Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

sabato 13 dicembre 2025

Visto qualche bel film di recente (2025)? (prima parte)

Infatti l'ho visto su una piattaforma
Io sono la fine del mondo (Gennaro Nunziante, che quando dirige Checco Zalone è efficacissimo e qui invece proprio non ce la fa).

Dio mio. Dio mio che imbarazzo, che sofferenza. Duro non è che non sappia semplicemente recitare; dà l'impressione di non saper vivere, di vestire a disagio un costume da essere umano senza avere ricevuto un training adeguato. Gli occhiali scuri servono a mascherare l'incapacità di manovrare le pupille o aggrottare le sopracciglia; la cadenza palermitana occulta l'incapacità di esprimere sentimenti attraverso la modulazione della voce. Tutti noi quando parliamo possiamo usufruire di vari registri: possiamo urlare, sogghignare, sibilare, ecc. Duro non lo sa fare, ha solo il suo tono metallico standard e, se proprio il copione lo richiede, un'altra vocina fastidiosissima che dovrebbe ripetere i rimbrotti che gli facevano da piccolo i genitori ("non bere la coca cola"), ma è talmente acuta fa farci ipotizzare che sia la voce interiore del bambino che quei rimbrotti li subiva, ed evidentemente non li ha mai superati.

Così un film che dovrebbe agitare lo strale del politically uncorrect, alla fine lo rivolge per lo più contro sé stesso, fornendoci l'immagine più impietosa possibile dell'autocoscienza di una personalità nello spettro autistico. Il motivo per cui allo spettatore è richiesta una sospensione della credulità fortissima (nel mondo reale Duro sarebbe stato menato a sangue al minuto 3, titoli di coda) è che tutto avviene in una realtà immaginata da lui, in cui tutti dovrebbero per qualche motivo lasciarsi manipolare da questo tizio che non sa nemmeno dire le bugie. Tutti gli credono, tutti lo perdonano, tutti recitano in modo esageratamente teatrale (o forse è il contrasto con la sua fissità terribile), perché probabilmente è così che lui vede il mondo: un posto dove tutti recitano e fanno un sacco di smorfie, che lui non sa fare, e nemmeno capisce a cosa servano.


Sly Lives! (aka The Burden of Black Genius) (Questlove)

È morto D'Angelo, proprio pochi giorni dopo che lo avevo rivisto mentre cercavo tutt'altro, in un docufilm dedicato a Sly Stone che è sottotitolato Il fardello del genio nero. D'Angelo veniva intervistato non tanto per parlare di Sly (ovvio che ne parlerebbe benissimo), ma per rinforzare la tesi contenuta nel sottotitolo, ovvero una peculiare difficoltà che avrebbero gli artisti afroamericani a gestire la propria genialità. Un senso di colpa ancestrale, la necessità di affrancarsi da un contesto sociale misero e problematico, senonché appena ti affranchi appena un po' ti senti un traditore, ecc. Una tesi abbastanza convincente, e però io stavo guardando il docu su Sly Stone per un altro motivo: cioè pur dando per scontato che aveva avuto tanti problemi a gestire la sua genialità, io dopo tanti anni faccio ancora fatica (è imbarazzante ammetterlo) a capire in cosa questa genialità consista.

Sly & the Family fa parte di quell'esiguo insieme di artisti che mi devo far piacere con la forza, perché se dovessi essere davvero sincero con me stesso, ecco, no, mi sembra sempre che nelle sue canzoni manchi qualcosa. Non so mai cos'è – di sicuro non il groove – però a volte mi sembrano sorrette soltanto dal groove, come se fosse un male. Ma non è vero, ci sono anche le melodie, eppure oh, non so spiegarmelo, non c'è niente da fare, a me Sly Stone sembra un autore incompleto. E per quanto milioni di dischi venduti stiano lì a dirmi che mi sbaglio, niente riesce a togliermi dalla testa l'idea assurda che anche Sly condividesse questa sensazione, e che il suo fardello personale si sia ingrossato man mano che il pubblico riconosceva in lui un genio, una pressione crescente a esprimere una genialità che nessuno sa esattamente in cosa consista ma a un certo punto c'è un popolo intero che la pretende, e tu che fai, non ti droghi? Magari drogarsi aiuta, ma poi invece si scopre che è l'esatto contrario, ah, troppo tardi. La sua prima canzone di successo (Sing a Simple Song) partiva proprio dall'ammissione della propria impostura, cioè insomma come faccio a scrivere una canzone facile, una canzone che funzioni, dunque ci mettiamo il ritmo, poi la melodia, poi i battimani, e piacerà? E dopo questa, cosa mi dovrò inventare? Qualche sostanza mi potrà aiutare? Vasodilatatori, autoreclusione, farsi odiare dal pubblico e dai collaboratori arrivando puntualmente in ritardo ai concerti, autosabotaggio, autotrasformazione in macchietta televisiva, e tutto sommato non gli è andata nemmeno così male, è sopravvissuto a Michael Jackson e a Prince.

Qualche mese dopo l'ha seguito D'Angelo, e io non ho molto da aggiungere. Avrete già indovinato che fa parte dello stesso esiguo insieme di artisti che, per quanto mi ci sia sforzato, non riesco a capire. Anche lui così raffinato, eppure così incompleto, perlomeno alle mie stupide orecchie. Non mi sembra che sia molto chiaro il perché abbia fatto due dischi in vent'anni, e forse è giusto così, non è che il vissuto degli artisti deve per forza far parte del pacchetto. Ma se davvero era, come a volte sembrava, perennemente insoddisfatto del suo lavoro, se tutti questo vociare di genialità intorno a lui gli ha creato più problemi che vantaggi, ecco, posso capirlo, e forse questo mi può aiutare un poco a decifrarlo.


L'Eternauta (Bruno Stagnaro, 2025)

Mi sento praticamente in dovere di guardare l'Eternauta, però se devo essere sincero tutta questa voglia di vedere gente per strada che muore all'improvviso senza un motivo, ecco, no: è angoscia, è disagio, non ne traggo nessun piacere emotivo, già la vignetta del padre che si accascia al suolo rantolando "i bambini", ripresa in qualche libro scolastico come esempio di narrazione a fumetti, non dico che mi traumatizzò la preadolescenza, ma insomma è proprio una cosa che mi rende triste senza motivo e di motivi ne avrei pure.

Poi penso che ok, nessuno mi costringe a vedere l'Eternauta, anche da un punto di vista culturale mi sono già abbondantemente coperto col fumetto, la storia più o meno so già dove andrà a sbattere e se ci sono variazioni importanti le recupererò in venti minuti su wikipedia, tra l'altro l'Eternauta è uno di quei capolavori in un certo senso seminali, ovvero che quando escono lasciano sgomenti perché mostrano qualcosa a cui nessuno aveva ancora pensato (un'apocalisse urbana! Superstiti che lottano contro mostri di casa in casa!) dopodiché vengono ripresi da centomila epigoni, alcuni dei quali, è statistica, finiscono per produrre contenuti più aggiornati, più interessanti, per cui alla fine uno può anche dire sì vabbe' ma prima di tutte queste apocalissi zombie c'è stato l'Eternauta, ma se poi va a rileggerselo, l'Eternauta, non lo trova necessariamente migliore di tutto quello che è successo dopo. È semplicemente il primo, anche se dal suo punto di vista non lo era affatto perché in fondo riproponeva la wellsiana Guerra dei mondi; a dargli quello scatto in più fu appunto l'ambientazione contemporanea urbana, il survivalismo, l'angoscia senza requie, la disillusione latina per l'apparato statale. Un altro scatto importante lo fece nel decennio seguente un regista, anche lui d'origine latina, sostituendo agli alieni i cadaveri: trovata geniale non solo perché i cadaveri spaventano di più, ma perché da un punto di vista dei trucchi e degli effetti speciali sono davvero più convenienti, e questo credo sia il vero motivo per cui da Romero in poi gli zombie hanno fatto il botto e le invasioni aliene sono relativamente passate di moda (anche lo scenario tipicamente sf "i robot prendono il potere" cinematograficamente non aveva molte speranze, rispetto alla possibilità di conciare un centinaio di comparse da cadaveri).

Alla fine non credo che al mondo freghi un granché se ho voglia o non ho voglia di guardare l'Eternauta, ma forse il problema è un altro: che invece un sacco di gente sì – magari si sentono anche loro un po' obbligati – ma evidentemente c'è mercato per le apocalissi urbane, per alieni assassini o cadaveri antropofagi, per gente innocente che muore all'improvviso e pochi superstiti angosciati che si arrabattano come possono. A me questa roba, lo dico sinceramente, dà una grande angoscia, ma a milioni di persone no, o comunque è un'angoscia che trovano piacevole, rassicurante. Probabilmente Lopez e Oesterheld con quell'idea della neve assassina scoprirono una miniera d'oro che ancora oggi macina dollari, euro, pesos, alla gente piace vedere gli innocenti morire e immedesimarsi, suppongo, nei sopravvissuti. È una considerazione che mi mette sempre un po' a disagio, esco di casa la mattina e intorno a me c'è gente che magari si diverte con The Last of Us, come impedire loro di immaginare di farmi fuori con un fucile a pompa. Vivono tra noi, magari sono la maggioranza, un giorno forse prenderanno l'iniziativa, forse è meglio se faccio provviste, mi procuro armi di difesa, mi studio la situazione, magari alla fine me lo guardo anche, questo Eternauta.

domenica 7 dicembre 2025

Tutti uguali davanti alla legge – ma davanti a Delrio?


Egregio onorevole Delrio,

credo che lei meriti almeno un po' di franchezza: chi le scrive questa lettera non la stima come politico, e soprattutto come legislatore. Anzi credo veramente che da questo punto di vista lei sia un disastro. A distanza ormai di dieci anni, se ogni tanto mi capita di pensare a un decreto approvato da un parlamento (e ahimè, sottoscritto dal Presidente della Repubblica) che contenga non soltanto caratteri di palese anticostituzionalità, ma un vero e proprio affronto al senso comune, a quella minima definizione di democrazia che impariamo tutti sui banchi di scuola quando sono ancora banchi molto piccoli, questa idea che i cittadini siano tutti uguali davanti alle legge, ecco: quando penso a una legge che nega questi minimi principi... mi viene sempre in mente il cosiddetto decreto Delrio, la legge 56 del 7/4/2014, e in particolare quell'asciuttissimo comma 19: "Il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo". Così, con uno sbrigativo colpo di penna, lei aveva tolto a milioni di italiani il diritto di essere rappresentati dal loro sindaco "di aria vasta", per il semplice e allucinante motivo che non sono cittadini del comune capoluogo, ma di altri comuni che a lei evidentemente non interessavano: a lei e ai suoi colleghi che la appoggiarono in quella iniziativa riformatrice clamorosamente anticostituzionale, che la maggioranza dei cittadini bocciò sonoramente appena ebbe la possibilità di farlo: così che di tutto quel grande disegno restano soltanto, qua e là, certi decreti orribili, purtroppo ancora in vigore, quasi a ricordarci di quanto sia fragile la democrazia se lasciamo responsabilità legislative alle persone non adatte. 

