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Collaborazioni

domenica 31 agosto 2025

Se solo Delrio potesse parlare


Una volta ho letto un racconto, o forse era un post, o forse appena una vignetta, ma insomma si trattava di una risposta drastica all'eterna fantasiosa domanda: ah, se solo gli animali potessero parlare... ecco, se gli animali ci potessero parlare, probabilmente ci direbbero più che altro: "c'è da mangiare, qui?", "Cibo?", "Ti avanza del salame?", cose del genere. Perché sono creature pratiche. Mi rendo conto che non è il modo più diplomatico di cominciare un pezzo su Graziano Delrio, che non è un animale – cioè, lo è, ma come lo sono io, come lo siete anche voi, fratelli lettori. Siamo quel tipo molto specifico di animale che ha sviluppato in centinaia di migliaia di anni il linguaggio più sofisticato (qualche balena avrebbe probabilmente da obiettare, ma in ultrasuoni incomprensibili), il che a volte ci pone un problema. Non avete anche voi la sensazione che avere troppo linguaggio sia come non averne? Che più parliamo e meno ci capiamo? Che almeno un cane è chiaro perché ci fa la corte al panino, mentre per esempio, Delrio, cosa vuole quando parla col Corriere?

Graziano Delrio fa parte di una frangia cattolica che sta esibendo, ultimamente, una certa insofferenza per la direzione che Elly Schlein sta imprimendo al PD. Ne fa parte direi anche Romano Prodi, mentre non ci trovo Rosy Bindi... ma è difficile capire; bisognerebbe distillare le dichiarazioni, controllare bene se negli spazi tra le frasi non emergano significati nascosti, visibili soltanto controluce nei pomeriggi struggenti di settembre, ora forse una volta avevamo tempo per tutto questo, ma io sto invecchiando (voi magari no), e invecchiando ho sempre meno rispetto per le altrui chiacchiere. Che invece a settembre sono cruciali, a settembre per esempio c'è il Meeting di Rimini che per un fine settimana diventa, delle chiacchiere, le capitale – nostalgia per quegli anni Ottanta in cui c'erano solo tre telegiornali e tutti sembravano disperatamente curiosi di quello che si chiacchierava al Meeting, dopodiché andavi a messa e il sacerdote si sentiva obbligato di commentare anche lui un po' quel che si diceva al Meeting, salvo che in effetti, stringi stringi, se toglievi gli interventi dei politici non è che se ne sapesse molto: cioè era chiaro che un sacco di gente stava parlando, ma di cosa? E con che risultati? Non si è capito, non so nemmeno se esistano gli Atti del Meeting, come di un chiunque convegno (e se esistono, mai nessuno li ha citati). Il prete dunque ripiegava sui titoli, che erano già immaginosi e suggestivi, a volte persino wertmulleriani nel loro evocare lunghi appassionanti dibattiti – ho controllato ed è ancora così, ad esempio il Meeting 2025 si intitola "Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi", una frase icastica anche se un po' lapalissiana, cioè se sono "luoghi deserti" di sicuro mattoni vecchi non ne trovi, chi sarebbe così scemo da portarseli da casa? La Compagnia delle Opere ha tanti difetti ma non sono scemi. Però hanno sempre questa necessità di esibire, sopra i mattoni vecchi e nuovi, questi cappotti di parole, parole, parole. Quasi si vergognassero di essere sostanzialmente una lobby a cui servono soldi, appoggi, altri appoggi, più soldi. Questo vendersi al mondo come una comunità che discute, che dibatte, che sta assieme, sì: ma alla fine cosa state chiedendo esattamente? Ecco la domanda andrebbe allargata a Delrio. Parla, parla, ma cosa vuole dirci? Magari è responsabilità del giornalista, che non lo sa incalzare. Oppure anche lui fa parte di quell'eletta schiera che possiede il codice crittografico e capisce al volo.



Delrio spiega che gli applausi presi daa Meloni al meeting sono inquietanti, perché la Schlein non li avrebbe presi. Da che ho memoria (e si va appunto agli '80), al Meeting hanno sempre invitato e applaudito chi stava al governo: anche gente in seguito processata e condannata (sia tra chi era applaudito, sia tra chi applaudiva), ma questo è sterile giustizialismo, lasciamo perdere. Secondo Delrio aa Meloni ha imparato "a parlare con certi mondi", ovvero (suppongo), con una certa frangia cattolica che Delrio si sente di rappresentare. Aa Meloni "entra in sintonia culturale con mondi lontani da lei, come Cl o la Cisl", mentre la Schlein neanche ci prova, perché ha uno sguardo "fisso a sinistra". "Manca l'approccio interclassista", mica come Togliatti che invece sapeva parlare anche ai "ceti medi". "Il mondo cattolico ha tantissime risorse, non vanno tralasciate". Ovvero? la Schlein sta rinunciando "a rappresentare sensibilità": che tipo di sensibilità, non si potrebbe essere più precisi, fare almeno un esempio? Finalmente – ma siamo alla terza colonnina – Delrio fa un esempio. "La condizione femminile, soprattutto al Sud. Chi lavora per affrancare le donne da condizioni di disparità di ogni genere, deve avere un luogo in cui portare il proprio contributo. I partiti non hanno tutte le risposte. Questo Meloni l’ha capito".

Io purtroppo no, non ho capito niente. Chi è, esattamente, "che lavora per affrancare le donne da condizioni di disparità?" Se mi viene in mente una misura varata a favore, la prima è il reddito di cittadinanza, ma a quel punto Delrio me lo immagino dissentire furiosamente, no, no, non è quello. I consultori in tutti i comuni? Sarebbero davvero utili – no, no, continuo a immaginarmelo mentre dice no. E allora cosa? Quale  organizzazione si prefigge l'obiettivo di affrancare le donne da condizioni di disparità, "soprattutto al Sud"? "I partiti non hanno tutte le risposte" – per "partiti" qui intendi le istituzioni, o in generale la politica? Delrio, anche tu sei in un "partito", prova a rispondere tu: cosa bisogna fare? O permettimi di essere un po' più crudo: chi bisogna finanziare? La Schlein non lo ha capito, aa Meloni sì, al Meeting applaudono, Delrio non ci sta spiegando. Comincio a capire quanto poteva risultare irritante il suo boss coi suoi Chi ha orecchie per intendere.

"Bisogna dimostrare di avere una strategia concreta". Quale? "Bisogna dimostrare di essere, appunto, un partito di governo". Siccome prima bisogna vincere le elezioni, e nel frattempo a livello nazionale il massimo che si può fare è promettere, Delrio, per favore, non potresti essere più chiaro? Cosa deve promettere Elly Schlein al ceto medio cattolico di cui ti stai autonominando rappresentante? Quali magiche parole deve scandire per sbloccare l'accesso al meeting, gli applausi a settembre, e quel 2 o 3 per cento di voti che l'operazione potrebbe al massimo fruttare (perché se ci fossero più voti al centro, a questo punto, un Renzi o un Veltroni li avrebbero presi, no?)

Faccio delle ipotesi, come quando hai un gatto nuovo e provi crocchette diverse. Certi codici non li ho mai capiti, ma qua e là ogni tanto una chiave l'ho raccolta, ad esempio una volta funzionava molto bene la parola "sussidiarietà". Con tutte quelle -s, era un vero e proprio dog whistle, come amano chiamarli adesso. Al meeting si veniva a parlare di Valori e Cultura e Umanità e ogni tanto, tra questi fiumi di parole, si piazzava il termine "sussidiarietà", e chi voleva capire capiva. In effetti era un termine ben scelto: nessuno dice "sussidiarietà" per caso, persino io mi sbaglio ogni volta che lo scrivo. "Sussidiarietà" significava, se posso semplificare brutalmente: soldi alle scuole private. Anche un po' alle cliniche private. Alle Onlus cattoliche (cioè alla galassia CL): a tutto il welfare parallelo montato dai cattolici in Italia – sempre un po' traballante, sempre bisognoso di aiuti da uno Stato al quale non paga nemmeno tutte le tasse sugli immobili. Ok, così è veramente troppo crudo. Non si tratta soltanto di soldi, anche perché si è visto che in uno Stato con un Welfare solido non basterebbero. Quindi bisogna toglierli al Welfare solido. Ovvero, non basta promettere finanziamenti alle scuole cattoliche, buoni scuola e quant'altro; devi lasciar capire che quei finanziamenti li togli alle scuole pubbliche. A quel punto Rimini applaude e il ceto cattolico medio è contento. Questa cosa la Schlein ancora non la fa, e Delrio cerca diplomaticamente di farlo presente; anche perché aa Meloni invece sì, aa Meloni non ci ha messo mezz'ora a rinnegare tutte ee posizioni daa destra sociale – il doppio che ci ha messo a nascondere i volantini e i meme putiniani che i suoi sgherri distribuivano fino al giorno prima. 

Ripeto, è un'ipotesi. Ma tanto vale provare. Suggerisco insomma a Elly Schlein di cominciare a infilare la parola "sussidiarietà" in mezzo ai discorsi – anche a muzzo di cane, non credo sia così importante, magari stai parlando dell'Ucraina, alla prima fila sta già calando una palpebra, tu butti giù un sorso d'acqua e all'improvviso, senza senso: "Sussidiarietà!" Se si svegliano all'improvviso, se afferrano il telefono e cominciano a vergare messaggi, forse la vecchia parola magica funziona ancora. Cosa abbiamo da perdere? Quando si sta all'opposizione si promette. Le scuse per non mantenere le troveremo. 

