Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
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sabato 8 marzo 2025
venerdì 7 marzo 2025
Fate bene, fratelli di Giovanni
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Giovanni di Dio mette in salvo i pazienti durante l'incendio dell'ospedale. |
giovedì 6 marzo 2025
Verso nuove radiose giornate
– First we take Aviano. Che aria frizzante, che voglia di armarsi, che subbuglio tra i nuovi eroi al caffè. Per quanto potessimo averlo previsto, è abbastanza sorprendente vederlo realizzato nel giro di un mese: là dove era tutto un "difendiamo l'Occidente", adesso c'è scritto che dobbiamo difendere l'Europa, e mica a parole: servono armi e servono subito. Non vi commuove tutto questo improvviso europeismo? E chissà cosa difenderemo l'anno prossimo. Poi per carità: se è la fine della Nato, io non ho molto da obiettare, e immagino che un massiccio riarmo sia inevitabile – ma solo se è la fine della Nato, altrimenti è una farsa. Fare la guerra a Putin a questo punto non è troppo diverso dal fare la guerra a Trump; non mi sembra un'impresa all'altezza delle nostre forze, ma soprattutto non è cosa che possiamo pensare di fare mentre ospitiamo militari e agenti americani in centinaia di basi del nostro territorio. E quindi, amici interventisti, un po' di chiarezza: volete davvero strappare l'Occidente, e in che modo? Sono sinceramente curioso. – Le nuove Radiose Giornate. Uno dei motivi per cui a volte chi viene qui a commentare non mi capisce, è che più che due lingue diverse, parliamo due guerre diverse. Molti commentatori parlano la Seconda Guerra Mondiale: per loro non è semplicemente l'ultima guerra importante, ma il mito fondativo dell'Occidente, l'architrave morale che definisce il Male assoluto (il nazismo) nonché giustifica qualsiasi male relativo (se devi combattere il nazismo puoi anche spianare Strisce e deportarne la popolazione). Quindi arrivano qui e si giocano invariabilmente la carta dello Spirito di Monaco. Qualsiasi guerra è necessaria, perché l'alternativa alla guerra è l'appeasement e l'appeasement è la colpa primigenia, senza l'appeasement non vivremmo del frutto del nostro sudore e le donne non partorirebbero con dolore. Va bene. (Cioè no, non funziona così, non è più Storia, è un mito, ma io credo nella tolleranza religiosa e quindi devo tollerare anche la vostra buffa religione). Però io parlo un'altra guerra, la Prima: e ogni volta che si dibatte sui motivi per farne una – che molto spesso sono i motivi per farla fare agli altri – io mi ritrovo di nuovo nel 1914 nelle bagarre tra Interventisti e Neutralisti, a litigare con futuristi, lacerbiani, dopo un po' è arrivato anche quel socialista romagnolo che prima scriveva quei fondi trucidi sull'Avanti, tutti avventurieri con scarse nozioni di strategia, tutti eroi ar caffè, voi venite qui a darmi del Chamberlain e non sapete neanche quanto somigliate a Giovanni Papini e quanto sia offensiva questa cosa che vi sto dicendo.
– Scurati ci vorrebbe più guerrieri. Ieri sulla Repubblica appare un pezzo di Scurati che segnala "la principale carenza europea rispetto alla possibilità di combattere autonomamente una guerra difensiva: la mancanza di guerrieri". Siamo già a questo? L'intellettuale che pochi mesi fa era diventato l'icona dell'antifascismo, è già pronto a litigare coi compagni e rifondare il Popolo d'Italia? Sì e no; Scurati queste cose le ha sempre scritte, salvo che non se ne accorgevano in molti perché i riflettori erano altrove. Se lo conoscessi un po' di più mi azzarderei a dire che un certo gusto melodrammatico per la guerra guerreggiata Scurati lo ha sempre conservato nello stile: certi fregi liberty come, nel pezzo su Repubblica, la definizione del nostro continente come "scoglio euroasiatico popolato di guerrieri feroci, formidabili, orgogliosi e vittoriosi". Da cui il sospetto che l'approccio romanzesco a Mussolini fosse anche un'accettazione di certe radici stilistiche nietzscheano-dannunziano-lacerbiano-futuriste, nonché un tentativo di rovesciarle, profanarle, ricordare a sé stesso e al suo pubblico che un certo stile ha un esito pratico, tante parole culminano portano a un punto, e questo punto è la guerra. Va bene. Diciamo che Scurati è un intellettuale che in questo preciso momento torna utile mettere sulle prime pagine, come certe Fallaci d'antan. E così come il Popolo d'Italia, per sensibilizzare il pubblico italiano sulla necessità di salvare l'eroico Belgio dall'imperialismo prussiano prendeva fondi dalla Fiat, questo pezzo di Scurati, che auspica che "l’Europa ritrovi lo spirito combattivo e, con esso, il senso della lotta", ricordiamocelo, ci è offerto da Stellantis. (La guerra, poi, se proprio dovremo farla, la faremo combattere agli immigrati. Un'alternativa interessante ad assemblare macchine già obsolete in Tunisia o in Serbia).