Ecco: a dieci anni di distanza, onorevole, io devo confermare quell'impressione; magari è soltanto una coincidenza, ma nel momento in cui si è trattato di nuovo scrivere una proposta di legge orribile, che che sfida il buon senso e la Costituzione – una proposta di legge che immagino nessuno dei suoi colleghi avesse troppa voglia di associare al proprio cognome e alla propria immagine pubblica – eccola di nuovo sul luogo del delitto, eccola di nuovo pronto a sobbarcarsi l'ennesima sfida a quell'articolo 3 della Costituzione che a questo punto forse davvero a lei non piace; sì, a volte è anche una questione di gusti. Glielo recito: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". E a questo punto glielo chiedo – e chiedo a lei la medesima franchezza, per favore: cosa c'è davvero che non sopporta in questo articolo? Perché non perde l'occasione per ignorarlo, per sfidarlo, per offenderlo?

Ho letto in giro che la sua bozza anti-antisemitismo va inquadrata soprattutto in un più generale conflitto di correnti all'interno del partito in cui non ha rinunciato a militare, il PD: e in effetti la ricordo, pochi mesi fa, piuttosto insoddisfatto della direzione imposta dalla segretaria Elly Schlein: segretaria eletta in regolari primarie, i cui risultati promettenti da un punto di vista elettorale sono davanti agli occhi di tutti. Ma lasciamo stare per un attimo la guerra di bande, la tendenza quasi automatica dei centristi di quel partito a sabotarlo quando non riescono a controllarlo. Ci sono tanti modi per opporsi a un progetto politico che non si condivide: tanti modi che non prevedano di legare il proprio nome a un'altra legge orribile e incostituzionale, che assume come punto di partenza un documento ridicolo (la definizione IHRA sull'antisemitismo), da anni irriso da chiunque affronti seriamente la questione in ambito accademico e legislativo. Ma le voglio chiedere, onorevole: avrebbe davvero bisogno di consulenze accademiche, e del parere di persone che l'antisemitismo lo conoscono davvero non per interposta persona, per comprendere le gravi contraddizioni logiche di quella paginetta, un documento che magari all'inizio era stato stilato in buona fede, ma poi è stato visibilmente distorto, e le tracce di quella distorsione appaiono evidenti (si comincia parlando di ebrei, e si finisce proibendo tout court le critiche allo Stato di Israele)? Non si diventa legislatori per diritto di nascita o divino; lei qualche studio deve averlo pur fatto, un minimo di analisi del testo dovrebbe rientrare nelle sue competenze: come può aver letto quella definizione e averla presa per buona? E se davvero l'ha fatto, come può in coscienza ritenersi in grado di promuovere iniziative legislative? Davvero dobbiamo presumere che lei sia troppo ingenuo per rendersi conto della trappola in cui è caduto?

Egregio onorevole, tenterò di spiegarle perché la definizione IHRA è un testo sciocco che nessun adulto dovrebbe prendere come punto di riferimento per iniziative legislative. Farò appello, per l'occasione, persino alla sua fede cattolica, perché anche da questo punto di vista c'è qualcosa che non va; insomma, lei è d'accordo con l'antica idea che le persone debbano essere giudicate – se proprio le vogliamo giudicare –  per le loro azioni? Non per la loro religione, non per la loro "razza", non per condizioni sociali o idee le quali, se restassero semplicemente "idee", non farebbero male a nessuno? Ci crede a questa cosa che è uno dei punti di partenza della nostra cultura millenaria? 

Perché chi ha pervertito la definizione dell'IHRA non ci crede, e l'ha scritto nero su bianco in frasi molto semplici. Qualcuno in quella stanza era convinto dell'esistenza di singole persone e di uno Stato che non possono essere giudicati per le proprie azioni – gli altri sì, quelle persone e quello Stato, no. Si è ben guardato di definire meglio questo carattere di eccezionalità (perché quello Stato sì e gli altri no?), ma è chiarissimo che questa eccezionalità esiste nella Definizione, ed è quello che vuole ottenere chi promuove la Definizione. Pensi solo a questo comma, davvero molto semplice: per la definizione è antisemitico "fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti". Lei lo legge e approva, ma certo, cosa c'è di più antisemitico di chiamare nazisti gli israeliani. Forse che io ho intenzione di paragonare Netanyahu a un nazista? No, onorevole, io non paragono Netanyahu a un nazista. Non ne ho bisogno, il nazismo è la risorsa dei polemisti senza fantasia. Ho così tante parole e argomenti per definire Netanyahu, che se le usassi qui ora tutte probabilmente sarebbe lei a implorarmi di dargli del nazista e farla finita. 


Ma sa che le dico? Lasciamo perdere Netanyahu. Lasciamo perdere qualsiasi riferimento alla "politica israeliana contemporanea". Fingiamo che non esista. Fingiamo che Israele sia il Paese più liberale del mondo, un Paese dove sia tutelata ogni scelta religiosa, politica ed esistenziale. Molti lo fanno già; fingiamo anche noi per amore di ipotesi. E immaginiamo che in questa nazione perfetta, faro delle nazioni, a un certo punto qualcuno voglia fondare un partito nazista. Perché no? Se tuteliamo ogni opinione, perché non potrebbe nascere un partito nazista anche tra Tel Aviv e Gerusalemme? Voglio specificare: un partito nazista vero, con le svastiche, le aquile, le SS, tutto il pacchetto. Un partito che se nascesse qui da noi, e le combinasse una sfilata sotto casa, lei stesso non potrebbe che esclamare: ma questi sono nazisti. Si tagliano anche i baffi quadrati, tutto. Ecco. Se succedesse a Reggio nell'Emilia (o a Chicago, Illinois) lei potrebbe esclamare pubblicamente: questi sono nazisti! Se poi andassero al governo, lei potrebbe denunciare: ma al governo ci sono i nazisti! Se poi perseguissero politiche coerenti col proprio programma elettorale (conquiste per acquisire "spazio vitale", minoranze in campi di sterminio), lei, finché riuscirebbe a parlare, confido che continuerebbe a protestare, insomma, ma questo è il nazismo! Ne sono sicuro. 

Se invece lo stesso partito vincesse le elezioni tra Tel Aviv e Gerusalemme, lei dovrebbe mordersi le labbra, perché la definizione IHRA lo considera antisemitismo. Se poi ottenessero una maggioranza alla Knesset, se le morderebbe ancora più forte, ma la definizione IHRA è pur sempre la definizione IHRA. Se infine cominciassero, non so, sempre per amore di ipotesi, ad allargare il proprio spazio vitale con offensive militari, a recintare le minoranze, ad affamarle e a bombardarle, lei dovrebbe continuare a stare zitto, perché chiamarli nazisti secondo la definizione IHRA è Holocaust inversion!, e l'Holocaust inversion è un peccato mortale di pensiero. Ora, lo capisce che qualcosa non va? La Definizione non dice semplicemente che paragonare un tale israeliano a un nazista è antisemita. Dice che sarà da qui in poi antisemitico "fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti". Si rende conto a quanto era goffo chi ha lasciato nel testo finale quell'aggettivo, "contemporanea"? Perché davvero leggendo quella frase dobbiamo presumere che Israele non possa essere paragonato al nazismo qualsiasi cosa faccia, in qualsiasi momento storico. Chi ha scritto questa cosa stava semplicemente chiedendo una deroga a quel principio di buon senso per cui qualsiasi persona, e qualsiasi Stato, sarà giudicato per le proprie azioni. No, chi ha scritto questa riga della Definizione ci teneva a sancire che lo Stato di Israele non potrà essere paragonato al nazismo, mai. Gli altri sì, Israele no. Lasciamo perdere i motivi storici per cui questo paragone è più fastidioso di altri: qui non si tratta di un semplice fastidio, qui si tratta di stabilire un carattere di eccezionalità. C'è uno Stato che non può essere giudicato con i metri degli altri, uno Stato che non può essere mai paragonato agli altri. Non importa che azioni nel frattempo stia commettendo, e pensa un po' la coincidenza: ultimamente sta commettendo crimini di guerra conclamati. 

Egregio senatore, credo che basterebbe questo esempio a spiegare a una persona in buona fede perché la definizione è irricevibile, e perché nei fatti provochi molto più antisemitismo di quanto ne riesca a combattere. Purtroppo io a questo punto non la do affatto per scontata, la sua buona fede. Cordiali saluti, buon Natale e buon Anno, eccetera.

venerdì 5 dicembre 2025

La stagione del consenso viene e va

Buongiorno, questo pezzo è un segnaposto per avvisarvi che ieri è uscito un mio pezzo per il Manifesto, che più tardi qui pubblicherò, ed è stato a quanto pare ripreso anche da Morning, e che sempre sullo stesso argomento dovrei balbettare due cose a Fahrenheit (Radio 3) oggi verso le 16:30. A presto. 

[L'intervento a Fahrenheit, a 1:30]

C'è stato un momento – all'inizio di questi anni '20 – in cui noi insegnanti all'improvviso ci siamo sentiti di nuovo importanti. Vi ricordate? A causa di un virus molto pericoloso, le scuole di ogni ordine e grado erano state chiuse da qualche settimana, quando intellettuali e politici di ogni schieramento cominciarono a invocare il ritorno della scuola in presenza, fondamentale baluardo di civiltà. Qualcuno arrivò persino a distorcere le statistiche per dimostrare che le scuole aperte non avrebbero aumentato il contagio: o forse un po', ma non così tanto; e comunque ne valeva la pena. I ragazzi avevano bisogno della scuola, molto più di quanto tutti avessimo bisogno della salute. E doveva essere una scuola reale, di cemento, con lavagne in ardesia e gessetti: un simulacro virtuale non avrebbe funzionato. Per quanto ogni cosa ormai si possa fare on line, la scuola no: la scuola doveva prendersi i vostri figli verso le otto e restituirli dopo mezzogiorno. Fu un periodo complicato, ma esaltante, in cui forse molti colleghi si illusero di avere recuperato un minimo di dignità: inoltre, se la scuola era davvero così importante, forse i governi si sarebbero decisi a rifinanziarla. 

