosse una cattedra e loro fossero in grado di saltarci sopra. Sotto sotto si capisce che quel tasto Publish li spaventa. Però non rinunciano a farsi pubblicità, nel più patetico dei modi: parlando bene di sé stessi. È una cosa che imbarazza un po’, vedere Stefano Porro che segnala Quintostato, Giuseppe Genna che fa i complimenti a Carmilla, Tiziano Scarpa che linka Nazione Indiana. Con tanti blog interessanti che ci sono in giro, ridursi a citare il proprio è indice di scarsa fantasia e di maleducazione, se non proprio di disperazione.
È per questo, gentile Francesca Reboli, che ho deciso di non segnalarle l’indirizzo del mio blog, né di quello dei miei amici, né degli amici dei miei amici. Che non le passasse la testa che io le scriva per farmi pubblicità. Non ne ho bisogno: il mio blog è un hobby, se mi legge più gente sono contento, ma non ho intenzione di ridurmi al direttore marketing di me stesso. È un lavoro che lascio volentieri a Genna, Porro, Scarpa.
Ma se queste mie righe avessero attirato la sua attenzione, le propongo un gioco: vada su Google e digiti “Leonardo”. Compariranno migliaia di risultati, pagine dedicate al pittore, all'attore, allo scrittore, al calciatore. Il quinto risultato mondiale dovrei essere io. Il secondo risultato in lingua italiana dovrei essere io.
E adesso le chiedo: dando per scontato che non sono geniale come il pittore, bello come l’attore, e non ho il senso tattico del centrocampista, come diavolo ho fatto a diventare il quinto Leonardo mondiale su Google? Scrivendo fregnacce autoreferenziali e sterili polemiche per due anni e mezzo? Possibile? E secondo lei trecento persone (nulla in confronto al bacino di utenza di un qualsiasi operatore della carta stampata, mi rendo conto) verrebbero a sciropparsi quotidianamente le mie fregnacce autoreferenziali?
Io non credo.
Credo invece, senza falsa modestia, di aver lavorato duro nei ritagli di tempo di questi due anni e mezzo, e di aver prodotto un sito che viene letto da parecchie persone: perché a volte è divertente, a volte è interessante, a volte fa incazzare qualcuno, a volte vorrebbe far qualcos’altro ma non ci riesce perché si deve fermare a rispondere a chi gli dà dello stupido senza neanche conoscerlo. Questo è un blog tra tanti. Sul serio: ce ne sono tanti. Non creda a chi dice di non riuscirli a trovare. Google è così facile da usare.
Sinceramente, gentile Francesca Reboli, sarei curioso di sapere cosa ne pensa.
Leonardo
Gentile Francesca Reboli,
chi le scrive non è nessuno in particolare.
Sono solo l’autore di un blog (niente indirizzo, dopo le spiegherò) che, per il fatto di avere ormai trenta mesi di età e trecento accessi al giorno (niente di eccezionale, davvero), si sente un po’ preso in causa dal suo servizio sull’Espresso, “Stupido Blog”.
Leggendo il suo articolo, infatti, mi sono reso conto di fare parte di un élite autoreferenziale e narcisista, una lobby di “pionieri del blog” che occuperebbe uno spazio prezioso “citandosi addosso” in “un gioco sterile di rimandi reciproci”.
Beh, sono accuse gravi. E non del tutto infondate.
È quello che le ha detto lo scrittore Tiziano Scarpa, che le ha ribadito il critico Giuseppe Genna e il giornalista Stefano Porro. Al confronto, io sono davvero un signor Nessuno, anche se incidentalmente il mio blog è più linkato dei loro. Credo però di avere diritto a una replica.
Gentile Francesca Reboli, nel suo articolo lei paragona la scena blog mondiale a quella italiana.
Dice: in America c’è fior di giornalisti che usano i blog per fare informazione, in Italia no. Vero. Ma la colpa non è nostra. La colpa è dei tanti giornalisti italiani che non ha ancora preso confidenza con il tasto Publish. Perché alla fine tutta l’incredibile tecnologia dei blog si riassume in questo: un tasto che ti consente di pubblicare subito. Il blog è uno strumento semplicissimo da usare: perché i giornalisti non lo usano ancora? È un piccolo mistero. In realtà, ci sono anche ottimi giornalisti che nel dopolavoro tengono blog indipendenti, dove scrivono cose notevoli: potrei citargliene una manciata, ma non lo farò. Ho deciso che non le darò nessun indirizzo stasera. Alla fine capirà il perché.
