Pages - Menu

Collaborazioni

mercoledì 30 luglio 2025

Un femminicidio nel secolo XI

 |www.geneanet.org
30 luglio: Santa Godeleva, vergine e martire (1040-1070)

In francese è nota (poco) come Sainte Godelein de Gistel; ma siccome è nata in quello che oggi è il dipartimento francese del Pas-De-Calais, vicino a Dunkerque, dove si parla già fiammingo, è anche chiamata Godelieve. Oggi non la conoscono in molti, ma nel medioevo deve avere avuto un momento di notorietà locale rilevante, se papa Urbano II decise di canonizzarla appena diciassette anni dopo la sua morte violenta. La causa di tanta popolarità era l'acqua di un pozzo che a quanto pare aveva sviluppato miracolose proprietà curative, da quando vi avevano scoperto il cadavere della povera Godeleva. Lo stesso pontefice ne aveva accettato lo status di martire, benché tecnicamente si dovrebbe definire tale solo chi muore per difendere la fede cristiana (come i crociati che Urbano avrebbe più tardi mandato allo sbaraglio in Terrasanta). Godeleva invece era stata fatta uccidere più prosaicamente da un marito che non la sopportava: un ulteriore esempio di come i femminicidi potessero generare fiammate d'indignazione popolare anche mille anni fa – fiammate che prendevano la forma della devozione religiosa, e se la forma non era proprio quella adatta la deformavano a piacere: la gente la venerava come martire, il papa si adeguò. 

Godeleva è figlia di un barone piccardo che ritiene conveniente prometterla sposa a un nobile di origine danese, Bertholf di Gistel, nipote di Baldovino IV conte delle Fiandre. La ragazza avrebbe invece preferito fare voto di verginità ed entrare in un monastero, o almeno così scrive il primo biografo della santa. Quest'ultimo, il monaco Drogon de Bergues-Saint-Winoc, non è il solito compilatore di leggende al chilo: vive nell'abbazia di Gistel, sorta attorno al pozzo miracoloso, e scrive appena dieci anni dopo l'omicidio, quando i fatti sono ancora impressi nella memoria collettiva. Il fatto che il matrimonio sia stato celebrato relativamente tardi (Godeleva aveva già 25 anni) ci fa supporre che Drogon stia scrivendo qualcosa di vero: finché poté preservare la propria verginità senza disobbedire ai genitori, Godeleva non avrebbe manifestato il desiderio di mettere famiglia. E però nemmeno Drogon si azzarda a dire che Godeleva si sia sottratta al matrimonio, ribellandosi al volere del padre o alle avances del fidanzato. Questo renderebbe il suo martirio un po' più simile a quelli delle antiche leggende, ma Drogon non sembra interessato a intessere paragoni del genere; evidentemente in quel periodo e in quella zona l'obbedienza ai genitori e ai mariti era più apprezzata del rispetto di un voto di verginità. 

Le nozze comunque sono un disastro: il monaco ci tiene a farci sapere che Bertholf si comportò male con Godeleva sin dalla prima notte. Il matrimonio non viene consumato, ma di nuovo: la responsabilità non è fatta cadere su Godeleva (che accettando il matrimonio non poteva più opporre resistenza al coniuge), bensì al "disinteresse" di Bertholf, che la tratta subito con freddezza. Al lettore medievale, abituato a matrimoni combinati, la situazione non doveva sembrare così originale: capitava spesso che gli sposi non si piacessero: perlomeno non subito. Ci vuole tempo, si usava dire. Bertholf invece sembra avere fretta di sbarazzarsi della moglie: non solo si rifiuta di consumare il matrimonio (il che rendeva legalmente più semplice la procedura di annullamento), ma comincia a mettere in giro voci calunnianti su di lei. Nel frattempo Godeleva è di fatto prigioniera nel castello del marito, maltrattata da una suocera proterva che malsopporta i suoi atti di carità nei confronti dei poveri: finché non riesce a scappare e tornare dai genitori. E se vi state chiedendo: ma come faceva una ragazza di vent'anni a scappare da sola da un castello fiammingo e tornare a casa in Piccardia?, ebbene, riflettete sulla situazione. 

Abbazia di Gistel
Una fuga del genere rendeva ancora più semplice per Bertholf ripudiarla legalmente: l'avrà fatta scappare lui stesso, o la suocera proterva. E bisogna ammettere che se tutto fosse finito così, secondo i piani del marito insoddisfatto, Godeleva non sarebbe morta strangolata e gettata in un pozzo. A mettersi di traverso è il padre, che forse teme che Bertholf non restituisca la dote, e insiste con le autorità affinché il genero si riprenda in casa la moglie, onorando i suoi doveri coniugali. Per Bertholf è una figuraccia: deve chiedere perdono pubblicamente al vescovo di Tournai e promettere che da lì in poi sarà un buon marito. Non ne ha ovviamente la minima intenzione, ma a questo punto che opzioni gli restano? Ha provato ad annullare il matrimonio spargendo pettegolezzi su di lei e non ha funzionato. L'ha fatta scappare dal padre, e il padre gliel'ha riconsegnata. Ripudiarla ormai è impossibile – tanto più che si è messo in mezzo pure l'arcivescovo. Non resta che il divorzio alla fiamminga, l'uxoricidio. Non lo sto giustificando, eh?, sto solo cercando di immaginare come possa aver ragionato un marito insoddisfatto di mille anni fa – e vi vedo, sapete, vi vedo che state pensando "ma che te ne frega di come ragionava un marito insoddisfatto, ma provati a mettere piuttosto nella testa della poverina" – ehi lo so, ma la poverina è diventata santa, e ai dannati chi ci pensa? E invece è la psicologia dei dannati che dovrebbe interessarci, no? Non per giustificarli, ma per capirli, prevenirli, seh vabbe', ma insomma  Bertholf si mette a premeditare un omicidio. 

Ci mette della creatività. Per prima cosa convince la moglie di aver conosciuto una "signora" che è in grado di rinsaldare un matrimonio. La cosa puzza un po' di stregoneria, ma la povera Godeleva ci casca e viene convinta a incontrare questa "signora" nel cuore della notte tra il 6 e il 7 luglio 1070. Due servitori sono incaricati di prelevarla dalla sua camera (in abito da notte) e portarla al rendez-vous con la signora. Godeleva non lo sa, ma i servitori sono incaricati anche di strangolarla con un laccio che in certe raffigurazioni diventa una specie di asciugamano (più facile da dipingere) e gettarla in un pozzo, con lo scopo di far sembrare la morte accidentale: si era svegliata con una gran sete, si è affacciata al pozzo, son cose che capitano. La gente mormorerà, ma senza prove o testimoni nessuno si darà la pena di indagare sul nipote del conte, il quale tra l'altro non è nemmeno nei pressi, è a Bruges in viaggio d'affari. Quando torna, già listato a lutto, la fa estrarre dal pozzo e seppellire immediatamente, prima che qualcuno si dia troppa pena di osservare il cadavere. Questa non è una leggenda di santi, è ancora un fatto di cronaca. Durante il matrimonio vengono distribuite pagnotte ai presenti; dopo un po' dovrebbe essere finito, ma i fedeli continuano ad accorrere e il pane non finisce mai, ecco: questa invece è la leggenda di santi che comincia. La maggior parte dei miracoli non vengono messi per iscritto da Drogon, ma sono aggiunti in seguito, in appendice. 

Non è molto chiaro come l'omicidio sia stato scoperto: la leggenda più intrigante racconta che Bertholf si sia risposato e abbia avuto una figlia cieca, Edith, che avrebbe guarito la propria menomazione proprio bevendo dal pozzo ormai considerato miracoloso. A quel punto sarebbe stato Bertholf a confessare il crimine. Per espiarlo sarebbe partito per la Terrasanta, in un momento in cui i turchi non avevano ancora chiuso gli accessi ai pellegrini, e quindi non era nemmeno necessario vestirsi da crociato e combattere. Se la sarebbe cavata con poco, insomma. Quel che è chiaro è che dieci anni dopo il pozzo era già un luogo che attirava malati da tutta la regione – il che probabilmente portava altri soldi nelle casse del signore uxoricida di Gistel. Forse anche per attenuare questa sgradevole evidenza, Edith avrebbe fatto ereggere intorno al pozzo un monastero che esiste ancora, e di cui fu la prima badessa. Godeleva potrebbe essere la patrona di tutte le mogli e fidanzate che scappano dall'uomo violento, per tornare a una famiglia che poi dice, dai, ma stai esagerando, in fondo è una persona sensibile, dai, riprovaci, cosa può andare storto. 


30 luglio: San Leopoldo da Castelnuovo di Cattaro, frate e confessore (1866-1942). 

Il confessionale
Bogdan Ivan Mandić non è nato, come si legge talvolta, a Castelnuovo d'Istria (oggi Podgrad, Croazia), ma a Castelnuovo di Cattaro (oggi Herceg Novi, Montenegro). Qui a otto anni, per aver commesso una marachella, fu trascinato dalla sorella davanti al parroco, che lo costrinse a inginocchiarsi al centro della Chiesa. "Ne fui profondamente rattristato. Perché trattare tanto duramente un bambino per una colpa così lieve? Quando sarò grande, voglio farmi frate, diventare confessore e trattare le anime dei peccatori con molta bontà e misericordia". Alla fine andò così. Non fu un percorso del tutto lineare: in mezzo ci si mise il proposito, maturato a vent'anni nel seminario di Udine, di tornare nei Balcani e convertire gli ortodossi; un progetto che ai suoi superiori non interessava – l'equilibrio delicato dell'Impero Austro-ungarico si basava anche sul reciproco rispetto delle fedi religiose – per cui dopo un paio d'anni a Zara lo trasferiscono a Thiene e poi a Padova. Bogdan, che entrando nei Cappuccini ha preso il nome di Leopoldo, fa buon viso a cattivo gioco e riscopre la vocazione dell'infanzia: perdonare i peccatori. Diventa un confessore seriale, come padre Pio nell'altro cantone dell'Adriatico. Da bambino un prete lo aveva trattato male; invece di maturare odio per quel prete o tutta la categoria, Leopoldo decise di prenderne il posto ed essere un prete migliore. L'esigua statura (135 cm) gli rende forse meno scomoda la piccola cella in cui passa più di dieci ore al giorno ascolta chiunque e perdonando tutti – la confessione in questo consiste, ascoltare e perdonare. Non sempre è quello che serve, ma evidentemente può aiutare. Col tempo abbiamo forse scoperto terapie che funzionano meglio, ma costano di più. Un giorno arriva un peccatore poco pratico, di quelli che si confessano una volta in vent'anni. Leopoldo non è ancora in postazione, ma gli dice di accomodarsi. Il peccatore non sa bene come funziona il sacramento, per cui entra nel piccolo confessionale, si siede al posto di Leopoldo e si mette a parlare. Leopoldo non fa una piega, si inginocchia al suo posto e lo ascolta. Quando si rende conto dell'equivoco, Leopoldo lo congeda con un sorriso.
La cella di Leopoldo esiste ancora: il fatto che si sia salvata dal bombardamento del 14 maggio 1944 viene collegato a un desiderio profetico che avrebbe espresso ai suoi confratelli, di preservarla affinché "rimanesse un monumento della divina misericordia".

giovedì 24 luglio 2025

Cristina e i suoi piedini

www.angolohermes.com |
24 luglio: Santa Cristina di Bolsena, vergine e martire. 