Cinque anni dopo, è chiaro che le cose non sono andate così. Ce ne accorgiamo ogni giorno, mentre aderiamo alla spicciolata agli scioperi che i sindacati non riescono a organizzare nella stessa data. Ci hanno calato lo stipendio, anche se non si può dire perché la cifra in busta è un po' aumentata: però il bonus docenti è bloccato da settembre, un trucco contabile che ci fa sospettare che il governo non sappia più dove raccattare risorse. Sui giornali più di tanto non se ne parla; per un mese la notizia più chiacchierata è stata quella di una famiglia che piuttosto di mandarci i figli li lasciava nel bosco, in balia di animali selvaggi e funghi velenosi. Molti liberi pensatori ne hanno apprezzato la scelta; sembrano gli stessi che quattro anni ci intimavano di riaprire subito le scuole, ne andava della salute mentale dei ragazzi. Nel frattempo la Camera ha approvato il decreto che ci proibisce di attivare progetti di educazione sessuale/affettiva senza il consenso dei genitori. C'è una battaglia culturale in atto, e noi siamo un obiettivo, semplicemente perché facciamo il nostro lavoro, o almeno ci proviamo. Scopriamo di essere i nemici dell'istituzione famigliare, che sulla sessualità dei propri figli ha l'ultima parola. Come succede in battaglia, c'è una differenza sostanziale tra la propaganda – aneddoti piccanti di lezioni tenute da drag queen e pornoattori  – e la situazione sul campo: un campo dove i ragazzi l'educazione sessuale se la fanno da soli,  vivendo negli stessi ambienti per cinque ore al giorno; con risultati insoddisfacenti, se gli esperti ci dicono che le malattie sessualmente infettive sono in aumento nella fascia dei più giovani. 

Così se mi domando cosa vuole da me la società, la risposta è la stessa: prendermi i loro figli alle otto e restituirglieli dopo mezzogiorno. Il fatto che per queste quattro o cinque ore si ritrovino assieme, in aule non troppo spaziose, a contatto con coetanei di sessi e culture diversi, è un nodo che devo sbrigliarmi da solo, sapendo che in qualsiasi momento potrei dover fare rapporto ai genitori. Potrò portare i miei studenti al consultorio? Solo se sono d'accordo: e dovrò organizzare un'attività a costo zero per gli studenti che restano a scuola: il decreto mi obbliga a farlo, ma per ora non stanzia un soldo. Se ne staranno su un divanetto a trescare, magari qualcuno qualche cosa la imparerà. Molto spesso i genitori che non firmano l'autorizzazione sono quelli che provengono dai contesti in cui la sessualità degli adolescenti è un tabù. Valditara ha un bel da insistere che il suo decreto non nega a nessuno l'educazione sessuale: nei fatti la sta togliendo proprio alle famiglie che non osano parlarne, ai figli che vivono in famiglie abusanti che quell'autorizzazione non la firmeranno mai; alle ragazze a cui i genitori hanno già combinato un matrimonio (sì, succede, molto più spesso di quanto ne parlino i giornali), ai ragazzi che vivono in un contesto violento e non hanno strumenti per gestire la propria rabbia. Che sia questo che la società mi chiede, senza avere il coraggio di metterlo per iscritto? 

mercoledì 3 dicembre 2025

De reuelatione in hoc ipso tempore, IV



[Questo pezzo è da considerare il seguito del Gesuita nella giungla, che apparve per la prima volta sul Post proprio dieci anni fa. In mezzo in realtà ci sono altre puntate che sono andate perse, anche loro, come pagine di un dossier lasciate alla deriva sul Fiume delle Perle].

Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del commercio procede in una atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba surriscaldata; proseguimmo lungo la costa informe delimitata da una risacca pericolosa, quasi che la natura stessa avesse voluto respingere gli intrusi; entrando e uscendo dai fiumi, vive correnti di morte, le cui rive imputridivano nella melma, le cui acque, ispessite dal fango, invadevano le intricate mangrovie che sembravano torcersi verso di noi in un eccesso di disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché potessi ricavarne un’impressione particolare, ma sentivo crescere in me un sentimento diffuso di vago e opprimente stupore. Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso immagini da incubo...

Il profilo di una giunca contro il sole del tramonto, che tinge d'arancio un'ansa del Fiume delle Perle. La giunca è ormeggiata; da riva si sente qualcuno che grida in lontananza, con l'affanno di chi fugge per salvarsi la vita. Sottocoperta, nella penombra, fra Marcelo riceve un'ambasciata.

Davanti a me stava un ragazzino spaventosamente magro, dai lineamenti selvaggi. Non avesse portato il saio francescano della Piantagione, lo avrei creduto un figlio della giungla, allevato dalle scimmie. Per questo ammetto che mi spaventai a morte quando lo sentii parlare in uno spagnolo quasi credibile, lui che fino a un attimo prima si era spiegato soltanto a gesti.

"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".

Lo schiavetto era spuntato all'improvviso dalla boscaglia. Come avesse potuto raggiungerci da solo, senza un'imbarcazione, era un mistero che si sarebbe portato con sé. Don Guillermo aveva uomini lungo tutto il fiume? Mi faceva seguire? Cosa voleva da me?

"Come ti chiami?"

"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma..."

"Ho capito, ho capito".

"... rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".

"Ho capito".

Non mi avrebbe detto altro. Aveva imparato a memoria soltanto quella frase, da recitare nel caso mi avesse trovato, prima di essere mandato a morire nella giungla. Probabilmente Fra Guillermo non si aspettava che tornasse indietro. Chissà quanti ne aveva mandati in tutti i bracci del delta. Ci teneva, a quel flagello maledetto. Io nemmeno sapevo perché lo avevo raccolto. Lo avevo visto pendere da un paravento del santuario della Madonna della Guadalupe – quindici capanne al centro di una piantagione di papaveri, su un'isola del delta. Trecento schiavi, anche se se a fra Guillermo la parola non piaceva.

La Guadalupe era l'avamposto domenicano sul Fiume delle Perle, l'ultima località sulle mappe dei portoghesi, che da lì in poi si sospendevano nel vuoto. Lo gestiva fra Guillermo della Guadalupe medesima, un francescano che sembrava precipitato lì durante un monsone, il suo scopo dichiarato era conquistare quante più anime a Dio. 

Anche Felipe, il mio attendente, era sbiancato.
"Il ragazzo resta con noi. Dagli qualcosa da mangiare, Felipe".
"Non abbiamo più molto, padre".
"Il cuoco è a caccia, no? Troverà qualcosa".
"È da un po' che non torna".
"Va bene adesso scendo un po' sottocoperta Felipe, non disturbarmi".
"È già l'ora delle preghiere?"
"È già l'ora dei fatti tuoi, Felipe".

Forse il flagello l'avevo raccolto per lui. O per me? Molto presto avrei finito la scorta di oppio che avevo con me, e poi sarei stato male, nel bel mezzo del Fiume delle Perle, nella giungla. Avrei avuto nausea e diarrea e se la diarrea non si fosse fermata, sarei morto, disidratato e febbricitante. Sarei morto forse a mille passi dalla dimora di Francesco Xavier, senza sentire la sua voce, la voce che aveva convertito milioni di uomini. 

Il suo dossier era sconcertante. 

3 dicembre: San Francesco Saverio, missionario ed esploratore, evangelizzatore di massa

Figlio di nobili navarresi caduti in disgrazia dopo la conquista spagnola, entra alla Sorbona e si laurea nel giro di tre anni. A salvarlo da una carriera di precettore presso qualche signorotto castigliano è quel fottuto veterano basco, Ignazio di Loyola. Più ne sentivo parlare, più lo ammiravo. La maggior parte dei sant'uomini che conoscevo non avrebbero saputo fare nient'altro nella vita, ma Ignazio prima di scegliere la santità era stato un mascalzone. Avrebbe potuto diventare un generale in qualche esercito, ma cercava qualcos'altro. Sé stesso? Va in Terrasanta, ma i francescani lo cacciano perché fiutano l'eretico. L'Inquisizione spagnola in effetti lo tiene in carcere per un mese e mezzo, dopodiché tutte le imputazioni cadono come per miracolo, e in un qualche modo riesce a entrare alla Sorbona. A trentotto anni, madre di Dio. Il più giovane compagno di classe aveva la metà dei suoi anni. Io mi ci iscrissi a diciannove e a momenti ci restavo. Lui completò il corso. Sette anni. E nel frattempo aveva convertito i suoi migliori compagni di collegio, tra cui appunto il nostro amico Francesco X. Il dossier riportava la celebre frase celebre che il vecchio compagno avrebbe detto al giovane: "Che senso ha conquistare il mondo, se si perde la propria anima?" Suona molto bene [e infatti probabilmente è apocrifa] ma a rifletterci non ha molto senso. Francesco era uno studente di legge, o filosofia, più o meno spiantato; senz'altro non un aspirante conquistatore del mondo. O lo era? O Ignazio aveva fiutato la sua preda, o aveva riconosciuto in quel ragazzo la stessa ansia di conquista che lo aveva spinto tanti anni prima, da ragazzino, a farsi soldato?

"Sangue di Cristo, non ne posso più!"

Mentre ci riflettevo dovevo essermi appisolato. Mi svegliarono le bestemmie e i passi nervosi sulla tolda, proprio sopra il mio alloggiamento.
"Io taglio la corda, madre di Dio, non ero entrato nell'Ordine per queste porcherie. Una tigre! Una maledettissima tigre! Io volevo fare il cuoco in un convento, non andare a caccia in una giungla dimenticata di Dio e piena di tigri! 

Portas vultus eius quis aperiet?

Per gyrum dentium eius formido...

Il cuoco era tornato a mani vuote e in stato di choc. Avremmo pranzato a manghi e preghiere, anche oggi. 

Sternutatio eius favillae ignis,

et oculi eius ut palpebrae diluculi...

"Io non scendo più dalla nave, ve lo dico. Mai più. Il diluvio ci vorrebbe qui intorno, è l'inferno questo, Signore Dio! Il diluvio! Che anneghi tutto quanto!"

[Continua, magari nel 2035].

domenica 30 novembre 2025

Il santo sulla X

30 novembre – Sant'Andrea, apostolo e martire (I secolo). 

In effetti è molto più stabile così, cioè non si capisce perché crocefiggerli in altri modi.
Un ingegnere non avrebbe dubbi

La Costantinopoli del IV secolo è una città appena nata e già smisurata, una capitale in cerca di identità. Rifondata nel 330 da Costantino il Grande che l'aveva chiamata "Nuova Roma", non poteva vantare come le altre metropoli il passaggio di apostoli e martiri, tanto che le chiese più importanti finiscono per essere dedicate a concetti personificati e di sesso femminile: la "Santa Pace" (Sant'Irene) e soprattutto la Sapienza di Dio: Santa Sofia. Il sospetto che presso il popolo alligni ancora la devozione per la dea lunare Artemide/Cibele è accreditato dall'importanza che assume subito in città il culto per "la Madre di Dio", che è sì Maria di Nazareth, ma soprattutto la donna dell'Apocalisse che compare su una falce di luna: quella falce di luna che passerà negli stemmi della città e poi sulla bandiera dei turchi, quando Costantinopoli diventerà Istanbul. 

