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martedì 29 giugno 2010

Eliminato

Detto tra noi, non sarebbe bello se si potesse scegliere per chi soffrire? buttar giù una lista delle priorità, in cui infilare magari tra famigliari, amori e amici le vere grandi Emergenze dell'Umanità? Insegnare al proprio cuore a preoccuparsi più per la falla nel Golfo del Messico che per le figuracce della Nazionale. Evidentemente non si può, e questo ha risvolti grotteschi, come ad esempio soffrire per Taricone. Non lo conoscevo, non c'è nulla che mi avvicinasse a lui, dai reality alle fiction italiane agli sport estremi. Non ha senso. È il cuore, se così vogliamo chiamarlo: in realtà è un dispositivo mentale intermittente che avrebbe bisogno di una seria messa in discussione. Magari un altro giorno.

Oggi si sta male per Pietro Taricone. Con la sensazione di non aver perso un grande attore, ma una persona che avevamo conosciuto. È evidentemente un'illusione indotta dal medium televisivo, ma diamine, funziona. Non ho nemmeno acceso la tv, non voglio saperne niente, eppure mi vengono alla testa centinaia di sequenze in cui Taricone non è un carabiniere o un poliziotto o un pompiere o il pusher di Maradona, ma è semplicemente Pietro Taricone. Taricone sul divano che le spara grosse, Taricone che tacchina la prima che ci sta, Taricone che pianta una tenda nel soggiorno. Taricone che fa gli addominali, ma soprattutto Taricone che si vergogna. Questo è importante. Taricone ha fatto tutto il peggio che poteva fare per vincere al Grande Fratello e trovarsi un posto al sole, ma non ne andava fiero.

Verranno a spiegarci che il primo Grande Fratello è stato diverso da tutti gli altri, grazie tante. Gli mancava ancora la possibilità che ha cavalcato in seguito, di essere la parodia di sé stesso. Ci diranno che Taricone da subito aveva capito cosa non voleva diventare: un Pietro Del Grande Fratello. Può darsi che sia andata così, in effetti questa intervista dimostra una lucidità sorprendente. È del 23 dicembre 2000, le Torri Gemelle sono ancora al loro posto e Maurizio Costanzo non ha ancora collaudato il famigerato meccanismo che trasformerà gli ex concorrenti del GF in vip istantanei da pompare e sgonfiare alla bisogna. Eppure Taricone, appena uscito da una gabbia dopo 99 giorni, ha già capito. Non era un fesso.

Questo lo si era intuito subito: non per i quiz di cultura generale in cui surclassava tutti i suoi compagni di prigionia. Non perché avesse compreso prima e meglio degli altri le regole del gioco, la necessità di buttarla sul sesso, l'autoironia con cui era opportuno sfoggiare addominali. Taricone non era un fesso perché istintivamente aveva fiutato la Bestia e si era reso conto (come pochi, anche in seguito) che era troppo grossa per lui; che valeva la pena di fare un passo indietro. Studiare recitazione, fare curriculum. In seguito sarebbe diventata una battuta ricorrente: il tale film o la tale fiction era così scarsa che "il migliore è Taricone". Ogni sua apparizione era una breccia nella quarta parete, ma non era tutta colpa sua. Il fatto è che non lo conoscevamo come si conosce un attore, maledizione. Lo conoscevamo come si conoscono gli amici. E ogni volta che metteva il naso davanti allo schermo, veniva voglia di salutarlo: aho', ma che ci fai lì.

Ci diranno che il primo GF non era il circo di freak che è diventato in seguito (tant'è che quando finisce, al suo posto fanno lo show dei record coi nani, i giganti, i mangiatori di spade, i tatuaggi e i piercing. Un succedaneo). Ma forse la strada era già segnata. Quello che per me farà sempre la differenza, l'ho scritto sopra, è stata la vergogna. I giovani d'oggi, si dice, non la conoscono. Calciatori, tronisti, Taricone somaticamente non appariva diverso, salvo che la vergogna la conosceva, io me ne ricordo abbastanza bene. La vergogna sincera, non recitata, per aver voluto estromettere Roberta Beta con una prova di forza, salvo pentirsene pubblicamente nel giro di pochi giorni. Più che la tensione erotica per Cristina, rammento la vergogna per averla simulata o addirittura provata davvero; la vergogna assai poco telegenica del down postcoitale, la vergogna per essere stato quello che tutti ti chiedono di essere, te stesso, quando te stesso in fin dei conti non è un granché. Taricone è stato sé stesso per 99 giorni, in tv; poi ha passato dieci anni a cercare di essere qualcosa di diverso, magari migliore. Non so se ci stesse riuscendo davvero. Quel che ho scoperto ieri, è che io tifavo per lui.

lunedì 28 giugno 2010

Ho una teoria #29

Diciamo che ho una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che comunque il petrolio è finito.



Quella cattiva, anche.

Il petrolio è finito, sull'Unita.it, si commenta lì in tempo reale.

La Coppa del Mondo, e la crisi del calcio italiano. Il vertice dei G8. La bomba in Grecia. Le mozzarelle blu. Gli esami di maturità. L'anniversario dell'ennesima strage insabbiata. I nuovi ministri, con o senza portafoglio, e i loro impedimenti, legittimi o meno: c'è tanta carne al fuoco in questi giorni. Sarà per questo che della catastrofe del Golfo del Messico sui giornali non si parla quasi più.

Ha tutta l'aria di una notizia “vecchia”: in fondo la piattaforma Deepwater Horizon è colata a picco due mesi fa. E invece il vero disastro sta avvenendo in diretta, proprio in questo momento: si stima che dal pozzo Macondo fuoriescano ogni giorno tra i 5000 e i 9000 metri cubi di petrolio. Già da un mese la macchia di petrolio è visibile dai satelliti. Le ultime piogge in Louisiana lasciavano pozzanghere oleose e iridescenti. Centinaia di operatori ecologici hanno sofferto di una sindrome ribattezzata TILT (“Toxicant Induced Loss of Tolerance”). Eppure tutto questo non lascia quasi tracce nel flusso d'informazione dei media tradizionali italiani. Come mai?

1. Una ragione l'abbiamo già vista: l'incidente è avvenuto due mesi fa. Purtroppo la nostra soglia di attenzione è quella che è, e non ci consente di percepire un'“emergenza” che duri più di qualche giorno. Persino un'apocalisse ecologica come quella del Golfo, dopo una settimana, è già routine. I problemi passano di moda prima che si riesca a risolverli.

2. C'è di mezzo Obama. Ai tempi di Bush un disastro del genere gli sarebbe stato rinfacciato quotidianamente (è quello che accadde più o meno con l'uragano Katrina). Ma benché la sua popolarità cominci a traballare nei sondaggi in madrepatria, qui da noi Obama è ancora intoccabile. È una sorta di meccanismo di compensazione, scattato sin dal 2008 (quando il Pd veltroniano colò a picco sventolando le bandierine stelle-e-strisce): la vittoria di un giovane democratico nero ci ha reso meno intollerabile il pensiero di vivere in un'Italia berlusconizzata. Il guaio è che Obama non detiene i poteri assoluti che segretamente vorremmo che avesse: i suoi ultimatum alla BP finora sono serviti a poco; nel frattempo la Corte Suprema ha dichiaratoillegittima la sua moratoria sulle trivellazioni. Il pensiero che anche Obama non riesca a farsi rispettare dalla lobby petrolifera è sconfortante quanto basta per voltar subito pagina e parlar d'altro – sì, persino dei problemi della Nazionale.

3. Non ci riguarda. Anche se una parte del petrolio ha già raggiunto l'oceano, noi italiani ci riteniamo al sicuro. E fingiamo di non sapere che il disastro del Golfo è solo l'annuncio di un evento ben più catastrofico, che c'interessa da vicino: la fine del petrolio. Che si tratti di una fonte non rinnovabile lo abbiamo sempre saputo. Da anni gli studiosi ci spiegano che il petrolio non scomparirà all'improvviso: la produzione toccherà un picco (il cosiddetto picco di Hubbert) per poi calare rapidamente, quando tutti i pozzi più accessibili cominceranno a esaurirsi. Nuovi giacimenti continueranno a essere scoperti, ma l'estrazione diventerà sempre più complessa e onerosa. I pozzi dovranno scendere sempre più in profondità, e correre sempre più rischi. Quando raggiungeremo il picco? Secondo gli scienziati dell'ASPO ci siamo già. Da qui in poi la possibilità che accadano incidenti come quello del Golfo (o del delta del Niger) crescerà sempre di più – anche nel Mediterraneo, un ecosistema fragilissimo che non resisterebbe a una fuoriuscita come quella del Golfo. Siamo insomma noi, ancora più che Obama, ad aver bisogno di una moratoria alle trivellazioni.