In principio forse c'erano le orme di due piedini in una lastra di basalto lavico. La trovate ancora oggi a Bolsena, nella grotta di Santa Cristina: vi si accede dall'omonima basilica. Si tratta di un reperto singolare, ma non così eccezionale: anche solo in Italia di tracce umane nella pietra lavica ne abbiamo trovate diverse, al punto da farci pensare che forse non siano tutte orme di malcapitati che sfuggono da un'eruzione imprevista. Attorno a un paleovulcano casertano sono state rinvenute addirittura impronte in salita: ovvero, chi le ha lasciate stava andando verso l'eruzione. Doveva evidentemente avere degli ottimi motivi (che ci sfuggono) ed essere munito di qualche specie di zoccolo – e infatti le orme sono prive delle fessure tra le dita. Anche i piedini di Bolsena sembrano essere calzati. Le impronte sono un po' troppo profonde per essere state lasciate da un viandante frettoloso, ma probabilmente la pietra è stata in seguito levigata per evidenziare tracce che in origine erano più leggere. Siccome il basalto grigio è tipico della zona, chi ha lasciato le orme dovrebbe essere passato nei pressi quando almeno uno dei sette crateri vulcanici era ancora attivo: minimo trecentomila anni fa. Troppo presto per gli homo sapiens e anche per i Neanderthal; potrebbero essere orme di altre creature viventi, poi ritoccate dall'uomo in un secondo momento: oppure tracce di un più antico nostro progenitore, un homo heidelbergensis già molto curioso dei fenomeni vulcanici, e in grado di confezionare calzature già discretamente efficaci. O una progenitrice: per secoli in effetti la taglia ha fatto pensare che si trattasse di piedi femminili. Con l'avvento del cristianesimo, almeno a partire dal IV secolo, diventeranno i piedi di Santa Cristina, impressi sulla pietra a cui era legata e che, nell'intenzione del padre, avrebbe dovuto portarla col suo peso nel fondo del lago. Ma Dio aveva altri piani: la pietra diventò un galleggiante di una consistenza abbastanza morbida, su cui Cristina avrebbe lasciato le sue impronte. Il nucleo primario della sua leggenda potrebbe essere questo: c'erano due orme nella pietra, nessun vulcano attivo da centinaia di migliaia di anni, qualcuno sentiva la necessità di spiegare la cosa.  

Cristina morta, scultura di Benedetto Buglioni, Basilica di Santa Cristina, Bolsena.

Ma non possiamo esserne sicuri: la leggenda ci è arrivata in versioni molto tarde e stratificate, in cui il tentato annegamento è solo uno dei tanti supplizi messi assieme da un agiografo che sembrava voler condensare in una sola figura tutte le torture subite dalle martiri tardoantiche. Forse aveva già in mente le cinque piazze di Bolsena, dove la sera del 23 luglio si devono mettere in scena cinque tableau vivant  diversi: dunque un solo supplizio non sarebbe bastato. Cristina non poteva essere stata soltanto annegata: andava flagellata, stirata sulla ruota, bruciacchiata, mutilata di lingua e seni, e infine trafitta da frecce. Tutte procedure abbastanza note ai lettori di agiografie: l'annegamento sembra l'episodio più originale, nonché il solo ispirato alla geografia del luogo. Ma potrebbe anche essere stato aggiunto a posteriori, magari dopo il ritrovamento della lastra di basalto. Se invece ipotizziamo che la lastra fosse già conosciuta nel IV secolo, e abbia ispirato la parte più antica della leggenda di Cristina, dobbiamo porci un'altra domanda: che cosa rappresentava quella pietra, prima che i cristiani se ne impossessassero? Non lo sappiamo, ma è la stessa leggenda di Cristina a offrirci qualche indizio suggestivo. 

Rivediamola. Il fatto che alcuni martirologi greci ne collochino il martirio a Tiro, in Libano, potrebbe essere il risultato di un malinteso dovuto a un'abbreviazione ("Tyr"), che in un manoscritto perduto avrebbe alluso alla Tyrrhenia, la regione degli Etruschi. Sin da bambina, Cristina è consacrata dal padre agli dei pagani e reclusa come vergine vestale, in una torre, come Santa Barbara. Ma essendo segretamente cristiana, Cristina gli dei pagani non li sopporta e anzi ne distrugge le statue, come Santa Marciana. Il padre – ufficiale dell'esercito – si arrabbia molto contro questa undicenne impertinente, e ne diventa il più violento persecutore: la fa flagellare e la condanna al supplizio della ruota, come Santa Caterina: niente da fare, tre angeli scendono dal cielo e la guariscono. È a quel punto che il padre propone di legarla alla pietra (nei quadri di solito è una mola) e buttarla nel lago: ma Cristina si salva anche stavolta. Il fatto che il padre muoia a questo punto dalla rabbia (mentre la figlia se la ride) è un altro indizio a favore dell'ipotesi che in un primo momento la leggenda finisse qui, e che l'episodio del tentato annegamento ne fosse il punto cruciale. Ma non bastava: anche gli agiografi devono dare alla gente quello che la gente vuole, e la gente a quanto pare vuole più supplizi. E anche più miracoli, certo. Ma soprattutto più supplizi. 

Giovan Francesco
d'Avanzarano (1459)
Al padre malvagio subentra dunque un altro magistrato, Dione, che di nuovo la fa flagellare, senza costrutto; quindi la fa gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, ma Cristina ne esce incolume. Ordina quindi che le siano tagliati i capelli, e che sia trascinata nuda per le strade del borgo fino al tempio di Apollo, che Cristina polverizza con un solo sguardo. È troppo anche per Dione, che muore dalla stizza. Gli subentra un tale Giuliano, che la fa chiudere in una fornace come i tre compagni del profeta Daniele: e come loro, Cristina ne esce senza un capello strinato. Bisogna inventarsi qualche nuova tortura, e Giuliano si rivolge pertanto a un allevatore di serpi marsicano. Le vipere fornite da quest'ultimo però rifiutano di morderla, anzi ne leccano il sudore. Quando anche il serparo comincia a stizzirsi, i serpenti mordono lui a morte, senonché Cristina impietosita decide di resuscitarlo e convertirlo. Questa parte della leggenda, che secondo alcuni sarebbe la "meno realistica" (sic) è invece la più interessante, in quanto propone che Cristina abbia cristianizzato un serparo marsicano, ovvero un adoratore di Angizia, antica dea dei serpenti molto cara ai Marsi (anche loro originari del bacino di un lago, il Fucino). Il culto per Angizia si era diffuso in tutta l'Italia centrale già in epoca preromana: il che ci suggerisce che le due orme nel basalto, prima di ispirare la figura di Cristina, potrebbero essere state esposte in un tempio dedicato ad Angizia (o la Bona Dea, che ne è la versione latinizzata). Ad Angizia ci si rivolgeva per salvarsi dalle punture velenose, un dettaglio quest'ultimo che avrebbe potuto facilitare la cristianizzazione del culto. La lotta tra una donna e il serpente in effetti è un'immagine che ricorre all'inizio e alla fine della Bibbia: nella Genesi Dio se la prende con entrambi per aver toccato il frutto del bene e del male (3,15): "Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno"; nell'Apocalisse è di nuovo una donna alata a sconfiggere "il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra" (12,9). Di solito la donna è identificata con Maria di Nazareth, ma non nei primi secoli: e a Bolsena, abbiamo visto, il culto per Cristina è molto antico.

Cristina, insomma, prima di diventare una santa potrebbe essere stata una dea e questo spiegherebbe il nome – un anacronismo enorme, se davvero l'avesse scelto un padre fieramente pagano. Ma se Cristina era la dea Angizia, è possibile che nel momento di trasformarla in una santa, i fedeli non si siano rassegnati subito all'idea di venerare una vergine tra tante. A Sepino, in provincia di Campobasso, l'anniversario dell'ingresso delle reliquie nella chiesa del Salvatore è festeggiata come una seconda epifania: alla santa viene offerto su un vassoio oro, incenso e mirra. Sono i doni dei Magi a Gesù Cristo; Cristina significa ovviamente "di Cristo", ma è anche il nome femminile più prossimo a Cristo stesso: non una martire qualsiasi, ma una semidivinità che racchiude tutte le martiri, ne patisce tutti i supplizi e come Cristo resuscita ed è resuscitata. 

Tornando alla leggenda, Cristina deve patire ancora la mutilazione delle mammelle (come Sant'Agata) e della lingua: quest'ultima viene scagliata dalla santa contro il boia, accecandolo. Infine viene trafitta nella gola dagli arcieri (come San Sebastiano). In questo modo i bolsenesi riunivano in una sola figura la protettrice dai morsi di serpente, dalle infezioni del cavo orale, nonché la patrona dei mugnai (perché era stata legata a una macina), dei marinai e degli arcieri. Con tutto questo, sarebbero riusciti a farsi sottrarre le reliquie nell'XI secolo da due pellegrini che le avrebbero portate, appunto, a Sepino; da lì poi i resti (fatta eccezione per un braccio, rimasto a Sepino) sarebbero giunti a Palermo, dove Cristina conobbe un momento di grande popolarità a Palermo, prima della riscoperta di Santa Rosalia. Ai bolsenesi restava la lastra, che per secoli fu usata come pietra di altare; ma era già stata sostituita nel 1263, quando davanti agli occhi di Pietro di Praga (che segretamente dubitava del sacramento dell'Eucarestia) un'ostia avrebbe gocciolato sangue sulla lastra marmorea dell'altare, che è tuttora custodita nella stessa cappella e che ha un po' eclissato il più antico culto per le orme della santa. Segno che le antiche tradizioni locali cominciavano a essere meno comprese, e che il borgo sentiva la necessità di collegarsi alla religiosità ufficiale, e alla gerarchia romana.  

sabato 19 luglio 2025

Elia: profeta o angelo?

Catacombe di Anagni. 
20 luglio: Sant'Elia, profeta sterminatore (IX secolo aC) 

Elia è il protagonista di una delle pagine più poetiche della Bibbia – per lo meno oggi a noi suona poetica; chissà come suonava quand'è stata scritta, ma insomma nel capitolo 19 del primo libro dei Re, Elia è così preoccupato per la situazione che decide di andare a trovare il Signore direttamente sull'Oreb/Sinai, dove Egli aveva già parlato a Mosè. È il primo dopo Mosè a salire sul monte. Dopo 40 giorni e 40 notti di cammino e una breve anticamera in una grotta, una voce gli dice di uscire e fermarsi alla presenza del Signore. "Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna".

