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lunedì 31 dicembre 2012

A proposito il blog è morto

In azzurro il 2012, in arancione il 2011.

Consuntivo 2012

Sono contento che sia finito, è stato un anno difficile. Controintuitivamente, considerati gli impegni professionali, le responsabilità famigliari, le calamità naturali, è stato un anno in cui ho scritto molto. Molto anche per i miei standard, che sono già patologici. Questo bisogna sempre ricordarlo, perché siamo a fine 2012, internet ormai è diventato lo spazio tra un social network e un altro; i messaggi brevi stanno soppiantando i video che avevano soppiantato i pezzi lunghi; in questa fase un tizio che scrive duecento post lunghi all'anno, una media di due ogni tre giorni, è fuori da qualsiasi statistica, e quindi le sue statistiche sono una mera curiosità.

Se questo piccolo sito fosse un'impresa, questo consuntivo non sarebbe un bel momento. Cari dipendenti, continuiamo a produrre di più (post) e a ottenere meno (accessi). Gli accessi in particolare credo siano almeno tre anni che continuano ad andare giù, nel 2012 di un 15% rispetto all'anno precedente, che succede? Niente, è finita la moda dei blog e la gente ha smesso di scriverci sopra. Quasi tutti i blog con cui ci si lincava nel 2002 sono chiusi. Il traffico tra un blog e l'altro si è quasi ridotto a zero. Negli anni ruggenti veicolava ben più del 15% degli accessi, così magari il problema è tutto qua. Oppure scrivo più cazzate, già l'anno scorso mi ricordo che qualcuno avanzò questa ipotesi. Non è che io non l'abbia presa in considerazione; è solo che la correlazione più cazzate = meno accessi resta tutta da dimostrare. Stiamo qua a porci problemi di stile e contenuto e magari semplicemente google mi ha tolto una frazione di ranking sicché mi arrivano meno utenti nottambuli in cerca di foto di Di Caprio, va' a sapere.

In realtà sta cambiando tutto. Fino a qualche anno fa l'utente-tipo di un blog come questo era un abitudinario, che passava regolarmente 3-4 volte alla settimana, oppure si abbonava ai feed, e poi si leggeva tutto, o quasi. Questi utenti-tipo esistono ancora, però sono in diminuzione; il che dimostra la loro sanità mentale perché sul serio, non ha senso leggere tutto quello che scrivo io. Ogni tanto ne trovo ancora qualcuno che mi dice: ti ho letto per dieci anni, ma adesso non ce la faccio più. Come se il problema fosse che hanno smesso, a me sembra incredibile che siano durati per dieci anni. Io non ce la farei a leggere le opinioni di un tizio per dieci anni. Poi cosa vi aspettate, di andare ancora d'accordo con me? Vi è mai capitato di andare d'accordo con uno per dieci anni? Ma neanche con la mamma. Io per dire il tizio che scriveva i miei post nel 2003 non lo seguirei, anzi scapperei lontano. In effetti questo tipo di lettori-aficionados sta diminuendo, e chi scappa non viene rimpiazzato. C'è un gap generazionale, questo è un blog leggibile credo fino ai nati nell'ottantacinque, chi arriva dopo secondo me vede soltanto una lunga serie di incomprensibili segni neri tra un'immagine e un'altra.

Invece il nuovo lettore-tipo è un tizio che sta perlopiù su facebook, o su twitter, o su altri social più esotici, e tra un messaggio e una partita a farmville magari si ritrova in bacheca un link che sembra interessante: clicca e si ritrova qui. Questo potrebbe spiegare perché, se diminuiscono gli accessi, in compenso aumentano i picchi, ovvero quei momenti in cui molti utenti arrivano sul blog, attirati da un titolo o dal contenuto di un pezzo. Tanto che i pezzi più cliccati del 2012 sono anche quelli più cliccati del biennio 2011-2012.

07/mag/2012, 146 commenti
05/giu/2012, 34 commenti

16/ott/2012, 88 commenti


04/mar/2012, 64 commenti
18/gen/2012, 35 commenti


Poi se vogliamo parlare di qualità parliamone, è calata. Grazie tante che è calata, praticamente ormai questo è un blog che si scrive in sonnambula. Mi capita sempre più spesso di visitarlo con curiosità, trovare un pezzo (magari quello in cima) e mettermi a leggere perché non ho la minima idea di dove vada a parare, l'ho finito in trance alle tre del mattino e non mi ricordo come.

Poi ci sono altri fattori, per esempio: su 230 pezzi, 60 sono agiografie per il Post, che stanno andando bene (sul Post) e hanno trovato un loro nucleo di lettori fedeli che ringrazio, mentre invece su questo blog non se le filano in tantissimi. E ci sono anche quei 50 pezzi per l'Unità, anche loro concepiti per un pubblico un po' diverso. Forse il problema è che questo sito sta rapidamente cambiando la sua identità: fino a tutto l'anno scorso era ancora un blog vero e proprio, con uno stile vario ma riconoscibile. Negli ultimi mesi è diventata la bacheca personale di uno che scrive in tanti posti (tant'è che c'è gente che si lamenta: ma come, anche qui, ma basta). Lo so che era più bello prima. Tutto era più bello prima, però dopo dieci anni e più bisognava anche cercare di fare qualcos'altro, darsi degli obiettivi.

Non è neanche una questione di soldi, che sono sempre veramente pochi, così pochi che discuterne, oltre che ineducato, è persino ridicolo. Il 2012 è stato l'anno dell'arrivo in Italia dell'Huffington Post, che peraltro io leggo poco e anche voi; ma non importa: importa la filosofia che l'HuffPo sottende, e che si può sintetizzare in "scrivi gratis e ringrazia". Io non ce l'ho con chi scrive gratis, ci mancherebbe altro. Non credo che la produzione di opinioni gratis su internet possa abbattere il giornalismo, quello vero, fatto di inchieste sul campo. Sono ancora il primo a meravigliarmi che alcune mie opinioni, in determinati contesti, possano avere un prezzo. Non è una questione di soldi, è un tentativo di sembrare, dopo tanti anni, un po' professionale in quello che faccio. Mi pare che ancora non ci siamo. Però la strada è questa.

È stato un anno complicato, in cui ho scoperto che in situazioni di forte stress la mia risposta è chiudermi in casa e scrivere di più. Ho anche pubblicato una specie di libro, mi sembra già passato un secolo, ho paura a rileggerlo. L'anno prossimo dovrei continuare con i santi, aggiungere un po' di recensioni sui generis, invocare la distruzione di Cologno un paio di volte al mese, e altre cose che francamente non lo so, inventerò. Ma se vedete che scrivo poco non preoccupatevi, vuol dire che magari ho trovato un altro modo di star bene. Un grazie a tutti quelli che sono passati di qui e che ripasseranno, con moderazione mi raccomando.

domenica 30 dicembre 2012

ll partito flottante

Non c'è dubbio che queste primarie parlamentari del PD non siano le migliori primarie organizzabili dal migliore dei partiti possibili. Non c'è dubbio che il fine settimana sia uno dei più scomodi che si potevano trovare per gli elettori; non c'è dubbio che il poco tempo a disposizione abbia scoraggiato l'iniziativa di molti outsider a cui magari sarebbe bastata una settimana in più per sondare il terreno, raccogliere le firme, presentarsi al pubblico con un programma innovativo. Non c'è dubbio che una consultazione d'emergenza come questa non possa che rafforzare l'apparato, quella famosa struttura che è un punto di forza del PD ma è anche la cosa più criticata, e in certi casi davvero più criticabile del PD: il fatto che tra un sussulto e l'altro della società civile, tra un'ondata e l'altra di indignazione collettiva, nel PD ci sia gente che politica la fa tutti i giorni, la fa di mestiere, e se c'è da candidarsi ha già i manifesti pronti, uno staff pronto, eccetera.

Non c'è dubbio, insomma, che se pensavate che le primarie dovessero rappresentare una sfida della società liquida all'apparato, ecco, avete sbagliato partito, sbagliato anno, sbagliato tutto: niente di tragico, se avete bisogno di roba liquida ce n'è dappertutto, guardatevi in giro, sceglietevi il vostro partito liquido e non prendetevela con quella povera île flottante che è il PD. Non c'è dubbio che nel prossimo parlamento continueranno a sedere personaggi semisconosciuti che se fossero stati un po' più conosciuti probabilmente non sarebbero stati eletti, e alcuni di questi continueranno a essere esponenti del PD. Non c'è dubbio che i bersaniani partivano avvantaggiati, in generale chi è in vantaggio tende a essere avvantaggiato, prendetevela con La Palisse. Non c'è dubbio che una consultazione così frettolosa, quasi un colpo di mano, rischi di alienare la minoranza interna, già un po' demoralizzata dalla sconfitta pur onorevolissima di Renzi. Insomma dubbi proprio non ce n'è. O forse uno: se ci fosse stato più tempo per organizzarsi, per coinvolgere, per battibeccare, i vertici del PD sarebbero stati così lesti ad accettare l'idea quasi rivoluzionaria delle primarie? Ma più che un dubbio è un'insinuazione. No, il dubbio vero è uno solo: in una situazione del genere, con l'apparato che colonizza le primarie e le usa per legittimarsi, vale lo stesso la pena di andare a votare? Per gente che se non è sconosciuta è fin troppo conosciuta?