Rimane una certa stanchezza per tutta questa manfrina, ovvero: non sarebbe un mondo migliore se invece di coniugare supercazzole per tre colonne, i lobbisti dicessero sempre concretamente cosa chiedono e cosa promettono in cambio? Gli animali, se potessero parlare, direbbero "cibo!", "cibo!": i ciellini, se avessero meno parole, griderebbero: "soldi!", "più soldi!", ora certo Don Giussani non approverebbe. Lui una volta disse una cosa che mi è rimasta impressa: "Mandateci in giro nudi, ma lasciateci liberi di educare". Ecco, fosse per me, l'obiettivo potrebbe essere quello: liberiamo i cattolici dai loro fardelli terreni, lasciamoli davvero nudi – e nudamente liberi di educare. Continuerebbero ad andare in giro con ciotole e sacchetti chiedendo soldi, soldi, più soldi, ma... sarebbero più credibili, più coerenti, ecco. Vabbe', è un sogno, altri che l'hanno sognato sono finiti male. Sussidiarietà!

sabato 30 agosto 2025

La corda di Margaret

Diocese of Shrewsbury. 
30 agosto: Santa Margaret Ward (1550-1588), martire

Per quanto possano esserci state epoche più eroiche, per i martiri cattolici, difficilmente risulteranno più avventurose delle persecuzioni inglesi tra Cinque e Seicento. Amministrare i sacramenti non è mai stato tanto simile al mestiere delle spie – più che le spie vere, spesso funzionari votati a mimetizzarsi nel grigiore burocratico, quelle che immaginiamo oggi nei film: avventurieri appesi ai cavi, dediti a missioni impossibili e fughe rocambolesche. Il loro campione è ovviamente John Gerard (1534-1637), di giorno gaudente viveur, di sera gesuita clandestino. Catturato in un nascondiglio insieme a Nicholas Owen, viene condotto alla Torre di Londra che poi non era quel luogo di torture che tutti credono, anzi fungeva da carcere solo per le personalità di nobili natali; fuggire comunque non era così semplice, ma lui riesce a farsi lanciare una corda e a calarsi giù dalla finestra, benché avesse i polsi slogati per le torture. O almeno così la racconta decenni dopo; perché passando di nascondiglio in nascondiglio, potendo contare su discepoli devoti (e guardiani corrotti), Gerard riuscì ad amministrare sacramenti per quasi vent'anni, prima di riparare nel Continente e scrivere la sua biografia. 

Altri non condivisero le sue astuzie e la sua fortuna. In più di un caso a pagare con la vita non fu il prete, ma i complici che li nascondevano, o recapitano gli strumenti necessari alla fuga: vedi il caso di Margaret Ward, signora di buona famiglia, insospettabile dama di compagnia di Lady Whitall. Quando viene a sapere che il presbitero William Watson, dopo un temporaneo pentimento, ha rinunciato allo sconto di pena e ha confermato di essere un sacerdote cattolico, riesce a farsi ammettere come visitatrice nel carcere di Bridewell dove Watson è rinchiuso. La prima volta la perquisiscono con attenzione; la seconda pure; ma Ms Ward continua a visitare il prete e a mantenere un comportamento impeccabile, sicché a un certo punto probabilmente i secondini abbassano la guardia, e un bel giorno del 1588 Watson scompare: si è calato dalla finestra grazie a una corda. L'allarme è tempestivo: un uomo viene arrestato lungo il fiume, vestito negli abiti del prete; ma è il barcaiolo John Roche, che li ha scambiati con Watson, ormai scomparso con la sua barca dall'altra parte del Tamigi. La Ward viene arrestata con Roche. Appesa ai ferri per i polsi e flagellata per otto giorni, non rivela il nascondiglio del prete (forse non lo sapeva), ma ammette di avergli portato la corda, "per salvare un agnello innocente dalle grinfie dei lupi". A una giuria piuttosto clemente che le offre il perdono in cambio della conversione, reagisce con più fermezza di quella mostrata da Watson, rifiutandosi di partecipare al rito anglicano, che in coscienza ritiene eretico. Lei e Roche vengono impiccati a Tyburn il 30 agosto del 1558, assieme ad altri cattolici. Watson continuerà a fare la spola tra l'Inghilterra e il continente, organizzando congiure fallimentari che lo porteranno sul patibolo nel 1603.

Per quanto possa essere difficile, oggi, mettersi nei panni di Margaret Ward – che scelse di morire per non arrendersi a un cristianesimo un po' diverso da quello in cui credeva – in quei panni, ricordatevi, a volte si nascondeva una corda. Come nei vestiti di ognuno di noi si nasconde un eroe; certo, il più dei giorni conviene lasciarlo a casa; potrebbero perquisirci, o potremmo essere noi stessi a tradirlo nel momento in cui non serve. Non è necessariamente complicato dare un senso alla propria vita: magari si tratta soltanto di scegliere in che giorno indossare quella corda, e a chi passarla. Puoi liberare gli innocenti, puoi impiccare gli infedeli, puoi fare tante cose con la tua corda, il giorno che scegli di portarla con te. E quel giorno mica passa per tutti. Oppure forse sì, passa per tutti, ma in molti lo lasciamo passare perché abbiamo paura, o siamo distratti in altre faccende. E con lo stesso sguardo distratto poi lasciamo passare la vita a rimpiangerlo. Invidiando santa Margaret Ward

venerdì 22 agosto 2025

XI. Non desiderare la fotografia degli altri


– Io la famosa pagina FB sulle mogli non l'ho vista (e quindi non dovrei parlarne). Non per un sussulto di moralismo; è proprio che non mi andava di vederla. Ci sono posti su internet dove vado molto volentieri: una pagina del genere non è tra i primi mille. Non ho il fetish per le foto rubate, non ho il fetish per i mariti arrapati, o per i cuck (che mi intristiscono), non ho il fetish per le pagine trash, ho abbastanza autostima da non avere bisogno di titillarla con lo spettacolo di chi sta peggio; non ho il fetish per il moralismo che potrei esprimere per l'occasione, insomma è tutto un insieme di cose che non mi attira quanto la Bibliotheca Sanctorum o i video dei cani che saltano nei corridoi. Ma vi garantisco che sono comunque una persona orribile, adesso per esempio scriverò un pippone ispirato a una pagina fb che non ho nemmeno visto, perché? Evidentemente ho questo specifico fetish.

– Senza averla vista, sono disposto a scommettere che il 95% dei contenuti non fossero immagini di mogli rubate alla loro insaputa, bensì foto saccheggiate qua e là, un po' di AI per i grulli che ci cascano, meme idioti ecc. Perché ne sono abbastanza sicuro? Perché è un gruppo di Facebook, e su Facebook tutto è così – se apri una pagina di barzellette, il 95% le copierà, ora, è più facile fregare un video alla congiunta o inventarsi una barzelletta? Io gestisco una pagina di santi del calendario, e il 95% vi garantisco è copiato ma mica da adesso, gli agiografi hanno iniziato a copiarsi nel III secolo.

– In particolare fatico a credere che un algoritmo addestrato a riconoscere i capezzoli femminili (non maschili!) anche sul vassoio di Sant'Agata abbia lasciato filtrare immagini particolarmente compromettenti, ma consentiamo che ci fossero. Il revenge porn in Italia è un reato, se incappate in roba del genere dovreste segnalarla all'istante sia ai gestori del network, sia alla polizia postale. Se invece decidete di diffondere indiscriminatamente la notizia che esiste questo tipo di pagina, non state realmente aiutando le vittime di revenge porn. State diffondendo un allarme sociale, che è un'altra cosa. Forse avete un po' il fetish dell'indignazione, e chi sono io per giudicarvi; ma se davvero pensate che lì dentro stiano avvenendo delle 'violenze a distanza' (ho letto questa espressione), chiamare altra gente ad assistere a questo tipo di violenze non è esattamente la cosa più rispettosa delle vittime. 

– Anche stavolta mi capita di notare questa cosa, che c'è gente convinta di poter essere violentata in effigie. A me sembra assurdo, insomma per quanto possa essere fastidioso scoprire che qualcuno concupisce le nostre immagini, una violenza sessuale mi sembra infinitamente più invasiva e dolorosa – ma non ho più la pretesa di convincere chi ci crede. Tutto sommato è una reazione istintiva che ci accomuna ai famosi indigeni che non volevano essere fotografati (in certe situazioni si è poi scoperto che non volevano essere fotografati gratis, cioè se vuoi la mia anima almeno fammi un prezzo). Non posso non notare che questo tipo di ragionamento (o di istinto), una volta elevato a sistema non potrebbe che condurci al divieto assoluto di riprodurre forme umane, e magari a un tipo di abbigliamento molto prudente che in effetti dall'Afganistan sta tornando di moda. Questa cosa che si potrebbe arrivare a un regime proibizionista e oscurantista per via matriarcale e non patriarcale un po' mi attizza, ma solo perché ho un fetish per i paradossi (e chissà se in passato non ci siano state civiltà completamente fasciate e sessualmente segregate, che abbiamo prese per patriarcati mentre invece...)

– Una tentazione proibizionista è sempre serpeggiata tra i movimenti femministi. Negli USA, appena le donne riuscirono a votare e a mandare qualcuno in parlamento, inaugurarono il proibizionismo (non funzionò molto); in Italia chiusero le case chiuse (a qualcosa è servito, se ne potrebbe parlare a lungo, comunque la prostituzione esiste ancora). Gira che ti gira, il desiderio maschile è un problema, a qualcuna risulterà IL problema, che può ispirare opzioni repressive. Il meme ormai frusto del "Not all men", alla fine allude a questo: un uomo fa presente (di solito in modo scomposto) che almeno lui può convivere con le proprie pulsioni senza essere un criminale, qualcuna le risponde che non è vero, sarà comunque un criminale in potenza e questo è già un rischio intollerabile.

 – Non credendo nel prossimo avvento di una dittatura matriarcale oscurantista, non mi sento tuttavia di escludere che prima o poi un'ondata femminista non si ritrovi a suo agio nel golfo di qualche comunità reazionaria, irresistibilmente attratta da una comune ostilità verso le pulsioni – almeno quelle maschili. Quella che chiamiamo cultura occidentale, una crosta molto sottile su un'irrazionalità in perenne tumulto, da qualche decennio sta sperimentando una proposta freudiana: proviamo a gestire i nostri desideri senza reprimerli troppo. Dove c'è tutto questo Id, proviamo a metterci più Ego: chissà che discutendone tutti assieme, sin dalla scuola dell'obbligo, e moltiplicando l'attenzione dei presidi medici e delle forze dell'ordine, chissà che non si possa vivere la sessualità in un modo più libero dei nostri bisnonni... No, ci dicono i talebani: non possiamo farcela. I desideri sono troppo distruttivi, serve più disciplina, servono steccati, proibizioni. No, ribadiscono le femministe: non sta funzionando, i femminicidi non calano – in realtà un po' calano – sì, ma non è abbastanza, e là fuori c'è ancora gente che si masturba guardando foto di persone che non hanno dato il loro consenso – oddio, se è tutto quello che fanno non mi sembra poi così grave – non ti sembra così grave? Sei un mostro.  