– Il nuovo irredentismo. L'avreste mai detto che ci sarebbe toccato morire, tra tanti motivi, proprio per il Donbass? Un posto tuttora difficile da trovare sulla cartina. La sensazione è di assistere a una partita a carte che doveva essere una cosa alla buona, tra amici che si erano portati un pollo da spennare in fretta, questo Vladimir Putin. Molte ore dopo, Putin sta vincendo ed essi hanno perso talmente tanta credibilità che l'idea di alzarsi dalla sedia e salutare non li sfiora nemmeno; devono rifarsi in qualche modo, ritirarsi adesso significherebbe ammettere che i polli erano loro, e questa cosa è inammissibile. Gli USA, che avevano organizzato la partita, se ne sono già andati a casa e senza perdere un soldo, anzi a ben vedere ci hanno guadagnato. I tedeschi ci hanno perso due gasdotti e la certezza di essere la locomotiva d'Europa, ma questo è impossibile da accettare: per cui ora cominceranno a firmare assegni e andranno avanti fino all'alba, metodici nella sconfitta com'erano stati metodici nella vittoria.
– L'ideologia è sempre quella degli altri. Michele Serra lancia un appello per andare tutti in piazza senza bandiere o stemmi, non per la Palestina che si sa, la pulizia etnica è un tema divisivo, bensì... per l'Europa. Che è una cosa bellissima, lo dico senza ironie, ma Europa in che senso? Per fare la pace con Putin prima che la faccia Trump (e pigliarsi le materie prime prima che lo faccia Trump) o per proseguire la guerra anche se Putin si mette d'accordo con Trump, ovvero a questo punto farla a un Putin spalleggiato da Trump? Serra non lo dice, sarebbe un tema divisivo.Elly Schlein fa subito sapere che ci sta, in due righe: noi ci siamo, senza bandiere, ok. Poi per chi vuole leggerla c'è una lenzuolata di motivazioni in cui, senza chiarire nessuno dei punti lì sopra (trattiamo subito una pace o proseguiamo la guerra, magari con contingenti europei) avanza comunque una serie di proposte operative (federalismo soprattutto fiscale, togliere l'unanimità, un'altra next generation da 800 miliardi), insomma un po' di politica la Schlein la fa: accetta una piattaforma molto vaga e con tanta cautela introduce i temi che le interessano. E verso la fine fa anche notare la debolezza dell'avversario politico, l'indecisione daa Meloni tra UE e Trump.
A questo punto, con fragore di tromboni e fagotti, irrompe Mattia Feltri e intona Nooooooo! Come ti permetti Elly Schlein, sei troooooppo divisiiiiiva! Vuoi trasformare una piazza non politica in una piazza politica, e così Forza Italia non verrààààà! Tod und Verzweiflung. Dove si vede che la "politica" è sempre quella sporca che fanno gli altri, perché se in quella piazza Elly Schlein incontrasse Tajani e scoprisse una corrispondenza di amorosi sensi che fosse propedeutica a un governo Draghi 2 che spianasse la strada a un'UE draghiforme, ebbene Mattia Feltri non troverebbe nulla di "politico" in ciò, nulla di divisivo, perché le uniche divisioni che contano sono tra i soggetti politici che vorremmo vedere a letto assieme. Questa mania di trovare "ideologica" solo l'ideologia degli altri, questa ottusa incapacità di Feltri e similfeltri di capire che anche loro hanno un'ideologia, anche loro hanno un'agenda politica, che a volte uno pensa: ma lo sanno benissimo, fanno solo finta, e invece no; i loro genitori facevano finta, loro no.
mercoledì 5 marzo 2025
I 42 martiri di Amorio
6 marzo: 42 martiri di Amorio (845)
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Il califfo riceve diplomatici bizantini |
Quando furono decapitati, il 6 marzo dell'845 lungo le rive dell'Eufrate, i 42 prigionieri di Amorio erano reclusi da sette anni. Amorio, la loro città, era già parzialmente ricostruita; il disastroso assedio dell'837 ormai una pagina di Storia, ancora fresca ma già voltata; i due protagonisti della vicenda, il califfo Al Mutasin e il basileo Teofilo, entrambi morti. Eudosio, l'autore dell'agiografia, racconta come i carcerieri arabi avessero tentato in tutti i modi di convertire i prigionieri all'Islam, con minacce e blandizie ma soprattutto con la forza dei ragionamenti, inviando nel parlatorio del carcere sapienti musulmani e altri ex cristiani convertiti. Solo l'empio Baditze si era lasciato circoncidere, ma poi era stato condannato a morte ugualmente, e alla fine il suo era l'unico cadavere che invece di galleggiare era stato mangiato dai coccodrilli.