Secondo me sì, ma non sono sicuro del perché. Votare, si sa, è sempre un paradosso. Penso che chiunque abbia a cuore le primarie, chiunque sia convinto che siano il metodo giusto per riformare i partiti (io non ne sono convintissimo, ma ne parliamo un'altra volta) non si possa fare scappare l'occasione. Non c'è dubbio che non sia l'occasione migliore, ma è un precedente. I precedenti sono importanti: se queste primarie andranno male, sarà più difficile rifarne in futuro. Potrei anche approfittarne per spendere qualche parola in difesa dell'apparato, che negli anni non sempre è riuscito a mantenersi sopra la soglia della decenza, ma alla fine ci ha lasciato un partito in grado di organizzarsi nell'emergenza e provare a vincere. Ma difendere un'idea di politica come professione, al giorno d'oggi, è roba da bastian contrari persino più bastiani e più contrari di me. Del resto temo che non farò in tempo a votare, domani, ma non ha tantissima importanza il mio voto singolo. Mi piacerebbe però che votasse tanta gente, e che il PD - questo PD senza dubbio non perfetto, senza dubbio perfettibile, vincesse le elezioni. Dopodiché si può discutere di tutto. Ma almeno proviamo a vincere, proviamo a vedere cosa succede. Dopo tanti anni per me è ancora una questione di curiosità: cosa succede se per una volta tocca a noi? Ci è già successo e si è capito che non succede nulla di meraviglioso, anzi. Però ci riproverei.

sabato 29 dicembre 2012

San Tecnico Martire

San Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, tecnico e martire (1118-1170)

[Si legge completo qui]

Otford è un graziosa cittadina del Kent con un lieve difetto: non vi cantano gli usignoli. Anche prima che si disboscasse per far passare l'autostrada M26, a Otford di usignoli non ce n'è, o se ce n'è stanno zitti. Gli abitanti dicono che è colpa di San Thomas arcivescovo, o meglio: è colpa degli usignoli che cantavano troppo una notte che l'arcivescovo voleva pregare in santa pace: così li ha zittiti per sempre. In questo episodio, ovviamente apocrifo, c'è tutto il carattere di Thomas. Anche a Francesco d'Assisi, di una generazione più giovane, è attribuita la facoltà di silenziare gli uccelli: lo stile però è tutto diverso, Francesco tratta le rondini di Alviano da sorelle, gli usignoli di Otford per Thomas sono semplici seccatori. Francesco è il santo più amato, Thomas di recente ha partecipato a un controverso sondaggio sul "peggiore personaggio storico britannico" classificandosi secondo dietro a Jack lo Squartatore, il che è un'autentica ingiustizia: Becket non ha mai fatto a pezzi nessuno, semmai lui è stato fatto a pezzi, e dal suo sacrificio ci hanno guadagnato in tanti; e adesso lo snobbano.

L'ipotesi è che il vago sentimento di antipatia che circonda il più venerato santo inglese dipenda un po' dal fatto che Thomas è quello che oggi diremmo un tecnico: uno che chiami perché faccia un lavoro e lo faccia bene, e non t'interessa se nella sua intimità veste un cilicio o zittisce per sempre gli usignoli. Abbiamo tutti bisogno di tecnici, ma li odiamo. Forse perché intuiamo di essere totalmente in loro potere. Malediciamo gli idraulici, gli elettrauto li vorremmo morti, per loro fortuna non abbiamo cavalieri al nostro servizio che realizzino le nostre minacce. Thomas non fu altrettanto fortunato.

Suo padre era un mercante normanno che aveva fatto fortuna nell'Inghilterra conquistata di fresco. Aveva amici nobili che avevano insegnato a Thomas a cacciare col falcone e altre menate aristocratiche cui non seppe rinunciare anche quando vestì l'abito di arcivescovo. L'amico più importante, l'abate Teobaldo di Bec, lo indirizzò agli studi, e lo prese al suo servizio quando gli affari del padre andarono male. Thomas aveva abbandonato l'università di Parigi dopo un anno, ma proseguì gli studi a Bologna e Auxerre. Nel frattempo Teobaldo era diventato arcivescovo di Canterbury, ovvero primate d'Inghilterra: colui cui spettava incoronare i re, per intenderci. A trentasei anni Thomas divenne il suo arcidiacono. A trentasette il re Enrico II, su consiglio di Teobaldo, lo nominò suo cancelliere. Fino a quel momento Thomas era stato un tecnico di diritto canonico: al re però serviva tutt'altro, un primo ministro che riuscisse a farsi pagare le tasse da tutti, compresi i grandi proprietari. E persino, sì, la Chiesa: anche da lei Enrico II pretendeva un tributo, lo so, è immaginabile, sono barbare usanze medievali che comunque il cancelliere Thomas assecondò. Il canonico dell'arcivescovo cambiò casacca e divenne un vero mastino laicista, uno strenuo difensore delle prerogative del regno. Forse è per questo che è arrivato secondo solo dietro a Jack the Ripper? Macché, questo è solo l'inizio. Sei anni dopo l'arcivescovo Teobaldo muore. Enrico II a quel punto ha una gran voglia di mettere al suo posto l'arcidiacono Thomas. Questi rifiuta più volte, e non lo fa per modestia - carattere che nessun cronisti gli attribuisce - in realtà conosce troppo bene sia Canterbury sia il re per non capire che il conflitto d'interessi lo stritolerà. Grazie, no, gli risponde: "Perderei la benevolenza di vostra maestà, e l’affetto di cui mi onorate si trasformerebbe in odio, giacché diverse vostre azioni volte a pregiudicare i diritti della Chiesa mi fanno temere che un giorno potreste chiedermi qualcosa che non potrei accettare". Fu nientemeno che il Papa Alessandro III a sbloccare la situazione: conosceva Thomas e si fidava di lui. Oltre ad avere necessità del sostegno di un re: mezza Europa non lo riconosceva e Federico Barbarossa lo aveva rimpiazzato con un antipapa.

Alessandro comunque aveva visto giusto. Cambiata l'ennesima casacca, Thomas diventò un geloso difensore delle prerogative ecclesiastiche, tanto quanto prima era stato uno zelante difensore delle prerogative regie. Era evidentemente un tecnico, uno che di mestiere difendeva le prerogative del migliore offerente. Non significa necessariamente che fosse un uomo arido. Tra i vari incarichi che ricoprì, fu anche una specie di babysitter per il re: allevò per qualche anno il suo primogenito Enrico il Giovane, che tanto avrebbe desiderato diventare Enrico III, invano. Sembra che il Giovane abbia dichiarato di avere ricevuto da Thomas più affetto paterno in un giorno che dal suo vero padre in tutta la vita (continua sul Post).

venerdì 28 dicembre 2012

Il pane e le rose e il single malt

La parte degli angeli (The Angels' Share), Ken Loach, 2012

Una volta, mille estati fa, all'officina di mio padre si fermò un camionista scozzese con un Tir in panne. Il rosso dei capelli proseguiva sul collo scottato. In un qualche modo riuscì a farsi capire dai miei - il mio inglese scolastico non fu di molto aiuto - e in capo a un paio di giorni se ne ripartì. Di lui rimase soltanto un bottiglione di un litro e mezzo di una cosa mai vista, un liquido arancio-ruggine, dimenticato nel nostri frigo - o forse lo aveva scambiato con del vino bianco credendo di farci anche un favore. La misteriosa sigla sull'etichetta ("IRN-BRU") sembrava alludere più a reagenti chimici che a una bibita frizzante. Ciononostante io e mio fratello provammo ad assaggiarla. Il primo sorso fugò ogni dubbio: era un reagente chimico. Oppure un crodino zuccherato. In ogni caso - decretammo dopo aver svuotato il litro e mezzo - era imbevibile.

Novecento estati più tardi mi ritrovai in Scozia immerso tra insegne che dicevano tutte IRN-BRU, IRN-BRU, sembrava che tutti fossero fieri di farti sapere che lì ti servivano il crodino zuccherato. Ne parlai con i miei ospiti e scoprii che il "ferro fermentato" (iron brew) non conteneva davvero ferro, macché, appena uno zerovirgolazero di citrato ferrico di ammonio... ed era la seconda bibita nazionale. "Tu ovviamente immagini qual è la prima".
"Veramente no qual è?"
"Lo scotch".

 Racconto questa storiellina per venire incontro allo spettatore italiano, che nell'ultimo film di Ken Loach sentirà parlare di costosissimi whisky pregiati. Per la verità cosa sia un whisky lo sappiamo più o meno tutti. Ma in un paio di scene i protagonisti si attaccano a dei bottiglioni di irn-bru: ecco, quella roba mi sa che la maggior parte degli spettatori qui da noi non l'ha mai vista né assaggiata. E invece è importante, ai fini della trama, sapere di che si tratta: che ha più o meno lo stesso colore di un nobile single malt, ma non potrebbe avere un sapore più diverso: è un bibitone dolciastro e plebeo, roba da camionisti arsi dal sole. Ed è tuttavia scozzesissimo, più scozzese dei kilt turistici che i personaggi indossano per mimetizzarsi mentre vanno verso le highlands a fare il colpo della vita in autostop. Credo che uno spettatore scozzese, di fronte al solo pensiero di un malt mill travasato in una bottiglia di... stop, non voglio raccontare la trama. Però secondo me, se non sai cos'è l'irn-bru, ti perdi un po' del divertimento (che continua su +eventi!)


Un altro prodotto britannico che invece conosciamo in tutto il mondo è il cinema di Ken Loach. Un po' prevedibile, come è giusto che sia dopo vent'anni senza grosse pause: in una periferia disagiata (quella di Glasgow è la più disagiata del Regno Unito), uno o più proletari operai o disoccupati (la seconda) vittima dell'ingiustizia sociale (una faida famigliare) lotta per riscattarsi. Ce la farà? Dipende tutto da Paul Laverty, che da 15 anni scrive le sceneggiature dei film di Loach. Se Laverty è di buon umore magari sì, ce la fa. Ma se sia una commedia o una tragedia non lo capisci mai fino agli ultimi cinque minuti. Se l'avanzo di galera riuscirà a rifarsi una vita dipende dal suo impegno, dalla determinazione a salvare la sua famiglia... ma anche e soprattutto dalla fortuna, non siamo mica a Hollywood.

Insomma è il solito Ken Loach? Sì. Cioè. Dipende molto dalla nostra disponibilità a stupirci. Persino chi apprezza Loach ormai non ha veramente voglia che Loach gli proponga qualcosa di troppo diverso. Loach deve fare Loach, deve dare voce a quella massa di proletari e sub- ormai esclusi dalla rappresentazione televisiva e cinematografica. Deve farci vedere gli oggetti di uso comune del Regno Unito in tutta la loro straordinaria bruttezza, per esempio: gli infissi. Un film di Loach lo riconosci dagli infissi, sono sempre orribili. Ci sono gli infissi orribili in questo film? Altroché. Però... c'è anche il whisky. Provate a rispondere senza barare, senza guardare la trama: come ve l'immaginate l'approccio di Ken Loach al whisky? È un prodotto di lusso, che richiede un lungo e facoltoso apprendistato per essere consumato consapevolmente. Ken Loach viceversa sembra più un tizio da irn-bru: i suoi film non hanno nulla di aristocratico; non serve per apprezzarli nessuna particolare educazione al medium cinematografico; raccontano storie semplici e lasciano in bocca un retrogusto ferroso e dolciastro.