Forse per contrastare tutte queste presenze femminili Costanzo II, figlio e successore di Costantino, decide di portare nella città fondata dal padre i resti di Sant'Andrea, fino a quel momento custoditi a Patrasso, dove si raccontava che il martire fosse stato crocefisso. Perché, di tutti gli apostoli, Costanzo sceglie proprio Andrea? Forse per il nome, che in greco significa "virile", ma più probabilmente perché gli apostoli più importanti sono già stati presi da altre città. Non si può escludere che Costanzo avesse potuto conoscere gli Acta Andreae, un testo che risale al secondo secolo (se non al primo), ma che pochi anni prima Eusebio di Cesarea aveva definitivamente bollato come eretico, assurdo ed empo. L'Andrea degli Acta in effetti è un supereroe che risolve tutti i problemi con miracoli a raffica, alcuni dei quali un po' scabrosi: una matrona rimane incinta illegittimamente? Andrea miracolosamente... la fa abortire: possiamo capire che Eusebio disapprovasse. Negli Acta però Andrea viene fatto passare, nelle sue peregrinazioni tra la Grecia e l'Asia, anche da Bisanzio: l'antico porto sul Bosforo sul quale era stata edificata Costantinopoli. Da qui nascerebbe la tradizione che ritiene l'apostolo il fondatore della diocesi, che fino al 330 era una sede vescovile come tante, ma col trasferimento della corte imperiale sarebbe diventata uno dei cinque patriarcati più importanti. Gli Acta non lo dicevano espressamente – e anche se lo avessero detto, non erano considerati una fonte credibile nemmeno a quei tempi (c'era un'appendice divertentissima il cui titolo dice un po' tutto, Avventure di Andrea e Mattia nel paese dei cannibali), ma in mancanza di meglio, Costanzo portò in città Sant'Andrea. 

C'è da aggiungere che per quanto nei Vangeli sia una figura di secondo piano, Andrea è pur sempre il fratello di Simon Pietro; rivendicare il suo patronato significava quindi rimarcare il rapporto di fratellanza tra la Roma antica, sede della cattedra di Pietro, e la Nuova. Il fatto che Simone (nome ebraico) figlio di Giona (nome ebraico) avesse un fratello chiamato Andrea (nome greco) può lasciare perplessi ma non è del tutto impossibile; greco e aramaico si stavano lentamente amalgamando, dando luogo a composti come Bar-tolomeo.  

Non è nemmeno chiaro se Andrea fosse il minore dei due fratelli; d'altro canto lo stesso Gesù dimostrava di non dare molta importanza ai rapporti di parentela. Andrea poteva inoltre essere definito Protocleto, ovvero "chiamato per primo": sia nel vangelo di Marco sia in quello di Matteo, Andrea è sulla barca con Pietro quando Gesù, passando dal molo, propone a entrambi di seguirlo e diventare "pescatori di uomini". I fratelli obbediscono senza chiedere oltre; sono i primi apostoli a essere nominati. Luca non lo nomina espressamente, forse per concentrarsi sulla figura di Pietro; quanto a Giovanni, in lui leggiamo una storia molto diversa. Il suo Andrea, prima ancora di diventare apostolo di Gesù, era già discepolo di Giovanni Battista; quando quest'ultimo vede passare Gesù e lo saluta come "Agnello di Dio", Andrea e un altro seguace, che Giovanni non nomina, decidono di seguire l'Agnello. In questo caso il compagno di Andrea non può essere il fratello Pietro, che viene informato dal primo solo due versetti più tardi ("Abbiamo trovato il Messia"). Tradizionalmente, quando Giovanni evangelista non nomina un apostolo, si assume che si tratti di lui stesso; è uno dei passi non infrequenti del suo vangelo in cui si fa notare che prima di Pietro c'è un altro apostolo (il "discepolo che Gesù amava"): è lui a conoscere Gesù per primo, è lui ad essere adottato da Maria ai piedi della croce, è lui, dopo l'annuncio della Resurrezione, ad arrivare per primo alla tomba vuota (anche se lascia entrare Pietro per primo). Ma insomma tre vangeli su quattro danno Andrea come protocleto, anche se sempre pari merito con qualcun altro. A ben vedere anche tre vangeli danno Pietro (i sinottici), ma il quarto lo nega espressamente, per cui Andrea sembra il protocleto più credibile. A parte questo, non è che i vangeli ne parlino molto. I tre apostoli più menzionati dai sinottici sono Pietro e i due figli di Zebedeo, Giovanni e Giacomo Maggiore; solo in un'occasione Marco aggiunge ai tre anche il fratello di Pietro, quando in quattro domandano a Gesù delucidazioni sulla profezia della distruzione del Tempio. Giovanni gli fornisce una riga di dialogo nell'episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci ("C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?"); Luca continua a snobbarlo anche negli Atti degli Apostoli, nominandolo soltanto per necessità nel primo capitolo e poi perdendolo di vista completamente. La tradizione orale, dopo la depurazione degli aspetti più fantastici operata da Eusebio, lo voleva missionario in Grecia, Asia Minore e Scizia (Scythia), quel territorio a nord del mar Nero costellato da città di lingua greca, ma che si estendeva fino Novogorod; il che ha consentito sia ai russi sia ai rumeni di reclamarlo come santo patrono delle loro nazioni. Anche se per noi lì oggi c'è soprattutto l'Ucraina, dove i cattolici gli preferiscono San Giosafat Kuncewycz.

Andrea è anche il patrono della Scozia, per motivi non così chiari. La leggenda del monaco San Regolo, che avrebbe trafugato le reliquie da Patrasso prima che esse fossero traslate a Costantinopoli, non sembra molto antica, e tradisce un punto di vista già bassomedievale (per quale motivo una traslazione a Costantinopoli avrebbe dovuto essere evitata in quanto blasfema? Solo dopo il 1054 i cristiani costantinopolitani cominciano a essere considerati scismatici). È insomma quel tipo di leggenda che serve a spiegare un fenomeno che esiste già, a qualcuno che non riesce più a spiegarselo. È pur vero che il vescovo Acca di Hexham aveva portato nel 733 qualche reliquia nella cittadina che proprio da lì in poi avrebbe preso il nome di Saint Andrews, ma c'è un altra ipotesi che non mi sento di escludere: l'errore ortografico. Scythia è così simile a Scotia... La venerazione per il santo avrebbe poi portato gli scozzesi a fregiarsi in suo onore della bandiera con la croce decussata – forse la più antica a essere adottata, tra quelle che sventolano ancora. C'è anche in questo caso una leggenda che la giustifica, purtroppo non molto originale: nell'832 il re dei Pitti, Angus II, muovendo guerra agli Anglosassoni insieme coi suoi alleati Scoti, si sarebbe ritrovato accerchiato. Dopo avere molto pregato per i Pitti e per gli Scoti, sarebbe stato consolato in sogno da Sant'Andrea e avrebbe visto, nel terso cielo del mattino, le nuvole comporre una croce decussata, ovvero a forma di X! Tutto chiaro, in hoc signo vinces, salvo che prima del Mille nessun testo, nessuna icona, associa ad Andrea l'immagine di una croce decussata: un simbolo in seguito così legato al suo nome che ancora quando facevo scuola guida le croci dei passaggi a livello venivano chiamate "di Sant'Andrea". Anzi gli Acta specificavano che Andrea era morto su una croce simile a quella di Gesù; anche in ambito orientale, Andrea non viene associato alla X. Insomma può darsi che sia stato lo stemma scozzese a modificare l'iconografia occidentale del martirio di Andrea, e non viceversa.

lunedì 24 novembre 2025

Ermogene, martire o no

Una gita a... Agrigento (la porta araba).
24 novembre: Sant'Ermogene di Agrigento (martire? IX secolo?)

"È commemorato il 24 novembre nel Sinassario Costantinopolitano e nei menei greci, ma di lui non si sa niente". Così la Bibliotheca Sanctorum, e chi siamo noi per saperne di più? I menei sono martirologi in lingua greca, da cui alcuni agiografi traggono un distico dedicato a Ermogene, però trascritto in latino: 

Caedens, Hermogenes, ex genere mortalium
pudore fastum generis imples daemonum.

Una cosa interessante di questo distico è che nessuno riesce a capire cosa voglia dire: l'ho infatti ricopiato per questo, confidando nel fatto di vivere nel Paese coi licei classici che il mondo ci invidia. Tra tanti diplomati troverò senz'altro qualcuno in grado di sciogliere il secolare mistero. 

Un'altra informazione galleggiante sull'oblio è che Ermogene dovrebbe essere vissuto a cavallo tra VIII e IX secolo, insomma contemporaneo di Carlo Magno: ma se questi nel frattempo invadeva i Longobardi nell'Italia del nord, giungendo fino a Roma e facendosi incoronare a sorpresa (seh, sorpresa), Ermogene, se è davvero vissuto nello stesso periodo, dovrebbe avere assistito all'evento più traumatico del Medioevo siciliano, ovvero l'invasione araba. È in effetti considerato l'ultimo vescovo di Agrigento dell'epoca bizantina; il suo successore sarebbe arrivato soltanto dopo la conquista normanna, più di cent'anni dopo. Forse per questo motivo Ermogene è definito, da taluni, martire; in effetti, figurati se i Saraceni non perdevano l'occasione di tagliar la testa a un vescovo; e se un vescovo perdeva l'occasione di salire al cielo martire. Tutto molto logico e verosimile, salvo che no, sui menei si legge proprio "egli finì in pace i suoi giorni..." L'affermazione è così insolita che ha portato l'autore della scheda su Santiebeati, Raimondo Lentini, a retrodatare il santo di cinque secoli: "Ermogene fu uno di quei santi martiri dell'ultima persecuzione che, sopravvissuti ai patimenti, finirono la vita in pace ai tempi di Costantino". Martiri mancati, insomma, a cui mancò l'occasione, non il coraggio; magari erano già in cella pronti a essere schedulati durante un mezzogiorno al Colosseo coi leoni, senonché Costantino firma l'Editto e niente, tana libera tutti. Questo pur di giustificare la strana ambiguità, per cui un "Ermogene martire" sarebbe però morto nel suo letto. Aggirando con un certo imbarazzo la soluzione più ovvia; forse Ermogene non morì martire perché... gli arabi di Sicilia non perseguitavano i cristiani. 

Cioè, aspetta. Un po' lo facevano. Non è che fossero questi campioni di tolleranza. In particolare negli anni dell'invasione, che fu lunga e tormentata, con frequenti rovesciamenti di fronte, lunghi assedi ed epidemie a peggiorare la situazione. In quel periodo i cristiani, sì, rischiavano la pelle, in quanto nemici o potenziali alleati dei nemici. Ma una volta cacciati i Bizantini, e installato un potere centrale a Palermo, gli arabi non si comportarono con cristiani ed ebrei in modo molto diverso che negli altri territori già conquistati a partire dal secolo VII: chi voleva restare cristiano ed ebreo, poteva assolutamente farlo. 

Certo, avrebbe pagato più tasse.