Tutto chiaro? E ora, un indovinello: quale ministro, dieci giorni dopo l'esplosione della Deepwater, ha aperto il golfo di Taranto alle ricerche di una compagnia petrolifera? Un piccolo aiuto: quindici giorni dopo si è dimesso. Per altri motivi, pensate. http://leonardo.blogspot.com

(Un ringraziamento a Petrolio, il blog che è la migliore finestra italiana sul disastro). 

venerdì 25 giugno 2010

Ritorno degli Pseudo-cripto-ebrei

Le radici non esistono

Bobby Wheelock: I feel different from everyone sometimes.
Dr. Josef Mengele: You are infinite different. Infinite superior. You are born of the noblest blood in the world.

Le persone vorrebbero avere radici. Questa è una cosa che non smette di stupirmi. Invece vedo che molti ormai la danno per scontata.
Allora adesso vi spiego cos'è scontato per me: queste radici, che le persone vorrebbero avere, in realtà non esistono. Le persone non hanno mai avuto radici, e mai le avranno. Hanno i piedi, per spostarsi. Sembra banale, evidentemente non lo è. Il discorso delle “radici” è una vecchia metafora. Quanto vecchia? C'è già nella Bibbia. È una metafora efficace e condivisa. Però resta una metafora. Finché ci serve a capire un concetto, bene. Se comincia a ostruire la via dei ragionamenti, è il momento di farla fuori.

Perché appendiamo i crocefissi alle pareti delle scuole? A cosa servono, concretamente? I ragazzi diventano più cristiani? Non sembra. L'occhio di Dio vi si posa più volentieri? Eh, sostenerlo sarebbe idolatria. E allora? È per via delle radici. Alt. Di cosa stiamo parlando?

Perché ci scandalizziamo se alla maturità viene proposto un tema su Mussolini o sulla vita extraterrestre, e troviamo normalissimo che si traduca ancora un pezzettino di Greco antico? Perché insistiamo a privilegiare nelle scuole l'insegnamento delle lingue classiche rispetto alle lingue vive e alle materie scientifiche? È quello che abbiamo fatto, da Gentile fino alla Gelmini. Con risultati che oggi appaiono scarsi. E allora perché insistiamo? Per via delle radici. Alt.

Sono senz'altro una persona strana, ma ogni volta che sento parlare di radici mi vengono in mente gli pseudo-cripto-ebrei del Nuovo Messico. Li scoprii grazie a un vecchio pezzo di Marco D'Eramo sul Manifesto. La storia è un po' complicata, ma in tre righe si tratta di questo: negli anni Ottanta uno storico di origini ebraiche si trasferì a Santa Fé, New Mexico. Qui, senza nemmeno mettersi a cercarle, s'imbatté in una serie di testimonianze che lo convinsero che diverse famiglie del posto erano di origine ebraica sefardita. Probabilmente si trattava di criptoebrei (ebrei che fingevano di essersi convertiti) scappati dall'Inquisizione spagnola ai tempi in cui il Nuovo Messico era la più lontana terra a disposizione, che poi erano restati lì, evitando di mescolarsi troppo coi locali e mantenendo alcune usanze (il sabato, l'astinenza dal maiale). E così nel giro di pochi anni un certo numero di newmexicani si convinsero di essere di origine ebraica, e in molti casi decisero di riprendere le usanze di cui genitori e nonni conservavano soltanto un labilissimo ricordo: si circoncisero, si misero a leggere la Torah, andarono a Gerusalemme in pellegrinaggio... qualche anno dopo passò un altro studioso: guardò meglio e smentì tutto quanto. Non c'erano mai stati tutti questi criptoebrei in New Mexico: non c'era motivo per cui avrebbero dovuto scegliere un luogo lontano dai traffici commerciali, e tutt'altro che snobbato dall'Inquisizione.

E il Sabato? Il maiale? I nomi biblici? Le stelle di David sulle tombe? Quel che restava di una setta protestante che si era infiltrata nel New Mexico nell'Ottocento. Tutto chiaro? No, perché i discendenti degli pseudocriptoebrei si erano convinti di essere ebrei, e riconvertirsi è sempre più difficile. Scoppiò una lunga diatriba, che continua tuttora. Io ogni tanto sono così folle da dare un'occhiata su google. L'ultima cosa interessante che ho trovato è questo articolo, che in sostanza rifiuta di porsi il problema centrale: forse non sapremo mai se i criptoebrei siano mai stati in New Mexico. A questo punto per l'articolista la cosa interessante diventa capire come mai l'ipotesi criptoebraica piace più delle altre: come mai molti abitanti del New Mexico hanno deciso di diventare ebrei appena uno studioso gli ha fatto intravedere la traccia di una radice. Nell'articolo si suggerisce tra l'altro che l'ipotesi criptoebraica 'funzioni' perché si appoggia su una struttura dell'immaginario tutta novecentesca: l'olocausto. Non importa che il paragone tra Inquisizione spagnola e nazismo sia stato smontato dagli storici: i criptoebrei piacciono più dei protestanti perché sono un esempio di ebrei scampati a una persecuzione.

A osservarla dall'alto la cosa rimane buffa: convertirsi all'ebraismo perché forse il tuo bisnonno lo era. Il problema è che noi appendiamo croci e studiamo (fingiamo di studiare) Platone per lo stesso motivo: radici. Questa idea per cui i nostri bisnonni, che da tempo sono cenere e fango, comunque esistono. Comunque ci appartengono. Se fossero vivi probabilmente non riuscirebbero a capirci, né noi capiremmo loro: non importa, abbiamo qualcosa in comune. Ma allora delle due l'una: o si ammette di credete in una qualche forma di trasmigrazione o metempsicosi o aldilà, oppure questo è uno dei classici casi in cui le metafore ci hanno dato alla testa. I nostri bisnonni non esistono più. Quello in cui loro hanno creduto non è poi così rilevante. Un po' di dna, nemmeno tanto.

Eppure ci avvinghiamo a loro. Soprattutto quando diventa evidente che non ci assomigliano nemmeno (Platone, Socrate, Gesù Cristo): meno cose abbiamo in comune, meglio è. Siamo tutti così, specie a una certa età. Ci crediamo tutti diversi, speciali. Aspettiamo tutti che arrivi il profeta o lo studioso che ci dimostri quello che oscuramente intuiamo già: siamo i discendenti di un popolo eletto. Abbiamo un sangue diverso. Siamo di una nobile stirpe. A quel punto molti di noi si ritrovano iscritti a un classico. E si avvinghiano a quel che trovano: Platone, Livio, Orazio. Se dessimo loro per cinque anni soltanto Pinocchio, si attaccherebbero a Pinocchio. Diventerebbero studiosi collodiani appassionati e cerebrali. Citerebbero il sacro testo a memoria, appenderebbero alle pareti icone della Fata Turchina, crederebbero nella resurrezione dei morti perché Pinocchio è pur tornato dalla balena, saluterebbero nei rari interventi del Grillo Parlante la base della sapienza occidentale. Sognerebbero un aldilà dove non saremmo più burattini di legno, ma bambini perbene di vera carne e vero sangue. Si può spremere una radice da qualsiasi cosa.

Ho scritto che la metafora delle radici ha origine nella Bibbia. Il profeta Isaia nel secondo Libro dei Re consola il re Ezechia, che teme il massacro del suo popolo da parte degli Assiri: il massacro magari ci sarà, ma “il rimanente della casa di Giuda che sarà scampato, metterà ancora radici in basso e porterà frutto in alto” (2 Re 19,30). Le radici – se proprio vogliamo parlar metaforico – crescono verso il basso. Tremila anni fa Isaia aveva già capito qualcosa che non ci entra in testa: noi non veniamo dopo le nostre radici o a causa delle nostre radici: le radici sono roba nostra, che spingiamo verso il basso, alla ricerca di nutrimento. Siamo liberi di spingerle dove vogliamo: di sentirci ebrei o protestanti o antichi Greci. Fuor di metafora: siamo liberi di scegliere e coltivare il passato che vogliamo. I bisnonni non hanno nessuna autorità su di noi. Ma i loro spettri, è evidente, mettono ancora molta soggezione.

martedì 22 giugno 2010

Il Centro di Modena ha un problema

Portici affumicati e strade strette
storte, piene di buche e di letame,
un'aria sempre torbida ed infame,
un continuo votar di canalette...