Spero che nessuno si offenda se paragono Loach a una bibita frizzante: mi viene in mente Andy Warhol quando esaltava la democrazia di un'altra bibita ("Una Coca è una Coca, e nessuna somma di denaro può procurarti una Coca migliore di quella che beve il barbone all’angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone"). Tutti i film di Loach-Laverty sono più o meno uguali, tutti sono onesti, nessuno è un capolavoro. E allora tutto ti aspetteresti da loro tranne un film sul whisky in cui una botte di single malt da un milione di sterline non è descritta come un feticcio borghese, o un simbolo dell'aristocrazia, e l'invecchiamento non è una metafora del processo di accumulazione del Capitale. Se il cinema di Loach fosse semplicemente un compitino ideologico, come alcuni pensano, del whisky non si potrebbe parlare che così. Ma il cinema di Loach è per prima cosa un cinema di persone: e a una di queste persone, un bulletto di periferia incastrato in una faida infinita, capita la fortuna di avere il talento, il "naso" per il whisky. Che è tutt'altro che un feticcio, addirittura può diventare uno strumento di redenzione, ma in generale è trattato da Loach con il rispetto che si deve alle cose importanti, la famiglia il lavoro o il calcio. Il re dei degustatori è ritratto come un nobile saggio, la sua parola non è da mettere in discussione. Non è la solita tiritera sul pane e le rose, non nascerà nessun movimento per distribuire alcolici di pregio nelle periferie disagiate: Laverty si inventa un'occasione di riscatto individuale, sta al protagonista cogliere o no l'occasione, e se vuole coglierla davvero - questo è interessante - dovrà infrangere la legge. Qualcuno ha ricordato la saga dei soliti ignoti, ma questi ultimi rimediavano al massimo un piatto di pasta e ceci.

Se ci aspettavamo la solita lezioncina, potremmo anche sentirci a disagio: i personaggi saranno anche vittime della società, ma sono soprattutto quattro idioti senza arte né parte. Ce ne accorgiamo sin dalle prime scene, quando li vediamo in piedi davanti al giudice che li manda ai servizi sociali ed è perfino troppo buono. Questi rubano, bevono, picchiano senza sapere il perché. A portare un po' di luce, un po' di senso nella loro esistenza sarà il loro capocantiere, un appassionato di whisky che decide di iniziarli all'arte della degustazione. Il loro modo di riscattarsi sarà... organizzare una rapina. È inevitabile tifare per loro, ma la lezione qual è? A un certo punto una comparsa dice che è importante dare una occasione alle persone. Potrebbe essere la morale del film, ma se dai a un ladruncolo il senso del whisky, non si metterà semplicemente a rubare il whisky? Sì, ma nel farlo dimostrerà almeno un po' di sana progettualità. Insomma, è il solito film di Loach, ma è molto più ambiguo del solito, e meno ideologico di come me lo aspettavo. Forse dovrei smetterla di aspettarmi delle cose dai film, non sono lattine di bibite, non puoi sempre dare per scontato il sapore.

(La parte degli angeli è al cinema Fiamma di Cuneo. Buona visione!)

mercoledì 26 dicembre 2012

Stefano il saccente

26 dicembre - Santo Stefano, primo martire.

[Si legge completo qui].

O poesia della festa di Santo Stefano, fragrante di panettone secco e citrosodina. Festa di cinture slacciate, di avanzi riscaldati, di cartacce che frusciano sul pavimento - appena ieri erano involucri preziosi, contenevano la Magia del Natale, adesso aspettano il camino o la differenziata. Eppure testimoniano che qui passò una Festa di quelle importanti, di quelle che ti servono a segnare il tempo, per sempre il 2012 sarà quell'anno in cui a natale lo zio rovesciò lo champagne sul vestito nuovo della tua fidanzata ma non importa, è Santostefano, chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, anzi no ci sono ancora degli antipasti da ieri, qualcuno vuole degli antipasti? E sbafiamoci pure questi volovòn - no, aspetta, ci stanno le cozze. Nessuno poi si ricorda cos'ha fatto a Santostefano.

Che forse è il giorno più bello dell'anno, proprio per questo. Un giorno di crapula, postumi e oblio. È andata, non dovrai più preoccuparti di pacchetti e pensieri e presenti, e certi parenti molesti non si ripresenteranno più almeno per altri 364 giorni. Da qui in poi è in discesa - è vero che bisogna ancora sorpassare quella notte incresciosa in cui bombardano i cassonetti - ma il più è fatto. Eppure l'anno nuovo coi suoi fardelli sembra ancora lontano, lontano, quasi una settimana di distanza; e se sei ancora uno studente la Befana è lontanissima, c'è tutto il tempo per farsi venire la nausea da playstation. Santostefano, secondo me, per la maggior parte di chi lo festeggia non esiste, non sanno nemmeno che si chiama così. Non hanno mai smesso veramente di mangiare, magari allo stesso tavolo, oppure stanno videogiocando ininterrottamente da venti ore, in tv fanno ancora roba natalizia, e chi sarebbe 'sto Stefano poi.

Un piantagrane, un classico martire saccente, di quelli che vogliono spiegare tutto a tutti e presto o tardi si mettono nei guai. Nel suo caso prestissimo: Stefano è il primo martire in assoluto. Subito dopo Gesù, forse appena un anno dopo, tocca a Stefano, che potrebbe non averlo mai conosciuto, ma si fa comunque ammazzare in suo nome. La maggior parte dei laici in hangover natalizio semplicemente lo ignora, ma anche i veri praticanti - e da poche cose li riconosci come dal fatto che hanno messo la sveglia per andare a messa pure a santostefano - restano talvolta un po' perplessi. Hanno ancora nelle orecchie gli inni di Natale, gli angeli e i pastori e la mangiatoia (e i Magi non sono ancora arrivati), e invece il 26 è tutta un'altra storia, dal sapore tipicamente pasquale, un processo al sinedrio, un martirio... una piccola pasqua, all'indomani del Natale. Non è chiaro esattamente come mai sia andata così. Né il Natale, né il martirio di Santo Stefano sono date storiche: Iacopo da Varazze ricorda che in un primo momento la passione del Santo si festeggiava nello stesso giorno dell'"invenzione", cioè del ritrovamento delle reliquie (3 agosto); poi si decise di spostarla in dicembre, anche per separare la commemorazione dello Stefano storico da quello prodigioso che, disseminato in mille santuari (tra Venezia e Roma dovrebbero esserci almeno due corpi, in tutto cinque braccia se si aggiunge quello custodito a Capua), aveva ovunque sbalordito con miracoli spettacolari.

Lo Stefano del ventisei dicembre invece è probabilmente un ragazzino meno prudente dei suoi compari, che si fa beccare mentre dice cose molto blasfeme sulla religione degli ebrei (a Gerusalemme, in quegli anni, non era veramente il caso). Condotto al tribunale religioso, il Sommo Sinedrio, invece di rimangiarsi i suoi discorsi su Gesù Cristo distruttore di templi e sovvertitore di costumi, conferma ogni cosa, ma con dovizia di citazioni bibliche allo scopo di dimostrare che Gesù è il Cristo, che in ebraico sta per Messia. Ora, vuoi far arrabbiare un ebreo? Mettiti a spiegargli la Torah. Quelli impazziscono di rabbia, nei modi molto teatrali in cui era necessario farlo all'epoca: digrignano i denti, si tappano le orecchie, prorompono in grida altissime. Ma non si stracciano le vesti. Con Gesù si erano stracciati le vesti, con Stefano no, forse si era capito che l'eresia gesucristiana rischiava di durare parecchio e non ci si poteva permettere una veste nuova a ogni processo. (continua sul Post)

lunedì 24 dicembre 2012

Ichino, lui sì che è flessibile

Questa campagna elettorale-lampo ci costringe a vere e proprie tappe forzate. In un solo giorno per esempio ci siamo bevuti la conferenza stampa di Monti e la lunga sbroccata di Berlusconi a Domenica In. Ma non è tutto, nel frattempo stavamo anche in pensiero per il senatore Pietro Ichino.

Il giuslavorista infatti sabato aveva annunciato in un'intervista al Corriere che non si sarebbe più ricandidato nelle file del PD. E quindi per esempio io stavo già scrivendo una lettera aperta, implorandolo di ripensarci, di presentarsi alle primarie, di lasciare che fossero gli elettori del PD a decidere se candidarlo o no... ma intanto Ichino era già lontano, in questa campagna-lampo chi si ferma è perduto. Verso sera circolavano già le anticipazioni di una sua intervista alla Stampa in cui annunciava di essere pronto a candidarsi in una lista montiana in Lombardia.

E così, insomma, è ufficiale: Pietro Ichino ha lasciato il PD. Poco più di un mese fa, come tutti i sostenitori e tesserati, aveva sottoscritto un impegno a votare per il proprio partito, chiunque avesse vinto le primarie. Appena un mese fa, all'inizio della campagna per il ballottaggio, Matteo Renzi aveva annunciato che in caso di vittoria avrebbe proceduto con la riforma Ichino "senza più tavoli, gcommissioni, lunghe mediazioni". Ichino del resto aveva già pubblicamente esultato per quel 35% ottenuto da Renzi al primo turno, che a suo avviso dimostrava come le sue idee fossero condivise da un settore assai più ampio di quello che un anno fa gli aveva attributo il responsabile economico del partito, Stefano Fassina ("Una linea ha il 2 per cento, l’altra il 98 per cento. Io capisco Ichino. Lui rappresenta quel 2 per cento e per farlo valere, per difenderlo ha bisogno di andare sui giornali tutti i giorni"). E però, anche ammesso che tutti gli elettori di Renzi avessero ben chiaro il contenuto della bozza Ichino, resta il fatto che il 35 per cento, o persino il 40, pur essendo una percentuale rilevante, non è la maggioranza: così come Renzi, pur festeggiando l'ottimo risultato, ha ammesso la sconfitta, anche Ichino avrebbe dovuto accettare il fatto di rappresentare nel suo partito una posizione importante, ma minoritaria.

Invece se n'è andato, (continua sull'Unita.it, H1t#159; racconta anche della misteriosa firma di Ichino sul pdf dell'Agenda Monti divulgato dal Corriere).