Fu un metodo straordinariamente efficace, che spiega in parte la diffusione a macchia d'olio dell'Islam, un po' meno rapida di quello di solito immaginiamo perché i popoli conquistati non diventavano immediatamente musulmani. La classe dirigente veniva da fuori o si convertiva subito, se voleva continuare a dirigere; i sottoposti ci mettevano più tempo. Presto o tardi, in ogni caso, il richiamo dello sgravio fiscale si rivela irresistibile, e la maggioranza si converte; dopodiché, alla pressione fiscale si aggiunge la pressione sociale, i cristiani patiscono sempre più la condizione minoritaria che impedisce loro di migliorare le proprie condizioni, ottenendo incarichi più importanti o attraverso matrimoni con famiglie più ricche e benestanti; e il risultato è che nel giro di qualche generazione, la società si islamizza: ma quasi mai completamente. È un processo efficace (anche per una clausola diabolica: quando ti converti all'Islam, non puoi più tornare indietro, l'apostasia è punibile con la morte), ma che richiede qualche generazione, e spiega come mai in Sicilia e persino nella Spagna meridionale, che fu controllata dagli arabi per un periodo molto più lungo, il cristianesimo rimase largamente praticato. Tutto questo è abbastanza noto (come sono note le diverse eccezioni), per quanto confligga con l'opinione comune che invece descrive la società islamica come quella dei Borg di Stat Trek, un unico organismo determinato ad assimilare ogni individuo. Che l'Islam abbia una tendenza assimilatrice non è che si possa negare: dovunque è arrivato ha senza dubbio dato un grande contributo a uniformare molte usanze non solo religiose, e spesso anche la cultura, l'arte e la stessa lingua, in ottemperanza a un testo sacro che diceva, in certe regioni della terra per la prima volta, che tutti sono uguali davanti a Dio. Ma questa idea che appena un esercito arabo arrivava in una città, ogni chiesa si trasformava immediatamente in moschea e ogni cristiano in un circonciso, ecco, ha più a che vedere con una millenaria propaganda che con le nostre conoscenze storiche. 

Questa concezione poi nella storiografia popolare contribuisce a formare l'idea dell'"invasione araba", ovvero un improvviso straripamento dalla penisola arabica – per lo più desertica, e fino a pochi anni prima scarsamente popolata – di una fiumana inarrestabile di invasori musulmani, in grado di invadere e islamizzare nel giro di qualche decennio mezzo mondo conosciuto, dalla Persia fino alla Spagna, come un'epidemia. Tutte le innovazioni umane, in effetti, si possono descrivere come epidemie, che hanno come vettore l'uomo: salvo che in molti casi a viaggiare non è tanto l'uomo, quanto le informazioni. L'Islam, come tante altre religioni e idee prima di esso, non si installò attraverso massacri e sostituzioni di popoli, ma con la pressione fiscale e sociale. Le chiamiamo "invasioni arabe", ed effettivamente possiamo dimostrare che decine di migliaia di arabi si spostarono dall'Arabia ad altri Paesi, mescolandosi soprattutto con la classe dirigente: ma la maggior parte degli abitanti sono rimasti, in questa e in altre occasioni, gli stessi. 

Possiamo paragonare l'invasione araba, mutatis mutandis, a quella napoleonica, che indubbiamente portò migliaia di effettivi francesi in giro per l'Europa (e alcuni di questi fecero in loco brillanti carriere); però non è che i francesi si sostituirono ai tedeschi del Reno, o agli italiani della Repubblica Cisalpina, o agli spagnoli. Furono soprattutto le idee dei francesi a imporsi immediatamente a nuove classi dirigenti che erano tutto sommato abbastanza propense a riceverle e metterle in pratica. Forse, se Napoleone fosse durato un po' di più, anche gli italiani e i dalmati compresi nell'Impero avrebbero iniziato davvero a parlare francese e a considerarsi francesi, così come i siciliani a un certo punto cominciarono a considerarsi arabi; ma ci volle tempo, ed evidentemente non si convinsero mai del tutto. Anche ad Agrigento, che faceva parte del vallo occidentale della Sicilia, la parte più arabizzata, dove si stima che comunque metà della popolazione era ancora cristiana al momento in cui arrivarono i Normanni. 

Questa è la cosa forse più difficile da accettare, per chi la Storia non la studia ma la impugna: che gli arabi di Sicilia fossero per lo più siciliani, e che "arabo", "musulmano", ma anche "cristiano" non siano costellazioni del sangue, ma idee che possono passare da una persona all'altra, non sempre in punta di spada; a volte basta anche un balzello, o anche, perché no, una conversione interiore: sì, esistono anche quelle. Nel frattempo qualcuno di voi avrà già decifrato il distico qui sopra, che sempre secondo Raimondo Lentini significherebbe qualcosa come: "Allontanandoti, o Ermogene, dal genere umano, colmi di vergogna l'arroganza della razza dei demoni". Non è chiaro in che senso Ermogene dovrebbe allontanarsi dal genere umano: forse è un'allusione al misterioso martirio, un sacrificio che avrebbe fatto impazzire di vergogna i demoni. Difficile non pensare che in questi ultimi siano rappresentati i saraceni, a cui Ermogene insegna come muore un cristiano: come un eroe, anche quando morire non è affatto una scelta obbligata. 

domenica 23 novembre 2025

Papa Clemente (e i fili de le pute)


23 novembre: San Clemente I, papa e martire (I-II secolo)

Il primo Papa dovrebbe essere stato Pietro apostolo – senza il quale Roma non sarebbe la sede apostolica più importante, quindi è fondamentale che il primo sia Pietro; e pazienza se gli indizi del suo apostolato in città sono molto labili. Dopo di lui (crocefisso, secondo la tradizione, nel 64), è il caos; i cronisti ecclesiastici nominano tre successori di cui non si sa praticamente nulla: Lino, Cleto e Anacleto. Potrebbe trattarsi anche della stessa persona. E questa persona potrebbe anche essere Clemente, che nel canone di solito viene dopo Anacleto, ma è il primo vescovo di Roma di cui abbiamo informazioni abbastanza consistenti. Forse per questo Tertulliano, tra gli altri, lo considerava il primo successore di Pietro; del resto Ireneo di Lione sosteneva che nelle sue orecchie "riecheggiava ancora la predicazione degli Apostoli", insomma Clemente doveva aver conosciuto Pietro (e forse Paolo) di persona. Il che non esclude che tra il pontificato di Pietro e quello di Clemente non possa essercene stato un altro (o due, o tre, magari molto brevi). Epifanio da Salamina suggerisce che Clemente, dopo essere stato nominato successore proprio da Pietro, avrebbe rinunciato alla carica in favore di un pastore più anziano; il che non è assolutamente dimostrabile, come tante cose che scrive Epifanio; ma è molto più verosimile di quando lo stesso Epifanio si mette a raccontare di eretici che si nutrono di feti umani. Pensiamo anche solo a Bergoglio, che secondo alcuni avrebbe implorato i cardinali di non eleggerlo nel 2005, così che alla fine a Wojtyla subentrò Ratzinger... E a proposito di quest'ultimo, Clemente è anche il primo papa che avrebbe rinunciato alla cattedra prima della sua morte naturale – per ragioni di forza maggiore, quanto nel 97 sarebbe stato deportato in Crimea per ordine dell'imperatore Traiano. Al suo posto avrebbe nominato un certo Evaristo, ed è proprio scrivendo un pezzo su Evaristo papa, che nell'ottobre del 2011 io misi per iscritto sul Post che nulla impediva a un pontefice di dimettersi. A scriverlo oggi sembra niente di che, ma era una cosa che non succedeva da cinque secoli, e invece sarebbe avvenuta poco più di un anno più tardi, nel febbraio 2013.

Clemente sarebbe morto martire in Crimea, secondo la tradizione annegato con un'ancora al collo affinché la smettesse di convertire i locali. Il che permise più volte a qualcuno di ritrovarne i resti in loco e donarli a un suo successore in cambio di qualche favore; il caso più eclatante fu quello di San Cirillo, che nel nono secolo doveva convincere papa Niccolò I a lasciarlo evangelizzare gli slavi nella loro lingua. Insomma se oggi si usa ancora l'alfabeto cirillico, in qualche modo è anche grazie a San Clemente. Di lui si conserva una lettera ai cristiani di Corinto che dimostra una buona conoscenza delle Scritture anche veterotestamentarie; da cui l'ipotesi che come Pietro non fosse un cittadino romano, ma un liberto di origine ebraica o greca (mentre per lo stesso motivo è abbastanza implausibile che si tratti del senatore Flavio Clemente, il marito di Santa Domitilla: entrambi furono vittime della piccola persecuzione promossa da Domiziano nel 95). La lettera è importante anche perché dimostra, nei confronti dei cristiani di una chiesa orientale, un atteggiamento già pontificale: Clemente non afferma esplicitamente di essere, in quanto successore di Pietro, in cima a una gerarchia; non lo dice ma si comporta già come tale, sembra che lo dia per scontato. 

Clemente, infine gioca un ruolo imprevisto e... imbarazzante nella storia della lingua italiana, anche se per molto tempo nei libri di scuola abbiamo preferito non parlarne. Nella basilica romana a lui dedicata (eretta prima del 1100) si trova un affresco piuttosto malandato che riprende un episodio di una Passio del VI secolo. Clemente è perseguitato da un patrizio romano, Sisinnio, che ha ordinato ai suoi servi (Gosmario, Albertello, Carboncello) di legare il santo e trascinarlo in prigione. Ma i servi, accecati dallo Spirito, hanno confuso il corpo del Papa con una colonna di marmo, e per quanto l'abbiano ben legata, non riescono a spostarla. Si tratta di una scena complessa, che forse l'anonimo pittore riteneva di non riuscire a illustrare adeguatamente, dal momento che decise di corredare l'immagine con i discorsi diretti che aleggiano intorno ai personaggi, come fumetti. In particolare, accanto a Carvoncello qualcuno dice "Falite dereto co lo palo Carvoncelle!" (Carvoncello, spingi da dietro con il palo!); accanto ad Albertello si legge: "Albertel traite!", e accanto a Sisinnio: "Fili de le pute traite". Tutte e tre le frasi probabilmente sono da intendere come ordini pronunciati da Sisinnio. Sopra la colonna, invece, si legge una scritta che dobbiamo attribuire al santo: "Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis". Questo ovviamente è latino, e significa: a causa della vostra durezza (di cuore) avete meritato di trascinare le pietre. Tutto abbastanza chiaro, salvo che tra il santo e i pagani c'è un divario linguistico molto forte. In effetti, se Clemente parla in latino, Sisinnio e i suoi schiavi in che lingua parlano? Hanno già le proposizioni articolate ("co lo palo", "de le pute"), quindi latino non lo è più. Deve trattarsi di un'iscrizione in lingua volgare, salvo che è... la prima in assoluto che troviamo in una chiesa. La prima in assoluto che troviamo in un contesto narrativo. Una storia in cui il volgare è la lingua dei pagani, rozzi e incolti anche quando sono patrizi; mentre il latino è la lingua della giustizia e della fede. L'unica attestazione più antica di una lingua volgare italiana in uno scritto si trova, lo sapete, nel placito di Capua ("Sao ke kelle terre..."), ma in quel caso si tratta di una testimonianza giurata raccolta da un notaio. Certo, ci sarebbe anche l'indovinello veronese, che potrebbe essere più antico addirittura di due secoli, ma in quel caso più che volgare potrebbe trattarsi di un latino maccheronico. 