– Nel 5% di immagini realmente 'rubate' ci sarà pure una lieve percentuale di immagini che una donna si è lasciata scattare perché si fidava del partner. Immagino che molti, quando si scandalizzano della pagina, si scandalizzano di questa cosa, che effettivamente è la versione social dell'adulterio. Ora, il senso di certi comportamenti (non solo erotici) sta nei rischi che comportano: così come nessuno si allenerebbe a fare capriole in bicicletta se non ci fosse il serio rischio di paralizzarsi o morire, così il senso di lasciarsi fotografare in pose discinte da un partner sta proprio nel rischio che quest'ultimo si riveli uno stronzo. In una società in cui metà dei matrimoni si interrompono abbastanza presto, i video discinti sono prove di fedeltà molto più impegnative degli anelli di platino: 'fotografami pure' significa "puoi gestire la mia immagine, farne quello che vorrai, anche se so che non ne farai nulla di male perché mi fido di te, così come tu puoi fidarti di me perché ora possiedi la cosa più socialmente preziosa, e nel caso impossibile, assurdo in cui io ti tradissi, tu potresti disonorarla in pubblico, rendendomi per sempre reietta ai miei simili". Contro questa cosa, noi sul piano legislativo abbiamo varato misure precise anti-revenge-porn; sul piano educativo stiamo spiegando a tutti gli adolescenti che concedere immagini è sbagliatissimo, così come in generale fidarsi dei propri coetanei e (ahinoi) dei propri sentimenti nei loro confronti. Possiamo fare di più, senza sciogliere bromuro negli acquedotti, senza imporre burqa alle passanti, senza vietare l'internet? Probabilmente sì: possiamo sempre fare qualcosa di più, ma non credo che questo "di più" abbia a che vedere con gli allarmi sociali estivi. 

mercoledì 20 agosto 2025

Vittoria, non esattamente principessa del Madagascar

21 agosto: Beata Vittoria Rasoamanarivo (1848-1894), principessa del Madagascar?

Ho cercato un po' ovunque, tra biografie che si assomigliano tutte tra loro e che probabilmente derivano dalla stessa fonte, ma a quanto pare l'unica che assegna a Vittoria Rasoamanarivo il titolo di "principessa" è la wiki italiana, e a questo punto forte sarebbe la curiosità di capire il perché – ma non così forte, dopotutto è agosto, fa caldo, probabilmente qualcuno avrà copiato da una pagina che nel frattempo ha rettificato. Noi italiani in particolare di araldica capiamo poco: i titoli nobiliari li abbiamo aboliti, e persino chi li rimpiange non ha fatto i compiti, non sa come funzionano; altrove c'è più rigore, anche per queste sciocchezze. Si può notare come sul calendario questi siano giorni generosi di regalità; l'altro giorno era Sant'Elena Imperatrice, mentre il 22 si celebra la Beata Vergine Regina, e così qualcuno avrà pensato che in mezzo a tante teste coronate la povera Vittoria, senza un titolo, rischiava di sembrare, come certe signore ai ricevimenti, una serva che si sia appena liberata del vassoio. Vittoria era senza dubbio di nobile lignaggio, nipotina di un primo ministro e in seguito sposa del Capo di Stato maggiore, ma principessa? Bisognerebbe vedere il titolo in malgascio. 

Quel che è interessante è che in effetti la biografia della beata Rasoamanarivo si attiene al millimetro ai modelli delle sante principesse e regine altomedievali: conoscono la fede cristiana grazie a dei missionari (nel suo caso gli insegnanti gesuiti francesi), la diffondono a corte e nel popolo con opere di beneficenza e vincendo la diffidenza di mariti rudi, pagani e violenti (il marito era rude, ubriacone e protestante) che dai e dai si convertono alla buona novella; nel caso di Vittoria, probabilmente il marito non aveva più scelta, era caduto dal balcone di una giovane amante e ne aveva riportato ferite fatali; invece di lasciarlo in un pozzo di sangue Vittoria accettò di accudirlo fino alla fine ma in cambio il poveretto dovette lasciarsi battezzare, era il minimo. Questo tipo di principesse o regine non esercita mai il potere politico – e questo malgrado il Regno del Madagascar avesse una certa connotazione matriarcale, nell'Ottocento sul trono sedettero perlopiù regine – la loro sfera rimane quella religiosa; vegliano sul Regno e intercedono per i sudditi, un po' come è previsto faccia la Madonna alla corte di Cristo Re. Le biografie spiegano che la Rasoamanarivo giocò un ruolo importante a corte, difendendo la minoranza cattolica anche in quel paio d'anni in cui il cattolicesimo fu messo fuori legge; a riportare i gesuiti sull'isola, più che le sue preghiere, fu il congresso di Berlino del 1878 che aveva destinato la grande isola all'impero coloniale francese. 

Fino a quel momento la dialettica tra cattolici e protestanti aveva avuto un significato anche nazionalista: Ranavalona I la Crudele (1828-1861), dopo aver probabilmente avvelenato il re suo marito, aveva espulso i missionari e proibito il cristianesimo. Durante il suo regno ventennale i francesi si erano fatti avanti sventolando delle concessioni che Radama II, figlio di Ranavalona, aveva firmato nella speranza di ottenere un aiuto europeo per spodestare la madre. A dire il vero Napoleone III non fece un granché, nemmeno quando alla morte di Ranavalona, il figlio era salito al trono, attuando una politica di tolleranza religiosa e avvicinamento alle potenze europee così poco apprezzato dalla gerarchia al potere, che nel giro di due anni era già stato fatto strangolare dal primo ministro Rainilaiarivony. Quest'ultimo avrebbe prontamente sposato la vedova di Radama, che saliva al trono col nome di Rahoserina, nonché le due regine che le succedettero, le quali perseguirono generalmente una politica filobritannica che probabilmente era vista come l'unica in grado di tenere l'isola al riparo dagli interessi francesi. Questa politica si traduceva in un'adesione alla religione protestante e, nei periodi di maggior tensione, all'espulsione di gesuiti e altri cattolici. Non servì a nulla: a Berlino si era deciso altrimenti, anche se i francesi ci misero comunque molti anni ad arrivare. L'invasione vera e propria, con la rivolta sanguinosissima che ne seguì, sarebbe cominciata soltanto nel 1895; a quel punto Vittoria era già morta, di malattia, ad appena 46 anni. Nel 1989 è stata proclamata beata da Giovanni Paolo II, che non lasciava mai una tappa di un suo viaggio senza avervi riconosciuto un attestato di santità, o almeno di beatitudine. Credo sia la prima Beata del Madagascar, e in quanto tale che bisogno ha di essere chiamata principessa? I titoli, che valgono così poco già in terra, in cielo non hanno più senso.

martedì 19 agosto 2025

Il giorno dei Magni

19 agosto: San Magno di Trani, di Anagni, di Cesarea di Cappadocia, di Cuneo...

Cripta della Cattedrale di Anagni

Dei Santi Magni è sempre lecito diffidare; non solo della loro santità, ma della loro stessa esistenza. Perché dovrebbero chiamarsi così? Se ci riflettete, Magno non era nell'antichità un nome individuale, ma un aggettivo ("Grande"): né sembra aver particolarmente attecchito negli archivi battesimali del Medioevo. Non solo, ma sappiamo che già i Romani ne avevano fatto una specie di titolo onorifico, sul calco del "Mega" greco. A esserne insigniti, molto prima dell'imperatore Carlo Magno, erano stati patriarchi e pontefici come Leone I. A differenza di altri aggettivi onorifici (tra cui ad esempio "Santo"), il termine "Magno" non è mai passato attraverso un processo di istituzionalizzazione: semplicemente a un certo punto qualche cronista decide che tu sei un Grande, comincia a scrivere "Grande" dietro il tuo nome, e a volte la cosa prende piede. Ma tante altre volte la proposta potrebbe aver fallito, e non lo sapremmo proprio perché nessuno l'ha ripresa. Non è affatto impossibile, ad esempio, che in un elenco di vescovi di Trani poi andato perduto, al nome di Redento, sulla prima riga, il compilatore avesse deciso di far seguire l'aggettivo "Magno": in fondo era il primo vescovo, quindi il fondatore della Diocesi, e per quanto se ne sapesse poco, chi altri avrebbe meritato di essere definito Grande? Dopodiché passano gli anni, a volte i secoli, la pergamena si rovina e il copista che si preoccupa di trasferirne le informazioni non si accorge lì per lì della grandezza di Redento (un tizio di cui, in effetti, non si sa quasi nulla). Ha fondato la diocesi di Anagni, ah beh, capirai... Per cui scrive "Redento", e magari mette un trattino o un altro sbaffo, o addirittura, se la pergamena non gli manca (ma mancava quasi sempre), va a capo, scrivendo "Magno": ed ecco gemmare un secondo vescovo di cui si sa ancor meno del primo, il che a volte può dare a un agiografo lo spunto per agganciarlo a una leggenda. Sappiamo del resto che a Trani queste leggende scarseggiavano al punto che qualche secolo più tardi un vescovo decise di intitolare la nuova Cattedrale a uno sconosciuto appena arrivato dalla Grecia che nemmeno sapeva parlare la lingua locale: letteralmente un Beota – ma si chiamava Nicola, e un San Nicola in Puglia è sempre garanzia di lustro e turismo religioso. 

Di San Magno invece nessuno sapeva niente; benché fosse conosciuto come "Magno di Trani", la base del suo culto era sull'altro versante della penisola, ad Anagni. Difficile capire il perché – una leggenda, molto tarda attesta semplicemente che Magno, dopo aver contribuito ad evangelizzare le sue terre, si era spostato verso la Campania e il Lazio, sempre evangelizzando e convertendo: dunque più un missionario che un vescovo stabile, ma dopotutto era solo il terzo secolo, la differenza tra i ruoli poteva essere sottile. Annotiamo che mentre Trani è un centro portuale (e quindi più sensibile al nome di San Nicola, che nel Medioevo era il più invocato tra i navigatori), Anagni, e in genere il frusinate, è terra di pastori. Il Magno che è arrivato fino a noi non sembra avere molto a che fare con la pastorizia: il suo ruolo sembra essere quello di ingrandire la cattedrale di Anagni, apparendo periodicamente ai vescovi per suggerire restauri e ampliamenti. A parte questo, si sapeva che era originario di Trani e che era morto durante le persecuzioni dell'imperatore Decio in una grotta a Fondi, proprio mentre diceva un'ultima preghiera davanti ai legionari che stavano per arrestarlo. Dopodiché i legionari avevano deciso di decapitarne ugualmente il cadavere – episodio singolare, che forse serviva a rassicurare i fedeli sul fatto che Magno fosse da considerare un martire. Tutto questo sarebbe avvenuto il 19 agosto del 251, da cui la consuetudine di ricordare il martirio di San Magno ogni 19 agosto. Curiosamente, lo stesso giorno si festeggiava un altro Magno originario di Cesarea di Cappadocia: oggi è una regione della Turchia, ai tempi faceva parte del settore grecofono dell'impero, per cui il nome Magno appare ancora più incongruo: e del resto di lui non parla nessun martirologio o sinassario bizantino, bensì un agiografo veneziano (Pietro de' Natali) del XIV secolo. 