Dice: in Iraq c’è chi ha postato sotto i bombardamenti, in Italia no. Vero. E meno male: io sono contento di vivere in un Paese dove sono libero di parlare dei fatti miei senza l’assillo dei bombardamenti. D’altro canto questo non è il migliore dei Paesi possibili, e una piccolissima guerra civile l’abbiamo avuta anche noi, due anni fa, a Genova. In quei giorni io ero accampato vicino alle Diaz, e spesso andavo al Media Center, aggiravo una cinquantina di giornalisti col taccuino in mano, occupavo un pc e usavo il tasto publish per dare aggiornamenti sui fatti di Genova in tempo reale. La cosa mi ha fruttato una certa notorietà tra i blog (non tra i giornalisti). Poi una sera un mio amico mi ha chiesto di andare a prendere una birra all’angolo, e quando sono tornato la polizia aveva staccato i server e massacrato una cinquantina di persone. Da allora non mi è più capitato di usare il blog come strumento di informazione in diretta, ma se devo essere sincero non ne ho molta nostalgia. Fortunata la terra che non ha bisogno di blog d’assalto… In compenso ci sono ottimi blog d’informazione, d’opinione e di approfondimento in Italia. Potrei segnalargliene parecchi. Ma non lo farò. In seguito le spiegherò il perché.
Vede, gentile Francesca Reboli, la particolarità della scena blog italiana non è il diarismo, l’autoreferenzialità, ecc. ecc.. Anche negli USA ci sono decine di migliaia di blog insulsi e autoreferenziali. Quello che distingue semmai la scena italiana è la presenza di una piccola non-élite di professionisti del giornalismo e della scrittura che hanno cercato di attirare l’attenzione su di sé coi blog, senza riuscirci. È stato un piccolo trauma, per questri professionisti, scoprire che sui blog il loro materiale non valeva quello prodotto da comuni mortali, non professionisti, ma hobbisti (non lobbisti). Così hanno reagito scompostamente, pretendendo di insegnare come si scrive sul web a gente che ci scrive da più tempo e riesce a farsi leggere da più utenti di loro. È una scena imbarazzante, che si prolunga da diverso tempo.
A chiunque si dia ancora la pena di ascoltarli, costoro ripetono che i blog italiani sono pieni di fregnacce. Naturalmente questo è vero: se diamo a tutti il permesso di premere il tasto Publish, è chiaro che molti imbecilli ne approfitteranno. Ma questo non è un motivo per sconsigliare le persone intelligenti a premere lo stesso benedetto tasto. In più, ci sono già persone di valore che hanno capito come si preme il tasto, e stanno pubblicando cose egregie. (No, niente indirizzi, le spiegherò poi).
Ma loro, i giornalisti e gli scrittori della non-élite dei blog italiani, fanno finta di niente. Fingono di salire in cattedra, come se ci fosse una cattedra e loro fossero in grado di saltarci sopra. Sotto sotto si capisce che quel tasto Publish li spaventa. Però non rinunciano a farsi pubblicità, nel più patetico dei modi: parlando bene di sé stessi. È una cosa che imbarazza un po’, vedere Stefano Porro che segnala Quintostato, Giuseppe Genna che fa i complimenti a Carmilla, Tiziano Scarpa che linka Nazione Indiana. Con tanti blog interessanti che ci sono in giro, ridursi a citare il proprio è indice di scarsa fantasia e di maleducazione, se non proprio di disperazione.
È per questo, gentile Francesca Reboli, che ho deciso di non segnalarle l’indirizzo del mio blog, né di quello dei miei amici, né degli amici dei miei amici. Che non le passasse la testa che io le scriva per farmi pubblicità. Non ne ho bisogno: il mio blog è un hobby, se mi legge più gente sono contento, ma non ho intenzione di ridurmi al direttore marketing di me stesso. È un lavoro che lascio volentieri a Genna, Porro, Scarpa.
Ma se queste mie righe avessero attirato la sua attenzione, le propongo un gioco: vada su Google e digiti “Leonardo”. Compariranno migliaia di risultati, pagine dedicate al pittore, all'attore, allo scrittore, al calciatore. Il quinto risultato mondiale dovrei essere io. Il secondo risultato in lingua italiana dovrei essere io.
E adesso le chiedo: dando per scontato che non sono geniale come il pittore, bello come l’attore, e non ho il senso tattico del centrocampista, come diavolo ho fatto a diventare il quinto Leonardo mondiale su Google? Scrivendo fregnacce autoreferenziali e sterili polemiche per due anni e mezzo? Possibile? E secondo lei trecento persone (nulla in confronto al bacino di utenza di un qualsiasi operatore della carta stampata, mi rendo conto) verrebbero a sciropparsi quotidianamente le mie fregnacce autoreferenziali?