Invece se n’è andato, dopo aver lanciato dal Corriere uno strano ultimatum a Bersani (“prenda una posizione molto chiara, correggendo nettamente la posizione di Fassina“), di quelli irricevibili, specie durante una campagna elettorale. Nel frattempo al telefono con Renzi ribadiva la sua intenzione di partecipare alle primarie della sua città senza farsi cooptare in nessun listino bloccato, tanto che il sindaco di Firenze si proclamava “Orgoglioso di essere nella stessa squadra di persone come Pietro Ichino”! Poi però ha cambiato squadra, in modo abbastanza improvviso. D’altro canto qui la situazione cambia tutti i giorni, nuovi partiti si formano e disgregano in ogni momento, e se la situazione è così magmatica non se ne può fare una colpa al professor Ichino.
Tanto più che la famosa “agenda Monti” pubblicata ieri sul sito del Corriere è un testo veramente molto ichiniano. Non solo nei contenuti: come ha notato per primo credo Paolo Ferrandi, l’autore del documento pdf scaricabile sul Corriere si chiama “Prof. Pietro Ichino”. Questo in sé non significa nulla: potrebbe trattarsi di uno scherzo di dubbio gusto, o di una versione passata effettivamente da un computer di proprietà del “prof. Ichino”, ma soltanto per essere convertita da documento di testo modificabile a documento in formato pdf, prima di essere inviata al Corriere. Senz’altro nelle prossime ore il professore spiegherà come sono andate le cose, sul Corriere o sulla Stampa o anche qui. Fugherà probabilmente il dubbio di avere scritto lui il punto tre dell’agenda Monti: di avere programmato insomma il cambio di sella da alcuni giorni, magari gli stessi in cui confessava ai suoi lettori di sentirsi attratto dalla “prospettiva di una vita più tranquilla e meno faticosa, con più tempo per tante cose belle e buone che ho lungamente trascurato”, e intanto chiedeva a Bersani di correggere Fassina, e commuoveva Renzi con la sua abnegazione. http://leonardo.blogspot.com

venerdì 21 dicembre 2012

Ralph spacca!

Irresistibile
Ralph Spaccatutto (Wreck-it Ralph, Rich Moore, 2012)

Ralph Spaccatutto è il cattivo di un vecchio videogioco anni Ottanta che ancora resiste in una sala-giochi. Ha pugni enormi con i quali, ovviamente, spacca tutto; un alito pestilenziale e un animo gentile, che malsopporta trent'anni di sconfitte e frustrazioni. Quando scopre che gli altri personaggi del suo gioco hanno organizzato una festa di anniversario senza invitarlo, Ralph decide: non farà mai più il cattivo. Vincerà anche lui una medaglia, a costo di procurarsela in qualche altro videogioco. Peccato che Ralph sia programmato per... spaccare tutto. E con la trama basta così.

La gente che deve decidere se andare a vedere un cartone animato, pardon, un "film di animazione", non ha troppa voglia di conoscere la trama. In realtà ci sono solo tre cose che vale la pena sapere:

1) È divertente?
2) è un film della Pixar, o almeno ci assomiglia?
3) è un film per bambini?

Se la risposta è sì a tutte e tre le domande, abbiamo il film perfetto: Toy StoryMonsters & co.Nemo. C'è bisogno di dire altro? Se una delle tre risposte è un no, può valere comunque la pena. Ralph Spaccatutto è divertentissimo e avvincente: dopo un mezzo passo falso iniziale (la seduta di autoaiuto dei cattivi dei videogiochi) non ti annoi un secondo. È un film Disney, non della Pixar, ma ci assomiglia - si sente la presenza di John Lasseter, direttore degli studios, che con la Pixar diresse tra gli altri Toy Story e Cars. Ecco, magari assomiglia troppo a un film Pixar per esserlo veramente: i capolavori Pixar non si assomigliano, Ratatouille è diverso da Wall-E che è diverso da Up! eccetera eccetera. A scopiazzare in modo più o meno dignitoso ci hanno pensato gli altri (da Nemo ad esempio è nato tutti un sottogenere di film acquatici, A Bug's Life ha fissato lo standard per i film d'insetti, ecc.).

Ralph parte da una bellissima idea (cosa fanno i personaggi dei videogiochi quando la sala-giochi chiude?) che ha l'unico torto di ricordare fin troppo quella geniale di Toy Story: cosa fanno i giocattoli quando nessuno li vede? (continua su +eventi, e buona visione). E a noi va benissimo, si capisce, di Toy Story ne abbiamo visti tre, uno più bello dell'altro; ma Ralph sembra debitore anche di Monsters, per la caratterizzazione dell'eroe goffo e dal cuore d'oro. La spalla di Ralph, una bimbetta irresistibile emarginata dalle sue colleghe di videogioco a causa di un difetto di programmazione, è lontana parente della protagonista di un vecchio corto Pixar, One man band. I cameo di personaggi di videogiochi di tutte le generazioni, da Pong a Pacman all'ultimo sparatutto, ricordano l'ormai antichissimo Roger Rabbit, di cui in fondo Ralph vuole essere la versione digitale. Ma questi sono dettagli per fanatici. Vi piacciono i film Pixar? Questo è probabilmente il film più pixarsimile che passerà il convento nei prossimi sei mesi, forse non aggiunge niente di nuovissimo ma è divertente e visionario, che ci fate ancora lì? Andateci. E potete portarci anche i bambini?

Ahi, ecco la nota dolente. Non tutti i film Pixar sono film per bambini. E non è facile capirlo, dipende dalle età e dalle inclinazioni, bisogna procedere per tentativi. Nemo  senz'altro lo era. Wall-E ha un inizio un po' statico che può scoraggiare i più piccoli. Ma persino Cars, quale bambino non ha amato Cars? Quello che ci ho portato io, alla terza curva voleva già uscire, maledettoRalph? Tenete conto che è ambientato in una sala giochi, un ambiente che può ammazzare di nostalgia un trentenne, ma un decenne? Ci sarà mai entrato? No, sul serio, esistono ancora delle sale giochi? In ogni caso se non hai giocato a Pacman o a Donkey Kong da bambino, certe emozioni non le proverai. Ma fa lo stesso, esistono diversi piani di lettura. L'importante è che almeno uno sia accessibile a tutte l'età: il Gigante che vuole dimostrare di essere nobile e salvare la Bambina in difficoltà va benissimo. C'è solo un piccolo problema. I mostri.

I mostri di Ralph non sono come i mostri di Monsters & co., che per quanto variamente schifosi non risultavano più inquietanti di un qualsiasi ragnetto di gomma. Uno soltanto faceva un po' rabbrividire, ma era il Nemico, e la cosa che lo rendeva inquietante era l'invisibilità. Non si può dire la stessa cosa dei mostri di Ralph. Tanto per cominciare, sono bacherozzi giganti, che si attaccano alla faccia, come in Alien. Avete presente? Vi invito a non sottovalutare la cosa, pensate al vostro frugoletto/a e valutate se è pronto a una cosa tipo Alien però in 3d con dei bacherozzi che si attaccano alla faccia e se cerchi di staccarteli diventano più grossi. Arrivano da un videogioco molto più moderno nel quale Ralph si avventura alla ricerca di una medaglia, disgustandosene subito ("Ma perché fanno giochi così violenti?" suona un po' moige, ma detta da lui in preda al panico durante una battaglia spaziale fa ridere, garantisco). Dopodiché per un po' scompaiono, ma tu spettatore lo sai che da qualche parte lì sotto ci sono, che almeno uno è sopravvissuto e sta facendo le uova. Questa consapevolezza colora anche le scene più divertenti (c'è l'imbarazzo della scelta) di un velo di inquietudine.

I bacherozzi hanno veramente tutto quello che serve a un mostro per essere inquietante: il gigantismo, la prolificità (fanno milioni di uova al giorno) e l'ibridazione, ovvero diventano quello che mangiano. Il che significa che se finiscono in un videogioco pieno di caramelle diventano... ora, senza scomodare troppo Freud che ci spiegava che sono le cose più familiari (heimlich) a poter diventare con un piccolo slittamento le più perturbanti (unheimlich), lascio a voi decidere se i vostri bambini sono pronti a un'invasione di bacherozzi pralinati al cioccolato e ai canditi. Io ho quarant'anni e facevo fatica a guardarli. Il villain, poi, il vero cattivo, nella sua manifestazione finale è roba da Stephen King, meraviglioso, da brividi, ma forse a nove-dieci anni è meglio Madagascar. La sensazione è che non si siano moltissimo preoccupati della fascia più giovane: niente di male, capiamoci, a meno che tu non sia la Walt Disney Pictures...ops. Comunque, ricapitolando per chi ha saltato tutto il pippone in mezzo: è un gran bel film, divertente, sulla falsariga di alcuni capolavori Pixar, ma forse non è adatto ai bambini sotto i dieci. Quelli sotto i cinquanta, invece, avranno finalmente la risposta ad alcuni interrogativi della vita, per esempio: ma tra una partita e l'altra, Mario e Donkey Kong sono amici?

Ralph Spaccatutto si può vedere sia in 3d sia (senza perdersi veramente nulla del divertimento) in versione tradizionale 2d; se ci tenete a mettere gli occhialini potete andare al Cinecittà di Savigliano, al Multisala Impero di Bra o al Cityplex di Alba. La versione in 2d, più luminosa, la trovate al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, al Cinema Italia di Saluzzo e al Cinecittà di Savigliano. Buona visione.

mercoledì 19 dicembre 2012

V per vendetta, B per Benigni

Posto che Benigni è un grande artista, e che lo sarebbe anche se non riuscisse a calamitare il 40% di share con niente più che una lezione frontale sulla Costituzione, vorrei provare a spiegare perché ieri sera io non sono riuscito a guardarlo più di qualche minuto - un fenomeno per nulla eccezionale, ma ultimamente c'è twitter che rende più visibili minoranze fino a ieri poco interessanti, ad esempio quelli che in teoria rientrerebbero nel target degli estimatori di Benigni (over 40 "de sinistra") e invece non lo sopportano; magari con tanto affetto per quando bestemmiava e inneggiava al corpo sciolto, ma è successo secoli fa. E poi c'è un'altra minoranza curiosa, ovvero quelli che non se ne capacitano: non capiscono come si possa malsopportare un genio come Benigni che fa il 40 di share parlando di una cosa come la costituzione. Al punto di scomodare il demone dell'Invidia: saremmo tutti Invidiosi, ecco perché non riusciamo più a guardare Benigni e goderne come ne godono vecchi e bambini. L'Invidia ci ha rosicchiato il cuore. Il che tra l'altro è vero.