Questo Magno, martirizzato sotto Aureliano imperatore, viene prima condannato al rogo (ma ne rimane illeso), e poi a essere sbranato dalle belve, che lo risparmiano: uno spettacolo che ottiene la conversione immediata di 2597 spettatori. A questo punto pare sia lo stesso Magno a implorare Dio di accelerare la pratica del martirio, così che un successivo tentativo mediante lapidazione ottiene finalmente il risultato sperato. Anche i 2597 neoconvertiti vengono rapidamente martirizzati, non ho capito con che sistema. De' Natali forse stava cercando di ricostruire un'agiografia a partire da brandelli che provenivano da leggende diverse: ad esempio il 19 agosto si festeggiava anche un Sant'Andrea-Magno, ufficiale romano che aveva guidato una legione in una vittoria contro i Persiani; li aveva però anche convertiti al cristianesimo, il che ne avrebbe causato il martirio a opera del governatore Seleuco. La leggenda somiglia sospettosamente a quella di San Maurizio e della Legione Tebea, il che ci offre un'ipotesi per spiegare la labile esistenza di un altro San Magno, quello di Cuneo. Nel santuario di Castelmagno, che prende il nome da lui (o è lui che prende il nome dal Castello?) è raffigurato come un soldato – del resto il sito del santuario era in epoca pagana sacro a Marte – ed è tradizionalmente presentato come un sopravvissuto dello sterminio della Legione Tebea. La leggenda della Legione è particolarmente diffusa nel Piemonte occidentale: molte colline e monti reclamano il passaggio di uno o più superstiti che avrebbe contribuito a evangelizzare la zona. È probabile che si tratti di una strategia per nobilitare personaggi anticamente venerati di cui si era perso tutto tranne il nome, e nel caso di Magno forse anche quello: magari molto prima dell'erezione del santuario, sulla collina esisteva un Castello abbastanza grande (Castellum Magnum).

Santuario di San Magno a Castelmagno
Di Zairon - Opera propria, CC BY-SA 4.0

A questo punto immagino i tre lettori superstiti completamente perduti e avviliti. Vi capisco, mi sto perdendo anch'io. Ricapitoliamo: di Santi Magno ce ne sono parecchi, e in particolare parecchi si festeggiano oggi, 19 agosto. Non è così strano – nel Basso Medioevo si assiste spesso al fenomeno per cui i santi omonimi vengono celebrati nello stesso giorno – ma ci induce a dubitare un po' di più dell'esistenza di santi dal nome, peraltro, già molto sospetto. Ad Anagni (FR), il 19 agosto è venerato un San Magno che risulta secondo vescovo di Trani (BAT), anche se laggiù ne hanno sempre saputo pochissimo; nello stesso giorno, a Cuneo si festeggia un San Magno che forse prende il nome dal Castello che sorgeva dove ora sorge il suo santuario (Castelmagno); un Andrea che qualcuno chiama "Magno" che avrebbe convertito una legione intera, sul modello (molto apprezzato nell'arco alpino) di San Maurizio; sempre nello stesso giorno, un agiografo veneziano del Trecento decide di sistemare un fantomatico Magno di Cesarea di Cappadocia, che avrebbe convertito in un colpo solo 2597 fedeli, anche se a Cappadocia e in tutto l'Impero d'Oriente nessuno ne ha mai sentito parlare. Ora, secondo la Bibliotheca Sanctorum, quest'ultimo misterioso Magno potrebbe essere un riadattamento occidentale di un altro santo di Cesarea, questo sì molto conosciuto in patria e non solo: San Mame, o Mamete. Malgrado il nome esotico, è un santo discretamente popolare anche in Italia, per via delle leggende che lo riguardano, molto fantasiose ma imperniate su un dettaglio cruciale: Mamete è un favoloso pastore, in grado di mungere qualsiasi animale della foresta e persino della giungla. Grazie a lui ai martiri in prigione non mancava mai latte e formaggio; lo invocano le puerpere esauste e gli allevatori affamati; si festeggia anche lui in questo periodo dell'anno (17 agosto), ed è proprio il tipo di santo che sarebbe piaciuto ai frusinati (proprio come il Magno soldato sarebbe andato a genio agli abitanti di Cuneo, zona di roccaforti militari). Dunque il Magno di Anagni, prima di diventare il misterioso Magno di Trani, avrebbe potuto essere il Magno di Cesarea, ovvero Mamete di Cesarea... è ovviamente un'ipotesi, ma a questo punto credo che il lettore superstite potrebbe essere interessato a scoprire come arrivino ad Anagni i resti di questo santo molto elusivo. Li ricopio da Wikipedia, perché davvero non potrei essere più chiaro:

I suoi resti furono traslati da un certo Platone a Veroli[1], dove fu sepolto nella cripta della Basilica di Santa Sàlome. Nel corso del IX secolo, durante le invasioni dei Saraceni, un gruppo di Arabi capitanati dallo sceriffo Muca, occuparono Veroli e usarono senza riguardi la cripta dove era custodito il corpo di san Magno come stalla per i loro cavalli. Il mattino successivo, tornando alla cripta, trovarono tutti i cavalli morti ed attribuirono l'avvenimento ad un artifizio operato dal santo per far rispettare la sua tomba. Profanarono allora il sarcofago e buttarono i resti del santo fuori dalla chiesa. Muca però, sapendo della devozione degli abitanti di Anagni per la figura di san Magno, fissò la vendita delle reliquie ad un prezzo altissimo, in oro.[1] Gli Anagnini accettarono ed il corpo di san Magno venne accolto nella città e sepolto nella cripta[4], che costituisce il fulcro originario della Cattedrale.

Prevengo la tua domanda, mio buon lettore: come faceva questo sceriffo Muca, pirata e profanatore, a conoscere la "devozione degli abitanti di Anagni per la figura di san Magno"?  Come saranno andate davvero le cose? Proviamo a immaginare: un commando saraceno mette le mani su un sarcofago. Ovviamente lo profanano – se non altro per verificare se al dito del santo non ci sia ancora qualche prezioso anello, o sulla testa un copricapo in seta, insomma qualcosa di rivendibile. Molto probabilmente non trovano nulla, solo ossa e polvere. Non rinunciano però all'affare. Si fanno vivi sotto le mura di Anagni e propongono un affare: qualcosa in cambio di quelle ossa e quella polvere che, per il solo fatto di essere state contenute in un sarcofago prezioso, un minimo di importanza lo devono avere. Magari, prima di Anagni, Muca ha tentato l'affare altrove, ma è ad Anagni che trova qualche notabile interessato: forse perché ad Anagni di santi abbastanza interessanti non ce n'erano ancora, e nel frattempo c'era una cattedrale da rimettere a posto. Dunque, insomma (dice Muca), io avrei queste ossa che sono senz'altro appartenute a un sant'uomo. 

A quale sant'uomo, gli avrà chiesto il vescovo di Anagni. 

Perché, fa differenza? domanda un po' sorpreso lo sceriffo.

Ne fa moltissima, ribatte il vescovo. Per noi è importante dare un nome alle ossa che conserviamo.

Pensavo che foste tutti uguali davanti a Dio.

Certo che siamo tutti uguali davanti a Dio, testone di un Saraceno, ma scommetto che il giorno che ti farai seppellire lo vorrai scritto il tuo nome accanto alla fossa...

In effetti, concede lo sceriffo.

...in quei caratteri di merda di gallina di voi infedeli...

Ehi ehi ehi, non cominciamo con l'odio interreligioso. A parte che la nostra calligrafia è straordinariamente elegante e superiore alla vostra, ma siamo qui per concludere una transizione. Le volete queste ossa di un uomo importante? Perché se non le volete, siamo già in parola col vescovo di Frosinone, che...

Ma che vescovo di Frosinone, stai bluffando. Senti, mi serve un nome. Ci sarà pur stato un nome sul sarcofago che hai rubato.

E certo che c'era, ma era scritto nei vostri brutti geroglifici, cosa volete che ne sappiamo noi? Di sicuro era una grande persona, c'era scritto in effetti qualcosa come Magus, Magnu...

Magnus. 

Infatti, una grande persona.

Nient'altro? Solo "Magnus"?

Nient'altro che io possa ricordare. Ma sono sicuro che vi potete inventare il resto. E quindi?

Non so, è solo un mucchietto di ossa, sai quanti ne potrei trovare scavando un poco qui intorno?

Eminenza, mi prendi in giro? Certo che puoi trovare mucchi di ossa dappertutto, ma questi te li sto offrendo io, e a quest'ora lo sa già tutta Anagni e un pezzo di Gavignano. Se lo stanno già tutti raccontando, che c'è uno sceriffo saraceno che vuole rendere i resti di un Santo al vescovo. Sono queste le ossa che la gente vorrà venire a vedere; quelle che io ho profanato.

Le hai profanate?

Non lo so, probabilmente sì, devo averle buttate per terra a un certo punto.

Le hai profanate. Dio ti punirà per questo.

Bravo, ecco, gli racconterai che Dio mi ha punito, mi ha fulminato secco, anzi no perché sono ancora qui a rendertele, ma non so, potresti dire che mi ha fulminato i cavalli.

È successo?

Sono un pirata saraceno del secolo IX, non è che mi porto tutti questi cavalli sulle navi, ma insomma devo inventarmi tutto io? Sei tu che conosci i tuoi polli, io sono solo qui con una fornitura di becchime. 

Becchime? Pensavo che volessi vendermi i resti di un santo.

Era una metaf... lascia perdere. In questo sacco ci sono i resti, ok? Diciamo dieci pezzi d'oro.

Cinque.

Ah, vabbè, i miei ossequi, a Frosinone me li comprano per dodici.

Sette.

Otto, e mi procuri un cavallo.

domenica 17 agosto 2025

Pippo, l'inimitabile

 EBay. 
Sarà molto difficile (e probabilmente inutile) spiegare agli italiani di domani la centralità culturale di Pippo Baudo verso la fine del Novecento italiano: il motivo per cui quando Bracardi cantava "Ci vorrebbe Pippo Baudo a governà", nessuno in cuor suo poteva dargli troppo torto. Baudo sarebbe stato un governante migliore di tanti: avrebbe scoperto ministri nuovi e capaci, e dato miglior lustro a vecchi tromboni ancora in grado di brillare – se diretti bene. La sua meritocrazia non sarebbe stata perfetta, ma migliore di altre che abbiamo visto in scena; i rapporti col Parlamento, ottimi; le conferenze stampa, non fiume: perché Baudo non amava i monologhi, era un presentatore vero. E gli italiani gli volevano bene come a un parente che si incontra spesso – a tutte le feste comandate – anche se non ha mai fatto troppo parlare di sé, anzi proprio perché non ha mai rubato la scena a nessuno. Ma ha più importanza?  