Baditze era l'ufficiale ritenuto colpevole di tradimento: perché Amorio era stata la Caporetto dei bizantini, e proprio come gli italiani dopo Caporetto, i bizantini non riuscivano a concepire che fosse caduta grazie alla superiorità militare del nemico: no, qualcuno doveva aver tradito.
Quella di Eudosio è l'ultima agiografia tardoantica. Più che a una vecchia storia di cristiani perseguitati, l'eccidio dei 42 comincia a sembrare qualcosa di diverso: l'esecuzione di un gruppo di ostaggi, un crimine di guerra. Siamo nell'Anatolia del nono secolo, in un angolo cieco della nostra memoria storica, nel mezzo di una guerra infinita tra due imperi teocratici, due dinastie che non dureranno ancora molto. Entrambi i monarchi traggono la loro legittimazione dalle vittorie sul campo: se vincono, è segno che Dio è dalla loro parte; se perdono, presto o tardi saranno destituiti. Questo è vero soprattutto per il più giovane dei due, Teofilo l'Amoriano, l'ultimo imperatore iconoclasta: ma per dimostrare che Dio davvero non ama essere raffigurato, e apprezza i roghi delle vecchie icone, bisogna dare battaglia e vincerla. Nell'833 la situazione è favorevole: l'avversario, il Califfo al-Mutasun, è distratto da beghe interne, mentre nel Caucaso sta creando scompiglio una nuova setta, i khurramiti. Costoro, combinando elementi di zoroastrismo e islam sciita, hanno fatto proseliti soprattutto presso la popolazione azera: il loro esercito è una spina nel fianco arabo. Nel 834, la svolta: un leader khurramita si fa battezzare, assume il nome di Teofobo e sposa una sorella dell'imperatore. Nel tentativo di liberare un gruppo di khurramiti prigioniero del califfo, Teofilo e Teofobo marciano assieme verso le città di Sozopetra e Arsamosata con un'armata, per i tempi, assolutamente smisurata (centomila uomini secondo Al-Tabari, in un secolo in cui con venticinquemila era già guerra totale). Una volta prese le città, Teofilo sente di aver compiuto la sua missione e riparte subito per Costantinopoli dove celebrerà il trionfo dell'iconoclastia. Teofobo invece rimane sul campo e, non essendo riuscito a liberare i correligionari, lascia i suoi uomini liberi di saccheggiare le città e abusare dei civili.
Il resoconto dei profughi che riusciranno attraverso il deserto ad arrivare a Samarra, capitale del califfato, scuoterà la corte: stavolta gli infedeli hanno esagerato, occorre rispondere con quella che un cortigiano del tempo avrà definito "violenza incomparabilmente superiore". Al-Mutasin chiede ai dignitari di segnalargli l'obiettivo più inaccessibile: gli viene fatto il nome di Amorio (Ἀμόριον), roccaforte della Frigia, "dove nessun musulmano è mai entrato". Presso i bizantini, gli spiegano, è più famosa di Costantinopoli: tutte balle, Amorio era una roccaforte importante ma sicuramente meno famosa ed espugnabile di Costantinopoli, tant'è che gli arabi l'avevano già presa e tenuta per due anni tra il 666 e il 668. Si trattava soprattutto di un obiettivo di importanza simbolica, come quella Stalingrado su cui i nazisti si intestardirono irrazionalmente perché portava il nome di Stalin; Amorio invece era la patria del padre di Teofilo, Michele II, fondatore di una dinastia che qualcuno cominciava già a chiamare amoriana. A parte questo, assediarla non aveva molto senso. Occorreva penetrare nell'Anatolia cristiana per qualcosa come cinquecento chilometri, e farlo con un esercito ancora più grande di quello messo in campo da Teofilo: secondo alcuni cronisti anche un mezzo milione di effettivi, ma è davvero difficile crederci.