Almeno nel mio caso: certo che invidio Roberto Benigni, mi sembra il minimo. Ha fatto di tutto, compresi i milioni; ha vinto un Oscar; ma soprattutto riempie le piazze spiegando Dante, io giusto stamattina spiegavo Dante e me ne accorgevo da solo che non sono altrettanto bravo. Me ne accorgevo per esempio perché sul più bello, con il conte Ugolino chiuso nell'orribil torre che sente inchiodare l'uscio, c'è sempre qualcuno che chiede di andare in bagno. Ci fosse al mio posto Roberto Benigni sono sicuro che non succederebbe, nessuno oserebbe perdersi la scena in cui si morde le mani e i figli gli propongono di addentare piuttosto le loro misere carni: se la farebbero addosso sul posto per sapere se alla fine li mangia o no. Quindi l'Invidia c'è, e gioca un ruolo. Ma non credo che sia decisiva.

Anche perché se invidiassi tutte le cose che non mi piacciono più... per esempio ieri sera a un certo punto ho cambiato canale e mi sono reso conto che Italia1 controprogrammava V per Vendetta, una scelta tanto sottile che forse è casuale: al campione dei democratici progressisti, Roberto Benigni, il settore giovanile mediaset opponeva il campione degli anarco-antipolitici grillini, il V con la maschera di Guy Fawkes. In effetti se avete l'età per apprezzare Benigni magari neanche sapete chi è 'sto V... ma la maschera l'avete vista in giro senz'altro, ecco: pochi film negli ultimi anni si sono infilati nell'immaginario collettivo occidentale come questo, che come sempre in questi casi non è nemmeno un gran film... eppure evidentemente funziona. Proprio come Benigni, a un certo punto bisogna arrendersi: toccano le corde giuste, corde che tu non sai toccare e forse nemmeno vedere, ma ci sono e fanno vibrare per simpatia milioni di persone.

Ora io ho un problema. Forse faccio parte di una generazione di mezzo. Forse sono io che sono sempre stato in mezzo. Questa cosa ormai mi si ritorce contro nel momento in cui mi rendo conto che non solo non riesco più a guardare Benigni, che è bravo per carità... ma neanche Natalie Portman che prepara il funerale vichingo a V: neanche lei riesco più a prendere sul serio. Sarà il doppiaggio, i troppi break pubblicitari, ma mi sembra un'autoparodia; quando lui le dice "sto morendo" e lei una cosa del tipo "no, non puoi lasciarci adesso" istintivo mi ricorre Supergiovane che piange Catoblepa, o rido o cambio canale, e questo cosa vorrebbe dire? Che invidio Natalie Portman? Che non sopporto che sia più bella di me, o in generale più brava a recitare? Può anche darsi ma forse il problema è un altro.

Il problema è che vedo due generazioni l'una contro l'altra armate, e non so scegliere: stare in mezzo non si può ma soprattutto non è la mia posizione. Per stare in mezzo bisogna apprezzare e comprendere gli uni e gli altri e invece è il contrario: non li capisco e non li apprezzo entrambi. La generazione che si beve con entusiasmo una lezione frontale di due ore sulla costituzione "più bella del mondo" ha un'età media di 55 anni, chi ha preso sul serio il messaggio politico di V per Vendetta difficilmente ha superato i 30. Non credo che siano in grado di capirsi: già Benigni è indigesto per me, dopo di me vengono i barbari baricchiani, gente fisicamente incapace di restare immobile davanti a uno schermo se sullo schermo c'è un tizio che parla per due ore. E lo so che c'è qualcosa di commovente in questa resistenza della parola sull'immagine, del discorso sul montaggio serrato: ma so anche che non può durare. Certo, siamo in Italia, Benigni ha ancora 15 anni a disposizione per entusiasmare il suo pubblico e, quel che più importa, è quello il pubblico che ti fa vincere le elezioni. Ma ti fa vincere anche Sanremo, se per una volta in mezzo ai vari concorrenti di Talent si presenta un Vecchioni. Lo stesso Renzi, nei suoi comizi, mi sembra segua ancora strategie retoriche simili a quelle messe in atto da Benigni: la dialettica tra rottamabili e rottamatori è tutta interna all'insieme di gente che ieri sera si poteva guardare lo spettacolo sulla Costituzione. E che V per Vendetta non sa cosa sia: roba per ragazzini, un film d'azione con un tizio mascherato che rotea coltelli al ralenti, un Matrix aggiornato all'epoca della paranoia sulla febbre aviaria.

V per Vendetta è tutto ciò, ma è anche un oggetto più complesso. Lasciamo perdere le nobili origini (all'inizio era un fumetto di uno dei geni letterari ahimè del secolo scorso, Alan Moore, nato dall'inquietudine di quel decennio che adesso invece sembra essere stato tutto giocoso e colorato, gli anni Ottanta: chi li ha vissuti lo sa, quanto invece si prestassero bene a fantasie di apocalisse). Moore questo film non l'ha mai voluto, già lo script dei fratelli Wachowski (gli stessi di Matrix) non gli piaceva. Per guardarlo bisogna davvero scordarsi il fumetto, così come probabilmente per apprezzare la lezione di Benigni bisogna temporaneamente dimenticare eventuali mesi trascorsi a studiare diritto costituzionale. Come nel caso di Matrix, è molto difficile per me capire cosa abbia reso proprio questi due film d'azione due testi sacri, fonti di ispirazione filosofica, esistenziale, addirittura politica per tanti membri di una generazione alla quale evidentemente non appartengo. Mi è solo chiaro che i Wachowski ragionano per immagini, molto più di quanto lo facesse un autore già visionario come Moore. E che nella costruzione del loro linguaggio visivo non si vergognano minimamente di riutilizzare immagini (ma anche discorsi) che la mia sensibilità 'vecchia' rifiuta immediatamente come banali, scontati, risaputi, kitsch; se il mio senso estetico avesse una spia sonora, questa bipperebbe in continuazione: pericolo kitsch / attenzione! populismo da due soldi in avvicinamento / procedere con prudenza, qualcuno sta trasformando i totalitarismi del Novecento in cattivi da operetta / stooop! qui usano un terrorista come deus ex machina, invertire la marcia immediatamente!!!! / warnung, dietro l'angolo stuprano Orwell per due spicci. E così via.

Ma questo significa semplicemente che la mia sensibilità non riesce ad aggiornarsi, perché V per Vendetta funziona, porta migliaia di persone in piazza in tutto il mondo. Quelle che io interpreto come continue cadute di stile fanno parte di una strategia retorica che non riesco a cogliere, trasmessa su una frequenza che le mie antenne non captano, ma d'altro canto già in Matrix quando chiedevano di scegliere la pillolina blu o quella rossa io ridevo e pensavo soltanto ad Alice nel Paese delle Meraviglie e mi stavo perdendo la metafora più potente dei tardi anni Novanta. E non c'è niente da fare, in V riesco a vedere solo un film d'azione con ralenti e dialoghi stucchevoli, allo stesso modo come in due ore di Benigni riesco solo a vedere un insegnante di mezza età che cerca di fare il simpaticone, e ci riesce per carità, ma non viene anche a voi voglia di alzare la mano e fare una qualsiasi domanda stupida, prof ma quale giuria esattamente ha deciso che la nostra costituzione era "la più bella del mondo", e quando è successo? Perché nascono nazioni nuove tutti gli anni, chissà se il Sud Sudan non ne abbia una più bella della nostra; probabilmente no ma qualcuno si è preso la briga di leggerla e fare un confronto? E poi, prof, il fatto che sia la più bella, e il fatto che sia anche la meno applicata; non le è mai venuto in mente di collegare le due cose? Ma anche più semplicemente

posso andare in bagno?

Che è un messaggio che secondo me li contiene tutti: i ragazzi, è una delle poche cose che ho imparato negli ultimi anni, protestano con la vescica. È l'unico strumento che gli consente di controbattere alla retorica degli adulti, dei professionisti.

Ecco, se c'è qualcosa che hanno in comune, V e Benigni, è che non ti autorizzano ad andare in bagno: devi guardarli con un'adeguata partecipazione emotiva, ridere quanto ti viene chiesto di ridere, piangere quando si toccano i tasti del pianto: e niente battutine. Sono due spettacoli del tutto privi di ironia. Benigni non è mai stato molto ironico, anche quando faceva il comico mi sembra che ricorresse all'ironia solo occasionalmente, magari con il tocco del maestro. Da quando è salito in cattedra anche queste brevi frecciate sono sparite; l'approccio che Benigni adopera con Dante o con la Costituzione è sempre estremamente empatico: ed è poi questo che mi rende faticoso restare a lungo sul suo canale. Non è una questione di contenuti, sempre abbassati il più possibile, ma avete fatto caso al tono? È una specie di musica ossessiva, la voce di un tizio che ti invita continuamente a commuoverti, ma lo capisci che ti sto dicendo qualcosa di commovente, ma lo capisci che ti sto spiegando qualcosa di nobile, di grande, come la costituzione scritta dai nostri nonni, ma lo capisci che te lo sto spiegando con parole semplici, e che anche questo è nobile e grande, ma lo capisci che mentre ne parlo mi commuovo io stesso, ma lo capisci, e allora perché non ti commuovi, ma lo capisci, ma lo capisci, ma perché non piangi? se non piangi adesso, ma di cosa? e piangi su.

"Prof, posso andare in bagno?"

No adesso tu piangi.

"Preferirei piangere in bagno".

Non mi fido piangi qui.

"Ma non è un po' anticostituzionale questa cosa?"

Allora cambi canale e c'è V coi suoi discorsi bisbigliati sotto la maschera, ma ti viene il dubbio che anche lui, con molta più azione e molte meno parole, voglia solo farti piangere o ridere a comando; la sua grande idea di palingenesi rivoluzionaria consiste nel fare esplodere il Parlamento dopodiché la Gente festeggerà e si autogovernerà; buffo, se la terrorizzi con le epidemie la stessa Gente va in confusione e vota i fascisti cattivi; invece se gli fai saltare in aria il parlamento la Gente si sveeeeeegliaaaa!!!11! capisce e festeggia. E io resto in mezzo, un po' perplesso. Da una parte vedo la civiltà dei Benigni, dei Bei Discorsi, dei Padri Nobili, che ha ancora un buon decennio davanti, ma poi inevitabilmente sfumerà. Dall'altra arriva una generazione che si esalta per cose che non riesco a capire. Ci penso e mi sento un peso dentro.