Con l'iscrizione di San Clemente per la prima volta (per quanto ne sappiamo) qualcuno ha usato il volgare italiano per raccontare una storia. Ed è... un po' imbarazzante, insomma fino a qualche tempo fa nei manuali di Storia della letteratura si tendeva a omettere la circostanza per cui la prima frase letteraria in volgare dovrebbe essere "Fili de le pute, traite". Anche se in fondo, perché no? Significa che l'italiano letterario ha esordito senza pudore, dimostrando subito l'espressività trucida di cui è capace, e prestandola allo scopo di mostrare la rozzezza del potere, anche quando è esercitato da un nobile antico. Comandare ci svilisce, ci abbassa al rango degli schiavi che pretendiamo di possedere; ci rende sboccati e ridicoli; e non sposta nessun santo, non sposta nemmeno una colonna. Se la letteratura italiana comincia così, tutto sommato la rivendico.  

giovedì 20 novembre 2025

Il santo che abbracciava le orse

20 novembre: San Dasio martire (303)

Di San Dasio di Durostorum si conosceva poco più che il nome, quando nel 1890 il filologo belga Franz Cumont scoprì in un manoscritto del XI secolo una Passio dedicata a lui. Sopprimete lo sbadiglio: è vero, le Passio si somigliano un po' tutte, ma proprio per questo quella di San Dasio sembrò a Cumont, per contrasto, parecchio originale, in quanto dettagliava un rito praticato in ambito militare ma non attestato in nessun'altra fonte. Dasio, legionario di stanza nella Mesia (oggi Bulgaria) sarebbe stato sorteggiato tra i compagni per diventare il re dei Saturnali, una celebrazione pagana molto festosa, in cui avrebbe goduto di vari diletti a spese dei compagni, con l'intoppo che al termine dei festeggiamenti sarebbe stato sgozzato e sacrificato agli dei. Dasio si sarebbe non sorprendentemente rifiutato, adducendo come scusa il fatto di essere cristiano. Questo non gli risparmiò il martirio, ma in compenso poneva agli studiosi un problema: davvero alla fine dei Saturnalia si commetteva un sacrificio umano? Cumont era scettico, e sospettava che si trattasse di un errore di traduzione. Per Léon Parmentier invece il passo era stato tramandato correttamente, ma piuttosto che un avvenimento reale rispecchiava la propaganda cristiana dei primi secoli, risoluta a descrivere i riti pagani nel modo più sanguinario possibile. Il dibattito sarebbe rimasto confinato nelle pubblicazioni specialistiche, senonché proprio in quel momento irrompe sulla scena James George Frazer.

Frazer è considerato popolarmente l'inventore dell'antropologia culturale, la quale però si è quasi subito ribellata al suo inventore, e ha fatto bene. Lo stesso Frazer visse abbastanza a lungo da vedere l'evoluzione di una scienza, magari non proprio 'dura', ma nei confronti della quale il suo Ramo d'oro appariva come un'affascinante speculazione basata su assunti indimostrabili. Probabilmente il suo vero merito è avere fatto appassionare ai riti arcaici una generazione di studenti che appena ha potuto fare ricerche serie lo ha rinnegato, ma senza di lui non si sarebbero nemmeno messi a ricercare – come certi autori imbarazzanti che leggi a vent'anni e di cui nascondi i tascabili sgualciti dietro libri più seri, ma la passione per la lettura te l'hanno nutrita loro. Anche ai suoi tempi, il Ramo d'oro era più considerato dai letterati che dagli etnologi. Il modo in cui recupera la leggenda di San Dasio è abbastanza esemplare del suo metodo; malgrado il sacrificio umano in onore del dio Saturno non sia attestato in nessun'altra fonte, e malgrado le Passio non siano considerate fonti molto attendibili nemmeno dagli agiografi cattolici, Frazer non può trattenersi dall'ipotizzare che il martirio di Dasio fosse l'unica testimonianza rimasta di un antichissimo rito comune a tutte le civiltà arcaiche. Un rito connesso con il ciclo delle stagioni e la morte di un Dio. A parte la Passio di Dasio, Frazer poteva citare il bizzarro caso del Re di Nemi, un sacerdote della dea Diana che viveva in un bosco sacro presso Ariccia, sul lago di Nemi e otteneva il suo incarico... sfidando e uccidendo il re precedente. Solo gli schiavi fuggitivi potevano accedere al ruolo, ottenendo in caso di vittoria anche la libertà. La tradizione era andata avanti almeno fino al primo secolo dC: ne parla Ovidio, ne parla Svetonio, anche loro non esattamente le fonti più attendibili che può aspettarsi uno studioso, ma per Frazer tanto bastava a stabilire che questi duelli/sacrifici fossero ciò che restava di diffusi riti ancestrali. Nel capitolo più controverso – poi espunto dalle edizioni successive, e relegato in appendice – Frazer collega il martirio del re dei Saturnali a quello di Gesù Cristo, che in effetti prima di crocefiggere i legionari avevano coronato come re: è in effetti è l'agnello che toglie i peccati, il capro espiatorio, insomma tutto si tiene, no? No, non proprio, è una storia che fa acqua da tutte le parti... però è una storia fantastica, ogni tanto nelle notti insonni gli antropologi smuovono qualche volume di Lévi-Strauss e tirano fuori la loro copia sgualcita del Ramo d'oro, e inalando voluttuosamente l'odorino di muffa di un tascabile troppo tempo rimasto a contatto con una parete umida, si rimettono a leggere del re di Nemi e di San Dasio.   


Aiuto ma che vuole 'sto tizio
21 novembre: Sant'Agapio di Cesarea, campione di martirio (306)

Può darsi che il luogo comune dei cristiani dati in pasto alle belve sia un'invenzione letteraria dei primi agiografi: questo tipo di supplizio era infatti riservato a schiavi ribelli o disertori. Ma l'immagine del cristiano che testimonia la sua fede al centro di un'arena, di fronte a un pubblico esterrefatto e combattuto tra la pagana bramosia di sangue e l'ammirazione per l'eroismo, era troppo efficace perché gli scrittori non vi ricorressero puntualmente. Nelle pagine di Eusebio da Cesarea, Agapio diventa un "atleta della pietà", che col suo eroismo cambia le regole del gioco: chi veniva a vedere un uomo sbranato dagli animali, avrebbe visto un cristiano morire da martire. Detto questo, forse Eusebio esagera, descrivendo un Agapio così desideroso di farsi mangiare vivo che si sarebbe slanciato "correndo verso un'orsa scatenatagli contro, e si offri con gran letizia per servirle di cibo": un entusiasmo che oltrepassa il limite sottile tra determinazione al martirio e impulso suicida. Il lettore a quel punto potrebbe rammentarsi che l'esecuzione era stata più volte rimandata, e concludere che insomma forse a quel punto Agapio non ne poteva più. Lo stesso Eusebio sembra rendersi conto che Agapio con quell'abbraccio ha un po' esagerato, al punto che piuttosto di rischiare che passi il messaggio sbagliato decide di non dare immediata soddisfazione, nella sua cronaca, all'aspirante martire: l'orsa lo ferisce, ma senza ucciderlo, e men che meno mangiarlo. Riportato in cella, ferito e sanguinante, Agapio deve attendere un giorno intero prima di venire terminato in un modo meno spettacolare ma più efficace: gettato in mare con una pietra legata ai piedi. 

Forse anche per la sua condotta un po' borderline, Agapio non è un santo molto conosciuto, malgrado le opere di Eusebio potessero godere di una buona diffusione – certo, lo danneggia l'omonimia con un altro Agapio, che di Cesarea fu vescovo. Così non sono riuscito a trovare nessuna immagine del martire che si fa abbracciare dall'orsa; salvo che ormai siamo nel 2025, e se non trovi un'immagine te la fai da solo, no? Cioè, la fai fare all'AI, che problema c'è? Ecco un'invenzione realmente prodigiosa che non credo di avere mai immaginato da bambino: le auto volanti sì, gli strumenti che suonano la musica che ho in mente sì; un computer che ti disegna la prima cosa che gli chiedi... no. E per quanto ne sappia, mi pare che nessuno scrittore di fantascienza o futurologo si sia mai fermato a suggerire la cosa; ricordo molta enfasi sulla possibilità che i fotomontaggi diventassero così verosimili da rendere la propaganda indistinguibile dalla realtà, e qui direi che ci siamo; ma l'idea di un'AI che rilascia opere figurative su commissione non mi pare fosse stata prevista – neanche per deprecarla: forse semplicemente era una cosa di cui nessuno aveva realmente necessità, tranne quelli che per mestiere o hobby vorrebbero corredare ogni testo con un'immagine senza pagare gli illustratori, ovvero... io. E invece io ultimamente faccio sempre più fatica a usarla, perché? Fino a un paio d'anni fa era un procedimento emozionante. Scrivevi le tue richieste e poi aspettavi che si caricasse il risultato con una certa trepidazione – il rischio che uscisse qualcosa di davvero inquietante era ancora abbastanza alto, e inoltre anche le immagini meno riuscite contenevano qualcosa di indistinto e terribile in cui mi sembrava di riconoscere la materia dei sogni. Anche i risultati più soddisfacenti sembravano avvenuti per miracolo, proprio come quando nei sogni all'improvviso qualcosa si chiarisce, ma è un istante (spesso quello prima del risveglio), dopodiché tutto di nuovo si sfalda. Mentre continuavamo a chiederci se un giorno i computer sarebbero stati davvero intelligenti, davvero coscienti, quel che realizzavano sembrava sinistramente simile a quello che succede nel nostro inconscio. Ma è stato solo un periodo; nel giro di qualche mese le AI figurative si sono evolute. Ora sono più precise (chiedi un mosaico, ottieni un mosaico; chiedi un'orsa che abbraccia un santo, la ottieni), e anche più mediocri e didascaliche. E per quanto padroneggino stili diversi, in un qualche modo si assomigliano tutte e continuano a essere riconoscibili al volo. Non so nemmeno come succeda, ma è la cosa più interessante da un punto di vista artistico che ci sia successa negli ultimi 2-3 anni, per cui vale la pena di annotarla da qualche parte: è nato un nuovo stile grafico e figurativo (lo stile AI), e siamo diventati tutti bravissimi a... riconoscerlo e detestarlo. Il vero motivo per cui di solito non mi faccio produrre queste immagini è che mi sembrano delle cafonate, il peggior segnale che potrei mandare ai miei lettori. Dopodiché ormai questa l'ho fatta, amen. 

martedì 18 novembre 2025

Il Dio che ci annega e ci perdona

18 novembre: Noè, patriarca, patrono della biodiversità, primo ubriaco


Settantacinquemila anni fa, più o meno, potrebbe essere successo qualcosa di molto brutto. La specie umana, già in circolazione da centomila anni, con la sua spiccata propensione a dilagare, si sarebbe praticamente estinta. Si sarebbero salvati pochissimi esemplari, qualche migliaio appena: tra loro vi sarebbe anche l'Adamo Y-cromosomale, ovvero il tizio di cui siamo tutti pro-pro-pro-nipoti. Da non confondere con l'Adamo della Bibbia. Che cosa può essere successo di così terribile? Conoscendo un po' madre natura e la sua fantasia in fatto di catastrofi, abbiamo soltanto l'imbarazzo della scelta: meteoriti, glaciazioni, eruzioni vulcaniche – l'ipotesi più accreditata combina proprio le ultime due: durante un periodo già mediamente glaciale, un enorme vulcano in Indonesia avrebbe disperso nell'atmosfera miliardi di tonnellate di diossido di zolfo, abbassando la temperatura di 15°C per qualche anno. Noi discendiamo dai sopravvissuti e chissà, forse ne siamo consapevoli. In qualche oscura cella del nostro bagaglio genetico potrebbe resistere l'informazione ancestrale: ce l'abbiamo fatta. Con qualche deduzione elementare che ne consegue: Dio ci vuole bene. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno; ma forse la maggior parte della nostra specie è più incline a pensare: ehi, Dio ci voleva tutti morti e ce l'ha quasi fatta. Dunque questo Dio ci ama o no? Siamo i prescelti o una semplice eccezione nel Suo piano? Cosa avevano fatto di male gli umani per meritare un castigo del genere? Potrebbe ricapitare? 