(Anonimo ex modenese)

Cari commercianti del Centro di Modena,
vi scrive un ex modenese, un po' preoccupato. Da quel che si leggeva in questi giorni sui vostri giornali, sembra che in città ci sia stato un vero e proprio assedio. Sei ore di combattimenti, anarchici dappertutto, cioè insomma, dappertutto, diciamo in via Emilia. Hanno rotto una videocamera a circuito chiuso. Hanno “preso di mira” le vetrine (scrivono tutti così: preso di mira. Neanche fosse un bersaglio mobile, una vetrina). Hanno lordato i muri con le bombolette spray. Hanno trasformato la città “in un teatro da guerriglia urbana”, ha detto l'onorevole Bertolini, che colgo l'occasione di salutare: buongiorno onorevole Bertolini, è da tanto che non sentivo più parlare di lei, cominciavo a preoccuparmi. Ma soprattutto, cari commercianti, tutti quegli anarchici vi hanno rovinato il sabato pomeriggio: quella mezza giornata che “le famiglie tradizionalmente dedicano allo shopping”. Un bel guaio, in tempo di crisi.

Cari commercianti, miei ex concittadini: credetemi se vi dico che mentre leggevo trepidante le testimonianze della battaglia, il mio cuore è tornato a dieci anni fa, quando anch'io passavo a Modena i miei sabati pomeriggio. Insomma la nostalgia si è impadronita di me, e ho ripensato ai miei sabati in via Emilia. Quanti ricordi, che folle, che calche... no, aspetta. Di solito nel ricordo tutto s'ingrandisce un po'. Nel mio caso questo non succede. Ovvero, io tutta questa gente al sabato pomeriggio non riesco a ricordarmela. Qualche crocchio sì, ma nulla di paragonabile a... a... qualsiasi altra città in cui io abbia passato un sabato pomeriggio. In Italia, in Europa, ovunque, ormai sono uno che ha viaggiato. Vivo da qualche anno in una città più piccola, non vi dirò quale perché non mi prendereste più sul serio, e rammento che i primi sabati che mi capitava di mettere il naso fuori mi chiedevo sempre cosa stesse succedendo: concerti gratis? Bancomat impazziti erogavano banconote? Orge in piazza? No, niente, era solo la normale folla del sabato pomeriggio. Normale? Non c'ero abituato. Eppure venivo da una città più grande, da Modena. Cari commercianti, da uomo che un po' ha viaggiato io prima o poi vorrei dirvelo: Modena ha un problema. Il centro di Modena ha un grosso problema. E non sono gli anarchici.

Quelli sappiamo benissimo cosa fanno: arrivano, girano tre isolati, sporcano un po', e poi levano le tende. Considerato che erano in seicento, il corteo non doveva superare i sessanta metri. Un corteo così avrebbe dovuto spaventare le famiglie? Rifletteteci bene. Una famiglia che sta prendendo il gelato al K2 non lo sente nemmeno, il corteo alla Ghirlandina. Magari s'incrociano al portico del Collegio, e se la famiglia si spaventa un po' prende per via Farini (dove ci sono comunque tanti esercizi interessanti), fine del disagio. Ma il vero problema è che la famiglia quel sabato non ci va nemmeno in centro, e perché? Coraggio, ditemelo, perché? Chi è che ha detto alla Famiglia Modenese: State lontani dal centro, arrivano migliaia di anarchici cattivissimi? Sono stati i vostri giornali. Quelli che continuano a pomparsi e pomparvi con questa storia della guerriglia urbana. Ma voi avete presente cos'è una guerriglia urbana?

Ho letto un'intervista al questore. Ha difeso la scelta di fare il corteo in Via Emilia: dice che in questo modo si sono limitati i danni. Dice che non è stata infranta una sola vetrina. Ecco perché i giornali scrivono che le vetrine sono state 'prese di mira': non possono scrivere che sono state rotte... Insomma 'sti anarchici devono avere una mira scadentissima: prendono di mira, prendono di mira, ma niente da fare. Oppure hanno capito, e non da oggi, che una vetrina rotta non serve a niente. Purtroppo continuano a usare bombolette e uova marce, ma anche qui, ha senso prendersela col Comune? Ha ripulito tutto in 24 ore, come al solito. Secondo voi avrebbero dovuto fare il corteo da un'altra parte. È il solito discorso. Perché la gente non manifesta a casa sua, magari con le tapparelle giù, e a basso volume? Ahimè no, il senso di una manifestazione è proprio l'azione di disturbo: la possibilità di fare arrivare il messaggio anche alla famosa famiglia che va a prendersi il gelato in centro. È una cosa che non si può impedire, neanche il questore ci prova. Cosa vorreste fare esattamente, transennare il centro storico? Far entrare soltanto quelli che hanno la faccia da shopping?

Ma non capite che il problema è l'opposto, e cioè che in centro a Modena non entra comunque nessuno? Praticamente nessuno. Una cittadina di cinquantamila abitanti ha dei sabati pomeriggio mediamente più interessanti dei vostri. E voi ve la prendete con gli anarchici. Dovreste festeggiarli, gli anarchici: sono gli unici che nel Centro di Modena ci credono ancora. Quando capiranno di quanto poco sia importante il Centro per gli stessi modenesi, non verranno più. Andranno a manifestare nel parcheggio del Grandemilia, o del nuovo multisala. E voi finalmente sarete liberi di esporre i vostri diamanti per i quattro turchi e i tre filippini che passano, perplessi. Il centro di Modena ha effettivamente un problema.

Può darsi che siano gli spazi. Strade troppo strette, e i portici non sono accoglienti come in altre città. Poi è vero che i centri storici sono luoghi schizofrenici. Negozi di lusso ed extracomunitari in subaffitto, non ha senso. Ma anche qui: è colpa del Comune?
Non sarà anche un po' colpa vostra? Se fosse per voi, la Pomposa sarebbe ancora la piazza dei cinesi. Invece hanno fatto aprire un po' di locali e adesso è piena di giovani. Non ce li avete mica portati voi, lì, diciamolo. Comunque adesso ci sono, e potreste profittarne per vender loro qualcosa. No, niente. È già tanto se non aderite a qualche raccolta di firme per far chiudere i locali. Sarà che ai giovani non si riesce a vender niente, hanno orari balordi, e poi non si sa cosa gli piace, sarà. Voi vorreste vendere alle famiglie. Ma le famiglie cosa dovrebbero venire a fare in centro, esattamente?

A proposito, voi dov'eravate quando hanno chiuso cinque cinema? Il Cavour. Il Metropol. Lo Splendor. L'Embassy. L'Olimpia, vabbè, diciamo che non era proprio in centro. E poi l'Arena che è diventato un porno. Tutto bene, secondo voi? D'altro canto, si sa, il cinema è un'invenzione senza futuro. Le famiglie non ci vanno più. Tranne per Avatar in 3d, eh, sì. Quante famiglie sono andate a vederlo, quest'inverno. Di sicuro non sono passate per il Centro.
A meno che non l'abbiano dato all'Astra. L'Astra resiste! È uno dei pochi motivi per cui mi capita ancora di trovarmi a Modena, di sabato, diciamo verso le diciannove. E magari mentre aspetto che cominci un film entro anche in un negozio. Ci trovo un'esercente scocciata che mi fa fretta perché non vede l'ora di chiudere. Il sabato alle diciannove. Io credo che Modena abbia un grosso problema.

Vogliamo raccontarci che siano gli anarchici? A proposito, ma con chi ce l'avevano? Con quel centro di Identificazione e di Espulsione che invece di identificare ed espellere gli immigrati li rinchiude per mesi e mesi. Quello gestito dalla Misericordia di Giovanardi, che prende soldi dallo Stato e non fa nemmeno funzionare le docce. Pensate che in un mondo appena appena un po' passabile quella gente non marcirebbe là dentro. Sarebbero in giro a darsi da fare. Qualcuno magari anche a Modena. E magari al sabato pomeriggio gli avanzerebbe un po' di tempo per farsi un gelato al K2. Ma poi lo fareste entrare nei vostri negozi?

No, eh?