Questo Dio, che dopo aver promesso fuochi e fulmini si manifesta con una brezza leggera, è molto poetico, ma ciò che reputiamo 'poetico' molto spesso non è che il fraintendimento di una frase o di un segno che hanno perso il loro significato originario: come se la poesia fosse quel che resta di una preghiera quando non credi più nel dio a cui era indirizzata. Forse l'autore pativa il caldo come noi e voleva semplicemente farci notare come non ci sia nulla di più divino di un filo di vento fresco; forse era un monoteista duro e puro e ci teneva a distinguere la Divinità dagli elementi della natura (Dio manda il fuoco, ma non è il fuoco; manda il terremoto, ma non è il terremoto, ecc); distinzione quanto mai necessaria nelle storie di Elia, profeta associato al fuoco e alla folgore, il quale più di una volta dà la sensazione di non essere esattamente un uomo, o almeno di esserlo diventato solo a un certo punto della tradizione. Un bel paradosso, dal momento che di questa tradizione Elia è arcigno difensore. 

Il suo nome non può non ricordarci quello del Dio-Sole dei Greci, Helios: costui porta la luce sulla terra guidando un carro infuocato nel cielo, un'immagine tipica del folklore indeuropeo con cui gli ebrei avrebbero potuto venire in contatto durante la dominazione persiana. Elia invece salirà in cielo, primo tra i mortali, su un "carro infuocato". Ma forse è solo una coincidenza: in ebraico il suo nome non ha niente a che vedere col sole, bensì contiene in poche lettere due volte il nome di Dio. È un manifesto preciso: El è Yah, ovvero Elohim e JHVH, i due nomi che nella Torah sono usati per indicare la divinità, sono lo stesso Dio, il quale essendo il punto di partenza di tutti i significati non può che essere definito in modo ricorsivo: Dio è dio, l'Ente è colui che è, e a Mosè lo aveva pur detto: io sono colui che sono.

"Dio è il Signore": sembra una tautologia, ma nel IX secolo avanti Cristo, nel regno settentrionale di Israele (separato dal regno di Giuda, da Gerusalemme in giù), il monoteismo non se la sta passando così bene: il re Acab ha sposato una principessa-sacerdotessa fenicia, Gezabele, e sta promuovendo il culto fenicio di Baal, dio del tono e della folgore: ed ecco che il passo riportato sopra assume un significato diverso. Anche Elia ha la facoltà di scagliare folgori; questo non fa di lui ovviamente un Dio (solo El è Yah!), ma forse gli va stretta anche la definizione di profeta. I profeti per lo più si lamentano; indirizzano ai potenti della terra lunghe tirate grevi di minacce; Dio parla loro attraverso illuminazioni o visioni. Anche Elia qualche volte si lamenta e minaccia re Acab e consorte, ma in linea di massima è un uomo d'azione, che mostra il potere dell'unico Dio compiendo straordinari prodigi. Anche il suo rapporto con Dio non sembra indiretto e sfuggente come quello dei suoi colleghi: Elia non ha visioni, se vuole sapere cosa Dio vuole da lui deve andarlo a trovare (sull'Oreb). Sul monte Elia non riceve illuminazioni, non sperimenta visioni; Dio gli parla come un boss a un sottoposto, impartendo ordini secchi e chiari. Più che coi Profeti, Dio tende a comportarsi così con gli angeli. Esseri soprannaturali, non necessariamente alati, ma di certo esecutori materiali della volontà di Dio, che molto spesso prevede stragi e distruzione. Condividono tutti la radice "El" nel nome (Michele, Gabriele, Raffaele); in particolare Elia sembra la risposta alla domanda contenuta nel nome dell'arcangelo Michele, "chi è come Dio"? JHVH è Dio: gli altri non sono nemmeno Dei, bensì falsi idoli. È un'idea rivoluzionaria, che Elia propone in un momento in cui si dà per scontato che ogni popolo abbia i suoi Dei, e che gli incontri/scontri tra due culture contemplino l'ampliamento sincretico dei rispettivi pantheon. No, obietta Elia: esiste un solo Dio (il suo), e non si difende con le parole, ma coi fatti: sfidando i sacerdoti di Baal a incenerire, con la sola forza delle preghiere, una vittima sacrificale. I sacerdoti provano ogni espediente (incluse non meglio specificate automutilazioni), ma non ottengono nulla. Elia invece ci riesce al primo colpo: è il passo della Bibbia che più somiglia a un moderno esperimento scientifico, anche se purtroppo non replicabile. Elia punisce i sacerdoti di Baal  "scannandoli" tutti e 450, il che ci fa di nuovo sospettare che più che di un profeta si tratti di una creatura angelica, magari equipaggiata con una spada fiammeggiante o qualche altra arma molto efficiente. Anche perché, una volta compiuta la sua missione, Elia è rapito al cielo da un carro di fuoco: destino unico per un profeta dell'Antico Testamento. Questa miracolosa assunzione in cielo – la prima della Bibbia – è la radice di tutta l'ipotesi messianica (se Elia non è morto, forse un giorno tornerà) nonché della leggenda dell'ebreo errante (se Elia non è morto, dov'è? forse sta vagando su questa terra). Il testimone diretto del prodigio, il discepolo Eliseo, ne proseguirà l'opera, compiendo anche lui miracoli spettacolari che però spesso sembrano coppie sospette  dei prodigi del vecchio maestro

lunedì 14 luglio 2025

Il primo infermiere, o al massimo il secondo

14 luglio: San Camillo de Lellis (1550-1614), infermiere.

San Camillo salva gli ammalati dell'Ospedale di San Spirito
durante l'inondazione del Tevere del 1598. (Pierre Hubert Subleyras).


Camillo de Lellis nasce a Bucchianico (oggi provincia di Chieti) nel maggio 1550, due mesi dopo la morte di Giovanni di Dio a Granada. I due patroni degli infermieri non condividono soltanto il secolo: entrambi hanno avuto vite avventurose che lasciano sospettare un disturbo del comportamento; entrambi hanno lasciato pochi scritti, dai quali si deduce uno scarsissimo apprendistato letterario; entrambi erano uomini soprattutto pratici, abituati a risolvere le crisi in prima persona: ad entrambi capitò di entrare in ospedali in fiamme per caricarsi i degenti sulle spalle. Entrambi hanno fondato ordini religiosi che nelle loro intenzioni erano soprattutto ordini assistenziali (salvo che le gerarchie ecclesiastiche non capivano ancora la differenza). Digiuni di lettere, digiuni di teologia, entrambi non risultano nemmeno esperti di medicina, per cui, insomma, com'è che hanno inventato la categoria degli infermieri? Entrambi avevano passato diversi anni sotto le armi, in quel Cinquecento tumultuoso in cui la guerra era ormai un mestiere: pericolosissimo, ma che consentiva di girare il mondo e imparare tante cose sul campo. Non è scritto da nessuna parte, ma si può presumere che sia Camillo che Giovanni abbiano passato un po' di tempo negli ospedali militari, e che vi abbiano scoperto pratiche e innovazioni che in seguito applicheranno negli ospedali civili: ad esempio, l'idea rivoluzionaria di separare i malati per patologia. 

Figlio di una signora di età molto avanzata (sessant'anni secondo le agiografie), Camillo ne resta orfano appena tredicenne. Al preadolescente non restava che seguire il padre, soldato professionista e giocatore incallito. Nel 1570 i due De Lellis, giunti ad Ancona con l'intenzione di arruolarsi nell'esercito veneziano in guerra contro i turchi, contraggono probabilmente un virus. Il padre muore di febbre; il figlio ne guarisce ma in quell'occasione compare per la prima volta la famosa ferita che non lo abbandonerà più. Non fosse stato per quella piaga ulcerosa alla caviglia, Camillo forse sarebbe morto su qualche campo di battaglia, o in una rissa di strada dopo una partita a dadi finita male; o persino in un convento di cappuccini, perché no? La ferita che lo tenne lontano dai combattimenti, lo fece anche espellere due volte dal convento nel quale era riuscito a farsi ammettere. I cappuccini non erano equipaggiati per la cura dei malati: gli dissero di tornare quando sarebbe guarito, ma Camillo non guariva mai. Il suo unico posto era l'ospedale, dove una volta pagava le spese lavorando come infermiere. La prima volta che gli successe (al San Giacomo degli Incurabili, a Roma) non dette una buona prova di sé: litigava coi colleghi e coi malati, scappava per andare a giocare coi barcaioli del Tevere, insomma nulla lasciava presagire in lui il fondatore di un ordine di sacerdoti-infermieri.
 
Espulso dal San Giacomo dopo un anno per cattiva condotta, si considera abbastanza sano da riarruolarsi, prima per i veneziani e poi per gli spagnoli. Combatte in Dalmazia, Tunisia e Sicilia; sperimenta fame e miseria, nelle sue memorie farà riferimento a episodi di cannibalismo. Non riesce a mettere a parte un soldo: si gioca tutto, ritrovandosi sul marciapiede. In Puglia trova lavoro come manovale in un convento di cappuccini; riesce finalmente a convincerli della propria vocazione, ma durante il noviziato la piaga si riapre e viene rimandato al San Giacomo. Anche stavolta, dopo la guarigione, rimane come inserviente, ma nel frattempo è riuscito a guarire anche dalla compulsione al gioco, al punto che viene nominato guardarobiere. Frequenta Filippo Neri, che diventa il suo confessore. Quando decide di tornare dai cappuccini in Puglia, Filippo gli dice che si sarebbero rivisti molto presto: quattro mesi dopo in effetti Camillo entra di nuovo al San Giacomo come paziente. Oltre alla solita caviglia, ora soffre di un'ernia inguinale che non lo abbandonerà più. Ma all'ospedale sono contenti di rivederlo e addirittura lo nominano amministratore. 