Non credo. Gli italiani di domani di cose da rimproverarci ne hanno in abbondanza, senza troppo interrogarsi su questa perversione tutta nostra per cui se uno è bravo a presentare sarà anche un ottimo direttore artistico – il motivo per cui ancora oggi un Amadeus o un Conti diventano improvvisamente personaggi importanti e potentissimi da cui dipende il mercato discografico e lo showbusiness, e il giorno prima stavano leggendo le domande ai concorrenti nel preserale, che senso ha? Nessun senso. È in qualche modo colpa di Pippo Baudo, o meglio è colpa di chi come noi si è convinto che Pippo-Baudo non fosse una persona in carne e ossa ma, come Faraone, una carica imperiale: che dopo Pippo Baudo avremmo avuto altri PippoBaudi presentatori/direttori/talentscout compresi in un solo corpo, in unione ipostatica. Non è vero, non si vede perché dovrebbe esserlo, e gli italiani di domani non ci crederanno: del resto non guardano la tv (né si vede perché dovrebbero) per più di venti secondi; questo tipo di fruizione rapsodica, saltellante di clip in clip, è l'esatto opposto di quella che ci avvolgeva in quegli anni Ottanta in cui Baudo divenne, se non l'ideatore, certo l'imperatore della diretta-flusso, un minestrone lunghissimo di cui oggi Techetecheté può al massimo riproporci gli ingredienti più saporiti, mentre quello che veramente ricordiamo noi è il brodo che non potevamo evitare: troppo giovani non solo per uscire, ma anche per cambiare canale. Appena fu possibile, ci congedammo e Pippo Baudo, come i migliori parenti, non fece più di tanto per trattenerci. Al massimo, se ci capitava in un sabato uggioso di trattenerci in casa, lo ritrovavamo al suo posto e non c'era nulla di più rassicurante.  

Per quanto non sia stato il primo conduttore di Domenica In (una diretta mostruosa, che occupava tutto il pomeriggio festivo), vi arrivò abbastanza presto e naturalmente, come l'attore che scopre il testo teatrale più adatto a far brillare le sue capacità; qualunque altro suo collega a quel punto si sarebbe detto soddisfatto di regnare sulla domenica degli italiani, ma lui no: a un certo punto riuscì a mettere assieme la diretta del sabato sera (Fantastico) con quella della domenica pomeriggio; sempre nello stesso periodo Fantastico fu sottoposto a quel processo di dilatazione che da quel momento è diventata la principale caratteristica, e la peggiore magagna, delle trasmissioni italiane in chiaro; non finiva mai, c'era sempre qualche ospite o qualche collegamento, chi si addormentava sul divano non era del tutto sicuro che Fantastico non durasse alla fine tutta la notte, e che anche durante la diretta della Messa domenicale, Pippo Baudo non stesse ancora presentando qualcosa davanti a telecamere che restavano momentaneamente spente solo in ossequio a Sua Santità – chi altri avrebbe avuto il coraggio di interrompere Pippo Baudo? Persino Sanremo, prima di Baudo, erano tre serate e a mezzanotte si tirava la serranda.

Questa necessità di un'estrema irradiazione tradiva già allora qualcosa di patologico. Ci sono persone che usano la tv per diventare famose; dopodiché magari restano in tv perché quel tipo di fama non sopravviverebbe altrove, però per loro la tv resta uno strumento, magari l'unico che hanno imparato a usare. Baudo no, Baudo fa parte di un gruppo di persone che non so se esista anche in altri Paesi, che diventano famose per andare in tv, dopodiché vita e tv coincidono e a un certo punto non ha più senso domandarsi come mai continuino a essere lì, e cosa stiano esattamente facendo; voi smettereste di andare in bagno, in cucina, in camera da letto? Ecco, Enrico Mentana non può smettere di andare in diretta (anche se a una cert'ora non ci sono più notizie: del resto la notizia è lui), né poteva smettere di farsi inquadrare Maurizio Costanzo, anzi la tv serviva a Maurizio Costanzo per sopravvivere grazie alla nostra attenzione, più che a noi per assistere a interviste di Maurizio Costanzo. Baudo sarebbe rimasto importante e potente anche se avesse presentato un po' meno, ma quando per qualche motivo effettivamente gli capitava di allontanarsi dalle telecamere, tutti avevamo la sensazione che ne soffrisse molto. Il periodo di astinenza durava qualche stagione, durante le quali provava magari a fare altro (una volta andò in tournée con una commedia musicale!) Inevitabilmente tornava in tv, un po' invecchiato – come tutti: ma nel suo caso era impossibile non avvertire la sensazione che Baudo deperisse soltanto lontano dai riflettori televisivi. Per questo motivo non poteva tenersene lontano, e non per una mania di protagonismo che non gli abbiamo mai imputato; Baudo aveva capito da subito, istintivamente, che il presentatore è un maggiordomo, a volte un intervistatore, persino un dj, e spesso una spalla comica; in quest'ultimo ruolo in particolare Beniamino Placido riconobbe la sua superiorità su tanti altri presentatori che magari avevano più personalità, ma in questo modo rischiavano di distrarre il pubblico, di offuscare la stella in scena. 

Baudo non correva mai questo rischio: tutti oggi ricorderanno tanti talenti da lui scoperti e lanciati, ma lui era in grado di far brillare personaggi men che mediocri; accanto a lui anche un intervento del corvo Rockfeller (il burattino del ventriloquo più scarso mai visto in tv) diventava un evento. La natura gli aveva dato la prestanza adatta; un'altezza notevole ma non troppo, che è una caratteristica di tante spalle comiche, dai clown bianchi in poi fino a Pinotto, Ciccio Ingrassia, Raimondo Vianello; e una voce stentorea e inconfondibile, che secondo Gigi Sabani non si poteva imitare. Lui perlomeno – imitatore ufficiale della tv italiana anni '80 – non ci era mai riuscito, e ogni volta che in un'intervista lo ammetteva, il dubbio ci attraversava: non ci riesce perché effettivamente il timbro ha qualcosa di imponderabile, un'alchimia che coinvolge soltanto il microfono che gli ha davanti e che diffusa via etere riesce a ipnotizzare milioni di italiani ma non può essere riprodotta, come il volto della vergine della Guadalupe che perde il suo incanto se provi a fotografarlo? O non sarà semplicemente che Sabani non ci riusciva perché Baudo era troppo potente e non avrebbe mai accettato di sentirsi ridotto a un tormentone, come era successo a Mike Bongiorno ("Allegriaaa!") e allo sventurato Enzo Tortora ("Orrore"?) Bisogna dire che anche in seguito, quando arrivarono imitatori più tecnicamente dotati di Sabani, nessuno riuscì a produrre un'imitazione di Baudo di cui si conservi memoria. L'unica che mi resta in mente purtroppo è quella agghiacciante che gli autori di Drive In delegarono a Gianfranco D'Angelo; uno sberleffo livido e prolungato che non risparmiava Katia Ricciarelli, e che prevedeva sketch in cui Baudo allevava e addestrava i suoi parrucchini – che vergogna, ricordarsi di queste cose. Tanto livore ai tempi poteva stupire (non avevamo ancora capito che il livore era la musa specifica di Antonio Ricci) e veniva magari associato al fatto che Baudo fosse un traditore: uno dei primi a passare dalla Rai a Mediaset, e il primo a tornare indietro. Interessante è anche il motivo per cui Baudo non poteva funzionare, su quella Canale 5 in cui Mike Bongiorno, Corrado e Vianello trovarono l'habitat ideale; per questi tre, non si trattava che rifare sé stessi, ma tutti i giorni invece che una volta la settimana, e con stipendi congruamente moltiplicati. Per Baudo invece si trattava di rinunciare alla diretta, e magari lui stesso in un primo momento era convinto di poterci riuscire – salvo scoprire che invece no, anche una lieve differita gli toglieva il senso di quello che stava facendo, come un Rocco Siffredi che avesse firmato un contratto milionario per scoprire troppo tardi che il nuovo impresario non avrebbe potuto permettersi attrici vere ad affiancarlo, bensì costosissime e confortevoli bambole di plastica. Baudo senza diretta moriva: non è forse un caso che nel momento in cui per qualche motivo dovette temporaneamente allontanarsene, non pensò di sostituirla col cinema, ma col ben più faticoso teatro. 

La sua vita era la sua arte, e la sua arte doveva avvenire davanti a tutti, in comunione spirituale con un Paese intero; a parte questo, Baudo non chiedeva niente, non era niente. Pur di apparire una volta alla settimana davanti a tutti, aveva rinunciato ad avere una personalità propria, delle idee, dei gusti: la Prima Repubblica del resto non imponeva confessioni pubbliche di fede; al massimo una vigilanza attenta sul repertorio dei comici, per cui il corvo Rockfeller probabilmente risultava molto meglio gestibile di Beppe Grillo (ecco, magari Ricci ce l'aveva anche per l'estromissione di Grillo). Che abbia in un qualche modo 'scoperto' Franco Battiato non può sorprendere: Battiato in quel momento andava comunque fortissimo e stava proponendo esattamente quel tipo di musica che Baudo sapeva che in quel momento avrebbe funzionato, popolare ma misteriosa, apparentemente colta, ideale da programmare tra la presentazione di un libro e una puntata di Happy Days. Ma di Battiato, Pippo Baudo amava più di tutte Mal d'Africa, la canzone più satura di reminiscenze di un'infanzia siciliana, e in questo si tradiva come raramente l'ho visto fare: un'altra volta mentre un discorso da talk virò senza preavviso sulla ricetta della cassata (e gli si illuminò il viso, e si mise a opporre agli interlocutori degli argomenti suoi!), oppure quando combinò come in un agguato l'incontro tra Franchi e Ingrassia. 


Concludo con un aneddoto la cui fonte che non riesco a rintracciare, per cui magari me lo sono fabbricato in sogno: in quel caso perdonatemi. Così come l'accentramento del potere nelle mani dell'imperatore, a partire almeno dal secondo secolo, è una diretta conseguenza della pressione dei popoli barbarici, così l'impero di Baudo sulla tv nazionale è una conseguenza diretta dell'invasione, nei primi anni Ottanta, delle reti private. Prima i palinsesti erano troppo angusti; dopo ci fu spazio in abbondanza, e Baudo era patologicamente adatto a lasciarseli affidare. Oggi ovviamente se pensiamo alle reti private, ci viene in mente Berlusconi, che però arrivò in un secondo momento e non ne apprezzava affatto i sapori regionali; voleva semplicemente rilevarne il più possibile e trasformarle in un network nazionale che avrebbe affidato ai volti già noti della RAI. Ma all'inizio le reti private erano qualcosa di completamente diverso – qualcosa di sgangherato e irresistibile. Una delle prime nacque in Sicilia, e il fondatore pensò bene, per il programma inaugurale, di chiedere consiglio a Pippo Baudo: a cui la RAI non aveva ancora fatto firmare nessun contratto esclusivo, del resto fino a quel momento l'esclusività era garantita dal monopolio nazionale. Baudo non si limitò a concedere la sua augusta presenza, ma volle presentare una diretta fiume, e a quel che mi sembra di ricordare, rimase davanti alle telecamere per venti ore. Probabilmente chi detiene le bobine della trasmissione ha in cassaforte il Pippo Baudo più schietto, libero di essere sé stesso, un po' più siciliano di quanto Roma gli consentiva di essere. Probabilmente non il Baudo che amiamo, e neanche quello che meritiamo. 