Per fortuna che posso andare in bagno.

martedì 18 dicembre 2012

Apocalyptic coming out

Tutta qui la fine del mondo?

Come sapete il 21, venerdì, il mondo potrebbe finire a causa dell'impatto di un meteorite / o di un allineamento astrale / o per via che i Maya avevano finito i nomi da dare ai mesi astrali sul loro calendario. Anche se è veramente molto improbabile.

Come sapete il 21, venerdì, in tutto il mondo migliaia di persone che hanno propalato la bufala della fine del mondo prevista dai Maya, approfittandone per vendere libri e film, chiederanno in diretta scusa ai milioni di persone, perlopiù ragazzini, che hanno spaventato (in alcuni casi portandoli al suicidio); e restituiranno tutto quello che hanno guadagnato. No, scusate, questo è ancora meno probabile del meterorite.

E poi non è tutta colpa loro, via. Io ho la sensazione che tutti noi, adulti, responsabili, abbiamo ampiamente sottovalutato il problema. Lo stiamo tuttora sottovalutando, lasciando per esempio che Giacobbo mostri ancora la sua faccia in televisione. Ho la sensazione che in un Paese civile, dove il concetto di civiltà sia finalmente fatto coincidere con quello di responsabilità, responsabilità nei confronti dei nostri vicini e in particolare dei più piccoli... Giacobbo non avrebbe più nessuna faccia da mostrare in televisione, da un bel pezzo. Noto che mentre scrivo queste parole la mia tastiera fa più rumore, le dita non ci possono fare niente ma sbattono con più forza, c'è senz'altro un potenziale di rabbia repressa mentre scrivo e non dovrei riversarla sui contenuti, ma non so cosa farci.

Giusto oggi - mentre per l'ennesima volta, in una classe di tredicenni, ricordavo a tutti che l'apocalisse Maya è una bufala, condividendo l'ottimo e utile memorandum di Paolo Attivissimo - una ragazza, non piccola, non stupida, ha ammesso che la paura dell'apocalisse qualche notte non l'ha fatta dormire. Moltiplicate queste ansie per milioni di teenager in tutto il mondo e avrete il senso delle dimensioni della cosa che è successa, della cosa che noi adulti e genitori abbiamo lasciato che succedesse, perché non ci siamo presi una mezz'ora ogni tanto per ribadire che Giacobbo & co. erano imbroglioni e truffatori. Poi davvero mi piacerebbe capire perché chiunque conosco sarebbe pronto a spaccare la faccia a chi adesca il suo bambino con storie truffaldine gettandolo in uno stato di ansia, e tuttavia Giacobbo può avere terrorizzato un'intera generazione senza che nessuno abbia fatto un plissé. Per ora non mi resta che aggiornare il vecchio adagio: se spaventi un bimbo inutilmente sei un mostro, se ne spaventi un milione e ci fai soldi sei una realtà economica con la quale bisogna fare i conti, tant'è che noi per tenerci i programmi di Giacobbo nel palinsesto della tv pubblica (compreso quello esplicitamente concepito per gli adolescenti) abbiamo pagato il canone. E tuttora lo facciamo.

Parte della mia rabbia, oltre che da zone discutibili della mia personalità (i miei studenti dovrebbero avere paura di me, non dei calendari di una civiltà decotta già al tempo dei conquistadores) sorge dai miei ricordi di preadolescente, che la professione mi aiuta a mantenere un po' più vividi. Ne approfitto così per fare il mio coming out (tanto venerdì sarà tutto finito, no?): anch'io sono stato ragazzino, anch'io ho avuto paura della fine del mondo che a quei tempi si situava tra il 1999 e il 2000, inoltre c'era la transizione dall'era dei Pesci a quella dell'Acquario - ma non pensiate che io ne abbia mai parlato con qualcuno, o che io abbia interrotto il mio insegnante di allora per ammettere che sì, la cosa mi disturbava il sonno. No, me ne sono rimasto zitto e angosciato per mesi che sono diventati anni: credo che sì, che io abbia passato anni ad avere paura della fine del mondo; poi per fortuna è arrivata l'acne e l'importanza del destino dell'universo nella mia vita ne è stata notevolmente ridimensionata - ugualmente, ritengo che nessuno debba essere esposto ad angosce simili. Può darsi che siano residui di qualche atavica nevrosi collettiva; può darsi che sia una sindrome universalmente diffusa tra i preadolescenti; può perfino darsi che sia alla base della nascita di culti e religioni tra le quali quella che va ancor oggi per la maggiore in Italia - questo non significa che agli adulti debba essere consentito di specularci su.

E forse un'altra parte della mia rabbia sta nel fatto che io tutto sommato non ho mai smesso di crederci, uno alla fine continua sempre a star male per le due o tre cose che lo facevano star male tra i dodici anni e i sedici anni, e sono cose stupidissime, chitarre bruciate in stufe a legna, inversioni della polarità terrestre. Se oggi ci dormo benissimo, con la paura della fine del mondo, è solo perché nel frattempo il mondo mi è molto sceso nella considerazione: per dirla con Leopardi: questo è quel mondo? Questi i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi? Per dirla con la Vanoni: è poi tutto qui? Perché se è così, vabbe', vediamoci pure l'apocalisse Maya. O forse no, I am not ready for that final disappointment...

Diversa dovrebbe essere la condizione dei ragazzini: loro ce l'hanno ancora tutto davanti, il mondo, dovrebbero tenerci in modo particolare, incazzarsi con chi minaccia di farglielo sparire. Ma ecco, questa è forse la cosa più inquietante, che ha a che vedere con una certa scomparsa dei colori vivaci nelle aule, con la tendenza a lasciare in negozio tutti gli zainetti colorati dei miei tempi e ad andare in giro con certi eastpak neri e verdi militare, rigorosamente tinta unita, una sobrietà che in anni meno critici avrei apprezzato, e adesso mi spaventa. E i discorsi che fanno, gli occhi in cui ti guardano, certe volte hai la sensazione che parecchi di loro nell'apocalisse Maya ci stiano sperando, ci stiano contando. E questo mi fa paura, più di una fine che se viene sarà molto rapida e non lascerà nessuno a porsi dei problemi.

lunedì 17 dicembre 2012

La Morte a Cologno

Sabato ho visto qualcosa di orribile in tv: alla trasmissione serale di Canale 5, che non so perché ha cambiato nome (adesso si chiama Posta prioritaria), c'era un ridicolo signore che cercava di riconquistare la fidanzata perduta 57 anni prima. Sulle sue rughe diffuse chiazze di rossore ricordavano, più che una lampada UV, una dermatite. A coronare l'orrore il toupet della mamma di Psycho. In una lingua incerta il tizio vantava meriti misteriosi, in arti o mestieri solo a lui noti. Persino una professionista consumata come Maria De Filippi non riusciva a trattenere le risa. Io mi vergognavo per loro, per me e per chiunque al sabato sera non trova di meglio che deridere un vecchio patetico.

Domenica ho visto di nuovo qualcosa di orribile in tv: alla trasmissione serale di Canale 5, che non so perché ha cambiato nome (adesso si chiama Domenica live), c'era un altro vecchietto ridicolo che cercava di riconquistare un popolo perduto appena un anno fa. Sullo sfondo blu della scenografia il suo volto arancione sembrava artificiale come un cartone animato 3d. A coronare l'orrore l'uomo, calvo da anni, si era fatto disegnare i capelli sulla cute. Al termine di un lungo vaniloquio, ha persino fatto proiettare un filmino di quando era più giovane e in una lingua solo a lui nota aveva fatto un discorso all'estero molto applaudito. Nel frattempo Barbara D'Urso riusciva a restare seria, questo sì che è professionismo (continua sull'Unita.it, H1t#158 - il blog sull'Unità compie tre anni, grazie a tutti).

Credo che saremo in molti a usare il termine “patetico”, stamattina, per quel Berlusconi ridotto a raccontare orribili storie di comunisti che uccidono i bambini e  l’ennesima favola sul caso Ruby, o a vantare la fidanzata di 50 anni più giovane. Ridere di lui è sempre stato facile, ma ormai è un riflesso involontario. In fondo è sufficiente avere il senso dell’umorismo di quelli che al sabato sera ridono dei casi umani al programma di Maria. Prendersi gioco del vecchio Berlusconi è terribilmente berlusconiano. Ed è altrettanto terribilmente sbagliato.
A costo di guastare il divertimento, tocca ricordare quello che è successo davvero ieri: un leader di un grande partito, candidato alla presidenza del consiglio, ha usato un’emittenza nazionale di sua proprietà per aggredire i suoi avversari politici con accuse false e infamanti, dalle quali non è stato risparmiato nemmeno il presidente della repubblica. Il tutto organizzato in fretta e furia per aggirare le norme sulla par condicio che scatteranno non appena si conoscerà la data delle elezioni. Anche stavolta, come in passato, Berlusconi ha fatto un uso criminoso delle sue tv – che poi sono ‘sue’ semplicemente perché, dopo aver violato una legge per più di un decennio, vinse le elezioni e si fece scrivere una legge su misura. Tutto questo non dovrebbe essere consentito, ancora prima che dalla legge, da un minimo senso di decenza. Quello che abbiamo perso da anni, da quando abbiamo scelto di ridere di Berlusconi invece che prenderlo sul serio, mortalmente sul serio.
Non ha nessuna importanza che siparietti come questi (forse) non funzionino più; che il programma che li ospita sia in crisi di ascolti; che il mattatore ormai sia una maschera ingessata incapace di infondere empatia ai suoi discorsi sempre più autoreferenziali, sempre più intrisi di rimpianti e recriminazioni per quello che è successo, sempre meno rivolti al futuro. Non ha nessuna importanza se il signore che ci molesta è un vecchietto ridicolo: ci sta molestando lo stesso; l’intenzione di farci del male c’è tutta, e il tizio è ancora pericoloso. http://leonardo.blogspot.com

venerdì 14 dicembre 2012

Come Jackson ha ucciso il mio Tolkien (con tanto amore)

Giovedì è uscito Lo Hobbit: un viaggio inaspettato, di Peter Jackson. Jackson è il regista neozelandese che più o meno dieci anni fa è riuscito nell'impresa impossibile di trasformare in cinema Il Signore degli Anelli, la trilogia fantasy di J. R. R. Tolkien. Una cosa che o la ami o la odi, e se la odi hai già smesso di leggere alla seconda riga e quindi non c'è bisogno di spiegarti che Lo Hobbit è un romanzo che racconta fatti precedenti alla trilogia, scritto da Tolkien vent'anni prima in uno stile molto diverso. Per farla breve: mentre Il Signore degli Anelli è una saga finto-celtica composta a tavolino da un affermato professore di inglese medievale, Lo Hobbit è una favola scritta da un papà per i suoi bambini. Così, anche se alcuni personaggi sono gli stessi (il mago Gandalf, il mostriciattolo Gollum), il mondo in cui si muovono ha tutt'altra consistenza.