A questo punto Camillo ha passato i trent'anni: ha una vasta esperienza della vita, soprattutto della miseria e del dolore. Quando decide di fondare un nuovo corpo di "servi degli infermi", li chiama lui, nessuno capisce bene cosa abbia in mente. Lo stesso Filippo Neri prova a dissuaderlo. In effetti la sua è un'idea abbastanza rivoluzionaria e non così in linea con lo spirito della Controriforma; dopo aver vissuto l'esperienza ospedaliera come inserviente e amministratore (oltre che come paziente), Camillo ha maturato l'opinione che i ruoli non vadano confusi: gli inservienti devono rifiutare i "maneggi delle cose temporali" e mettere al di sopra di qualsiasi preoccupazione la cura del paziente. Camillo, che vive questa missione in modo ascetico e propone ai suoi confratelli di vivere negli ospedali per poter essere più vicini agli infermi, tuttavia non sembra particolarmente preoccupato da quella che fino a quel momento era stata la priorità del personale di assistenza, ovvero che i malati patissero (e morissero) santamente. Lui stesso dà la sensazione di aver preso gli ordini sacerdotali perché solo in questo modo la sua confraternita sarebbe stata presa sul serio; nei suoi scritti (molto faticosi) ribadisce più volte che i malati non devono essere forzati a confessarsi e che la funzione dei Servi degli Infermi è tenerli puliti e medicati, non amministrare i sacramenti. Se De Lellis da una parte aveva già un'idea laica, moderna, della figura del paramedico, dall'altra tendeva a viverla con un'intensità religiosa che lo rendeva un modello, ma anche un esempio molto difficile da seguire: finché nel 1607 non fu costretto a lasciare la direzione dell'ordine che aveva fondato, proprio come Francesco, e che già cominciava a chiamarsi col suo nome: i camilliani, i primi infermieri a fregiarsi di una croce rossa sulla tunica nera.  

giovedì 10 luglio 2025

Capire le martiri (e Lucia Mondella)

10 luglio: Sante Rufina e Seconda, martiri (III secolo)

Cianfanelli: Lucia e l'Innominato. 
È ovvio che il Martirologio ricordi ogni giorno qualche martire, ma questo periodo dell'anno è particolarmente intasato. Luglio sembra il mese più indicato per far fuori dei cristiani, come se la canicola in un qualche modo facesse scattare qualche molla nei carnefici. Martiri di ogni periodo e ogni zona del mondo: re danesi che sottovalutavano l'attaccamento dei sudditi al paganesimo, frati appena arrivati in Cina dove era tutto tranquillo da decenni, ma proprio in quel momento scoppia la rivolta dei Boxer e tocca morire linciati; preti vietnamiti, suore francesi che alle costituzioni civili del clero preferirono la ghigliottina, cattolici olandesi nel bel mezzo della guerra di religione, cattolici inglesi al tempo di Elisabetta, benché a quel punto si rischiasse di essere impiccati, eviscerati e squartati (in sequenza), e così via. Alla fine è meno impegnativo ricordare due martiri del terzo secolo, nella speranza che almeno loro siano solo una leggenda: che non siano morte davvero. Purtroppo la storia di Rufina e Seconda è molto più realistica di altre, anche solo per il fatto che non includa miracoli spettacolari o conversioni di massa. Si tratta di due sorelle che perdono i loro fidanzati durante una persecuzione (forse quella dell'imperatore Valeriano): non perché i due ragazzi vengano martirizzati, ma al contrario, perché decidono invece di rinnegare Cristo e sacrificare agli dei falsi e bugiardi. Rufina e Seconda (il tipico nome latino delle secondogenite, il che aggiunge un tocco di realismo) reagiscono facendo voto di castità: se non possono sposare cristianamente i fidanzati, non sposeranno più nessuno. I due ex non sono d'accordo e cercano di convincerle a seguirli nell'apostasia; siccome né Rufina né Seconda mostrano un solo cenno di cedimento, alla fine le denunciano all'autorità costituita. Vengono trovate, giacché cercavano di scappare, al quindicesimo miglio della via Flaminia, e vengono martirizzate al decimo miglio della Cornelia; Rufina viene decapitata, Seconda bastonata a morte. Tutto qui: nessuna guarigione miracolosa, anzi nessun miracolo proprio. Due maschi deboli tradiscono la fede; due femmine la testimoniano con il martirio. Non si dà mai, che io sappia, il caso contrario, ovvero che un martirio faccia scappare la femmina mentre il maschio rimane saldo. Se ne potrebbe concludere che il cristianesimo abbia funzionato meglio di altre cose perché sin da subito ha deciso di investire su una qualità fino a quel momento molto sottovalutata, ovvero il coraggio femminile. Ma è un'ipotesi che andrebbe sostenuta da chissà quanti studi, studi che non avrei intenzione di fare nemmeno se ne avessi il tempo e le competenze, e allora perché ne parlo? E in generale, perché insisto a parlare di martiri, come se ne fossi esperto o appassionato? 

Oltre a non essere né esperto né appassionato, sono proprio scettico sul concetto di martirio: e se un imperatore dopodomani mi costringesse a bruciare incenso agli dei per non perdere il posto di lavoro, credo che apostaterei senza molto sforzo. Magari canticchiando quel vecchio De Andrè che poi è Brassens: Moriamo per delle idee, sì, ma di morte lenta. E quindi perché mi metto a parlare di gente che per le idee si fa bastonare a morte? Beh insomma, lo sapete com'è andata. O no? Forse no, dopotutto è una storia che ormai va avanti da anni. Un giorno ho avuto la bella idea di mettermi a scrivere dei santi del giorno: non ero un esperto ma non intendevo nemmeno scriverne in modo così professionale. Volevo trovare una nicchia, una scusa per avere qualcosa da scrivere quasi tutti i giorni, e l'oroscopo era già preso. Poi certo, venivo da una serie di discussioni (anche su questo blog) che mi avevano dato la sensazione di possedere un punto di vista sulla religione cristiana abbastanza originale; per tanti motivi potevo ritenermene fortemente critico, ma a differenza di tanti critici, la conoscevo. Capivo il significato di certi discorsi che molti miei coetanei ostentavano di ignorare; il che mi permetteva di argomentare in modo più sottile, forse più penetrante (con gli anni ho poi scoperto che non è che ne sapessi granché, ma è così che funziona. Qualcosa nel frattempo l'ho imparato).

Questo avveniva negli anni Dieci, quando il concetto di martirio in Occidente aveva già perso ogni aura di eroismo: i "martiri" sui giornali erano i jihadisti, gente che dirottava aerei o saliva sui mezzi con pettorine esplosive. Tuttora l'idea di morire per le proprie idee riscuote poca simpatia: centinaia di giornalisti possono venire eliminati a Gaza senza che il loro sacrificio passi per eroismo. L'unico reparto mediatico che riconosce ancora una certa nobiltà al martirio è la cronaca nera: lo si vede a ogni femminicidio. Alla fine Rufina e Seconda sono sante più attuali di tante altre, eppure per qualche motivo non ce ne accorgiamo. Soffriamo, credo, di una certa difficoltà a decifrare un passato anche molto più recente. Più ripetiamo di appartenere a una Grande Tradizione Culturale Occidentale, meno ci accorgiamo di quanto ce ne stiamo allontanando. 

È una cosa che mi sono messo a pensare mentre leggevo il libretto di Francesco Piccolo sui "personaggi maschili nella letteratura italiana". È un testo che mi lascia fortemente perplesso, se non altro per la superficialità intenzionale dell'autore, che di fronte ad alcune delle pagine più lette e più studiate del nostro canone, decide (sottolineo: decide) di leggerle in un modo che definirei riduzionista, come esempi di maschilismo violento e irredimibile.  "È per questo motivo che il titolo di questo libro è una frase tra quelle indimenticabili della letteratura italiana, ed è pronunciata da una donna, Lucia, nel punto più estremo dello sfinimento e dell'arrendevolezza". Piccolo – che presumo abbia conosciuto i Promessi Sposi per la prima volta nella famosa scuola gentiliana di cui si racconta che gli insegnanti ammorbassero gli studenti con infiniti temi sulla "spiritualità nel Manzoni" è convinto di questa cosa: che Lucia dica "Son qui: mi ammazzi" perché non ne può più e vuole arrendersi. Lo scrive nel titolo, nella prefazione, e poi nel capitolo specifico. "Lucia è sfinita, indifesa; la sua è una resa totale". "Dopo essersi difesa dalle molestie di don Rodrigo, qui Lucia riconosce una forza, una potenza che lei non può combattere, e si abbandona"... "è consapevole di essere giunta davanti al punto più alto del potere che le è consentito di conoscere, e allo stesso tempo sa di essere caduta nel punto più basso, perché alla fine non ha più la forza e la possibilità di ribellarsi. È completamente nelle mani dell'innominato". Piccolo scrive così. 

Manzoni invece scrive: "Son qui: m'ammazzi". Che considerato il contesto, e considerata la cultura di Manzoni e dei suoi lettori, non si può davvero definire una frase arrendevole. Tutto il contrario: è una frase eroica, che potrebbe stare sulle labbra di una martire del calendario. Hic sum tibi necanda, qualcosa del genere, qualche agiografo una frase del genere l'avrà scritta (e qualche martire l'avrà detta). Centinaia di esempi che Manzoni aveva in mente, perché per lui il cristianesimo era una cosa seria, una scelta di vita, una cultura da riscoprire e da rivivificare. Per Piccolo no. Piccolo sembra non intenzionato a capire che per Lucia scegliere di essere ammazzati è un'opzione; Lucia ne aveva altre a disposizione, ma non le sceglie, perché non è la tipica ragazza incauta che si fida del ganzo sbagliato e finisce in prima pagina, bensì l'eroina di un romanzo cattolico che sta per salvare un criminale dalla dannazione eterna. Basterebbe anche solo dare un'occhiata più attenta alla pagina in cui Lucia pronuncia le famose parole, in risposta a un Innominato che nasconde il suo turbamento sotto una sollecitudine orribilmente maliziosa: "Alzatevi, chè non voglio farvi del male... e posso farvi del bene". Che razza di bene potrebbe fare, l'Innominato, a Lucia che ha appena fatto rapire?

Di fronte a questa possibilità, che l'Innominato invece di farle del male voglia farle "del bene", Lucia non si alza (sdegnando l'Innominato che si trova costretto a ripetere l'invito: non ci è abituato; nessuno osa comportarsi così in sua presenza). Lucia si drizza un po', ma rimane "inginocchioni", e pronuncia la fatidica frase "giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un'immagine": ma è essa stessa un'immagine. Diciamola tutta: è un santino. L'Innominato, di cui Lucia ignora i contorcimenti interiori, le ha proposto due pillole: una farebbe "male" (torture, violenze, morte), l'altra farebbe "bene": seduzione, atti impuri, compromissione. Lucia decide, in perfetta coerenza con la propria fede e la propria condotta: non voglio il tuo "bene" (ovvero: non voglio essere compromessa da te, non voglio essere la tua amante o l'amante di uno dei tuoi associati). Preferisco decisamente il tuo "male": ammazzami. 