Dopodiché, non ha più molta importanza. Pippo Baudo è morto. Qualcuno a questo punto sentirà l'esigenza di rispondere "Viva Pippo Baudo", ma no: questo tipo di risposta aveva un preciso senso, nella liturgia della corona francese, e serviva a identificare immediatamente l'erede al trono. Pippo Baudo non ha avuto successori: non erano previsti. Lui stesso non li ha indicati, e se non li ha indicati lui non si vede chi altro possa averne trovati. È sopravvissuto per anni alla televisione che ha creato, alle esigenze che assolveva, e poi un sabato sera anche Pippo Baudo è morto: fine. I posteri faranno fatica a capire, ma sarà l'ultimo dei loro problemi.

sabato 16 agosto 2025

E tu che antisemita sei?

Milano Today

Così il presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi, ha concesso un'intervista alla Stampa che non passerà alla Storia per la palese disinformazione ("per 18 anni Gaza è stata libera") esibita senza contraddittorio, né per il lapsus biblico ("Crosetto crede di essere il Messia quando dice che bisogna fermare Israele?" Evidentemente solo al Messia spetta il diritto...), ma per il finale rossiniano in cui il PD viene presentato come una banda di antisemiti che se non hanno ancora cominciato a sparare agli ebrei "in strada", è solo grazie all'intercessione di Giorgia Meloni, novella Ester. Così dice Meghnagi, ma alla fine Meghnagi chi è? Perché dovremmo aspettarci parole sagge da lui? La comunità ebraica di Milano, che pure è la seconda più grande d'Italia, conta appena settemila membri: non riempirebbero un piccolo comune montano. Se intervistassimo il sindaco di un piccolo comune montano su problemi tanto vasti e complessi, forse non ci stupiremmo nel sentirlo inanellare tante sciocchezze. Non è forse già antisemitismo questo: aspettarci da una minuscola comunità una assai più raffinata capacità di analisi, semplicemente perché non si tratta degli abitanti di Copparola di Sotto, ma di una comunità ebraica? Perché settemila ebrei dovrebbero esprimere presidenti più intelligenti di settemila italiani presi a caso? Annosa questione. Sarei tentato di rispondere: perché gli ebrei, storicamente, nell'intelligenza hanno investito molto più di tanti altri. Era la loro specialità, la strategia più efficace che avevano trovato per sopravvivere, e non si può negare che per secoli abbia funzionato abbastanza bene. Col sionismo, purtroppo, è stata decisamente messa da parte in favore di altre strategie più tipiche dei nazionalismi europei, determinando una regressione intellettuale che è tanto evidente quanto sottaciuta

Per quanto mi riguarda, e non so quanti punti antisemitismo mi verranno attribuiti, ho stabilito che Meghnagi è in buona fede, e merita un sincero compatimento. Ci crede davvero, poveraccio: Giorgia Meloni, depositaria di un'eredità politica che se non è proprio quella di Mussolini è senz'altro quella di Almirante, è l'unico ostacolo che impedisce a Schlein e Conte di indire nuovi ed efficaci pogrom in tutt'Italia. Meghnagi è vittima, come tanti, di una propaganda israeliana che mira a dimostrare come l'Europa sia un luogo inospitale per gli ebrei (malgrado non ci sia un Paese europeo dove gli ebrei siano statisticamente meno sicuri di Israele): questa inospitalità europea, questa necessità di mollare tutto e venire a vivere in una strisciolina di Medio Oriente, a combattere e figliare, viene sancita dai vari Osservatori sull'Antisemitismo, che ogni giorno scoprono nuovi episodi di odio e intolleranza, quasi sempre "antisemitismo-di-sinistra", perché su quello di destra in questo momento storico è meglio glissare. E siccome, malgrado l'intenso battage, gli antisemiti di "sinistra" battano molto la fiacca e in tanti anni non siano riusciti non dico a far fuori, ma anche solo a schiaffeggiare un minimo ebreo italiano, ci tocca periodicamente assistere campagne ridicole come quella del ristorante napoletano, o della rissa in autogrill. Quest'ultimo caso è stato abbastanza da manuale: da una parte un genitore francese di religione ebraica, con suo figlio; dall'altra un gruppetto di italiani di origine araba, forse in grado di capire le sue male parole. Ora non so voi, ma se io mi fossi trovato, semita, accerchiato da una banda di antisemiti ostili – come racconta il tizio – per prima cosa avrei messo in sicurezza mio figlio; senz'altro non avrei perso tempo a estrarre lo smartphone e a documentare la situazione, commentando "ça c'est l'Italie", come se un autogrill ne fosse la rappresentazione più degna (e forse lo è). Se poi dalle parole si fosse passato agli schiaffi e alle testate, mi sarei comportato come hanno fatto gli italiani: pronto soccorso, referto, denuncia. La giustizia funziona così in Italia, ma anche in Francia, direi: e allora perché il tizio francese non ha fatto così? Perché ha deciso di puntare su una ripresa video che non dimostra un granché? È come se per lui la questione fosse più mediatica che giuridica; molto prima che in tribunale, l'antisemitismo va portato sui social, va condiviso, ognuno deve contribuire con la propria story in cui si fa prendere a male parole dagli indigeni, ognuno deve portare il suo mattoncino per costruire il muro, pardon, la barriera difensiva che salvi una buona volta Israele dall'universo ostile e antisemita che lo circonda. 

C'è antisemitismo in Italia? Certo. C'è qualsiasi cosa, perché non dovrebbe esistere anche l'antisemitismo. È anzi probabile che esistano più antisemiti che ebrei, perché questi ultimi sono a quanto pare intorno ai 35.000, come gli abitanti di Belluno; e soprattutto sono ripartiti in modo molto diseguale, per lo più in centri urbani importanti (un terzo a Roma). 

1) C'è quindi uno specifico tipo di antisemitismo – quello tribale, dei vicini di casa o confinanti di quartiere – che prima del 1943 era l'antisemitismo più storicamente diffuso, ma se oggi esiste non può che essere fortemente residuale: tranne appunto che in questi centri urbani importanti. Altrove, questo specifico tipo è abbastanza incomprensibile, persino nelle due città in cui ho vissuto io, in cui gli ebrei hanno lasciato testimonianze architettoniche evidenti, e però non ci sono praticamente più; nel frattempo sono arrivate centinaia di migliaia di altri abitanti (tra cui io) che di questa presenza storica non hanno nessuna memoria, è una cosa che riscoprono a scuola, se sono un po' curiosi e se lo sono i loro insegnanti. Dopodiché esiste:

2) L'antisemitismo nostalgico di fascisti e postfascisti. Questo forse è il tipo più astratto, perché deriva completamente da una tradizione che come tante tradizioni è un po' posticcia; non risale a molto prima del 1938. Il fascista di oggi dovrebbe in teoria odiare l'ebreo in quanto emissario di una piovra internazionale che mira a controllare il mondo – e a impedire che lo controlli la razza ariana. Una cosa interessante di questo tipo di antisemiti è che devono ammettere di essere stati sconfitti ancor prima di nascere. Il che magari li predispone a voltafaccia o compromessi storici: così come i fascisti sono diventati antisemiti nel 1938 perché lo aveva deciso il capo, allo stesso modo se una capa un capo oggi dà un contrordine, possono assolutamente considerare i sionisti come alleati più o meno temporanei: e tutto questo, nota bene, senza smettere di essere antisemiti; non è che abbiano smesso di considerare gli ebrei come tentacoli di una piovra. Semplicemente hanno la sensazione che la piovra stia vincendo, come stava vincendo Hitler nel 1938: e che (post)fascisti sarebbero, se non sentissero sempre l'impellente necessità di salire sul (post)carro del vincitore.  

3) L'antisemitismo complottardo più o meno grillino. Il grillismo è un fenomeno complesso, tutto sommato il risultato di due esperimenti andati a male: da una parte il Pd di Veltroni che improvvisamente rinnegò l'antiberlusconismo lasciando milioni di persone orfane di un intero sistema di valori; dall'altra una retorica anti-casta perfezionata dalla stampa moderata (che forse doveva servire a tirare una volata a Montezemolo, ma poi appunto l'esperimento si rivelò ingovernabile, e il blog di Beppe Grillo si ritrovò a fare più accessi del Corriere). Quel che ci interessa più che altro ricordare è che per quanto si credessero i rivoluzionari di internet, non la sapevano usare e finivano vittima dei network più bufalisti e complottari; per quanto si ritenessero anti-televisivi, non sapevano concretamente distinguere la politica dai talk show, per cui in certi casi semplicemente a un certo punto si resero conto che ogni volta che si parlava di Palestina, in tv c'era un giornalista di origine ebraica. Alla fine il loro concetto di sionismo è perfettamente sovrapponibile a quello dei nostalgici: una piovra che controlla i destini del mondo presidiando tutti i punti nevralgici (vagli a spiegare che il tg7 non è poi così nevralgico). La differenza è che non hanno un vero capo che possa dare contrordini: filopalestinesi erano e filopalestinesi resteranno, e se ogni tanto gli fai notare che un certo tipo di retorica scadente nell'antisemitismo può nuocere alla causa, loro ti guardano con l'espressione di Di Battista, avete presente? e avreste voglia di discutere con Di Battista?

4) L'antisemitismo dei musulmani italiani. Anche in questo caso, si tratta di un antisemitismo molto astratto perché, appunto, Roma a parte, le possibilità che in Italia un ragazzo musulmano conosca un ragazzo ebreo sono ancora molto limitate. Per i musulmani gli "ebrei" sono un fantasma cattivo che esiste sui social, su Al Jazeera, e nelle discussioni in famiglia; per cui poi in alcuni casi quando scoprono a scuola che gli ebrei hanno due occhi e due orecchie (e venivano perseguitati), a volte rimangono sbigottiti e increduli. Ho la sensazione che sia l'antisemitismo numericamente più importante, ma ho questo grosso limite che tutti i musulmani che conosco stanno sotto i 14 anni di età, dopodiché non so bene come si evolva questo determinato sentiment. 