Teofilo, che tenta di intercettare una delle colonne ad Azen, viene sconfitto e si salva per un pelo dalla cattura. Da lì in poi tenterà più volte di fare la pace, inviando scuse formali per i crimini di guerra commessi a Sozopetra e Arsamosata dopo che lui – questa è la versione ufficiale – se n'era già andato. Il califfo non accetterà nessun tipo di indennizzo, salvo la testa dell'irreperibile Teofobo. L'assedio durerà due settimane e costerà, ma sono davvero numeri esagerati, centomila vittime: la città sarà resa al suolo, la popolazione decimata e ridotta in schiavitù. Tentato di continuare la campagna fino a Gerusalemme, Al-Mutasin sarà invece richiamato a Samarra dalla notizia di una congiura ai suoi danni. Con sé porterà il generale Ezio, il presunto traditore Baditze e altri importanti dignitari che Teofilo tenterà più volte, negli anni successivi, di riscattare.
Amorio è l'ultima grande vittoria degli abbasidi in Anatolia, ma non porterà a conseguenze durature: nel giro di un secolo il califfato subirà le invasioni degli sciiti iraniani e poi dei turchi. Quanto a Teofilo, morirà tre anni più tardi, forse prostrato dalla sconfitta, ma la provincia sarà riconquistata dal figlio, Manuele III detto (ingiustamente) l'ubriacone. Amorio sarà ricostruita, anche se non sarà mai più così importante. L'effetto più duraturo della guerra sarà la fine del movimento iconoclasta: le icone, che non erano mai veramente sparite dalle case di Bisanzio, torneranno a essere esibite anche a corte. Eppure i 42 martiri non entreranno mai nel repertorio di pittori e autori di mosaici. Come se fossero arrivati troppo tardi.
domenica 2 marzo 2025
Grande televisione, terribile diplomazia
Alla fine credo che la sintesi migliore l'abbia fatta proprio Trump: This is going to be great television. Quello che abbiamo tutti visto l'altro giorno nella Sala Ovale è un esempio di cosa succede quando selezioni una classe dirigente in televisione. Per quanto Trump e Zelensky siano personaggi a più dimensioni, la dimensione che hanno in comune è appunto la tv: una grande parte della costruzione del personaggio Trump proviene da The Apprentice (compreso il tormentone, "You're fired", che è poi quello che sta applicando al personale federale), Zelensky prima di fare il presidente dell'Ucraina ha recitato in una serie in cui faceva il presidente dell'Ucraina. Entrambi sono piuttosto bravi sotto i riflettori ed entrambi, a questo punto della loro carriera di successo, possono essersi convinti di poter svoltare la situazione improvvisando in diretta. È deformazione professionale: se metti sotto i riflettori un insegnante, lui cercherà di farti una lezione; se metti due personalità televisive nella stanza dei bottoni, inevitabilmente ne verrà fuori un talk e potrà anche essere un successo (prova è che ne stiamo tutti parlando), ma non diplomazia: almeno una diplomatica di professione a un certo punto si è coperta agli occhi dall'orrore.
La diplomazia non funziona così, ma a tanti osservatori oggi questo non interessa perché, da anni, non si stanno interessando più alla concreta situazione delle forze in campo – alla politica, insomma – bensì al teatro, dove ogni questione politica viene immediatamente trasformata in un apologo morale: i buoni devono essere ricompensati, i cattivi puniti, il pubblico non sarà contento finché non succederà, e in effetti oggi il pubblico è inquieto e deluso. Se davvero c'era soltanto "un invasore e un invaso", perché tutto sembra doversi decidere a Washington, che non è né l'uno né l'altro? Si cerca di capire se Zelensky abbia o fatto una bella o una brutta figura, e si cerca di capirlo contando i tweet o i comunicati di sostegno, come se davvero si trattasse di un attore la cui efficacia si misura sulla popolarità, e bisogna concedere che Zelensky in questi anni è stato anche questo, un testimonial molto efficace. Ma le guerre non si vincono così.
Chi avesse sul serio a cuore la situazione dovrebbe applicare lo sforzo costante di intravedere le quinte; Trump interpreta il ruolo del padrone arrogante, ma dietro di lui c'è un sistema militare-industriale che non ritiene più necessario sostenere la resistenza ucraina. Zelensky interpreta il ruolo di eroico presidente integerrimo e sono pronto a convenire che lo interpreta in modo convincente, mettendoci il cuore e a rischio della vita: ma dietro c'è una nazione che non ce la fa più. Questi sono i fattori di cui tener conto: chi vuole restare in superficie può senz'altro inveire alle smorfie di Trump o godere perché 'ha messo Z. al suo posto', cioè può restare nel teatrino, nel ruolo di pubblico che applaude ride e piange a comando.