È sfinita, Lucia? Sì. È senza difese? Apparentemente. Ma cosa succede subito dopo? Chi è che comincia subito a manipolare l'altro, a partire dall'altra frase famosa "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia"? Chi è che deve scappare trafelato e poi non riuscirà a dormire tutta la notte? Chi è che a un certo punto della notte ricorda le stesse parole e si rende conto che non suonano "con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno di autorità, e che insieme induceva una lontana speranza"? Chi è che vince, qui? Certe volte Manzoni ama l'ambiguità, ma qui davvero no, non poteva essere più smaccato: qui c'è una donna che salva l'anima a un uomo. Non è tecnicamente una santa, anzi proprio quella notte commetterà l'unico vero errore che Manzoni le concede in tutto il romanzo; ma non importa così tanto perché attraverso la sua figura imperfetta sta transitando la grazia, la verità, la via. Il romanzo perlomeno la mette così, dopodiché possiamo anche decidere che non ci interessa più, che preferiamo ritagliarne soltanto qualche situazione qua e là e dimenticare il quadro d'insieme. Piccolo lo sa benissimo, che Lucia è tutt'altro che una sciacquetta in completa balia di un boss, ma decide che non è importante, perché? Perché a lui interessano i personaggi maschili violenti: deve documentarli, deve raccontarli, deve spiegare che siamo tutti così, e questa necessità di autodafé non gli consente nemmeno di notare l'eroismo di una martire. Lo deve negare. Spostati, santa, che con la tua coerenza eroica non ci fai vedere la malvagità degli uomini. Di fronte a Lucia persino l'Innominato si è arreso; e invece Piccolo ci passa sopra.

"Noi possiamo arrestare il tempo a questa battuta e non andare oltre, perché è in quell'istante che l'uomo ha potere totale sulla donna inginocchiata a lui. L'innominato può decidere di fare di Lucia quello che vuole: ammazzarla, farla stuprare da don Rodrigo, stuprarla lui stesso se lo desidera; imprigionarla, baciarla, picchiarla, tormentarla [abbiamo capito, Piccolo: perché tanta ridondanza?]; e può anche decidere di cambiare le sorti della contadina e quindi, di conseguenza, del romanzo – come infatti farà. Ma è il potere incontrastato nelle mani dell'innominato (il fatto che sia senza nome lo rende ancora più assoluto come maschio) ciò che leggiamo da adolescenti".

Qui, se ho capito bene, e spero di no, Piccolo ci dice che da adolescenti la scena di Lucia "inginocchioni" disperata davanti all'Innominato ci ha eccitato, al punto che il seguito del capitolo resta in standby come certe videocassette che venivano visionate solo fino a un certo momento. Credo che a questo si debba l'insistenza con cui in un saggio brevissimo Piccolo si mette a spiegare quante e quali cose l'Innominato possa fare alla "poverina" invece di lasciarsi convertire come voleva l'autore: ammazzarla, stuprarla anzi no farla stuprare (cuck!), imprigionarla, baciarla, picchiarla, sembrano davvero le clip su una piattaforma per adulti proposte un po' alla rinfusa, prima lo stupro e poi i baci e poi di nuovo i tormenti. È l'allestimento di un piccolo set sadomaso che lo devo confessare, il mattino in cui affrontammo il capitolo XXI al liceo mi sfuggì: forse sonnecchiavo, o avevo fame. Ero adolescente e mi eccitavo per qualsiasi cosa, ma ogni maschio può solo portare la propria esperienza: con me la Lucia inginocchioni non funzionò. Magari non feci caso all'eroismo, ma nemmeno all'erotismo.  

C'è qualcosa di deprimente in tutto questo: duecento anni fa Manzoni ci ha mostrato una ragazza che con la forza della sua fede trasforma un uomo violento; duecento anni dopo Piccolo lo rilegge e riesce solo a trovare l'uomo violento, irredimibile. Gli interessa soltanto quello, né sa più trovare una strategia di redenzione. Qualcuno magari lo considererà un progresso. Certo, è molto più furbo delle scrittrici che un anno fa denunciavano nelle opere del canone letterario dei "modelli di comportamento" patriarcali; non affermerebbe nemmeno sotto tortura che Manzoni sia uno scrittore maschilista da cancellare dai manuali (magari non gli dispiace che chi la pensa così cerchi il suo pamphlet in libreria). Nel frattempo però lo fraintende completamente, e consapevolmente. Non vuole capire Lucia, che gli sembra "spenta, mediocre, passiva"; una che piuttosto di farsi toccare da un signore potente preferisce farsi ammazzare. Non gli interessa. Forse non ha veramente mai dovuto affrontare quel famoso tema sulla spiritualità in Manzoni – o forse ne ha scritti troppi, non lo so. Ma insomma, questo è l'Occidente. Appendiamo ancora al muro un calendario pieno di martiri, e non capiamo più che senso abbiano.

lunedì 7 luglio 2025

Un martire in Melanesia

Francobollo commemorativo
per il centenario della nascita
7 luglio: San Peter To Rot (1912-1945), martire in Melanesia. 

Tra i tanti nomi che gli occidentali hanno messo sul mappamondo, per lo più a caso e senza troppo preoccuparsi se avessero un senso, "Melanesia" sembra avere maggior possibilità di sopravvivere. È un nome che viene dal greco, il che gli dà un sapore più scientifico che coloniale; lo coniò l'esploratore francese Jules Dumont d'Urville, che verso il 1830 sentiva la necessità di differenziare l'area delle "tante isole" (già conosciuta come Polinesia) da quella abitata da persone di pelle molto più scura: le isole dei neri (mélas in greco). E benché in seguito il concetto sia stato messo in forte discussione dagli antropologi, a livello popolare resiste: i melanesiani sono i neri d'Oceania. Vivono in isole relativamente lontane tra loro, parlano lingue molto diverse, e il loro DNA racconta di rapporti piuttosto complicati con altre popolazioni asiatiche e polinesiane. Pure, il fatto che il colore della pelle li identifichi non dispiace; tanto che quando la maggior parte delle piccole nazioni hanno deciso di associarsi in un'organizzazione intergovernativa, l'aggettivo "Melanesian" è comparso per la prima volta nei documenti ufficiali: da quarant'anni l'associazione si chiama Melanesian Sperhead Group. 

Anche prima che arrivassero gli europei a spartirsi ogni isola e atollo, con la loro ossessione per le bandierine di colori diversi e i confini territoriali (anche quando il territorio è il mare), i melanesiani non costituivano un insieme definito dal punto di vista culturale. Tra i pochi elementi distintivi, c'era la poligamia, che è tipica delle società tradizionali melanesiane come di quelle mediorientali e africane. In altre parti del mondo la poligamia non è tradizionalmente consentita, e del resto oggi non è riconosciuta legalmente da nessuna legislazione melanesiana. Fino a un secolo fa però era liberamente praticata, come dimostra la vicenda di Peter To Rot, nella Nuova Britannia. 

La Nuova Britannia fa parte dell'Arcipelago Bismarck, a est della Papua Nuova Guinea, di cui oggi fa parte dal punto di vista amministrativo. Come il nome lascia facilmente indovinare, l'arcipelago fu colonizzato nel tardo Ottocento dalla marina dell'Impero Tedesco, che essendo arrivato buon ultimo alla spartizione coloniale, raramente metteva le mani su qualcosa di interessante: in questo caso, qualche lotto adatto alla coltivazione intensiva della noce di cocco e un avamposto per un'eventuale incursione in Australia. Durante la Prima Guerra Mondiale accadde l'esatto contrario: furono gli australiani a sbarcare nelle Bismarck, ottenendo nel 1920 un mandato dalla Società delle Nazioni che legalizzava l'occupazione militare. L'isola chimamata Nuovo Meclemburgo fu ribattezzato Nuova Irlanda; la Nuova Pomerania divenne Nuova Britannia. Per qualche perverso motivo mi sembrano nomi meno assurdi.  

Nel 1942 i giapponesi invasero l'arcipelago, scacciando rapidamente gli australiani. Una delle prime misura intraprese dalle forze di occupazione fu l'internamento dei missionari cristiani. Peter To Rot è un catechista della Nuova Britannia, figlio di un capotribù che si era convertito più di quarant'anni prima; non è un sacerdote, anzi è sposato con figli, così i giapponesi in un primo momento chiudono un occhio sul fatto che abbia costruito una capanna e la usi a mò di chiesa. Lo scandalo nasce quando un abitante del villaggio, Metepa, che lavora come guardia per i giapponesi, tenta di sequestrare una donna, per sposarsela. Questo è sbagliato in un più di un modo: non solo la signora Mentil è già sposata con un protestante, ma anche Metepa è già sposato con rito religioso. Il piano giapponese di decristianizzazione dell'arcipelago prevede però la reintroduzione della poligamia: una consuetudine, notate, del tutto aliena dai costumi giapponesi, ma con la quale evidentemente i nuovi occupanti speravano di conquistare il consenso degli autoctoni. Non sappiamo quanto funzionò: sicuramente conquistarono il consenso di almeno un predatore sessuale come Metepa. Dopo che Peter manda a monte il suo primo tentativo di sequestrare Mentil, Metepa inizia a lamentarsi di lui coi superiori, che nel Natale del 1944 lo perquisiscono e lo trovano in possesso di materiale religioso. Messo agli arresti, decide di non rinnegare la propria fede anche se è consapevole del rischio: il 6 luglio del '45 avvisa sua madre che il giorno dopo verrà un dottore a dargli una medicina. "Molto strano, dal momento che non sono malato. Temo che sia un trucco". Il sette luglio in effetti muore, per l'effetto di una iniezione letale o strangolato durante le convulsioni causate dall'iniezione. Cinquant'anni dopo è stato beatificato da Giovanni Paolo II durante il suo viaggio in Papua Nuova Guinea. 

venerdì 27 giugno 2025

L'ayatollah Cirillo

27 giugno: San Cirillo di Alessandria (376-444), vescovo, teologo, e forse ha fatto uccidere Ipazia


A un certo punto, ma erano già passati più di mille anni, Cirillo diventò un simbolo di tutto quello che non piaceva più del cristianesimo. Volendo dimostrare che la Chiesa aveva roso l'Impero Romano dall'interno, Edward Gibbons non poteva trovare un caso migliore di quello di Ipazia, la filosofa lapidata dai cristiani ad Alessandria d'Egitto nel 415 con l'accusa di stregoneria. Un linciaggio che il patriarca Cirillo forse non aveva ordinato, ma dal quale nemmeno aveva preso le distanze. Tra la folla che aveva circondato la lettiga di Ipazia, si diceva, vi erano dei parabalani: un gruppo di portantini cristiani che si erano federati per fornire servizi di pubblica assistenza, ma ai tempi di Cirillo erano ormai diventati una milizia agli ordini del patriarca. Cirillo non avrebbe fatto nulla per identificare i veri assassini, o anche solo per scagionare i parabalani; l'effetto di questa ambiguità non doveva essere stato molto diverso da quello ottenuto da Mussolini dopo il ritrovamento del cadavere di Matteotti. Senza assumersi responsabilità penali, Cirillo aveva fatto intendere ai suoi oppositori che in città comandava lui. Teocrazia contro Stato di Diritto; una donna colta contro una folla di fanatici: per Gibbons il caso era chiuso e a nulla sarebbe valsa l'obiezione che, se a distanza di secoli c'era ancora un caso, lo si doveva proprio ai cronisti cristiani che avevano continuato a riportare l'episodio, in molti casi criticando aspramente Cirillo. L'assassinio di Ipazia, scrive ad esempio Socrate Scolastico, "comportò una non piccola ignominia sia a Cirillo sia alla Chiesa alessandrina. Infatti dalle istituzioni dei cristiani sono totalmente estranee le stragi e le lotte e tutte le cose di tal fatta". Questa nobile affermazione di un contemporaneo di Cirillo, dopo secoli di inquisizione vi può strappare un sorriso, ma tutto sommato nel 415 le cose stavano così: i cristiani erano usciti dalle persecuzioni da appena un secolo; l'idea che fossero loro, adesso, i persecutori dei pagani, non aveva ancora preso piede. Cirillo, con la sua milizia privata, la sua teologia arcigna e la sua politica spregiudicata, lasciava perplessi molti tra i suoi stessi correligionari: Gibbons non fece che inserirsi nel solco di una controversia millenaria tra chi lo considerava un eroico difensore della vera fede, e chi ne notava i limiti, sia teologici sia pastorali. 