Cari commercianti, io credo che il centro di Modena abbia un grossissimo problema.
Guardate, ve lo dico senza alcun pregiudizio, da vecchio appassionato di Centri storici. Anche adesso vivo in un Centro, oddio, diciamo in un Centrino. Sapete cosa c'è di fantastico? Che posso andare a lavorare in bicicletta. E compro il pane e la verdura sotto casa. E qualsiasi cosa. In effetti, sono sempre in bicicletta. A Modena la bicicletta mi è marcita in cantina. E dire che vivevo dietro il teatro. Perché non la usavo mai?

Forse perché in tutto il centro non c'era nemmeno un supermercato decente? Neanche uno. Pelliccerie, gioiellerie, e più scarpe che stelle nel cielo. Ma per fare una semplice spesa dovevo prender la macchina e andare all'iper. Avete capito qual è il problema?

Siete voi.
Perché non mollate l'osso? Vendete tutto e via. Coi soldi ricavati comprate un lotto di terreno, sloggiate l'anarchico che ci coltivava le patate bio e ci costruite un enorme centro commerciale pressurizzato. Lo fate a forma di Centro di Modena, però con l'aria condizionata e Pavarotti in filodiffusione. E soprattutto un immenso parcheggio davanti. Non verrà più pacchiano di un qualsiasi outlet, ma del resto ci siete mai stati in un outlet? Se avete visto il Fidenza Village, o Mantova Sud, dovete ammetterlo: quelli sì che sono centri storici come dio comanda. Si potrebbe fare anche un'autopista tutt'intorno, chiedete in giro, c'è richiesta per questo tipo di cose.

E il centro vero lasciatelo a chi lo abita. Ai giovinastri, agli extra, ai vecchietti, ai bambini, agli anarchici, a tutta questa gente inadeguata alle vostre vetrine. Vediamo come se lo gestiscono. Mal che vada diventerà un ghetto putrescente – quel che è stato per centinaia d'anni. Sopravvivrà.

lunedì 21 giugno 2010

Do teachers dream electronic tests?

Salve, insegnante della Scuola italiana.
Mi chiamo Invalsi. Risolvo i tuoi problemi.
Tu sei molto stressato, lo so. Io sono qui per aiutarti.
Hai molti compiti da correggere. Ma non ti pagano per le ore che passi a correggere i compiti. Ti pagano soltanto per le lezioni. Quindi il tempo che passi a correggere i compiti è... tempo sprecato. Pazzesco, no?
E qui arrivo io. Ti do un test che si può correggere al computer. Ai ragazzi basta fare una quarantina di crocette, tu lo rimetti al computer, e il gioco è fatto. Bello, no?
Ma allora, insegnante, perché mi odi?
Perché i prof non sopportano la prova nazionale Invalsi, sull'Unità.it. Si commenta qui. (I commenti funzionano! Provare per credere!)

Anche se ogni anno se ne parla come di una straordinaria novità, la prova nazionale è ormai una vecchia conoscenza degli insegnanti delle scuole medie, che giovedì scorso l’hanno affrontata per il terzo anno consecutivo. Senza alcun entusiasmo.
Eppure sulla carta non sembra una brutta idea. La prova Invalsi è un questionario a risposte multiple (anche se alcune sono relativamente “libere”, diciamo che per l’80% il candidato si trova a dover scegliere tra diverse soluzioni, una sola delle quali è quella giusta). Questo tipo di questionari sono ormai una prassi consolidata nelle scuole di tutto il mondo, per un motivo semplice e non esattamente ‘didattico’: si possono correggere al computer. Ovvero: non occorre impiegare personale qualificato in grado di interpretare le risposte. Se si tratta di una novità, insomma, è una novità già vecchissima: l’Automazione, che dopo essere entrata nelle fabbriche e negli uffici, penetra finalmente in uno degli ultimi baluardi del lavoro artigianale: la scuola. Questo potrebbe giustificare parte dello scetticismo degli insegnanti: se comincia a passare l’idea che i compiti si correggono da soli, senza prof, presto o tardi si cominceranno a eliminare i prof…
Un momento. Non ha senso pensare a insegnanti luddisti che distruggono il server dell’Invalsi, come i braccianti che a inizio del secolo distruggevano le mietitrebbie. Gli insegnanti non sono pagati a prestazione. Nessuno tiene conto della quantità di tempo che passano a correggere compiti manualmente, anzi: di solito questo tempo è solennemente ignorato, e nei conteggi si tiene conto soltanto delle lezioni (le famigerate “diciotto ore”, che sembrano sempre così poche a chi non lavori nel settore). In pratica un insegnante che passa altre dieci ore a settimana a correggere compiti e verifiche viene pagato come un insegnante che non corregge nulla. Ne consegue che qualsiasi insegnante dovrebbe essere entusiasta di una verifica che si corregge da sola. Soprattutto quello che passa dieci ore della settimana a fare un lavoro (correggere verifiche) che una stupida macchina potrebbe fare al posto suo. Senza togliergli un soldo di stipendio. Più che braccianti, i prof sono nella situazione delle casalinghe di un secolo fa: nessuno li paga per portare i panni al fiume, lavarli, riportarli a casa, stenderli… se regali loro una lavatrice, non la odieranno, anzi. La prova Invalsi è una lavatrice: dovrebbero esserne entusiasti, e invece non la sopportano. Perché? Ci sono varie teorie.
Prima teoria: la lavatrice sarà anche comoda, ma resta un lavoro in più. Se agli insegnanti fosse stato proposto un nuovo metodo rivoluzionario per non andare più al fiume a lavare i panni, sarebbero stati entusiasti. Invece alle prof viene richiesto di andare comunque al fiume; di lavare i panni a mano come sempre; di stenderli, stirarli, piegarli; e poi, nei ritagli di tempo, imparare a usare questo nuovo complicato aggeggio di cui si parla in città, la lavatrice Invalsi. La prova nazionale non ha sostituito il tema e il compito di matematica. Si è soltanto sovrapposta. Agli insegnanti di italiano e matematica è stato aumentato il carico di lavoro – senza aumentare il salario, naturalmente.
Seconda teoria: se almeno questa lavatrice funzionasse bene… E invece. Addirittura due anni fa l’Invalsi andò in tilt perché aveva invitato tutte le scuole d’Italia a scaricare i formulari con le risposte dal loro sito. Gli insegnanti con qualche rudimento d’informatica capirono al volo che il server sarebbe crollato, e cercarono di attaccarsi per primi. Gli altri si fidarono… e rimasero al buio per mezza giornata. Il server restò piantato per ore, ufficialmente per ‘problemi climatici‘. L’anno scorso le cose andarono un po’ meglio, ma qualche problema c’è sempre. Per esempio: quest’anno è stato reso disponibile un file per correggere automaticamente le prove. È un peccato che, con tanti software liberi e gratuiti, il ministero abbia deciso di distribuire un file Microsoft Office. È un peccato soprattutto perché il file, ovviamente, non funzionava con tutte le versioni di Windows. Stiamo parlando di scuole medie, quelle che non hanno il budget per pagare supplenze e fotocopiatrici: l’aggiornamento del software non è una delle loro priorità.
Terza teoria: cosa te ne fai di una lavatrice senza presa di corrente? Cosa te ne fai di un questionario a risposte multiple se non hai un lettore ottico? La logica vorrebbe che i questionari, una volta compilati, fossero processati da un lettore che decifrasse automaticamente i pallini bianchi e i pallini neri, e correggesse da solo i questionari. Questo lettore ottico non è un arnese fantascientifico: in sostanza è uno scanner con un software particolare; in altri Paesi si usa da decenni; da noi no. Da noi sono gli insegnanti a dover riportare tutte le risposte fornite dai ragazzi, al termine della prova, in una scheda riassuntiva. Se lo facesse il ragazzo, l’operazione gli toglierebbe al massimo cinque minuti; ma l’insegnante deve farlo per una media di venticinque alunni: si tratta di un lavoro molto ripetitivo che gli toglie tre ore di lavoro. E qui, davvero, c’è di che trasformare una paciosa insegnante cinquantenne in una seguace di Ned Ludd. Gli insegnanti sono lavoratori di concetto, a cui piace considerarsi autonomi e creativi: se anche qualcuno di loro stava maturando una buona opinione della prova Invalsi, un pomeriggio passato a riempire pallini su una scheda gliel’avrà stroncata sul nascere. In fondo chi erano i primi luddisti, se non pacifici tessitori che si erano resi conto che le macchine avevano trasformato la loro vita in un incubo ripetitivo…
Finita l’operazione di riempimento pallini, si tratta di ‘valutare’ le prove, ovvero contare i punti. Quest’anno il calcolo era particolarmente cabalistico, per cui anche gli insegnanti più testardi (reduci comunque da tre o quattro ore di riempimento pallini) alla fine si sono rassegnati e hanno acceso il computer. E qui si sono trovati di fronte a un déja vu: dopo aver passato ore a riempire pallini, si sono trovati davanti un software che (quando funzionava) in sostanza chiedeva loro la stessa cosa: come ha risposto lo studente a questa domanda? Il pallino che hai già riempito sulla scheda di carta è bianco o nero? In mancanza di un lettore ottico, all’insegnante veniva chiesto di diventare uno scanner. Siccome gran parte degli insegnanti non è più veloce col mouse che con la penna, è lecito immaginare che questa seconda operazione abbia impiegato in media ancora più ore che la precedente. A proposito: quando usciranno le statistiche sui risultati delle prove, ricordatevi che tutti i risultati sono passati attraverso questi due passaggi umani: un umano (stanco) ha ricopiato le risposte dello studente su una scheda, e un umano (ancora più stanco) le ha ricopiate di nuovo sul computer. Spero di sbagliarmi, ma temo che la percentuale di errori umani sarà tale da rendere del tutto inutile la rilevazione.
In pratica il computer non ha ‘liberato’ il tempo degli insegnanti, tutt’altro: li ha trasformati in automi costretti a perdere ore di lavoro per immettere dei dati che un lettore ottico avrebbe registrato in pochi minuti (facendo meno errori). È come se alle casalinghe di un secolo fa, stanche da una giornata passata al fiume, fosse stato chiesto di pedalare un paio d’ore per far funzionare questo trabiccolo moderno, la lavatrice. Se volevamo convincerli che la tecnologia può migliorare il loro lavoro, abbiamo scelto il modo peggiore.
L’anno prossimo i questionari Invalsi approderanno alle superiori. Chissà, magari lì troveranno insegnanti più aperti alle novità, e computer più adatti. Magari a Roma avranno fatto tesoro di tutti gli errori commessi in questi anni. È un augurio sincero, da parte di uno dei pochi prof che alle prove nazionali un po’ ci crede. Credo anche che il computer a scuola sia un’ottima cosa. Specie quando fa il mio lavoro. Ma fin qui sono stato io a fare il suo. E non sono affatto sicuro di averlo fatto bene.