Magari non tutti gli umani si facevano queste domande. Magari non tutti gli umani si sentivano proiettati verso una catastrofe, messi alla prova da un Dio che li ritiene responsabili di ciò che hanno commesso gli antenati e di ciò che combineranno i discendenti. Non tutti si sorprendevano, in notti insonni, a fantasticare strategie di sopravvivenza, nascondigli dove sopravvivere a inverni più rigidi, alture dove ripararsi nel caso non smettesse di piovere per mesi. Non erano tutti così matti, ma ecco, proprio perché non lo erano, si sono estinti. L'inverno li ha ghiacciati o un diluvio se li è presi. Noi discendiamo da qualche psicopatico che un disastro del genere se lo aspettava. Così non c'è veramente molto da sorprendersi, se passiamo il tempo a scrutare il cielo (o uno schermo pieno di notizie) presentendo una catastrofe che non arriva mai. Almeno una volta è arrivata, e non era nemmeno la prima. Qualche profeta di sventure, prima o poi, ci beccherà.  

Quando il mito di Noè viene messo per iscritto, nella Genesi, il diluvio è già un tropo letterario secolare. Ne avevano scritto i Sumeri (nell'Epopea di Gilgamesh) e gli Accadici, ed è difficile capire chi abbia copiato chi. Ne parlano gli Indù. Anche gli Egizi ricordavano qualcosa del genere – nel loro caso però il dio solare Ra avrebbe sommerso la terra non d'acqua, ma di un cocktail di birra e ocra rossa, che la dea leonessa Sekhmet avrebbe scambiato per il sangue degli uomini, bevendone fino a inebriarsi senza completare lo sterminio della razza umana che Ra in precedenza aveva pure sollecitato. Perché in linea di massima il diluvio implica che gli Dei si siano stancati degli uomini, dopo averli creati. Nel racconto sumerico si legge in controluce l'insofferenza dell'allevatore per una specie che si riproduce troppo rapidamente, compromettendo l'habitat delle altre creature: gli uomini – creati dagli Dei per sobbarcarsi dei lavori più faticosi – dopo un millennio stanno pullulando come un esperimento fuori controllo, e il loro baccano disturba Enlil, Dio della folgore. Solo un uomo saggio, Upanistim, sopravviverà all'inondazione, grazie a un'enorme imbarcazione che un altro dio gli ha suggerito di costruire. La Genesi recupera evidentemente il modello accadico-sumero, ma è un testo molto più recente (forse mille anni più recente), che combina peraltro almeno due versioni, prodotte da autori con mentalità molto diversa. Accade dunque nella Bibbia quello che capita agli autori contemporanei che per inclinazione o necessità ripescano vecchie fiabe molto semplici e di sicura presa, miti o trame di vecchi film o fumetti, ma sentono l'esigenza di problematizzarle, di razionalizzarle, insomma di adeguarle a un pubblico che immaginano un po' più maturo – un pubblico che vuole la storia semplice, ma non vuole sembrare troppo semplice a sé stesso mentre la consuma. Le divinità non possono più essere una banda di superuomini capricciosi che prima creano gli umani e poi cercano di affogarli perché fanno si moltiplicano e fanno troppa confusione. Chi scrive la Genesi non è un filosofo, ma sta già ragionando per assoluti: se è una Divinità, dev'essere Una Sola, perché ha più senso che molti. Deve sapere tutto – ma allora perché ha cambiato idea, creando gli uomini per poi affogarli? Deve essere infinitamente potente – ma allora perché si comporta in modo così contraddittorio? L'unica soluzione disponibile, per tutte queste contraddizioni, è la stessa che ci assiste ogni giorno mentre tentiamo di galleggiare nel caos che ci travolge: è colpa nostra, dipende da noi. Potrebbe andarci tutto molto meglio se ci alzassimo più presto e facessimo tutti i compiti. Ed eccoci a quei due terribili versetti, Genesi 6,5-6:

Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. 

Non sappiamo esattamente quanti secoli separino il racconto di Upanistim da quello di Noè, ma in quell'intervallo dobbiamo presumere che l'uomo si sia munito dei sensi di colpa. Gli uomini della leggenda sumera venivano affogati perché facevano troppo rumore: quelli della Bibbia vengono puniti perché sono malvagi. Nel frattempo la divinità è diventata un'entità più astratta: unica, onnisciente, onnipotente, e in teoria misericordiosa. Ma è proprio la necessità di dover conciliare questa entità astratta con fenomeni contraddittori a spostare la responsabilità della catastrofe sugli uomini. Dio non può avere sbagliato i calcoli, quindi siamo noi che lo abbiamo deluso.  

Noè è il nono patriarca della Bibbia; in un certo senso è il primo profeta (Dio gli rivela verità che gli altri uomini non riconoscono, e gli chiede di fare qualcosa che gli altri uomini troveranno ridicolo). Non è il primo ebreo, ma il patto che stipula con Dio alla fine del Diluvio anticipa quello di Abramo. È l'ultimo capostipite comune, dopodiché la razza umana si tripartirebbe definitivamente nelle discendenze dei suoi tre figli: i semiti da Sem, gli iafetiti (indoeuropei) da Iafet, i camiti (neri africani) da Cam. E che questi ultimi fossero già vittima di pregiudizi e segregazione sembra suggerircelo la Genesi, quando racconta che Cam fu maledetto dal padre perché aveva riso di lui, scoprendolo ubriaco. Noè in effetti aveva una scusante: prima di lui la Bibbia non fa menzione del vino, quindi Noè ne è considerato l'inventore, e l'episodio potrebbe descrivere il primo caso di ubriachezza sperimentato dall'uomo. Gli autori ci tengono a mettere in chiaro che avvenne anni dopo il diluvio; quando aveva sentito le voci che gli dicevano di costruire un'enorme arca per tutti gli animali, Noè era ancora perfettamente sobrio. 

sabato 15 novembre 2025

Un ministro entra in una Camera. Si mette a urlare.


[Questo pezzo è uscito sul Manifesto di giovedì 13/11/2025].

Una cosa si poteva riconoscere al ministro Valditara: in mezzo a tante critiche, non aveva mai perso la calma. Ha scelto di perderla ieri, nel luogo apparentemente meno adatto: il parlamento. Quel “vergognatevi” improvviso, rivolto ai banchi dell’opposizione, lo possiamo interpretare in due modi. Il primo è il più facile: se si arrabbia, forse il ministro è nervoso. È stato il suo stesso partito a combinare un pasticcio, prima votando in ottobre un emendamento al Ddl sul consenso informato che avrebbe reso ancora più arduo organizzare attività di educazione sessuale e affettiva nelle scuole medie; quindi ritirando, lunedì, lo stesso emendamento. Valditara alla Camera è andato a spiegare che chiedere un consenso ai genitori non equivale a vietare l’educazione sessuale, (il che in fondo è vero: la rende solo più complicata, specie per i figli di eventuali genitori abusanti, che difficilmente firmeranno il consenso). Anzi, l’educazione sessuale/affettiva è prevista dai “programmi”, ovvero le Indicazioni Nazionali (sì, ma le indicazioni del secondo ciclo le stiamo ancora aspettando: e se il genitore non firma, anche le indicazioni restano lettera morta). Nel frattempo le opposizioni lo accusano di non fare nulla contro i femminicidi, ecco, è una vergogna: Valditara sbotta e si indigna. Questa è l’interpretazione più semplice, e quindi potremmo contentarcene.

Ne suggerisco comunque un’altra. Valditara non sbotta subito, ma al termine di un intervento di diversi minuti, esattamente quando vuole perderla, come un attore che conosce il pubblico della sua performance: non tanto i perplessi deputati, ma i consumatori di clip sui siti giornalistici e sui social. È in rete che il suo “vergognatevi” verrà ritagliato e rimpallato, a sintetizzare un argomento immediato: non è vero che la scuola non fa nulla contro i femminicidi, chi lo sostiene deve vergognarsi. I deputati hanno un bel da indignarsi: anche la loro reazione sullo sfondo fa parte di una strategia comunicativa efficace e tutt’altro che improvvisata. Dopodiché, se insistono, Valditara può anche riprendere la parola e fare qualche passo indietro: non ha nessuna importanza, la clip nel frattempo è già stata confezionata e pubblicata. Valditara non è certo il primo, né sarà l’ultimo, a utilizzare il parlamento come un teatro di posa dove mettere in scena uno spot elettorale; vale però la pena di notare come lo spot indichi un importante rimessa in discussione. 