A me ha sempre dato l'aria di un ayatollah, ma è una suggestione che lascia il tempo che trova. I parabalani mi ricordano i pasdaran, anche loro un po' assistenti sociali, un po' buoncostume, un po' squadristi. Le icone suggeriscono che i patriarchi del tempo amassero già lasciarsi crescere lunghe barbe, e probabilmente il suo abbigliamento pubblico non era molto diverso da quello di Khamenei: tuniche austere e magari un turbante. Più in generale, il cristianesimo alessandrino conteneva già un certo gusto per l'astrazione che sarebbe esploso con l'Islam – Dio è assoluto, è unico, immenso e misericordioso, Maometto due secoli dopo partì da una concezione molto simile, un'idea che trovò nel delta del Nilo un terreno immediatamente fertile, molto più di quanto poteva essere il deserto arabo. È un'idea che a sua volta procedeva dal platonismo, anche se ormai questa origine doveva essere stata rinnegata e resa irriconoscibile. Non sappiamo se Ipazia fu assassinata in quanto neoplatonica; di certo non in quanto pagana perché tecnicamente non lo era, trovandosi a essere un'autorevole figura pubblica in una grande città imperiale dopo l'Editto di Tessalonica che aveva messo fuori legge il paganesimo. La sua morte violenta non fu la fine della filosofia neoplatonica, che continuò a essere pubblicamente praticata ad Alessandria. L'ipotesi più ragionevole, già formulata dai cronisti antichi è che Ipazia fosse un obiettivo in quanto consulente di Oreste, prefetto imperiale che maltollerava le ingerenze di Cirillo e dei suoi sgherri nella gestione della città. Lo stesso Oreste approfittò dell'episodio per mettere Cirillo agli arresti e prendere il controllo dei parabalani; ma queste misure durarono poco: o Cirillo riuscì a dimostrare la sua innocenza, oppure aveva amici davvero molto in alto. Forse la stessa Pulcheria, madre e tutrice del giovane imperatore Teodosio II, che per temperamento poteva ammirare la severa ortodossia di Cirillo. 

Questo asse tra corte bizantina e il patriarcato di Alessandria probabilmente serviva a mantenere in una posizione subalterna l'altro patriarcato: quello di Costantinopoli. Per evitare che nella capitale il potere religioso eclissasse quello politico, a Pulcheria e cortigiani non dispiaceva che questo succedesse ad Alessandria. Cirillo aveva fatto in tempo ad assistere alla caduta in disgrazia dell'arcivescovo di Costantinopoli Giovanni Crisostomo, auspicata e pilotata dal suo predecessore (che era poi suo zio, Teofilo). A lui toccò fare più o meno la stessa cosa con Nestorio, il nuovo patriarca costantinopolitano di solida scuola antiochiana, che accettava la consustanzialità di Dio e uomo in Gesù Cristo, ma negava l'unione ipostatica: ovvero secondo Nestorio le due sostanze (divinità e umanità) rimanevano separate. Per Cirillo invece no: affermare che in una persona di Dio consistessero due sostanze era già una bestemmia. Sono questioni che possono sembrarci di lana caprina, ma ai tempi il neoplatonismo era il linguaggio comune e la forma mentis di tutti gli intellettuali: non solo di Ipazia ma anche del suo presunto assassino. A quel punto però spettava a Cirillo spiegare in che modo Cristo fosse sia Dio sia uomo, entrando, con la sua dialettica tutt'altro che sottile, in un terreno minatissimo; a ogni sostantivo astratto poteva scatenare un'accusa di eresia. Per Cirillo è un errore parlare di unione "secondo sussistenza", o "secondo natura"; ugualmente non è possibile parlare di "coabitazione", né di "congiunzione" o "relazione", nonché di "avvicinamento" e di "contatto". Possiamo chiamarla "unione", come gli antiocheni? Manco per sogno, Cirillo non li stimava e continuò a considerare Giovanni Crisostomo un Giuda tra gli apostoli. Il termine "unione" potrebbe infatti sottendere che Cristo sia un uomo che porta Dio, il che è già eretico, e quindi? E quindi, benché Cirillo recuperi la definizione di "un'unica natura del Dio Logos incarnata", deve ammettere che in Cristo si trovino due nature distinte, divina e umana. 

La distanza tra la formulazione di Nestorio può sembrarci sottilissima, e persino a quei tempi, montare casi politici sui sostantivi astratti non avrebbe funzionato. Bisogna quindi ammettere che Cirillo (o chi per lui) fu molto astuto a trovare una pietra di scandalo molto più solida. Nel 429 venne a sapere che Nestorio aveva scelto di definire Maria non più "Madre di Dio" (Theotokos), ma "Madre di Cristo" (Christotokos), ovvero madre della sola sostanza umana. Il che se ci pensate è abbastanza logico – come può Maria essere madre del Dio che l'ha creata, insomma, è evidentemente un loop. E fu proprio il loop che Cirillo utilizzò per strangolare l'avversario: infatti, se tutto ciò che si può dire del Cristo-uomo, può essere detto anche del Cristo-Dio, Maria di Nazareth era assolutamente degna di essere chiamata Madre di Dio, come del resto i costantinopolitani facevano da sempre senza aspettare i pronunciamenti dei teologi – già, e perché lo facevano? Possiamo sospettare che Nestorio stesse sfidando certe tradizioni mantenute dagli abitanti della capitale (e tollerate dalla corte), sulle quali pesava un sospetto di paganesimo: i costantinopolitani erano molto devoti alla Madre di Dio, proprio come i loro antenati provenienti per lo più da Tracia e Asia Minore adoravano la Dea Madre. Uno dei centri del culto matriarcale era Efeso, e fu proprio a Efeso che l'imperatore Teodosio II convocò un concilio. 

Cirillo ebbe la fortuna o l'astuzia di arrivare a Efeso prima di Nestorio, e il cinismo di cominciare la discussione senza aspettarlo: tanto che quando questi arrivò, scoprì di essere stato scomunicato. A sua volta convocò un altro sinodo per scomunicare Cirillo; nel frattempo l'imperatore era diventato maggiorenne e forse oscillava tra i due, ma secondo i cronisti più ostili all'egiziano, Cirillo risolse la questione offrendo bustarelle a tutti, al punto di indebitare il patriarcato. Non andò così liscia; a un certo punto Giovanni d'Antiochia riuscì a ottenere una maggioranza di quarantatré vescovi che lo fece arrestare. Ma ormai la missione era compiuta, Nestorio era screditato e avrebbe finito i suoi giorni in un'oasi araba; Cirillo, una volta scarcerato trovò una formula di compromesso con gli antiocheni e tornò nella sua Alessandria. Si spense serenamente prima di compiere settant'anni, senza sapere che la sua formulazione dell'unione ipostatica avrebbe gettato i semi dell'eresia monofisita. 

lunedì 23 giugno 2025

La vergine del ciarpame

23 giugno: Santa Eteldrude di Ely (636-679), regina, badessa, ma soprattutto vergine


In italiano come le chiamiamo? Cianfrusaglie? No, le cianfrusaglie sono meno decorative, di solito giacciono in scatoloni nel garage. Ninnoli? No, un ninnolo è già bigiotteria, chi ha coraggio e autoironia lo può persino sfoggiare. Paccottiglia? Forse "paccottiglia" si avvicina: però dà una sensazione di nascondimento, è roba chiusa in pacchi che nessuno ha più intenzione di aprire. Carabattola: non so, "carabattola" mi dà l'idea di vecchie suppellettili un tempo utili, e assolutamente non decorative. Ciarpame? Ma no, "ciarpame" mi suona già pattume. In certe zone, almeno in Alta Italia, si usa Tirapolvere, che mi sembra abbastanza eloquente: parliamo di quegli oggetti che ci vengono regalati e che non abbiamo il coraggio di buttar via, per cui in un modo o nell'altro finiscono sopra i comodini, i cassetti, a prender polvere per l'appunto. Per dirla con Gozzano: "Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone / i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto)". Ecco, questo genere di cose gli inglesi lo chiamano "tawdry", anche se spesso non sanno il perché. Voi invece avete già indovinato, miei scelti lettori, che ha a che vedere con una santa: bravi, ma in effetti questa è la rubrica dei santi, per cui forse il mistero non era così impenetrabile. Si tratta di una santa dimenticata, come in fondo quasi tutte in quell'isola che a un certo punto ha deciso di farne a meno. Santa Eteldrude di Ely, due volte regina, in quanto sposa di due re: e ciononostante vergine, non per miracolo ma per tetragona ostinazione. 