Ho la sensazione che molti ebrei italiani tendano, per storia famigliare, a immaginare un antisemitismo di tipo (1) da parte di persone che molto più spesso stanno tra il (2) e il (3); in ogni caso, è a causa di questo tipo di equivoci che quasi ogni accusa di antisemitismo, in Italia, rappresenta uno choc culturale. Da una parte ci sono i membri di una comunità minuscola, che se non fosse storicamente radicata (e culturalmente molto rilevante) a questo punto considereremmo tout court una setta, con dinamiche identitarie tipiche di una setta; per cui è facile immaginare una forte pressione interna a dubitare di qualsiasi rilievo arrivi dall'esterno. Dall'altra c'è gente che è nata, cresciuta e invecchiata senza aver mai scambiato manco due chiacchiere con un ebreo italiano: li vede in tv (e col tempo comincia a notare che ce n'è parecchi), li legge sul giornale, ma non ne conosce. Magari in altri Paesi è diverso: sicuramente in Francia, dove la presenza ebraica è molto più capillare. Ma in Italia è così (ci sono motivi storici terribili per cui è così, ma è così): ci sono troppo pochi ebrei per diventare antisemiti sul campo; è una cosa che bisogna importare dall'estero, la varietà nazionale si è abbastanza estinta (salvo sacche molto locali, appunto).

Il fatto che l'accusa di antisemitismo sia quasi sempre uno choc culturale non significa che non possa avere un senso; il fatto che esistano diversi tipi di antisemitismo non significa che un tipo sia meno peggio degli altri: andrebbero tutti egualmente eliminati. Come le muffe, ma anche loro sono di tipi diversi e necessitano di strumenti diversi (credo) (in realtà io uso sempre lo stesso spray, ma non mi viene un'altra metafora). 

mercoledì 6 agosto 2025

I martiri compagni di giochi

6 agosto: Santi Giusto e Pastore, compagni di giochi (III secolo). 

Giusto, Pastore e la vergine
delle Meraviglie, a Madrid
Non si chiamavano né Giusto né Pastore, e probabilmente non stati martirizzati sotto Diocleziano; però sono esistiti, e sono morti molto giovani, lasciando due piccoli scheletri, rinvenuti nel 391 da Asturio, vescovo di Complutum (oggi Alcalá de Henares, fuori Madrid). Non è un evento del tutto fortuito: ritrovamenti di questo genere stavano avvenendo un po' dappertutto in Occidente. Il momento era cruciale: da dieci anni il cristianesimo era diventato religione di Stato, il che stimolava i presuli a progettare nuovi e più degni luoghi di culto, da intitolare a martiri che avrebbero dato lustro agli edifici, testimoniando il radicamento del cristianesimo in quei luoghi – salvo che di questi martiri, a volte, non c'era proprio traccia. Non restava che scavare in zone storicamente abitate, sperando di trovare qualche osso umano: fu probabilmente così che Ambrogio ebbe l'illuminazione che gli consentì di trovare i resti dei misteriosi Gervaso e Protasio. Anche Asturio avrebbe ricevuto istruzioni su dove scavare da un sogno, o da una visione. Anche lui riesce a trovare una coppia di martiri, il che per qualche motivo doveva sembrare più adeguato a una cattedrale: molte città cercavano di dotarsi di una coppia di patroni, forse semplicemente perché due protettori è meglio che uno; o forse si tratta di un'usanza anteriore al cristianesimo trionfante, perché ad esempio molto prima di adottare Pietro e Paolo, Roma aveva avuto i Dioscuri (e Romolo e Remo). Chissà, forse Asturio avrebbe preferito trovare scheletri più maturi, attribuibili a valorosi soldati come Fausto e Giovita, o guaritori come Cosma e Damiano, insomma martiri compiuti: mentre di due bambini cosa vuoi raccontare? Senz'altro non ispirano eroismo; al limite tristezza. Ma tra i Santi c'è posto per tutti, anche per due bambini. 

A valorizzarli sarà un episodio luttuoso, avvenuto poco tempo dopo. Therasia, la nobile moglie del senatore Ponzio Paolino che sta soggiornando in zona, partorisce un bambino, Celio, che muore dopo appena otto giorni, forse per complicazioni gastriche. La coppia, segnata dal dolore, concepisce un'idea che al tempo doveva ancora apparire irrituale: seppellire il neonato accanto ai due martiri bambini di Complutum. Il vescovo non trova nulla da obiettare – Paolino non è ancora diventato né sacerdote né santo, ma è già una personalità potente, da non contrariare. Anni dopo, scrivendo a un amico che aveva anch'egli perso un bambino, Paolino spiegherà in distici forbiti di averlo fatto per ottenere un'intercessione, un aiutino da parte del figlio che è già in paradiso, per accorciare le pene dell'oltretomba ai genitori: "affinché attingesse dal vicino sangue dei santi e lo spargesse sulle nostre anime nel fuoco, perché forse anche per noi, peccatori, un giorno una goccia di quel nostro sangue sarà luce" (Carmen XXXI). Il che dimostra se non altro come il senatore, che a quel punto era diventato il vescovo Paolino di Nola, avesse già un'idea dell'oltretomba coerente con quella ufficializzata dalla Chiesa secoli dopo: oltre al paradiso e all'inferno, una condizione intermedia di sofferenza che può essere alleviata dall'intervento dei santi. Benché non lo chiami purgatorio, ma semplicemente "fuoco", c'è già l'idea che da questo fuoco ci si possa salvare. E però, anni prima, quando erano soltanto due genitori sconvolti dal dolore, forse Paolino e Therasia avevano obbedito a una suggestione più semplice e meno ortodossa: perché di martiri ce n'erano ormai in tante città, ma i genitori di Celso avevano scelto proprio Complutum, dove erano custodite le ossa di altri due bambini: come a cercare per il loro figlio due compagni di giochi. È una mia ipotesi: prendetela con le molle. Trae una vaga conferma da un altro distico che Paolino scrive all'amico, in cui il paradiso è intravisto come un grande campo di gioco (Paolino usa proprio il verbo ludere): 

Credimus aeternis illum tibi, Celse, viretis
Laetitiae et vitae ludere participem

("Noi crediamo, o Celso, che egli con te nei verdi eterni stia giocando, partecipe della gioia e della vita").

Paolino, come ha notato tra gli altri Peter Brown, è una figura cruciale per l'evoluzione del culto dei Santi in occidente. Non è stato certo lui a inventarlo, e nemmeno si può dire che lo abbia formalizzato; ma dalle sue opere possiamo assistere quasi in diretta al formarsi di una nuova religiosità che si affida a queste nuove figure, emerse dai racconti popolari (come Felice da Nola) o dai tumuli scoperchiati dai cantieri. I santi non sono più soltanto gli eroi caduti nelle persecuzioni: diventano amici invisibili, che da un mondo ultraterreno sorvegliano quotidianamente Paolino, lo assistono nelle difficoltà, lo sostengono nelle scelte. Il mio sospetto è che il senatore romano – che pure con la latinità classica vorrebbe operare un taglio netto – recuperi inconsapevolmente suggestioni della tradizione pagana: Celso, che dalla culla è volato direttamente in cielo e ora può osservare i genitori e intercedere per loro, non è in un qualche modo un lare? San Felice, che attende fedelmente Paolino presso il suo tempio a Nola, non è a suo modo un genius loci, un penate? In ogni caso, l'idea di venerare i parenti morti avrà una grande fortuna. Quando Paolino fa seppellire Celso accanto ai due martiri, nel 392, il ritrovamento è così recente che essi non hanno ancora una propria leggenda, e nemmeno i nomi; né Paolino si cura di inventarli. Per trovare una passio su di loro bisogna aspettare l'arrivo dei secoli bui, e di qualche scrivano meno ispirato e sofferto, ma più incline a inventarsi scene di martirio. Il primo a nominarli Giusto e Pastore sarebbe in realtà stato un grande poeta, Aurelio Prudenzio Clemente, di poco più giovane di Paolino; ma i versi del Peristephanon in cui li nomina potrebbero essere stati aggiunti da qualche scrivano nel Medioevo. In effetti "Giusto Pastore" ha tutta l'aria di essere un'iscrizione paleocristiana male interpretata (come "Perpetua Felicitas"): magari nella cripta si trovava un'iscrizione riferita al giusto pastore, ovvero Gesù Cristo, che qualcuno in mancanza di meglio ha deciso di usare per battezzare i due morticini. Oltre ad affibbiargli questi due nomi poco probabili, gli agiografi decidono che si trattava di due giovani studenti: avendo sentito dire in classe che in paese giungeva il governatore Daciano a processare e condannare i cristiani, i due avrebbero gettato i libri e si sarebbero precipitati al loro martirio come se fosse arrivato l'autoscontro. Confessata immediatamente la loro fede, sarebbero stati straziati con la spada, senza processo. Sempre meglio di farsi interrogare sulla perifrastica, avranno pensato. Giusto e Pastore sono i protettori di tutti gli studenti che piuttosto di restare seduti un'altra ora si farebbero ammazzare. 

lunedì 4 agosto 2025

La riconosci? È la Palestina

https://www.ilpost.it/flashes/foto-aeree-striscia-gaza-wp/

– A un certo punto ho quasi smesso di scrivere qua sopra. Questo ha, credo, molto a che fare con Gaza. Questo sito somiglia sempre più a un enorme messaggio nella bottiglia, un'agenda che qualche alieno tra qualche secolo troverà interessante decifrare – ecco, non vorrei offrire agli alieni lo spettacolo di uno che si faceva i fatti suoi durante una catastrofe umanitaria di cui il mio governo era complice. Anche se nei fatti è così; Gaza mi deprime, ma non ha cambiato nessun'altra mia abitudine: continuo ad ascoltare musica, guardare film e serie, seguire la politica interna, persino a lavorare; ma appena mi capita di formulare un pensierino su un film o su una riforma ministeriale, lo trovo ridicolo e fuori luogo, come Luigi XVI che mentre scoppiava la rivoluzione annotava sul suo quaderno le prede di caccia. Solo di Gaza si dovrebbe parlare: ma anche a proposito di Gaza, da un certo punto in poi, qualsiasi parola mi è sembrata oscena. Non farei peraltro che ripetere pensieri che ho già scritto (alcuni vent'anni fa!), ovvero darmi ragione mentre il mondo brucia. Come se ci fosse gloria nell'aver visto una catastrofe e nel non aver potuto farci niente. Nessuna gloria, anzi frustrazione e vergogna. 