giovedì 17 giugno 2010

Il miglior Nessuno

Come presenti Omero agli undicenni? Le ore a disposizione sono una manciata, i pochi rudimenti di Storia antica un ricordo lontano. Molti hanno difficoltà a leggere una frase in italiano corrente: per loro il traduttese della Calzecchi Onesti è un'altra lingua straniera. Il rischio è quello di buttar tutto in favoletta; con la scusa dei contenuti universali trasformare l'ira di Achille nella foga di un tronista tamarro (quello che fece Brad Pitt). Mentre invece Omero non ci somiglia per niente: anche quando sembra parlarci di cose che conosciamo, basta voltarsi un attimo e ci sorprende lo straniero, l'arcaico: un dio incestuoso, un gigante cannibale innamorato dei suoi armenti, una madre che è uno spettro assetato di sangue.

Come presento Omero agli undicenni? Sembra impossibile, in realtà c'è una soluzione a portata di vhs: l'Odissea di Franco Rossi. Sì, proprio quell'obsoleto sceneggiato girato a colori per una tv di Stato che era ancora in bianco e nero, con un Polifemo di cartapesta a cura della famiglia Bava e Irene Papas a casa a tesser tele. Datato, datatissimo. Fino a qualche anno fa non avrei scommesso un euro sulla possibilità che qualcosa di tanto statico potesse essere propinato con successo a classi di preadolescenti iperattivi.

E invece, incredibilmente, funziona. È talmente fuori dal tempo che li ipnotizza. Sono così abituati a movimenti di camera frenetici, che di fronte a un paesaggio fermo e a una voce fuori campo vanno in estasi metafisica. In un certo senso è il primo vero film che riescono a capire. Tutto quello che hanno visto fino a quel momento andava troppo velocemente per salire al cervello. Ora finalmente possono trovare sullo schermo un po' di silenzio, di quiete, ed è qualcosa che nemmeno immaginavano di poter apprezzare.

Per chi è nato a fine Novanta uno sceneggiato del '68 è arcaico quasi quanto Omero. Un film senza effetti digitali è un oggetto misterioso in sé. Le sirene restano fuori campo e non si scacciano dal cervello; gli dei che appaiono all'improvviso senza flash luminosi ricominciano quasi a far paura. Non è una questione di budget, bisogna essere onesti. Rossi e la sua troupe italo-franco-tedesco-jugoslava si stavano liberando consapevolmente di tutta la sintassi dei peplum. Volevano essere arcaici e, per tutti gli Dei, ce l'hanno fatta. L'unico paragone che mi viene in mente sono le tragedie di Pasolini (ma la Medea con la Callas è dell'anno successivo; fino a quel momento si era visto soltanto l'Edipo Re). Magari mi sfuggono dei riferimenti, non è che me intenda. Quel che posso dire, da operatore sul capo, è che funziona. L'Ulisse a cui si affezionano i ragazzini non è un supermario che passa di mostro in mostro e alla fine raggiunge la regina nel castello. È un uomo in un mondo alieno e ostile, che ha commesso crimini e imperdonabili imprudenze. Ostinato a voler tornare; rassegnato a perdere tutti quelli che incontra, secondo il capriccio degli Dei.

È anche merito dell'attore, quell'umanissimo e misterioso Bekim Fehmiu. Ai ragazzi racconto che è albanese: in fondo Itaca non è molto lontano, e non è poca gloria essere connazionali del re di tempeste. In realtà era jugoslavo della minoranza albanese (cossovara?), ma la Jugoslavia non esiste più, e studenti cossovari non mi sono ancora capitati. È l'uomo che ammette in lacrime di essere stato esecutore del genocidio dei troiani; l'uomo che abbraccia l'ombra della madre; che perde la ragione ascoltando le Sirene. Ed è l'uomo che riconquisterà la sua casa massacrando i proci, perché così vogliono gli dei. Così vorrebbero anche i ragazzini, in teoria. Lo sceneggiato li ha caricati come molle: sin dall'inizio Antinoo e soci sono stati presentati come prepotenti da western, accampati nella reggia come in un saloon. Nei panni del mendicante, Fehmiu si è fatto schernire per più di mezz'ora prima di prendere l'arco in mano. Deve scorrere il sangue, e scorrerà. Ma non sarà divertente. 

È una mattanza senza gloria, lontana millenni da qualsiasi scena madre di action movie: i condannati smettono all'istante di sembrare antipatici. Sono chiusi in trappola, presi alle spalle e scannati come animali; le donne urlano, Penelope si tappa le orecchie. Lo stesso Ulisse a un certo punto non ne può più, intuisce che la storia non ha senso. E allora da un angolo appare un dio, travestito da amico di famiglia, a ribadire le ragioni della mattanza. Le ragioni di dei capricciosi e assetati di sangue: la morale è una favoletta stantia, ha le sembianze di tre vecchie bigotte.

Bekim Fehmiu è morto martedì. Il suo Ulisse, ipnotico e dubbioso, resta con noi. Non sarà un capolavoro, ma è il migliore Ulisse che si possa mostrare a un ragazzino. Credo che lo resterà ancora per tantissimi anni.

martedì 15 giugno 2010

un destino minuscolo

Una delle battaglie che perdo tutti i giorni è quella intorno alle lettere maiuscole. Poi per forza uno dice sei depresso – vi sembra qualcosa per cui vivere? Un motivo per svegliarsi la mattina? E guardate che dalla vita non chiedevo mica Waterloo o Stalingrado, eh, ma qualcosa di più interessante che consumare i giorni a correggere gente che non ritiene necessario mettere la maiuscola dopo il punto, personcine che trovano eccentrico il firmarsi con le iniziali maiuscole, scrivere Italia con la maiuscola...
Uno sarebbe anche tentato di dire vabbè, chissenefrega, ho una vita sola, arrangiatevi. Probabilmente a questa conclusione sono arrivate per prime le mie colleghe delle elementari, perché le ultime infornate di bambini che ci hanno consegnato non hanno proprio più la minima idea.
Molti hanno tagliato il nodo gordiano: scrivono tutto in stampatello e amen. Tu spieghi che lo stampatello è scomodo, che conoscere due grafie è meglio che saperne scrivere una sola, che è il momento di acquisire più manualità, di sperimentare la comodità, la fluidità del corsivo. Loro restano scettici. Tu li ammazzi con due ore di dettato. Lo scetticismo diminuisce. Ma rimane sempre il problema che non sanno dove mettere le maiuscole. Tu glielo spieghi. Loro ti guardano strano. Cos'è questo punto fermo che ci obbliga a mettere una maiuscola, talvolta persino ad andare a capo, ma chi si crede di essere? Ma poi in generale cos'è questa storia degli obblighi, delle regole, posso uscire? Voglio parlarne col preside. Posso mandargli mio padre? Mio padre si firma tutto minuscolo e non gli è mai successo niente.