Ne abbiamo già visti, di casi del genere. Per quanto sia facile, e non del tutto sbagliato, accusare la Chiesa di aver fornito alle società patriarcali uno strumento di controllo delle nascite basato sulla segregazione: il chiostro, dove generazioni di ragazze sono entrati per volere dei genitori, e per non uscirne più, abbiamo già più volte registrato la situazione opposta: ragazze che i genitori avrebbero voluto sposate e sistemate, tranne che loro non ci pensavano minimamente e anzi facevano di tutto per entrarci, in quei chiostri. Da Eteldrude (o Eteldreda), figlia di un re degli Angli orientali, ci si aspettava che facesse il suo dovere di principessa, contraendo un matrimonio che fornisse alla casata un vantaggio diplomatico, e sfornando eredi all'altezza. A 18 anni infatti viene infatti data in sposa a Tonberto, principe di una tribù di Angli. Ma Eteldrude (se ne trascrivo il nome in inglese medievale, Æthelthryth, sembrerò di colpo più esperto anche se ho soltanto fatto ctrl+v) riuscì a convincere il marito non solo a vivere in perfetta castità, ma anche a regalarle l'isola di Ely, che a quel tempo spuntava tra le paludi dette Fens, dove fece costruire un chiostro in cui andò a rinchiudersi appena il marito morì, tre anni dopo. Etel era ancora nel fiore degli anni, e vergine, e quindi la famiglia le trovò un nuovo partito: niente meno che il re di Northumbria (l'Inghilterra settentrionale), Ecgfrith o Egfrido. Anche stavolta Eteldrude, (Æðelþryð in antico sassone), accettò il matrimonio soltanto a patto che il fidanzato rispettasse il voto di castità. Egfrido accettò, ma bisogna dire che aveva quattordici anni e forse sottovalutò il problema: solo da lei, infatti, avrebbe potuto avere eredi legittimi. Sappiamo che dodici anni dopo Egfrido chiese a Wilfrido (o Wilfried), vescovo di York, la più alta autorità in zona, di sciogliere Eteldrude dal suo voto. E Wilfried probabilmente avrebbe acconsentito: non fosse che Eteldrude proprio non ne voleva sapere e alla fine riuscì a convincere il marito al ripudio, entrando nel monastero di Goldingham, dove comandava la zia di Egrido, Sant'Ebba l'anziana. Egfrido colse l'occasione per rompere con il vescovo Wilfrido, ma anche per risposarsi.

In seguito sarebbe tornata nella sua isola in mezzo alla palude e lì sarebbe diventata badessa, come le sue tre sorelle Sesburga, Etelburga e Withburga. Sarebbe morta a 45 anni, probabilmente di un tumore al collo la cui escrescenza aveva interpretato come una punizione divina per le collane pesanti che aveva indossato nella sua giovinezza vanitosa. Nel medioevo fu una delle sante inglesi più rinomate, anche grazie all'inno scritto in suo onore da Beda il Venerabile: veniva invocata contro il mal di gola e tutti i problemi relativi al collo; e siccome il nome Æþelðryþe cominciava a risultare ostico anche agli inglesi, divenne più nota come Saint Audrey. Dallo stesso nome deriverebbe il termine "tawdry", che all'inizio designava un girocollo di tessuto che i fedeli portavano a far benedire nel giorno della festa di Santa Audrey, affinché acquisisse poteri curativi; finché non arrivarono i puritani, la tradizione andò persa, e "tawdry" divenne sinonimo di... cianfrusaglia? no. Paccottiglia? no. Ciarpame? no. Chincaglierie, ecco, ci si avvicina. Che forse è il destino dei santi in Inghilterra: non distrutti e raschiati via dalle chiese, come nell'Europa protestante. Gli anglicani non hanno avuto il coraggio di buttarli via, e li tengono ancora lì, su qualche altare secondario, a prendere polvere.  

sabato 21 giugno 2025

"Anziani alla guida"


Ce ne sarebbe da dire, con tutto quello che è successo; ma faceva troppo caldo e così ho messo la famiglia in macchina puntando verso il mare. Dopo la Cisa stanno rifacendo dei viadotti ed era ora, perciò a un chilometro qualsiasi ci siamo trovati davanti a un bivio imprevisto, sarà successo anche a voi. Le due corsie dell'autostrada si separano, nel giro di pochi secondi bisogna decidere da che parte stare anche se quasi sicuramente le due piste si riuniranno alla fine del cantiere. E sia detto, a onore dei responsabili, che due cartelli identici erano stati messi, a fugare ogni sospetto e dubbio: quello che puntava a sinistra diceva LA SPEZIA, mentre quello che puntava a destra ugualmente recava LA SPEZIA, per cui capite bene che ogni precauzione per tranquillizzare i viaggiatori era stata presa. 

Ciononostante. 

Ciononostante io, che in un soprassalto di prudenza avevo scelto la corsia destra (la più sicura in questi casi; la meno esposta a non implausibili frontali con i veicoli incanalati nella direzione opposta) ecco che mi ritrovo dopo qualche centinaio di metri a inchiodare bestemmiando (a voce alta) e pregando (a voce muta), perché?

Perché un idiota in una Punto, che aveva preso la mia stessa corsia, aveva deciso di punto in bianco che non era quella giusta: non solo che lui non desiderava recarsi alla Spezia, destinazione in effetti un poco deludente, bensì alla Spezia! Quello sì un traguardo degno di cotanto spavaldo pilota! ma che un simile cambiamento di idea fosse ammissibile trecento metri dopo il bivio, quando le due vie delle spezie erano ormai separate da coni segnaletici, o jersey o triangoli o chennesò, non è che io abbia avuto il tempo per osservarli mentre cercavo di salvare la vita alla famiglia su un viadotto a mobilità limitata, ma insomma l'idiota si era fermato in mezzo all'unica corsia a disposizione e stava aspettando il momento propizio per farsi strada tra i coni, i triangoli, per farsi ammazzare dalle vetture che procedevano spedite verso la sinistra, visto che io che avevo scelto la destra non provvedevo. 

È tutto durato una manciata di secondi ー la frenata, lo sguardo febbrile allo specchietto alla ricerca dell'Audi che mi avrebbe prontamente tamponato se frenavo troppo, la bestemmia, la preghiera, il sollievo e persino un'ultima osservazione con la coda dell'occhio: sul lunotto posteriore della Punto un parente apprensivo aveva stampato un A4: ANZIANO ALLA GUIDA. E io, che avevo appena ascoltato una rassegna stampa, ho pensato che in fondo dovevo smetterla di incazzarmi, e in generale anche solo di ascoltare le rassegne di una stampa generalmente scritta da anziani che se gli dai una Punto in mano guarda che ti combinano: e se gli dai l'editoriale in prima pagina, cosa ti aspetti?

E se gli dai la Casa Bianca?

Così insomma ce ne sarebbe da scrivere, in questi giorni: ma fa troppo caldo e inoltre sono al mare. 

venerdì 13 giugno 2025

Antonio, l'antifrancesco

Tanzio da Varallo. 
13 giugno: Sant’Antonio di Padova (1195-1231), frate prodigio. 

Nell’ottava della Pentecoste del 1221, i frati minori dell’ordine di Francesco si ritrovarono alle pendici di Assisi. A quel punto erano circa tremila, una piccola Woodstock intorno alla Porziuncola. Però medievale, quindi senza amplificatori, senza promiscuità, senza rifiuti di plastica, e droghe sintetiche; cosa restava? Il fango, la polvere, le tende, anzi le stuoie. Capitolo delle Stuoie, così lo avrebbero chiamato. Francesco era ancora vivo, ma già in qualche modo santo, una celebrità da esibire con parsimonia mentre una cerchia di confratelli cercava di traghettare il movimento dalla rivoluzione pauperista alla normalità di un ordine mendicante. L’alternativa era finire presto o tardi bruciati o massacrati, come più in là nel secolo sarebbe capitato ai catari della Linguadoca. Francesco tutto sommato si era mosso bene, aveva saputo inginocchiarsi a Papa Innocenzo al momento giusto: ma il pauperismo radicale che predicava e ancora dettava nelle regole era potenzialmente esplosivo. Intorno a lui il movimento aveva raccolto tutto quello che la società duecentesca non riusciva a omologare: figli di papà indisposti a lasciarsi inquadrare nella borghesia comunale, come era stato Francesco stesso; avventurieri senza arte né parte che non mancano mai; mendicanti che, da quando vestivano il saio, avevano raddoppiato le entrate; predicatori dell’Apocalisse che continuavano a ripetere le profezie di Gioachino del Fiore, rischiando la scomunica; fanatici delle crociate, semplici imbroglioni e così via. Il campeggio doveva durare una settimana, ma molti rimasero altri due giorni a consumare le provviste in sovrappiù. Alla fine comunque se ne andarono tutti, i mendicanti a mendicare, i predicatori a predicare, i missionari alle missioni, finché in mezzo alle stuoie consumate e ai rifiuti degli avanzi non rimase che un ragazzo, corpulento e taciturno. E tu chi sei?, gli chiese fra Graziano, responsabile di zona in Romagna. Non ce l’hai un posto dove andare?

Il ragazzo rispose… non ho la minima idea di come rispose, mica c’ero. Ma lo immagino chinare il capo e scuotere appena la testa.

“Beh? Non hai niente da dire? T’han mangiato la lingua, fratello? Come ti chiami?”

"A’m ciam Antòni, fradel".

"Ma sei romagnolo?"

Ovviamente no. Antonio veniva da Lisbona e per arrivare ad Assisi era passato, assurdamente, dall'Africa; ma sappiamo che aveva il dono delle lingue: le imparava subito e le riproduceva a piacere. Gente così esiste, ne ho conosciuta: così come esiste chi riesce a cavare un bel suono da uno strumento che prende in mano la prima volta. È un dono di Dio, se in Dio ci credi; ma anche se non ci credi, quando senti uno come Antonio rivolgerti la parola, il dubbio un po' ti viene. 

***

Nel 1980, su Linus, Altan pubblica Franz, ovvero la vita di Francesco d'Assisi a puntate. Molto prima di diventare il vignettista da prima pagina di Repubblica, Altan è stato un fumettista geniale e idiosincratico, e con Franz ha realizzato qualcosa che, per quel che ne so, nessun autore ha mai osato né prima né dopo: la demistificazione di Francesco d'Assisi. Il Franz di Altan è un ragazzino viziato e mitomane, che si lascia manovrare da poteri molto più grandi di lui, ma assolutamente umani. Verso la fine della storia, quando il lettore è ormai rassegnato a un mondo senza redenzione, dove i santi sono fantocci e i cardinali maneggioni, Altan fa entrare in scena Antonio, come un regista astuto che si tiene la guest star per le ultime sequenze. Il suo Antonio è spiazzante quanto Francesco: Altan ha fatto i compiti e sa che prima che gli artisti rinascimentali lo trasformassero in un ragazzino imberbe, nelle raffigurazioni medievali Antonio era distinguibile da Francesco perché molto meno magro, se non proprio sovrappeso. Altan aggiunge due inquietanti orecchie a punta, e i capelli crespi che avrà trovato in qualche santino brasiliano – Antonio è un santo popolarissimo in Sudamerica, dove assume i tratti somatici dei mulatti. È seduto a fianco a papa Innocenzo ed è astuto come un demonio – forse è il demonio. Con abili manovre convince il papa ad autorizzare l'ordine francescano, e Francesco a promettere di partire per la Terrasanta. Così un ordine nasce, ma Francesco deve subito allontanarsi, e Antonio gli subentra, dimostrandosi da subito molto più adatto al ruolo. Non è che le cose siano davvero andate così. Ma la sintesi di Altan ha un senso: il carisma di Antonio si fa spazio proprio nell'eclissi di Francesco, in quel periodo turbolento in cui il fondatore diventa un personaggio troppo ingombrante. Le centinaia di miracoli che gli sono state attribuite, a Francesco non si potevano attribuire perché la sua vita era un terreno di battaglia tra fazioni che raccontavano storie molto diverse, e a un certo punto fu letteralmente commissariata: le vecchie biografie distrutte e sostituite con l'unica biografia ufficiale, redatta dal capitano dell'Ordine. Per contro, l'esistenza di Antonio era molto meno controversa: dal Capitolo delle Stuoie in poi, era sempre stato dalla parte dei moderati, e i moderati lo ricompensarono alzandolo su un piedistallo che a un certo punto superò quello del fondatore.