– L'ho presa come una pausa, ma Gaza non è una pausa. Non è uno spiacevole episodio di barbarie, dopodiché la civiltà riprenderà come prima – magari un po' più pensosa di prima, con qualche anniversario in più sul calendario, e ricominceremo a fare le classifiche dei film. Non credo possa finire così, e se finirà così sarà orribile. Continuo a vedere due sole possibilità: o (1) l'opinione pubblica mondiale prende atto che quel che è successo è osceno, imponendosi sulle autorità nazionali e sovranazionali affinché siano puniti non solo i responsabili, ma i sostenitori economici e i fiancheggiatori mediatici; o (2) da qui in poi qualsiasi massacro sarà concesso, in nome di un bene più grande che coinciderà di volta in volta con le priorità di uno di quei partiti nazionalisti e razzisti che stanno prendendo il potere un po' dappertutto tra USA, Europa e Israele. Lo scenario (1) prevede la fine del sionismo; il (2) la fine della democrazia occidentale. Ora io non so voi, ma la democrazia occidentale mi sembra molto più in crisi del sionismo. Si direbbe che molti uomini ricchi e potenti, alla vigilia di una crisi ambientale che sconvolgerà gli assetti sociali, abbiano già fatto la loro scelta su cosa tenere e cosa scartare. Ovviamente non sono d'accordo, ma la mia opinione ha mai contato qualcosa? La mia opinione, comunque, è che Gaza abbia messo l'Occidente al bivio: o il sionismo, o l'umanità. Gaza ci insegna che le due cose non sono conciliabili: in futuro avremo l'una o l'altra. 

– Come sempre, quando l'aut-aut è più netto, c'è sempre chi a tentoni cerca una via di mezzo, un algoritmo che salvi capre e cavoli, un compromesso che prevede, di solito, garanzie per chi sperava di salvarsi sbilanciandosi il meno possibile (i moderati sono sempre convinti di avere maggiori chance di sopravvivere, e rimangono sbalorditi quando la Storia dà loro torto, il che avviene spesso). Stavolta però non si tratta di mediare tra mercato e Stato, o tra libertà individuale e responsabilità collettiva, o tra fede o ragione. È una scelta un po' più secca, insomma da una parte c'è un genocidio, dall'altra l'umanità: la via mediana risulta più impervia del solito. Chi sta provando a costruirla si trova davanti una situazione impossibile: non ha i mezzi né forse la volontà di fermare il massacro, ma vorrebbe in un qualche modo prendere le distanze, far notare che tutto quel che succede, per quanto magari inevitabile, non è comunque successo col suo consenso: Not In His Name. Così per esempio Macron, Starmer e altri capi di governo hanno deciso di riconoscere lo Stato palestinese (che ha un seggio all'ONU dal 1998...) Significa che lo difenderanno? No. Che almeno sospenderanno i flussi di armi che dai loro Paesi giungono all'esercito che lo sta radendo al suolo? Nemmeno. Che alla fine di questa crisi si impegneranno a ripulire la Striscia dalle macerie e dalle bombe inesplose, affinché sia restituito sicuro ai legittimi e riconosciuti abitanti? Non sta scritto da nessuna parte, quindi molto probabilmente no. Maestà, il popolo ha fame. D'accord, ne riconosciamo l'esistenza. (È curioso che in questo frangente nessuno tiri fuori come al solito lo Spirito di Monaco, che in tutti gli altri casi sembra un precedente obbligato: Netanyahu può fare quello che vuole e invadere i Paesi che vuole, è un diritto che nessuno gli contesta).

– Anche in Israele c'è chi cerca questa impossibile via mediana, e lì almeno bisogna riconoscere che la situazione è lacerante: riconoscere che il sionismo si è mostrificato, che ha trasformato Israele nel Faraone, significa rinnegare la stessa acqua in cui si è nati e cresciuti. Se si potesse in un qualche modo dividere, separare, trovare un termine ad quem dopo il quale il sionismo è diventato altro da sé, mentre prima era buono e giusto... nell'intervista a Repubblica, David Grossman propone il 1967. Prima il sionismo era una speranza, dopo è diventato oppressione. Ora, non è che la cosa non possa avere un senso: ma non si può notare come prima del '67 David Grossman (classe 1954) fosse un bambino: dopo il '67, un giovane adulto in grado di guardarsi attorno con più attenzione. Magari è una coincidenza, ma se osservate la media umana che vi trovate intorno, noterete come l'Età dell'Oro a cui vogliono tornare è quasi sempre quella in cui i genitori ancora gli compravano il gelato. 

– L'intervista è considerata importante perché Grossman usa il termine "genocidio", che prima a quanto pare era appannaggio di qualche povero estremista (tra cui una corte di giustizia internazionale): adesso la usa Grossman, e questo significa che (a) è lecito usarla e (b) il sionismo è salvo, perché malgrado tutto esprime intellettuali in grado di dissentire così fortemente nei confronti del loro governo. L'intervista rappresenta in sé stessa un tentativo di compromesso, una bozza di contratto dove si propone un do ut des neanche tanto sottile: da qui in poi usare il termine "genocidio" non sarà più necessariamente antisemita; in compenso dovete riconoscere che il sionismo non ne è del tutto colpevole, perché persino durante il genocidio esprimeva comunque forti segni di dissenso interno, espressi da pensosi intellettuali. Grossman è così attento a mantenersi entro i confini del sionismo che non si preoccupa nemmeno di esprimere un minimo di empatia nei confronti dei palestinesi, quel minimo che anche i politici più scafati e disumani sanno di dover simulare in questi casi. Ha il "cuore spezzato", sì, prova un "immenso dolore", ma per una tragedia che riguarda il suo popolo e lui stesso. "Voglio parlare come una persona che ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi."

– Sì, i palestinesi muoiono, ma non è questa l'emergenza. L'emergenza è "trovare il modo per uscire da questa associazione fra Israele e il genocidio". "Prima di tutto, non dobbiamo permettere che chi ha sentimenti antisemiti usi e manipoli la parola genocidio". Quando si arriva alle proposte operative, il discorso crolla miseramente: Grossman non riesce neanche a dire le parole "cessate il fuoco" (forse le dà per scontate), o a suggerire timidamente che il suo governo, dopo quasi tre anni di bombardamenti, potrebbe semplicemente accettare uno scambio di prigionieri e far tornare gli ostaggi a casa. Grossman resta "disperatamente fedele all’idea dei due Stati", ammettendo di non riuscire nemmeno a immaginare alternative; anche lui, come Macron, non sembra considerare rilevante l'evidenza che uno dei due Stati sia ormai un cumulo di macerie. La Palestina che immagina dovrà essere "uno Stato vero, con obblighi reali, non con un’entità ambigua come l’Autorità palestinese". Ovvero? 
"È chiaro che dovranno esserci condizioni ben precise: niente armi". Cioè insomma un San Marino, un Liechtenstein (però ridotto a un cratere di cemento)? E quando in Cisgiordania entra un colono e si mette a sparare a pecore ed esseri umani, i palestinesi cosa faranno? Per quale motivo non dovrebbero pensare di armarsi per difendersi da un aggressione armata, chi glielo dovrebbe impedire? 
In questo Stato dovrebbero disputarsi "elezioni trasparenti da cui sia bandito chiunque pensa di usare la violenza contro Israele". Elezioni trasparenti che devono essere trasparentemente vinte da palestinesi filoisraeliani. Grossman immagina una situazione in cui i palestinesi siano contemporaneamente liberi, indipendenti, ma disarmati (nel bel mezzo del Medio Oriente), ed evidentemente controllati da un'autorità che decide chi è che può presentarsi alle elezioni. L'ONU? Quindi ci mettiamo i caschi blu? O più semplicemente le forze d'occupazione israeliane, per cui si tratta semplicemente di cancellare i documenti con scritto "ANP" e metterci un'altra sigla?
Grossman sembra non accorgersi che quello che descrive non è un progetto, ma la realtà. Un'entità statale dei palestinesi, praticamente disarmata, che ormai non convoca più elezioni perché probabilmente le vincerebbe chi sta facendo la guerra ai coloni e agli israeliani esiste già, ha persino un seggio all'ONU, e si chiama appunto ANP. Ovvero l'unica soluzione che viene in mente a Grossman è quella che è stata adottata fin qui, e che ci ha portato a quello che lui stesso considera un genocidio. 

– Il giorno dopo, sempre su Repubblica, Liliana Segre risponde a Grossman: e per quanto ci si sia affannati a vendere le due interviste in un dibattito tra due posizioni diverse, la Segre alla fine conferma sostanzialmente il compromesso grossmaniano: quel che sta succedendo è terribile, il termine "genocidio" è ammissibile ma antipatico perché verrebbe immediatamente strumentalizzato dagli antisemiti, che a volte nemmeno se ne accorgono, in quanto sono antisemiti inconsci, forse a causa di troppe giornate della memoria (!!!) Vale la pena replicare?
Liliana Segre è un personaggio pubblico, giustamente stimato e riverito, in quanto testimone diretta della Shoah. Quello è il suo ruolo pubblico e il suo campo di competenza. Quando parla della Shoah, parla della sua esperienza personale ed è il caso di fare silenzio e ascoltarla. Quando parla della Shoah. 
Quando parla della questione israelopalestinese, ne parla perché qualcuno la mette in mezzo. Non è un'esperta di diritto internazionale, né che io sappia della storia del conflitto israelopalestinese. La sua opinione è parziale come quella di chiunque altro. Può essere in effetti curioso domandare alla Segre cosa pensa del massacro a Gaza, ma non si vede perché debba essere considerata un'autorità in materia, né perché intorno al suo parere si debba giocare questa assurda partita a rubabandiera tra due supposte squadre: quelli che si sentono costretti a convincere la Segre che si può usare la parola "Genocidio" (e fino a quel momento la insulteranno, raffinata strategia che chissà quante partite ha fatto vincere) e quelli che dovrebbero puntare tutto sulla riluttanza della Segre a usare la parola "Genocidio", perché finché lei non la vorrà usare, tutto ok, non è genocidio, sia messo a verbale, qualora poi si scopra che invece era genocidio noi non avevamo gli strumenti, ci fidavamo della Senatrice a Vita.  È il fabiofazismo definitivo, questa necessità quotidiana di Venerabili Anziani da cui dobbiamo aspettare che chiamino le cose coi loro nomi, perché finché non lo fanno loro noi non ci sentiamo autorizzati. Da gente con un'età in cui non ti rinnovano la patente pretendiamo l'opinioni dirimente su ciò che sta succedendo oggi davanti ai nostri occhi. Liliana Segre ha 95 anni, non dovrebbe più essere la portavoce di nessuno, né l'obiettivo polemico di nessun altro. Andrebbe lasciata in pace.