Io non credo.
Credo invece, senza falsa modestia, di aver lavorato duro nei ritagli di tempo di questi due anni e mezzo, e di aver prodotto un sito che viene letto da parecchie persone: perché a volte è divertente, a volte è interessante, a volte fa incazzare qualcuno, a volte vorrebbe far qualcos’altro ma non ci riesce perché si deve fermare a rispondere a chi gli dà dello stupido senza neanche conoscerlo. Questo è un blog tra tanti. Sul serio: ce ne sono tanti. Non creda a chi dice di non riuscirli a trovare. Google è così facile da usare.
Sinceramente, gentile Francesca Reboli, sarei curioso di sapere cosa ne pensa.
Leonardo
venerdì 4 luglio 2003
Beh, sarebbe anche ora di parlarne.
E invece no, stasera non ho tempo. Compratelo. Vi spiegherò poi.
(Il blog di blogout.
Stasera, tutti da Valido allo Sgurz).
E invece no, stasera non ho tempo. Compratelo. Vi spiegherò poi.
(Il blog di blogout.
Stasera, tutti da Valido allo Sgurz).
giovedì 3 luglio 2003
Mi dispiace se non si capisce l'ironia
Io lo dico sempre, che la redazione di Leonardo è troppo avanti.
Siamo infatti già in possesso del testo della telefonata di Berlusconi a Schroeder. Eccola qui. (Naturalmente Berlusconi non dialogava direttamente col suo pari, ma con un Traduttore simultaneo:)
Schroeder: “Allo?”
Berlusconi: “Pronto, sono Berlusconi”.
Schroeder: “Berlusconi! Deritalienischeknirpswjkskswsxsk…”
Berlusconi: “Momento. Non capisco nulla. Che sta dicendo?”
Traduttore: “Sta dicendo: Ah, Berlusconi, il tappo italiano. Come va, testa di c…”
Berlusconi: “Ehi. Ma come si permette?”
Traduttore: “Dice che si scusa. Voleva solo fare dell’ironia. Sa, i tedeschi fanno sempre battute sulla statura degli italiani pelati”.
Berlusconi: “Beh, io non ci trovo niente da ridere”.
Schroeder: “Tut mir leid, Herr Pate”.
Berlusconi: “Come ha detto?”
Traduttore: “Ehm… ha detto che si scusa…”
Berlusconi: “Stavolta ho capito benissimo. Mi ha chiamato Padrino! Io non sopporto che mi si chiami Padrino!”
Traduttore: “Ha detto che si scusa se nella traduzione non si è capita l’ironia. In Germania sono abituati a fare battute sugli italiani mafiosi, sa, hanno proprio un senso dell’umorismo differente”.
Berlusconi: “Ma che senso dell’umorismo! Quello mi sta insultando! È una vergogna! E adesso cosa sta dicendo?”
Traduttore: “Ehm… forse è meglio se non traduco”.
Berlusconi: “No, no, traduci. Voglio sapere”.
Traduttore: “Ma poi se nella traduzione non si capisce l’ironia…”
Berlusconi: “Al diavolo l’ironia. Dimmi cosa sta dicendo quel mangiacrauti”.
Traduttore: “Le… le sta chiedendo se ha incaprettato molti avversari politici di recente”.
Berlusconi: “Eh?”
Traduttore: “Sì… sì, vuole sapere se i magistrati di solito li scioglie nell’acido o li getta nello stretto di Messina con i piedi nel cemento”.
Berlusconi: “E… sta scherzando, naturalmente”.
Traduttore: “Presumo di sì”.
Berlusconi: “Roba da matti. E questo sarebbe il cancelliere tedesco. Un comunista, senza dubbio. Probabilmente i testi glieli scrive Furio Colombo. Del resto i tedeschi sono sempre stati comunisti, è cosa nota”.
Traduttore: “Traduco?”
Berlusconi: “No, no. Lascialo berciare. Quando ha smesso, di’ che gli chiedo scusa per ieri, che non volevo, mi è salito il sangue alla testa. E di lasciarmi il suo numero, che se fanno un film sui gulag lo propongo nel ruolo di sciacqualatrine”.
Traduttore: “Le ha detto di andare a f…”
Berlusconi: “Ricambia. E riattacca”.
Clic.
Per fortuna ieri sera aveva chiamato George W. Bush, tutto un altro stile.
Berlusconi: “Sì, pronto?”
Bush: “Hi, this is the President of United States. How are you, Spaghetti?”
Berlusconi: “Ah, ciao George, non male, grazie. Però, senti, potresti piantarla di chiamarmi Spaghetti”.