In un certo senso Antonio è l'antiFrancesco, oppure può darsi che così come il cristianesimo non fu più lo stesso dopo la predicazione di Paolo, così il francescanesimo che c'è arrivato deve ad Antonio da Padova molto di più di quanto gli stessi francescani possano ammettere. Anche la venerazione per i due santi ha un che di complementare: Francesco è uno dei santi più ammirati e popolari tra i non cristiani, presso i quali Antonio è un illustre sconosciuto; quest'ultimo è uno dei santi più venerati dai cristiani praticanti, almeno in Italia e in Sudamerica. Oggi Francesco continua a ispirare film e fiction, mentre Antonio sembra una figura più opaca; ma per secoli il modello di frate predicatore è stato quello interpretato da Antonio. Da italianista, trovo irresistibile il paragone coi due grandi fondatori della poesia volgare; oggi tutti amiamo Dante, ma per secoli i poeti si sono riferiti soprattutto alla poesia di Petrarca. Il primo ha stupito il mondo con qualcosa di difficile da imitare; il secondo si è preoccupato soprattutto di normalizzare, di offrire a chi veniva dopo di lui un modello più praticabile; per cui di solito ammiriamo il primo e copiamo il secondo. 

Lo stesso Antonio, da ragazzo, era stato uno dei più accaniti ammiratori di Francesco: malgrado ne sentisse parlare a migliaia di chilometri di distanza, nel monastero di Coimbra in cui si era autoconfinato, Antonio aveva perfettamente recepito il messaggio radicale della sua predicazione. Francesco voleva tornare alla povertà evangelica, e convertire gli eretici e perfino i Saraceni con la pura forza della fede. Non servivano più gli studi e Antonio, studioso brillante, li interruppe. Indossò un sacco e partì appena possibile per l'Africa, come avevano fatto i primi quattro martiri francescani che prima di salpare per il Marocco erano passati proprio da Coimbra. Forse Antonio era riuscito a conoscerli; di sicuro era stato informato della loro tragica sorte, perché testimoniando la loro fede alla maniera francescana, senza difendersi con le armi dei crociati ma sostenendo con fermezza che l'Islam era un'eresia nel bel mezzo di Marrakesh, i quattro erano stati rapidamente arrestati e decapitati. Antonio decise che avrebbe seguito il loro esempio e s'imbarcò per il l'Africa. Giunto nelle terre degli infedeli, non sarebbe però riuscito a guadagnarsi il martirio con la predicazione a causa di una malattia contratta in loco. Ripresa la via del mare, arriva in tempo proprio per il Capitolo delle Stuoie, l'unico episodio in cui incontra di persona Francesco – ma da lontano, senza potergli dire niente. 

Antonio assiste al Capitolo: malgrado abbia smesso di studiare, continua a essere una mente brillante e probabilmente si rende conto che la battaglia tra oltranzisti e moderati si è già combattuta, e Francesco l'ha persa; se rimane deluso dalla rassegnazione del fondatore, se lo tiene per sé. Ma capisce che i francescani ormai stanno diventando qualcosa d'altro, e presto o tardi si adegua. Ritrovatosi quasi per caso in una piccola cellula francescana nei pressi di Forlì, Antonio in un primo momento dissimula le sue doti intellettuali, ma quando lo costringono a predicare si rivela un talento naturale. Nel giro di pochi anni diventa la nuova star dell'Ordine, sguinzagliata dai superiori in Italia settentrionale e in Provenza a misurarsi retoricamente contro i Catari che dilagavano nelle città e nelle campagne. È il primo predicatore a rendere necessario un servizio d'ordine, perché intorno ai suoi pulpiti improvvisati la gente si accalcava rischiando di farsi e fargli male. Anche Francesco era stato un trascinatore carismatico, e può darsi che il successo di Antonio abbia in un qualche modo colmato un vuoto; Francesco ormai non andava più in tour, viveva segregato dal mondo alla Verna; chi avrebbe voluto vederlo e ascoltarlo doveva accontentarsi di Antonio, ma se Antonio all'inizio non era altrettanto famoso, sapeva spiegarsi molto meglio e attirava l'attenzione con miracoli veramente ben congegnati. Viene il sospetto che alcuni miracoli poi attribuiti a Francesco (la predicazione agli uccelli) siano la rielaborazione di prodigi compiuti da Antonio (che invece predicò ai pesci); quest'ultimo aveva già un senso teatrale del miracolo, come i predicatori dei secoli successivi; i suoi prodigi avvenivano sempre in pubblico, davanti a un popolo incantato che poi per settimane e mesi non avrebbe parlato d'altro, contribuendo a far circolare la fama del santo. 

Antonio diverrà presto così popolare che alla sua morte  (intervenuta troppo presto a 36 anni), scoppierà una contesa tra il borgo di Capodiponte, dove era morto mentre cercava di rientrare alla sua sede di Padova, e Padova stessa, su chi aveva il diritto a conservare il corpo. Oggi la maggior parte riposa nella basilica a lui dedicata; in particolare la lingua, che sembrava in grado di riprodurre ogni lingua vivente senza sforzo.  

giovedì 12 giugno 2025

Dodici milioni di voti, lo chiamano un disastro

Lo sconfittismo, suicidio del progressismo. 

C'è una pagina di Fenoglio a cui mi capita ogni tanto di pensare. In questa pagina c'è un partigiano, che come capita spesso in Fenoglio è poco più di un ragazzino; si dà arie di ribelle, sfoggia le armi, ha una grande voglia di usarle anche solo per sentirne il rumore. È chiaro che non è pronto al combattimento, ma anche noi lettori non siamo pronti alla sua reazione quando il nemico si manifesta all'improvviso. Invece di perdere la testa, di sparare all'impazzata – tattica disperata, ma giustificabile – il ragazzo si mette a camminare verso i tedeschi con l'arma nella mano protesa, come a volerla restituire: ha sentito un ordine urlato con una voce stentorea, e deve obbedire. Invece di dar retta all'orgoglio di cui sembrava intriso, al buon senso, persino all'istinto di conservazione, il ragazzo si rivela in balia di un istinto ancora più forte: l'istinto gregario di consegnarsi al più forte, con le proprie armi, il proprio cuore, la propria anima. Questo istinto gregario esiste in molti di noi – forse in ciascuno di noi, che discendiamo da migliaia generazioni di raccoglitori e cacciatori, ma anche di servitori e schiavi. Nella maggior parte di noi questo istinto è talmente sopito che quando affiora, a volte non riconosciamo nemmeno noi stessi; altri ne sono completamente manovrati; altri devono combatterci per tutta la vita. Altri, infine, riescono a puntellarci sopra una carriera di successo: in fondo di servi c'è ancora bisogno, in tutti i settori.

Nel settore della politica continua evidentemente a essere molto richiesta una specifica figura professionale: il soggetto che sostiene (A) di essere di sinistra e (B) che la sinistra stavolta abbia perso, e che sia necessario, indispensabile, inderogabile ammetterlo, come in effetti lo sta ammettendo lui. Ne avete tutti presente qualcuno: i feticisti dell'analisi-della-sconfitta, gli artisti dei Concession Speech. Ne sanno scrivere di bellissimi, al punto che ti domandi se non siano stati selezionati apposta per questo; per interpretare il ruolo del bel perdente che accetta nobilmente la sconfitta, affinché noi teppa possiamo capire dal suo esempio che perdere è utile e necessario, ed è molto meglio ammettere subito di aver perso, ancora prima che escano i numeri ufficiali. In un'epoca in cui la politica è un dibattito, ammettere la sconfitta è un atto performativo che si può realizzare anche quando ancora non è sicuro che stai perdendo o no, come capitò ad Al Gore nelle elezioni del 2000 (ma viene il sospetto che questa vocazione suicida sia la ragion d'essere del partito democratico, perlomeno quello USA).

Se gli sconfittisti sono giornalisti, hanno il loro pezzo già pronto una settimana prima della consultazione: i risultati non essendo in effetti che dettagli. Se vogliamo per esempio parlare di questi ultimi referendum, promossi da sindacati e partitini che lottano per la visibilità, quasi ignorati dai media (che comunque stanno perdendo la loro centralità) i numeri crudi ci direbbero che il 30% degli aventi diritto sono andati a votare, malgrado il quorum fosse un obiettivo praticamente impossibile, insomma sono andati a votare soltanto per contarsi e se li contiamo non sono poi così pochi. In particolare in questo 30% ci sono tra dodici e tredici milioni di persone che hanno votato per abrogare leggi difese non solo da questo governo, ma anche da quei centristi liberali che senza riuscire a mandare in parlamento nessun partito continuano a infestare quelli di centrosinistra e centrodestra. È una "vittoria"? No, non lo è: una vittoria era impossibile. Resta un dato molto interessante che spiega come mai a molti rappresentanti del governo siano saltati i nervi: dodici milioni sono più o meno lo stesso numero di voti che nel settembre del 2022 consentirono aa Meloni di formare un governo di maggioranza. Per i due principali partiti che hanno scelto di appoggiare la consultazione referendaria, PD e M5S, è un risultato incoraggiante in linea con quello delle ultime consultazioni amministrative. I numeri dicono più o meno questo, ma se il padrone ha deciso che invece Shlein e Conte hanno perso, i servi non possono che formulare lo stesso originale e coraggioso pensiero, con variazioni sul tema, ma neanche tante. Ha un senso discuterci? Probabilmente no, nella maggior parte dei casi: c'è chi recita a soggetto, e continuerà a recitare finché ci sarà un copione e uno straccio d'ingaggio. La mission è dare addosso all'unica possibile coalizione che abbia chances elettorali contro la destra; la speranza è che da qualche parte tra le macerie sorga finalmente il soggetto centrista e moderato che un sacco di editori evidentemente non smettono di desiderare, e pazienza se agli elettori continua a non interessare. Poi ci sono quelli in buona fede, i mistici della sconfitta, che vedono dodici milioni di voti, e lo chiamano un disastro. E sono loro, soprattutto, che mi fanno pensare a quella pagina di Fenoglio, a quel ragazzo ipnotizzato dalla voce stentorea del nemico.