Mettiamola così: quando leggi lo Hobbit, a qualsiasi età, torni come un bambino davanti a un grande libro di fiabe con nani e draghi, e Gandalf ti sembra un grande mago onnipotente; se riapri Il Signore degli Anelli ridiventi per un attimo adolescente, ma sul serio: se non sei lesto a chiuderlo ti rispuntano i brufoli e coi brufoli si rifanno vive certe ossessioni da nerd come imparare l'alfabeto runico e la cronologia della Terza Era, mentre lo stesso Gandalf ti sembra un mago, sì, potentissimo, non c'è dubbio, però in certi tratti piuttosto discutibile, e poi cos'è questa storia che vuol sempre aver ragione lui, certe decisioni andrebbero prese all'unanimità, Occupy Terra di Mezzo! Sarebbe interessante verificare se Jackson, il cui profondo amore per Tolkien e le sue creature è fuori discussione, sia riuscito a rispettare questo approccio diverso: da quello che ho letto, e soprattutto dai trailer, mi pare di no. La semplice scelta di dividere lo Hobbit in tre parti, e di farne insomma una saga della stessa durata del Signore degli Anelli, mi sembra che tradisca il proposito di dare al pubblico, e soprattutto agli adolescenti brufolosi, ciò che gli adolescenti brufolosi vogliono, e cioè saghe, saghe, saghe. Però questi sono pregiudizi: per verificarli dovrei come minimo andare al cinema e dare un'occhiata, ma (il pezzo continua su +eventi! Sarà un grande 2013, almeno a Cuneo e provincia) non ne ho tanta voglia.

Non è una questione di durata - anche se centosessanta minuti, alla mia età, non sono mica sicuro di reggerli ancora; e pensare che siamo soltanto alla prima parte di tre - alla fine sarà uno dei rari casi in cui ci si mette più tempo a guardare il film che a leggere il libro (un altro caso: Eyes Wide Shut vs Doppio Sogno). È che me la sono un po' legata al dito con Jackson, per quello che ha fatto al mio Signore degli Anelli. Lo ha distrutto. Con tanto amore, per carità, tanta dedizione, tanta filologia, e tuttavia lo ha fatto fuori, non esiste più, e ancora non me ne sono fatta una ragione.

Sia chiaro, non credo che gli amanti di Tolkien potessero ragionevolmente aspettarsi una riduzione cinematografica migliore della sua. Non si tratta solo di fedeltà al testo: se è per questo di tradimenti ce ne sono, e parecchi. Ma è un film realizzato con molto amore, e l’amore si vede anche nei tradimenti.

Il guaio forse è proprio che è stato realizzato fin troppo bene. Senza scomodare scenografie ed effetti speciali, pensate solo al casting. Frodo è Frodo, Bilbo è Bilbo, Gollum è Gollum. A un decennio di distanza mi sembra di avere sempre immaginato gli hobbit coi volti dei loro attori, tanto bene sono stati scelti. Eppure, quando ancora il film non c’era, io devo aver avuto un altro Gollum in mente. Ma com’era fatto il mio Gollum? Non me lo ricordo più. Il Gollum del film si è perfettamente sovrapposto a quello della mia immaginazione.

Vale per quasi tutti i personaggi: elfi, nani, uomini: che volto avevo dato a Galadriel? Troppo tardi. Ormai ha quel nasone. E mi sembra che non potrebbe avere mai avere avuto un naso diverso. L’immaginazione è una cosa fluttuante, ma ora i volti degli elfi e dei nani sono fissati per sempre. Tutto quel che riesco a ricordare è che Aragorn, per me, doveva essere sbarbato. Un’idea abbastanza stupida: è chiaro che Jackson a queste cose ci ha pensato molto più, e ha preso le decisioni giuste - peraltro ha capito che grande attore fosse Viggo Mortensen molto prima di chiunque (anche di Viggo Mortensen). Ma allora è questo il Cinema? Delegare la propria fantasia a dei professionisti?

Prendi il ragno gigante, Shelob. Si può immaginare qualcosa di più orrido di Shelob? Anche nella mia immaginazione, avevo probabilmente lavorato di chiaroscuro. Ma Jackson fa cinema, e il cinema è l’arte delle luci. Se c’è Shelob, lui ce la deve mostrare tutta. La sensazione di trovarsi sotto l’addome di Shelob è qualcosa da provare, se non siete cardiopatici: ma per quanto possa essere ben realizzato e credibile, un mostro cinematografico resta un mostro cinematografico, parente di Gozzilla e King Kong. Può fare schifo, e in effetti ne fa parecchio, ma una volta messo totalmente in luce, non fa più veramente paura. Ed ecco un altro pezzo della mia fantasia che s’invola: l’orrore per Shelob.

Più infernale di Shelob, c’era solo (mi sembrava di ricordare) la lenta agonia di Frodo verso Monte Fato. Gli inganni di Gollum, l’angoscia di Sam. E tutto questo nel film c’è. Pensavo che fosse la parte più mistica del libro, che altrimenti sarebbe solo una lunga fiaba dove il Bene vince contro il Male. Mentre inventando l’anello, e mettendolo al collo di una creatura fragile ma determinata, Tolkien rendeva tutto molto più interessante: l’idea del male come fardello da portare con sé, il percorso di purificazione, il tradimento sempre in agguato (sia di sé stessi che degli altri), e un sacco di altre cose.

E tutto queste cose, nel film, c’erano? Insomma. Forse c’erano, ma – naturalmente – un po’ semplificate. O no?

Su qualche mensola devo avere ancora il megatascabile Rusconi (Rusconi era l’ex funzionario Rizzoli che pubblicava le cose un po' imbarazzanti per il prestigioso gruppo editoriale: i pettegolezzi sui Savoia e il Signore degli Anelli).Vado a riguardare le pagine. No, non è colpa del cinema. Il libro la fa abbastanza semplice: Sam, Frodo e Gollum si fanno strada verso il monte Fato. Ero io che tendevo a farla complicata. Perché dopo aver letto il libro, secoli fa, avevo continuato a fantasticarci su, e crescendo la fantasia era cresciuta con me: avevo trasformato l’Anello in un simbolo dell’ambizione, dell’invidia, perfino della dipendenza. Tutte belle cose, che forse J.R.R. Tolkien aveva previsto; ma non erano nel libro: erano nello spazio tra il libro e la mia immaginazione.

In questo spazio delicato, soggetto a periodiche scosse di assestamento, ora è passato il bulldozer di Jackson. Niente sarà come prima.

Tutto, in compenso, sarà più colorato (perché Jackson ha più colori di quanti avrei potuto mettercene io), più luminoso, persino più filologicamente corretto: ma non cambierà più. Frodo sarà sempre quel Frodo. E sarà uguale a quello di chiunque altro abbia visto il film. E abbiamo tutti visto il film.

Pazienza, almeno io so di avere avuto un tempo un mio Frodo che era diverso, so di avere avuto una mia immaginazione, anche se non riesco più a ricordarla - ma i bambini? Quelli che guarderanno il film prima di leggere il libro? Per loro il lavoro di fantasia è finito ancora prima di cominciare. Ecco, l'idea che i bambini vadano a vedere il film, proprio questo film, prima di leggere il libro, mi sembra uno sterminio di fantasia di massa. Commesso con le migliori intenzioni del mondo, da un regista che ama e rispetta Tolkien molto più di quanto lo ami e lo rispetti io, e tuttavia secondo me non dovrebbe avere il diritto di dare per sempre una faccia a Bilbo Baggins. La faccia a Bilbo Baggins gliela dovrebbero dare i bambini. Andate pure a vedere lo Hobbit, voi. Ma i bambini lasciateli a casa, fate loro questo favore (tanto più che non è detto che li reggano nemmeno loro, centosessanta minuti. Quanti popcorn può ingerire un novenne in centosessanta minuti? Vale la pena di fare l'esperimento?)

Lo Hobbit: un viaggio inaspettato questa settimana è al cinema Fiamma nella versione in 2d (senza occhialini). In provincia lo trovate in 3d al Cityplex di Alba, al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, al Multisala Vittoria di Bra e al Multilanghe di Dogliani; in versione 2d ai Portici di Fossano, al Bertola di Mondovì, all'Italia di Saluzzo; al Cinecittà di Savigliano. Buona visione.

Silvio il cattivo condòmino

Pensare che, con un po' di lucidità, a quest'ora aveva già vinto la partita.
Certo, avrebbe dovuto muoversi per tempo, quando tempo ancora ce n'era. Una volta passata la palla a Monti, un anno fa, avrebbe potuto farsi una vacanza come si deve, e poi presentarsi pulito e profumato a Bruxelles, a Francoforte, e dire: signori, scopriamo le carte. Con Monti si arriva al 2013; poi ci sono le elezioni e le vincerà la sinistra. Bersani, o Renzi, magari Casini, comunque anche Vendola. Per tacere di Grillo. Lo sapete anche voi che andrà così. Se non vi fidate dei miei sondaggi rifateli voi; andrà così. E quindi?

E quindi niente. Volete Monti anche nel 2013? Ci tenete molto, a questa cosa di Monti nel 2013? Il PD non ve lo può dare. Io sì, ma dovete darmi una mano. Io forse non posso vincere le elezioni nel 2013 - ma chi lo sa, se m'impegno sono perfino capace - ma sicuramente posso evitare che le vinca chiunque altro. Posso fare melina sulla legge elettorale per un anno e mezzo, credete che non ne sia capace? Chiedete in giro, la politica in Italia è una cosa incredibile, posso farli discutere per un anno e mezzo e poi mandare tutto a gambe all'aria in una mezz'ora, è un numero che ho già fatto. In ogni caso un venti per cento lo valgo anche da solo, posso licenziare tutti i miei colonnelli e fare il venti per cento lo stesso, perché sono Silvio Berlusconi. Volete Monti nel 2013? Bersani non ve lo può dare, e nemmeno Renzi. Ve lo posso dare io. Però.