Bush: “Sorry, it’s my culture. We always make jokes about Italian pasta, you know…”
Traduttore: “Dice che si scusa, ma non può farci niente, è la sua cultura. Sono troppo abituati a raccontare barzellette sulla pasta italiana, per cui…”
Berlusconi: “Ho capito, ho capito. Chiedigli se gli è piaciuto il discorso”.
Bush: “Don’t give a damn ‘bout your fucking speech, Spaghetti! Nobody in the world ever give a damn ‘bout it!”
Traduttore: “Ehm, dice… dice che non ha prestato molta attenzione al discorso”.
Berlusconi: “Eh già”.
Bush: “But your act with Schulz, Spaghetti! It was so funny! You’re always so fuckin’ funny! God damn…”
Traduttore: “Pare… pare che si sia divertito per la scena con Schultz”.
Berlusconi: “Pare proprio di sì”
Bush: “Heee heee heeee heeee”
Traduttore: “Sembra molto allegro”.
Berlusconi: “Magari è la volta buona che si strozza davvero con un salatino… non tradurre”.
Traduttore: “Ha detto che vuole raccontargli una barzelletta”.
Berlusconi: “Ehm… se proprio vuole”.
Traduttore: “Però dice di stare attento, perché negli USA hanno una cultura diversa dalla nostra e scherzano su cose a cui magari a noi non piace scherzare”.
Berlusconi: “Eh, certo, è naturale. Io comunque ho una mentalità aperta”.
Traduttore: “Dunque, c’è un cancro che va dal medico dei cancri…”
Berlusconi: “Un cosa?”
Traduttore: “Un cancro, sì. Dunque questo cancro non sta tanto bene, allora va dal medico e chiede: “Dottore, mi sento davvero molto male. Secondo lei è grave?”
Berlusconi: “mio Dio”.
Traduttore: “E il dottore gli risponde: Sì, inutile negarle la verità, lei è molto grave. Perché, dice il cancro, che cos’ho preso, dottore? E il dottore… il dottore gli risponde… Vede, lei ha preso Berlusconi”.
Bush: “Haaaaa haaaa haaaa haaaaa”.
Berlusconi: “Mi sento male”.
Traduttore: “Il Presidente vuole sapere se lei ha capito la battuta”.
Berlusconi: “L’ho capita, sì. Adesso però riattacchiamo”.
Traduttore: “C’è un’altra cosa. Pare che… che suo nipote dia una festa di compleanno la prossima settimana e…”
Berlusconi: “I miei migliori auguri. E allora?”
Traduttore: “Beh, aveva chiesto di avere alla festa un pagliaccio italiano. Per cui chiedeva se la prossima settimana aveva impegni, visto che il semestre italiano ormai è sputtanato…”
Berlusconi: “Era ironico, vero?”
Traduttore: “Non lo so. Glielo chiedo?”
Berlusconi: “No, no. Saluta e metti giù”.
Click.
Io lo dico sempre, che la redazione di Leonardo è troppo avanti.
Siamo infatti già in possesso del testo della telefonata di Berlusconi a Schroeder. Eccola qui. (Naturalmente Berlusconi non dialogava direttamente col suo pari, ma con un Traduttore simultaneo:)
Schroeder: “Allo?”
Berlusconi: “Pronto, sono Berlusconi”.
Schroeder: “Berlusconi! Deritalienischeknirpswjkskswsxsk…”
Berlusconi: “Momento. Non capisco nulla. Che sta dicendo?”
Traduttore: “Sta dicendo: Ah, Berlusconi, il tappo italiano. Come va, testa di c…”
Berlusconi: “Ehi. Ma come si permette?”
Traduttore: “Dice che si scusa. Voleva solo fare dell’ironia. Sa, i tedeschi fanno sempre battute sulla statura degli italiani pelati”.
Berlusconi: “Beh, io non ci trovo niente da ridere”.
Schroeder: “Tut mir leid, Herr Pate”.
Berlusconi: “Come ha detto?”
Traduttore: “Ehm… ha detto che si scusa…”
Berlusconi: “Stavolta ho capito benissimo. Mi ha chiamato Padrino! Io non sopporto che mi si chiami Padrino!”
Traduttore: “Ha detto che si scusa se nella traduzione non si è capita l’ironia. In Germania sono abituati a fare battute sugli italiani mafiosi, sa, hanno proprio un senso dell’umorismo differente”.
Berlusconi: “Ma che senso dell’umorismo! Quello mi sta insultando! È una vergogna! E adesso cosa sta dicendo?”
Traduttore: “Ehm… forse è meglio se non traduco”.