Tu glielo spieghi. Tutti i santi giorni, tu gli ripeti i motivi per cui le maiuscole servono. Ci aiutano a orientarci sulla pagina. A distinguere il nome comune dal nome proprio. A dare importanza alle cose che se lo meritano. Il mondo è così vasto e così ricco di cose interessanti da studiare, ma non c'è mai abbastanza tempo perché ogni santo giorno bisogna ribadire il concetto che non vi potete firmare con le lettere minuscole, piccoli deficienti. Comunque è il mio mestiere, eh, mi pagano, per cui insisto. Ogni giorno.

Tempo buttato via. Soldi sprecati.

lunedì 14 giugno 2010

Siam pronti alla che?

No, un'altra polemica sull'Inno no...
E invece sì. Cambiamo l'inno, sull'Unità.it (si commenta qui).

C'è un antico inno, nato nell'Italia settentrionale, che glorifica la vittoria della Lega Lombarda. C'è un Presidente di regione a cui non piace, e che ha chiesto di sostituirlo con un coro di ebrei sconfitti ed esiliati. A raccontarla così può sembrare una barzelletta, e in effetti lo è. Il coro degli esuli ebrei è, ovviamente, il Va' Pensiero; il canto che glorifica la Lega Lombarda è Fratelli d'Italia (scritto e musicato da due genovesi), che nella quarta strofa cita espressamente Legnano, il luogo della vittoria dei padani su Federico Barbarossa. Il Presidente a cui non piace è Zaia, Lega Nord. Proprio quel partito che di Legnano ha fatto una religione. Umberto Bossi ha persino fatto una comparsata nel kolossal di Martinelli che celebra Legnano: quel “Barbarossa” che è costato dodici milioni (un milione e seicentomila pubblici) e ne ha incassati la metà.

E insomma, è successo che durante l'inaugurazione di una scuola elementare Zaia abbia chiesto di sostituire l'inno nazionale col Va' Pensiero. La banda lo avrebbe poi suonato in seguito, mentre il ministro stava già perlustrando i locali. È una notizia? Nel momento in cui sto scrivendo campeggia sull'homepage dei principali quotidiani italiani, quindi sì, è una notizia. Anche se per la verità non ci dice molto di nuovo. L'insofferenza dei leghisti per Mameli/Novaro è cosa nota. E poi a Bagdad c'è una rapina-attentato, il Belgio è sull'orlo della secessione, Berlusconi è in Libia... ma via, perfino la cronaca di Ghana-Serbia sembra più interessante dell'ennesima polemica sull'Inno. Eppure vedrete che nei prossimi giorni se ne riparlerà.

Perché siamo in estate, ormai, e la Stagione delle Sparate Leghiste è cominciata. Come quella di caccia, ogni anno si allarga un po'. L'anno scorso fu a luglio inoltrato che si cominciò a parlare seriamente di corsi di dialetto nelle scuole. Poi ci fu la sparata sulle bandiere regionali (venti drappi anonimi e quasi tutti bruttini che avrebbero dovuto sovrapporsi al tricolore) e, naturalmente, quella sull'Inno. Polemiche trite senza nessun contatto con la realtà, buone giusto per ispirare due chiacchiere sotto l'ombrellone, magari per vendere qualche copia della Padania in più al Forte o a Milano Marittima. Quest'anno abbiamo cominciato prima. Forse per recuperare quel brutto colpo all'immagine che fu la paventata soppressione della provincia di Vercelli; forse perché cominciavano i Mondiali e l'occasione era troppo ghiotta... e in effetti a dare il la è stato Calderoli, con un'innovativa proposta per sanare il debito pubblico: tagliare i premi ai calciatori. Una sparata perfetta: il massimo di visibilità col minimo di conseguenze pratiche. Ora si riparte con la polemica con l'Inno, ormai ben più trita dell'Inno stesso.

È difficile ignorare le sparate leghiste estive. In realtà molti ci guadagnano qualcosa. I giornalisti ci rimediano qualche titolo buffo; gli alleati dei leghisti possono approfittarne per rimarcare le proprie differenze e mostrarsi difensori dei simboli minacciati: giù le mani dal tricolore / dall'inno / ecc. (vedi le puntuali dichiarazioni di La Russa). E i leghisti intanto fanno parlare di sé, disotterrando quell'anima infantile e avventurosa che non si stanca di giocare coi simboli, e in trent'anni ha inventato bandiere, confini, religioni (i riti celtici, i pellegrinaggi alla sorgente del Po, ecc), perfino nazionali di calcio. È un'anima che durante il resto dell'anno passa in secondo piano: tra autunno e primavera i leghisti ci tengono a mostrare che sono gente coi piedi (grossi) per terra, con soluzioni concrete a problemi veri. Dopo tanti anni però i problemi veri restano ancora lì, più concreti che mai: Tremonti, il ministro del PdL più vicino alla Lega, continua a tagliare risorse agli enti locali; e intanto il federalismo fiscale continua a restare sulla carta. Non resta che rimettere gli elmi di plastica, rifare una marcia sul Po, organizzare un dibattito sull'importanza del dialetto, magari finanziare un'altra fiction su qualche oscuro federalista medievale o celtico. La stampa seguirà, come segue chiunque le spari grosse: arte di cui Bossi è indiscusso maestro.

Criticare i leghisti nel merito significa fare il loro gioco. Per di più in questo caso si rischia di passare per avvocati di un inno che, soprattutto per quanto riguarda il testo, lascia molto a desiderare. Ma se le sparate leghiste sono un'operazione che coinvolge soltanto l'immaginario degli elettori, l'unica tattica possibile è batterli in fantasia. Non abbiamo anche noi un miglior inno da proporre? E se proprio siamo affezionati a Mameli, non potremmo almeno evitare quegli arcani riferimenti ai misteriosi Scipio e Vittoria, coi loro elmi e le loro chiome, quell'equivoco “stringiamci a coorte” (con due “o”: cambia tutto se ne togli una) e quel “siam pronti alla morte” che ormai è roba da fanatici jihadisti? L'anno scorso proponevo una soluzione semplice ed economica: tagliamo una strofa, partiamo dalla seconda. Forse è meno cantabile, ma è molto più attuale, ed è la migliore risposta che si possa dare alle sparate leghiste. 
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo
Perché siam divisi
Raccolgaci un'Unica
Bandiera una Speme
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò

E se avanza un po' di tempo si può anche indugiare fino alla quarta strofa, per il gusto di cantare che “dall'Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano”. Dovunque, capito?

giovedì 10 giugno 2010

Elogio del bavaglio

Siamo alla fine.
Per qualche anno ci siamo informati, ci siamo indignati, eccitati, divertiti. Abbiamo ascoltato cose che in fondo sapevamo già – però fa tutto un altro effetto, sentirle con le proprie orecchie. È stata un'epoca pornografica, forse col tempo ce ne vergogneremo: ma certi momenti non li dimenticheremo mai, li terremo sempre con noi. Ecco l'elenco completo.


E la n. 1 tra le Intercettazioni Che Ci Hanno Fatto Sognare è...

1) Per sollevare il morale del capo
Noi italiani poi non è che chiediamo tanto. Magari un po' di chiarezza, questo sì. Siamo una democrazia o siamo in una dittatura? Non si riesce a capire; in entrambi i casi la situazione non ha senso. In un regime di democrazia, un dirigente politico intercettato che ammetta di aver lucrato favori sessuali per ottenere la maggioranza in Senato cosa fa? Si dimette? Non sarebbe nemmeno sufficiente. Rendetevi conto un attimo di quello che intendeva combinare questo signore: far cadere un governo, gettare un Paese intero nel caos (il nostro Paese), comprando una signorina a un senatore. Uno così, in una democrazia, se lo scoprono, che fa? Si ritira dalla vita politica? Ma probabilmente anche dalla vita pubblica: si ritira in uno chalet in montagna e passa il resto della vita a pregare che la vergogna non gli sopravviva. Questo in una democrazia.