Fino a qualche giorno fa pensavamo che gli elettori della Lega, e in generale della maggioranza, condividessero un’ossessione per il “gender” sbandierata dai propri rappresentanti. È l’ossessione che ritroviamo nelle parole del relatore del Ddl alla camera, il leghista Rossano Sasso: “Non potranno più entrare a scuola attivisti ideologizzati trans e Lgbt, drag queen, porno attori privi di competenze pedagogiche, per  parlare a bambini e ragazzi di fluidità di genere, di utero in affitto e di confusione sessuale”. Ecco, questa mitologia, se non è stata del tutto accantonata, non sembra più così centrale. Valditara non ne parla: viceversa in aula ieri sembrava sinceramente preoccupato del fatto che le sue riforme possano essere collegate all’emergenza dei femminicidi. È come se qualcuno, nella stanza dei bottoni, si fosse accorto che gli elettori tutto sommato non si bevono le storie dell’educazione affettiva affidata a pornodivi o drag queen, e sono viceversa molto più preoccupati per le difficoltà dei propri figli nella sfera affettiva, o anche solo delle malattie infettive. Un bagno di realtà che però arriva quando il Ddl ormai è stato confezionato, e più di tanto non si può emendare: per quanto Valditara possa sbraitare nelle clip, dall’anno prossimo fare educazione sessuale nelle scuole sarà oggettivamente più difficile, a causa di un Ddl voluto dalla Lega. E torniamo dunque alla spiegazione più semplice: se Valditara in parlamento sembrava nervoso, forse lo era davvero.

giovedì 13 novembre 2025

È dura essere santi in novembre

Santa Maria a Pugliano,
Ercolano
14 novembre: Santa Veneranda vergine

Ci sono giorni del calendario così traboccanti di interessanti vite di santi che è così difficile sceglierne uno... non è il caso di oggi, 14 novembre, giornata davvero fiacca dal punto di vista agiografico. Oggi per  esempio è la festa di Veneranda vergine, altra santa di cui sappiamo pochissimo, anzi forse nulla visto che "veneranda" significa "da venerare", insomma potrebbe essere il nome appioppato a qualche santa di cui si conservava un'icona o una reliquia, ma non il nome di battesimo. Ciò ha probabilmente fatto sì che Veneranda sia una delle sante più venerate tra quelle che non hanno più nemmeno una voce nei martirologi. Esistono reliquie a suo nome un po' dappertutto, da Mortara (PV) ad Acireale (CA), mentre persino la Bibliotheca Sanctorum non la degna di un paragrafo. Fino al 2004 il Martirologio Romano ricordava almeno una Veneranda martire nelle Gallie sotto Antonino Pio; il che forniva poi ai ministri del culto una data in cui celebrare le reliquie, il 14 novembre per l'appunto. Nel caso della Cappella del Santo Spirito nella Basilica di Santa Maria a Pugliano (Ercolano), la tela seicentesca che ritrae la santa contiene il nome greco di Santa Parasceve, che in greco significa "preparazione". Di Sante Parasceva o Parasceve ce n'è più d'una, di solito ricordate nei sinassari greci: in Occidente il nome veniva di solito tradotto "Venera" o "Veneranda" perché, in effetti, Parasceve in greco significa anche venerdì (Παρασκευή). 


Monumento inaugurato nel 2022 sul monte Sion
14 novembre: San Nicola Tavelić (1340-1391), martire francescano a Gerusalemme

Non sempre, ma quando t'imbatti in un martire bassomedievale che è un vero e proprio kamikaze – uno in missione suicida, e consapevole di esserlo – molto spesso si tratta di un francescano. In fondo l'esempio l'aveva dato lo stesso fondatore, partendo per la Palestina con lo scopo di convertire il sultano. Il sultano non si era lasciato convertire, ma questa non era una buona ragione per riprovarci. E ancora prima che Francesco partisse, già cinque suoi seguaci della prima ora avevano trovato il martirio predicando il vangelo nel bel mezzo di Marrakech, nel 1220. Centosessant'anni dopo, Nicola Tavelić arriva nel convento di Monte Sion, in Palestina, dove i francescani resistono ormai come in un'isola cristiana al centro dell'oceano islamico. Le crociate sono finite da un pezzo, e male: ai francescani non resta che rassegnarsi a un ruolo di testimonianza; senonché Nicola, nato a Srebrenica e abituato in gioventù a dar la caccia agli eretici Bogomilli, probabilmente morde il freno. Freno che si spezza definitivamente l'11 novembre 1391, quando Nicola con tre suoi confratelli (Stefano da Cuneo, Deodato Aribert da Ruticinio e Pietro da Narbona) ottiene dal Cadì di Gerusalemme il permesso di esporre i fondamenti del cristianesimo in un'adunanza pubblica. I quattro non sono evidentemente abbastanza convincenti, perché la reazione del pubblico culmina in un arresto. Tre giorni dopo vengono portati nella stessa piazza, ma in catene: nel frattempo sono stati torturati, ma non ritrattano, e quindi vengono bruciati come eretici, e le ceneri sperse al vento. 


Lo so che sembra finto,
Tommaso di Modena dà spesso
questa sensazione. Non hanno
ancora inventato la prospettiva,
ma lui la usa lo stesso. È un
affresco nel convento di San 
Nicolò a Treviso.
15 novembre: Sant'Alberto Magno, enciclopedia ambulante (1200 ca. – 1280)

Ho scoperto che Alberto Magno, quando aveva già molti anni sulle spalle (nessuno sa esattamente quanti), dopo essersi ritirato da tutte le cariche, compresa quella di teologo ufficiale del Papa, per terminare quei venti o trenta trattati che stava scrivendo in quel momento; dopo essere stato comunque inviato dal papa e rimettere in sesto la cattedra vescovile di Ratisbona; dopo esserci in sostanza riuscito, avendo ottenuto in cambio dal nuovo papa Urbano IV il permesso di dimettersi da vescovo, fare testamento e dedicarsi agli studi... niente da fare, dopo tre miseri anni di pensione fu inviato dallo stesso Urbano IV in Germania come predicatore con la missione di promuovere una crociata; ormai era l'ottava. A quel punto era considerato l'intellettuale e lo scienziato più importante della cristianità, ma predicare le crociate forse era l'unica cosa che non gli veniva bene; della missione sappiamo soltanto che "sortì uno scarso successo". Questo mi rende ancora più simpatico il grande Sant'Alberto, che era capace di disaverroizzare Aristotele e conciliarlo con Platone, ma non di convincere i tedeschi ad andare a far la guerra in Terrasanta per difendere i Luoghi Santi minacciati nella loro stessa esistenza. Urbano IV probabilmente aveva preso Alberto per un grande esperto di parole, alla Bernardo di Chiaravalle; uno in grado di plasmare discorsi in grado di giustificare qualsiasi cosa, compreso qualche massacro. E forse Alberto, con un po' d'impegno, lo sarebbe diventato. Ma non gli interessava: gli interessavano la Storia naturale, la matematica, la geografia, in effetti al grande Alberto interessava qualsiasi cosa, tranne la propaganda. 

Oggi che siamo abituati a contrapporre intellettuali a uomini d'azione, ci fa un po' effetto osservare certi studiosi del basso medioevo e renderci conto che non dovevano stare fermi un attimo: attraversando l'Europa a dorso di mulo, da una corte a un'università a un convento, Alberto Magno trovò il tempo di scrivere una cinquantina di libri, rifondando le scienze naturali e proponendo il suo Aristotele dis-averroizzato su cui un discepolo di eccezione, Tommaso d'Aquino, avrebbe rifondato l'edificio filosofico della Chiesa. E benché dei due sia di gran lunga il più noto, Tommaso al confronto col maestro dà la sensazione di essere lo studente sgobbone, più metodico e concentrato sugli obiettivi ma meno ricettivo agli stimoli della natura sensibile che guidavano Alberto in mille direzioni diverse, dalla botanica all'astronomia, verso una concezione della scienza basata più sulle esperienze che sull'autorità dei testi: persino il grande Aristotele poteva essere irriso per certe affermazioni che Alberto trovava campate in aria, ad esempio quella storia della musica delle sfere.

Tra un incarico e l'altro, Alberto riuscì ad arrivare a una tarda età, il che gli permise di piangere la fine del suo studente più brillante. Si è estinta la luce della chiesa, disse quando lo informarono della morte di Tommaso. Una delle sue ultime missioni, all'università di Parigi, fu proprio in difesa delle opere di Tommaso che rischiavano di essere bollate come eretiche. E come Tommaso, a un certo punto Alberto sperimentò la sensazione di un cedimento cognitivo: ma se il discepolo aveva del tutto smesso di leggere dopo una crisi improvvisa (un ictus?), per Alberto si trattò di qualcosa di più sottile e progressivo: la memoria gli stava cedendo. Morì nel 1280, e nessuno sa esattamente quanti anni avesse, di tutto curioso ed esperto, fuorché della retorica che manda gli uomini a farsi ammazzare. Grazie Alberto, e prega per noi.


Questo invece è uno dei ritratti
più brutti che ho visto in vita mia.
16 novembre: Santa Margherita di Scozia, regina (XI secolo).

In un primissimo momento i "santi" erano i cristiani primitivi, in particolare quelli che potevano testimoniare direttamente la vita e la passione di Cristo: perlomeno questo è il significato che il termine sembra avere in molte lettere di Paolo. In seguito, per qualche secolo, santità divenne sinonimo di martirio. Finite le persecuzioni, la santità divenne l'obiettivo dei monaci, isolati nel deserto o riuniti in comunità: e un riconoscimento ai grandi prelati e agli intellettuali che stavano costruendo l'egemonia culturale della chiesa. E però ormai eravamo in pieno medioevo, e bisognava fare i conti coi nobili: pure loro volevano i loro santi, anzi li pretendevano, né ci si poteva aspettare che si facessero monaci o addirittura studiosi. In ogni caso ogni famiglia reale almeno un santo lo doveva vantare, era un must. 

Di Sante Margherite ce n'è tante e, forse a causa della preziosità del nome (che deriva dal greco μαργαρίτης, "perla") sono quasi tutte di estrazione aristocratica: è il caso di Margherita di Baviera, di Margherita d'Ungheria e Margherita di Savoia, che non è la moglie del re Umberto I a cui fu intitolata la pizza con la mozzarella, ma una sua antenata del Quattrocento. La Margherita scozzese visse invece nell'XI secolo, ed era nata da una famiglia di nobili Angli (gli Aetheling), imparentati con Edoardo il Confessore, ma in esilio in Ungheria. Verso il 1050 il padre decide di tornare in Inghilterra, dove la famiglia potrebbe vantare qualche diritto sulla corona: ha ovviamente fatto i conti senza i Normanni di Guglielmo il Conquistatore, che nel 1066 prendono il possesso del regno e lo spingono a emigrare di nuovo, stavolta a nord, in Scozia. Nel frattempo Margherita ha compiuto vent'anni, il re Malcolm III se ne invaghisce, non si sa bene se prima o dopo essersi vendicato dell'usurpatore del padre, il ben più famoso Macbeth. Malcolm detto "collo lungo" non solo sposa Margherita, ma la elegge a sua guida spirituale visto che lassù oltre il vallo di Adriano l'ortodossia lascia molto a desiderare. Margherita impone il digiuno quaresimale, il riposo domenicale, la confessione. Con lei arrivano in Iscozia i monaci cluniacensi, che ovviamente peroreranno la sua causa quando la regina morirà, poco dopo avere appreso la notizia della morte del marito e del figlio in battaglia, nel 1093. Una vera e propria canonizzazione però avverrà solo 150 anni più tardi, con una bolla papale. Il suo nuovo sepolcro, nell'abbazia di Dunfermline, diventa il pantheon dei re scozzesi, ma nel 1560 viene saccheggiata dai protestanti. Maria Stuarda credeva di avere messo in salvo almeno la testa di Margherita, custodita in un reliquiario, ma di lì a poco perde la sua, quando Elisabetta d'Inghilterra la fa condannare a morte per alto tradimento. Sono tempi duri per i cattolici nell'isola; il reliquiario viene clandestinamente trasportato nel Collegio scozzese di Douai nella Fiandre, dove rimane al sicuro fino al successivo rigurgito anticattolico, la Rivoluzione francese che arriva a Douai nel 1793. 

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