Però sono Silvio Berlusconi. Posso senz'altro salvare l'Italia - e l'Europa, e il mondo - ma è escluso che io lo faccia gratis. Parliamone, sediamoci a un tavolo. Io ho alcune pendenze da sistemare. Per esempio, certe cose, in Italia, devono restare depenalizzate. Ciò è di primaria importanza per me, e quindi lo è anche per voi. Sono sicuro che capirete. La persecuzione giudiziaria nei miei confronti, ecc. ecc., deve cessare. In cambio io posso spostare le posizioni dell'elettore medio di centrodestra finché non combacino più o meno con quelle dell'agenda Monti. Può sembrare all'inizio un'impresa disperata, visto che l'agenda Monti significa per lui perlopiù tasse tasse tasse. Ma si tratta alla fine di martellare in tv e sui giornali che c'è un pericolo rosso e bisogna fare di tutto per sottrarsi al pericolo rosso. Nel frattempo minimizzare la crisi, mostrare in tv che i ristoranti sono pieni ecc. Ha sempre funzionato e funzionerà anche stavolta, e in ogni caso non avete scelta, se volete Monti nel 2013 lo potete chiedere solo a me.

Casini? Ma andiamo. Casini non esiste. Se non lo prendo con me, non supera lo sbarramento. Montezemolo? È ammirabile che a Bruxelles sappiate come si pronuncia Montezemolo. No, non esisterà nessun Montezemolo, mi spiace. Se non credete ai miei sondaggi (comprensibile) fatene pure voi. L'unico centrodestra plausibile nel 2013 sono ancora io, e se volete davvero Monti dovete chiedermelo adesso. Ma dovete chiedermelo per favore. Ah, sì, mi toccherà scaricare la Lega. Ma al venti ci arrivo comunque. Poi al massimo dopo le elezioni rifaccio la grosse koalition con Bersani. Ma anche lui dovrà chiedermela con molta cortesia...

Ecco. Se fosse stato lucido, a quest'ora forse non si troverebbe nel casino in cui si trova. Ma non avrebbe mai potuto essere lucido così, né un anno fa né adesso. E non è (soltanto) un problema d'età, o di bungabunga. È che proprio questa idea di andare a Bruxelles a mercanteggiare, anche da una posizione di forza che un anno fa poteva avere e adesso no, non è da lui. Si trattava comunque di ammettere che esistano poteri forti almeno teoricamente più forti di lui, e questo è più forte da mandar giù dell'andropausa. Lui non tratta, lui decide. E questo, alla fine della fiera, gli impedisce anche solo di sembrare europeista. L'europeismo è una cessione di sovranità; possiamo vederla come un'ammissione di responsabilità: il mondo è sempre più piccolo e non possiamo permetterci di andare in malora senza che i tedeschi o i francesi si preoccupino per noi (più difficile capire cosa c'entrino i finlandesi e gli estoni, ma il principio è quello). In ogni caso bisogna entrare nell'ordine di idee per cui si abita in un condominio, e neanche ai piani più alti. Per la maggior parte di noi la cosa non pone nessuna difficoltà, abitiamo già in condomini e li preferiamo senz'altro a certi tuguri subtropicali che non sono poi così lontani in linea d'aria - per Silvio Berlusconi è assolutamente impossibile concepire l'idea: è uno a cui stava stretto Palazzo Chigi. Non avrebbe mai avuto la lucidità necessaria per affrontare una riunione di condominio nel modo descritto sopra. Lo sappiamo tutti.

E lo sapevano tutti anche nel PPE. Dove però se lo sono tenuti buono buono per più di dieci anni. E lo conoscevano, non è che a Bruxelles o a Strasburgo si sia mai finto diverso da quello che è: tutto il contrario. Conoscevano l'animale, e l'hanno vezzeggiato fin quasi alla fine. Se l'Europa fosse una cosa seria, una parte di responsabilità andrebbe addossata anche a loro. Invece pagheremo solo noi, compresi quelli che non l'hanno votato mai, non l'hanno voluto mai, e hanno ripetuto per vent'anni che era pericoloso.

mercoledì 12 dicembre 2012

La sindone azteca


12 dicembre 2012 - Nostra Signora della Guadalupe (1531) prima fotografia a colori della Storia.

[Si legge completo qui].

I latinoamericani già sanno, gli altri sospendano l'incredulità: a Città del Messico c'è una foto cinquecentesca della Madonna, a colori. Sembra un dipinto, ma chi ha potuto esaminarlo dice che non lo è, non c'è nessuna traccia di pigmento, e poi l'espressione del suo volto ha un che di irriproducibile. È l'immagine della Madonna più popolare del Sudamerica, e quindi, tra poco, di tutta la cattolicità. Alcune madonne sono finite sugli scudi e negli stemmi, ma Nostra Signora della Guadalupe è l'unica Madonna a essere stata sventolata come bandiera da un esercito, ovviamente rivoluzionario. Ah, e inoltre è probabilmente una divinità azteca sotto falso nome. Ma procediamo con ordine, o quasi.

Sono passati appena dieci anni da quando Cortés si è impadronito della città del Messico, che gli abitanti sopravvissuti al vaiolo e ai conquistadores chiamano ancora Tenochtitlan. Juan de Zumarraga, primo vescovo della Nuova Spagna, riceve la visita inattesa di un contadino azteco di mezz'età, nome di battesimo Juan Diego, al secolo Cuauhtlatóhuac.  Mi manda nostra signora la Vergine di Dio, dice Juan al vescovo, stavo andando alla chiesa di Tlatelolco quando l'ho vista sul colle Tepeyac, mi ha detto di venire da voi perché vuole che le si costruisca un tempio lì. Zumarraga non è un frescone: nel vecchio mondo faceva l'inquisitore, anche nel Nuovo troverà il modo di bruciare qualche prete azteco che forse non aveva del tutto rinunciato ai sacrifici umani. Probabilmente sa che su quel colle fino a poco tempo prima c'era il tempio di una divinità chiamata Tonantzin, "Nostra Cara Terra", insomma diffida. Quando il giorno seguente Juan Diego ritorna da lui, raccontandogli di avere rivisto la Madonna che insiste con la storia del tempio, lo caccia in malo modo e lo fa addirittura pedinare. Juan, disperato, torna dalla Madonna scusandosi e implorandola di trovarsi un migliore avvocato. La Madonna lo esorta a non mollare e gli promette che l'indomani gli farà avere una prova da esibire al vescovo scettico.


Il giorno dopo, però, Juan non si fa vivo. È assente giustificato, suo zio è in fin di vita. Verso sera l'anziano parente gli chiede di andare l'indomani a Tlatelolco a trovargli un confessore. "Ma io veramente avrei già una missione per conto della Madonna, mi ha detto che mi deve dare una prova da esibire al vescovo..." "Madonna o non madonna, se non mi confesso entro domani io vado all'inferno". L'argomento infernale è come sempre decisivo. Juan decide di dare buca alla Madonna, ma invano: quella lo attende al varco l'indomani sulla strada per Tlatelolco. Quando la vede Juan si getta ai suoi piedi e cerca di spiegarsi. Non preoccuparti per tuo zio che sta già meglio, gli dice bonaria Nostra Signora. Piuttosto sali sul solito colle e raccoglimi dei fiori. Fiori? È il 12 dicembre, esattamente 481 anni fa, e il Tepeyac è una pietraia: e tuttavia Juan vi trova dei bellissimi "fiori di Castiglia" (rose?), che raccoglie nel suo mantello (tilma) e corre a offrire a Maria. Questa li manipola per qualche istante e poi li rimette nella tilma: portali al vescovo, vedrai che stavolta ti crede.

Mentre a casa lo zio guarisce miracolosamente, Juan torna per la terza volta dal vescovo inquisitore. Stavolta gli uscieri non lo vogliono nemmeno far entrare: poi notano i bei fiori nella sua tilma e cercano di portarglieli via, ma non si staccano: incuriositi dal fenomeno, vanno a chiamare Zumarraga. "Ancora lui? Cos'hai portato stavolta?" Juan Diego balbetta qualcosa e poi apre la tilma: ZOT! Succede qualcosa di inspiegabile, un flash illumina la stanza e sul tessuto vegetale del mantello di Juan Diego si sviluppa all'istante l'immagine di Nostra Signora della Guadalupe, così come la possiamo vedere adesso nel suo santuario effettivamente costruito alle pendici del Tepeyac (le foto in questo caso non valgono, l'espressione ha un che di ineffabile che si può notare soltanto dal vivo). Va bene, direte voi, ma allora perché non si chiama Nostra Signora del Tepeyac? Perché la vergine avrebbe insistito con Juan per farsi chiamare proprio Vergine della Guadalupe, che è un santuario della vecchia Spagna, e precisamente dell'Extremadura, la terra arcigna donde provenivano tanti conquistadores e in particolare Hernan Cortés? Ci sono tante teorie. Per esempio: forse Juan non ha detto davvero "Guadalupe", ha detto "Tecuatlanopeuh" ("Colei che ha origine dalle cime rocciose"), e gli spagnoli che lo ascoltavano hanno comprensibilmente interpretato con la parola più vicina nella loro lingua, ovvero "Guadalupe" (che per coincidenza era anche un santuario europeo veneratissimo da molti conquistadores, eccetera). Diego avrebbe potuto anche dire "Tecuantlaxopeuh" ("Colei che scaccia chi ci divorava"), o, ipotesi più accreditata, "Coatlaxopeuh", "colei che schiaccia il serpente", bella reminiscenza di Genesi ("Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno") e Apocalisse (la donna insidiata dal drago-serpente). La Madonna fotografata nella tilma non schiaccia un serpente ma sta in piedi sulla luna, come in tante immagini ispirate all'Apocalisse ("una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi"). Vale anche la pena di ricordare che Quetzalcoatl, uno degli dei più adorati dagli aztechi, era il "serpente piumato", un Prometeo locale squamoso e vagamente antropomorfo simile anche a un drago. Un personaggio estremamente complesso, ma per i primi missionari messicani un semplice demone da schiacciare col calcagno (continua sul Post)