In una dittatura, per contro, lo scambio di favori sessuali e politici potrebbe anche essere all'ordine del giorno: ma un'intercettazione di questo genere non si sarebbe mai ascoltata. I nastri sarebbero distrutti, i magistrati sollevati dall'incarico, i giornalisti multati e deportati. E quindi, insomma, noi cosa siamo? Forse il problema è tutto qui, nel non riuscire a essere né carne né pesce. Al punto che persino io, che non ho mai potuto soffrire il concetto del tanto-meglio-tanto-peggio, mi scopro pronto a intonare il mio piccolo elogio della ghigliottina: nascondeteci le intercettazioni, toglieteci la libertà di stampa, e non trascurerei la necessità di oscurare internet, o almeno recintarla, come in Cina. Perché è quello che siamo: inutile fingere di essere diversi.

Siamo cresciuti col mito del Watergate: nel nostro inconscio collettivo campeggiava l'immagine di Humphrey Bogart che fa ascoltare al prepotente smascherato il rumore delle rotative per telefono: that's the power of the press, baby, non puoi farci niente. Al giorno d'oggi gli riderebbero in faccia, al signor Bogart. The power of the press, ma fammi il piacere. Non si dimette nemmeno un mafioso, perché dovrebbe dimettersi un magnaccia? Non si dimette nessuno. Le campagne di Repubblica, le inchieste di Report, i comici a Raitre, non sono opposizione; sono una valvola di sfogo che impedisce al calderone berlusconiano di scoppiare. Ascoltiamo il nostro scandalo settimanale e ci sfoghiamo. Addirittura ogni tanto ci fanno persino vincere le elezioni, avete notato? Una farsa. Abbiamo avuto D'Alema, Amato, Prodi – sono venuti, hanno rimesso più o meno a posto i conti, ma intanto chi regnava sugli italiani? Chi plasmava il nostro immaginario? Chi teneva le fila del vero potere? Sentite come lo tratta Saccà: lo chiama “Presidente”. Presidente di che? Siamo nel 2007, in teoria SB è un privato cittadino. Non fosse esilarante per decine di altri motivi (il giudizio tranchant su Martinelli, "senza alcuna piangeria", "Perché Legnano è Legnano"), la madre di tutte le intercettazioni meriterebbe di essere imparata a memoria perché ci fa sentire la Voce del Padrone. Nulla che non intuissimo già, si capisce: è da una vita che ci immaginiamo che le cose in Italia vadano avanti con telefonate così. E poi finalmente un giorno ne abbiamo ascoltata una. Possiamo chiedere di più? Vogliamo un pornosilvio tutte le settimane? Non è possibile. Se fossimo una democrazia, Berlusconi non avrebbe resistito a una botta del genere. Evidentemente non siamo una democrazia.

Ma allora chiedo coerenza. È da vent'anni che il calderone antiberlusconiano fischia, fischia, non sa fare altro, non se ne può più. Diamoci un taglio. L'altro giorno ho rivisto il tg1, c'era Berlusconi al telefono, ha parlato per cinque minuti senza interviste né contraddittorio (diceva che non mi avrebbe messo le mani in tasca, ho stretto le natiche d'istinto). È ancora poco. Io voglio Berlusconi per venti minuti tutte le sere, a reti unificate. Mi stanno bene Santoro e Floris, purché i loro ospiti parlino unicamente di Berlusconi, e ne parlino bene. Io voglio sanzioni pecuniarie, non per chi parla male di Berlusconi, ma per chi omette di parlarne bene in qualsiasi discorso. Voglio una lode a Berlusconi in calce a tutti i resoconti sportivi della Gazzetta, a tutti gli oroscopi, a tutte le recensioni del Mucchio.

Io accetto di vivere sotto una dittatura, purché sia una dittatura seria, senza telefonate e altri siparietti; senza facili illusioni di opposizione e democrazia. Che il duce faccia il duce, non voglio più vedergli le mutande. E mentre scrivo questo io so che da qualche parte Tremonti e Berlusconi, davanti ai veri numeri di bilancio, fantasticano quanto sarebbe bello andare alle elezioni dopodomani e perderle di misura; e farsi governare per un altro paio di anni da un utile idiota, un Prodi o un Bersani: qualcuno che metta le mani nelle famose tasche e si faccia fischiare di conseguenza. E invece no, signori: avete voluto l'Italia, l'avete vinta, adesso ve la tenete. È la pagina più buia dal dopoguerra, e tocca a voi voltarla. Ogni disastro sarà colpa vostra e non ci sarà nessuno in tv o sui giornali a rinfacciarvelo. Solo signorine sorridenti che dicono che va tutto bene. Dobbiamo calare a picco con le marcette militari.

C'è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di donchisciottesco. Ma ci si sentiva pure una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo e bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro.

mercoledì 9 giugno 2010

I want your Sex (2010)

T'avessi preso prima 
Del resto è facile criticare: ma mettetevi voi, nei panni del Ministro Maria Stella Gelmini. Vi danno da gestire un baraccone che non funziona (la scuola italiana) e vi tagliano pure il budget. Voi che fareste?

Da due anni a questa parte il ministro Gelmini sta ricorrendo all'unica strategia che le è consentita: il bluff. È un bluff ridicolo, che qualsiasi adulto sgamerebbe, ma dovete tener conto che il pubblico della Gelmini è costituito in gran parte da minorenni. Credono in qualsiasi cosa. A settembre, almeno. E quindi a settembre il Ministro Maria Stella Gelmini dice che tutti gli studenti con un'insufficienza in qualsiasi materia (compresa condotta) saranno bocciati. Tutti? Tutti.

L'anno scorso andò nello stesso identico modo. All'inizio dell'anno scolastico arrivò questa circolare che in sostanza diceva 'con un 5 sei spacciato'. Gli insegnanti erano perplessi. Poi progressivamente si resero conto che il vero senso della circolare era 'alzate quei maledetti 5'. In pratica il 6 politico, questa famigerata pratica egalitaria adoperata soltanto in qualche scuola metropolitana nel biennio 68-69, veniva dall'onorevole Gelmini introdotta per legge in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Questo però ai ragazzi non era il caso di dirlo. Se si erano spaventati, tanto meglio. Certo, era solo una circolare-bluff: non avrebbe ridato la vista ai ciechi, né il sostegno ai dislessici a cui era stato tagliato; non avrebbe restituito il corso di alfabetizzazione agli stranieri... però qualche normodato, preso dal panico, avrebbe anche potuto trovare una motivazione per mettersi a studiare. Del resto dopo qualche mese arrivò la solita circolare riparatrice: avevamo detto che bastava un 5 per bocciarli? Ma poveri ragazzi, non se lo aspettavano, sono cresciuti nel lassismo sessantottino, diamogli almeno un anno per abituarsi. Facciamo che quest'anno si boccia solo chi ha la media inferiore al 6. Se poi in media infiliamo condotta ed educazione fisica (e qualcuno avrà provato a inserire anche religione), al 6 si arriva facilmente. L'alternativa è trattenere nelle scuole della Repubblica centinaia di migliaia di persone senza aver stanziato un solo soldo in più per ospitarli: ma in molte aule siamo già oltre la soglia di agibilità: aule omologate per 25 ragazzi che ne contengono tutti i giorni 28-30. Ogni tanto crolla una scuola (due anni fa a Torino) senza nessun bisogno di terremoti: l'usura è più che sufficiente. Insomma, se l'anno scorso le bocciature alla fine non sono aumentate, non c'è bisogno di scomodare il magistero di Don Milani, quanto piuttosto le norme di sicurezza: gli insegnanti non bocciano perché non hanno le risorse, in primis i metri quadri di aula necessari.

Il teatrino si è ripetuto puntuale a settembre: la Gelmini ha fatto sapere che quest'anno si faceva sul serio, quest'anno davvero per essere bocciati bastava un 5... ma ha stanziato qualche soldo in più? No? E allora era chiarissimo, già a settembre, che si trattava di un bluff. Prima o poi sarebbe uscita una circolare riparatrice, o almeno una dichiarazione consolatrice. Eccola qui, proprio nella settimana degli scrutini.