Berlusconi: “No, no, traduci. Voglio sapere”.
Traduttore: “Ma poi se nella traduzione non si capisce l’ironia…”
Berlusconi: “Al diavolo l’ironia. Dimmi cosa sta dicendo quel mangiacrauti”.
Traduttore: “Le… le sta chiedendo se ha incaprettato molti avversari politici di recente”.
Berlusconi: “Eh?”
Traduttore: “Sì… sì, vuole sapere se i magistrati di solito li scioglie nell’acido o li getta nello stretto di Messina con i piedi nel cemento”.
Berlusconi: “E… sta scherzando, naturalmente”.
Traduttore: “Presumo di sì”.
Berlusconi: “Roba da matti. E questo sarebbe il cancelliere tedesco. Un comunista, senza dubbio. Probabilmente i testi glieli scrive Furio Colombo. Del resto i tedeschi sono sempre stati comunisti, è cosa nota”.
Traduttore: “Traduco?”
Berlusconi: “No, no. Lascialo berciare. Quando ha smesso, di’ che gli chiedo scusa per ieri, che non volevo, mi è salito il sangue alla testa. E di lasciarmi il suo numero, che se fanno un film sui gulag lo propongo nel ruolo di sciacqualatrine”.
Traduttore: “Le ha detto di andare a f…”
Berlusconi: “Ricambia. E riattacca”.
Clic.
Per fortuna ieri sera aveva chiamato George W. Bush, tutto un altro stile.
Berlusconi: “Sì, pronto?”
Bush: “Hi, this is the President of United States. How are you, Spaghetti?”
Berlusconi: “Ah, ciao George, non male, grazie. Però, senti, potresti piantarla di chiamarmi Spaghetti”.
Bush: “Sorry, it’s my culture. We always make jokes about Italian pasta, you know…”
Traduttore: “Dice che si scusa, ma non può farci niente, è la sua cultura. Sono troppo abituati a raccontare barzellette sulla pasta italiana, per cui…”
Berlusconi: “Ho capito, ho capito. Chiedigli se gli è piaciuto il discorso”.
Bush: “Don’t give a damn ‘bout your fucking speech, Spaghetti! Nobody in the world ever give a damn ‘bout it!”
Traduttore: “Ehm, dice… dice che non ha prestato molta attenzione al discorso”.
Berlusconi: “Eh già”.
Bush: “But your act with Schulz, Spaghetti! It was so funny! You’re always so fuckin’ funny! God damn…”
Traduttore: “Pare… pare che si sia divertito per la scena con Schultz”.
Berlusconi: “Pare proprio di sì”
Bush: “Heee heee heeee heeee”
Traduttore: “Sembra molto allegro”.
Berlusconi: “Magari è la volta buona che si strozza davvero con un salatino… non tradurre”.
Traduttore: “Ha detto che vuole raccontargli una barzelletta”.
Berlusconi: “Ehm… se proprio vuole”.
Traduttore: “Però dice di stare attento, perché negli USA hanno una cultura diversa dalla nostra e scherzano su cose a cui magari a noi non piace scherzare”.
Berlusconi: “Eh, certo, è naturale. Io comunque ho una mentalità aperta”.
Traduttore: “Dunque, c’è un cancro che va dal medico dei cancri…”
Berlusconi: “Un cosa?”
Traduttore: “Un cancro, sì. Dunque questo cancro non sta tanto bene, allora va dal medico e chiede: “Dottore, mi sento davvero molto male. Secondo lei è grave?”
Berlusconi: “mio Dio”.
Traduttore: “E il dottore gli risponde: Sì, inutile negarle la verità, lei è molto grave. Perché, dice il cancro, che cos’ho preso, dottore? E il dottore… il dottore gli risponde… Vede, lei ha preso Berlusconi”.
Bush: “Haaaaa haaaa haaaa haaaaa”.
Berlusconi: “Mi sento male”.
Traduttore: “Il Presidente vuole sapere se lei ha capito la battuta”.
Berlusconi: “L’ho capita, sì. Adesso però riattacchiamo”.
Traduttore: “C’è un’altra cosa. Pare che… che suo nipote dia una festa di compleanno la prossima settimana e…”
Berlusconi: “I miei migliori auguri. E allora?”
Traduttore: “Beh, aveva chiesto di avere alla festa un pagliaccio italiano. Per cui chiedeva se la prossima settimana aveva impegni, visto che il semestre italiano ormai è sputtanato…”
Berlusconi: “Era ironico, vero?”
Traduttore: “Non lo so. Glielo chiedo?”
Berlusconi: “No, no. Saluta e metti giù”.
Click.