Maturità, Gelmini rassicura
"Con un 5 non si boccia nessuno"

Il ministro dell'Istruzione precisa: "Una norma voluta per restituire rigore alla scuola, ma se c'è una insufficienza spetta al consiglio di classe, con buon senso, valutare l'opportunità di ammetere o meno lo studente all'esame di Stato"


Chiaro? Una cosa sono gli annunci, un conto è la normativa. In particolare la normativa è un caos, con circolari contraddittorie e confuse che mandano in confusione gli insegnanti più scrupolosi [no, non è il mio caso]; gli slogan per contro sono molto chiari, perché sono rivolti ai ragazzi. A settembre vi avevamo detto che con un 5 bocciavamo? Paura, eh? Ma no, era uno scherzo. Però magari qualcuno c'è cascato e ha studiato. Gli altri comunque li promuoviamo lo stesso, con tanto buon senso, ad alzata di mano. A proposito, alla fine il prof di religione è rimasto agli scrutini. Sì, la sua mano alzata vale quanto quella del prof di italiano e latino, quanto quella della prof di matematica e fisica. Insomma, vi conveniva tenervelo caro – ah, siete di quelli che escono dall'aula? Embè, son cazzi vostri, cani infedeli.

A questo punto è già più o meno chiaro cosa succederà a settembre, quale terribile annuncio il Ministro farà a insegnanti e alunni... e sorge spontanea la domanda: ma sul serio i ragazzi sono così fessi da cascarci ancora? Può anche darsi. In fondo sono ragazzi, ogni anno ne arrivano di nuovi, ed è giusto che credano alle favole, compresa quella paurosa del ministro cattivo che ti boccia col 5. Questo fino alle medie, almeno.

Alle superiori probabilmente i più furbi hanno già capito l'antifona. Sanno che sin da settembre possono permettersi di ignorare due, tre materie a scelta: l'importante è riuscire a far alzare abbastanza mani in sede di scrutinio finale. Che dire di studenti così, che arrivano alla maturità classica senza sapere una parola di greco, o alla scientifica senza conoscere il calcolo infinitesimale? Che sono furbi, hanno imparato come funzionano le cose, e quindi in fondo meritano di passare più dei fessi che ancora perdono tempo con gli integrali e l'aoristo. Finito il tempo di credere alle favole, comincia quello di raccontarle agli altri. Non è questa in fondo, la maturità?

lunedì 7 giugno 2010

Una vita stroncata

Contro ogni aspettativa, La nostra vita di Luchetti è un bel film. Sì, parla di periferie. Sì, sì, l'originalissimo spunto è un lutto in famiglia. Eppure stavolta la baracca funziona. Bravi gli attori, originale la storia, buona la sceneggiatura - a questo punto, cari critici, manca solo una cosa.



Una bella stroncatura. (Ho una teoria #26 è sull'Unità.it. Si commenta sempre qui). (E Brecht cosa c'entra? Brecht c'entra sempre).

Caro critico di sinistra, c'è un favore che dovresti farmi. Ha a che vedere col cinema italiano – sì, lo so, la solita tristezza. I nostri autori sono troppo autoindulgenti, e hanno paura di rischiare. Quando si rendono conto che non hanno niente da dire, cercano di orecchiare quel che dice “la gente” al bar, o al centro commerciale. Ma si vede da lontano che non è il loro mondo: non riescono a capire cosa ci sia d'interessante in tutta quella gente che chiacchiera del più e del meno – così si annoiano, e scambiano quella noia per realismo. 

Caro critico, l'avrai notato anche tu – ormai il personaggio-tipo del cinema italiano è un individuo della classe media che fa un lavoro normale, ha una famiglia normale e un po' noiosa che tradisce in modo altrettanto normale e noioso. Perché dovremmo andare a vedere film del genere? “Per riconoscerci”, dicono. Ma per quello teniamo già gli specchi in casa, grazie: il biglietto lo pagheremmo per immedesimarci in persone a cui è capitata una vita un po' più eccitante della nostra. 

Eppure, caro critico, devi riconoscere una cosa
: in tutto questo panorama sconfortante, almeno un paio di film decenti all'anno riusciamo sempre a piazzarli. Il problema è saperli riconoscere – e poi presentare al pubblico giusto. E qui entri in ballo tu, caro critico, come si diceva una volta, militante. Devi sapere che in questi giorni è uscito questo film, La nostra vita. Il regista e gli altri autori li conosci, sai che hanno fatto cose decenti e cose no. Questo sulla carta era un grosso rischio: la solita famiglia qualunque della solita periferia romana qualunque. Il lutto famigliare da esorcizzare per la stra-ennesima volta. Insomma, ci voleva coraggio per entrare in sala. 

E invece stavolta, in un qualche modo, la storia gira
. Da subito. Per dire, dopo cinque minuti ci erano già scappati un paio di morti. Sembra una cosa da nulla, lo so, ma per fare un paragone, nell'ultimo di Soldini dopo cinque minuti i due protagonisti erano riusciti sì e no a scambiarsi i numeri di telefono (il resto del film consisteva nei loro tentativi di scoparsi di nascosto vergognandosene). E invece in questo film, caro critico, il personaggio all'inizio sembra davvero un tizio banale come e più di noi: fa il capomastro, porta la famiglia al centro commerciale, ascolta Vasco... ma poi gli capita questo tremendo lutto e lui reagisce in un modo strano, un modo in cui forse io e te non reagiremmo, ma chi lo sa: s'indurisce, decide di entrare nel gioco dei grandi. Tenta il ricatto, si fa concedere un subappalto, vuole salire il gradino più grosso della scala sociale. Quello che sognavano i personaggi di Balzac, e poi della vecchia Commedia all'Italiana. Quello che invece i personaggi del cinema italiano di oggi non fanno più, perché sono troppo concentrati a piantarsi noiosissime corna o a piangere il solito lutto in famiglia. Il protagonista di “La nostra vita” invece si ricaccia le lacrime negli occhi e tira fuori i canini. In realtà è chiaro da subito che non li ha abbastanza lunghi, ma è bello vedere per una volta un ragazzo normale che studia da carogna. E in fondo è una cosa che deve succedere tutti i giorni, ai nostri amici ed ex compagni, magari è successo pure a noi: ci siamo fatti furbi, o ci abbiamo provato, abbiamo mandato a quel paese gli ultimi brandelli di morale e abbiamo cercato di tagliare la nostra fetta. 

Siamo diventati cattivi, anche se registi e sceneggiatori sembra non se ne siano accorti. Loro sono convinti che noi siamo brava gente un po' noiosa, e invece nei nostri cantieri ricattiamo, truffiamo, sfruttiamo manodopera straniera. Perlomeno ci proviamo. E quando le cose vanno male – ma era chiaro che sarebbero andate male – non impariamo la lezione. Perlomeno, il protagonista di questo film (interpretato da Elio Germano, molto bravo c'è ancora bisogno di dirlo?) non impara un bel niente. Chiede aiuto alla solita rete di salvataggio, la famiglia: e poi si sa come va l'Italia: c'è sempre da qualche parte (a Frosinone) una squadra di manovali che può rimediare a qualsiasi guaio. Basta che li paghi sull'unghia. In nero. 

Questo fatto
, che il protagonista non riesca a capire i suoi errori, mi ha intrigato tantissimo, caro critico: mi ha ricordato Brecht, un autore che conosci meglio di me. In particolare Madre Courage, la vivandiera che attraversa la guerra dei Trent'anni convinta di poterci speculare su. Perderà tutti i suoi figli, senza capire dove ha sbagliato. Brecht fu molto criticato per questo finale, e reagì con parole che senz'altro ricorderai: non m'importa di aprire gli occhi alla Courage, scrisse; l'importante è che li apra lo spettatore. Caro critico, questo deve fare il cinema: farci capire, farci reagire, non piazzarci davanti personaggi che capiscono o reagiscono. Ma questo già lo sai. E allora ti chiederai perché ti scrivo.

Ecco, caro critico, si tratta di questo: a Luchetti stavolta è uscito un film decente, straziante e cattivo. Non un capolavoro, ma un buon inizio. Che cosa gli manca? Una stroncatura d'autore, di quelle di una volta. Così, giusto per evitare che diventi quello che non dev'essere, un trastullo da radicalscic. E invece è un film per tutti, con dialoghi semplici, da terza media, con Vasco Rossi e la playstation, e Raul Bova nella sua più credibile interpretazione. Un film che si merita di più del solito pubblico di appassionati: una mina inesplosa di dubbi, senso critico, consapevolezza, che qualche funzionario rai e mediaset potrebbe essere così distratto da infilare nel palinsesto serale o pomeridiano. L'essenziale a questo punto è stroncarlo – lo farei io se fossi uno importante, ma non mi conosce nessuno. Così ho pensato a te, caro critico. Me lo faresti questo favore? Grazie sin d'ora.