Sono cresciuto pensando che l’America fosse “the land of the free and the home of the brave”. Che la torcia in mano alla Statua della libertà rappresentasse per chi arrivava da ogni parte del mondo sulle coste degli Stati Uniti la prevalenza della democrazia e dello Stato di…
— Ivan Scalfarotto 🇮🇹🇪🇺🇺🇦 (@ivanscalfarotto) February 28, 2025
Una parola per gli americanisti che professano ad alta voce la propria delusione: ricomponetevi. Davvero siete cresciuti pensando che l’America fosse “the land of the free and the home of the brave”? E si vede che non siete cresciuti abbastanza, non so quanto sia il caso di farlo sapere in giro. Capisco quanto sia comodo immaginare che Trump non sia quell'America, bensì un marziano venuto chissà dove e arrivato a Washington per puro caso. Ma Trump non è un incidente, Trump è la necessaria evoluzione di un capitalismo in fuga e di una politica imperialista in un mondo che cresce a ritmi che l'impero non riesce più a reggere. Trump è un imprenditore tipicamente americano, un palazzinaro di NY che ha ereditato un po' di soldi dai genitori come succede tipicamente ai ricchi americani, attirando l'attenzione dei media americani con un'ostentazione tipicamente americana; si è candidato alle elezioni americane e grazie alla deregolarizzazione dei media consentita dalle amministrazioni americane da Reagan in poi, è riuscito a costruirsi un consenso che gli ha consentito di vincere due elezioni presidenziali col sistema elettorale tipicamente americano – addirittura in un caso ha preso più voti dell'altra candidata, una cosa che negli USA non è nemmeno necessaria per vincere le elezioni, ma lui lo ha fatto lo stesso. Nel frattempo era stato complice di un tentativo di colpo di Stato, ma le autorità giudiziarie americane non hanno ritenuto necessario evitare che si ricandidasse e rivincesse. Una volta reinsediato, benché si sia comportato in modo straordinariamente arrogante, non ha fatto nulla che la costituzione americana e la prassi non gli consentano di fare. Certo, ha reso questa arroganza molto più trasparente di prima: è questo che non gli perdonate, ma cercate di capire. Intorno a voi ci sono persone che si ricordano cos'è successo con l'intervento americano in Afganistan – un disastro, e ora il giogo dei talebani è più stretto di prima – e con l'intervento in Iraq: un milione di morti. Ci sono persone che hanno visto tutte le amministrazioni USA, nessuna esclusa, spalleggiare Israele in operazioni di pulizia etnica sempre più tendenti al genocidio. Se oggi scoprite che l'America è arrogante coi suoi alleati e spietata coi suoi nemici, almeno non fate quella faccia stupita: ora sapete come ci sentiamo noi da sempre, benvenuti.
sabato 1 marzo 2025
La spaventosa polenta antifascista
[Questo pezzo è uscito sul Manifesto del 27/1/2025]. Può darsi che fra qualche giorno, presso il Senato della Repubblica, si debba discutere di una “polentata antifascista”. Non perché manchino, davvero, problemi più importanti. Ma il senatore Barcaiuolo, capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Esteri e Difesa, ha annunciato un'interrogazione sulla polentata, e nessuno sembra in grado di dissuaderlo. Il sospetto è che a infastidirlo, più che la polenta, sia l'antifascismo.
Come siamo arrivati a una situazione tanto grave quanto buffa? Qualche giorno fa, la dirigenza del liceo scientifico Fanti di Carpi (MO) ha ricevuto una mail dalla sezione locale dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. A Carpi l'ANPI organizza diverse iniziative con le scuole, per cui non deve essere sembrato strano l'invito a una “polentata antifascista”, al termine della quale sarebbe stato presentato un libro sui “Treni della felicità”, che nel 1946-47 portavano in città bambini orfani e bisognosi provenienti dalle regioni centromeridionali. Come molte iniziative ANPI, la polentata è anche un'occasione per raccogliere fondi e iscrizioni. Nulla di apparentemente scandaloso, senonché una collaboratrice della dirigente scolastica inoltra per sbaglio la stessa mail agli studenti del liceo. Così una pressione del tasto “inoltra” trasforma una polentata antifascista in un caso nazionale: e questo malgrado la dirigente sia corsa immediatamente ai ripari, ammettendo la svista e smentendo “una volontà politica o di “indottrinamento” di alcun tipo”. Troppo tardi. A contestare da subito la polentata non sono stati né studenti, né genitori, bensì i rappresentanti di un partito che in effetti è l'unico a non riconoscersi nell'antifascismo costituzionale. Il caso arriva alla stampa nazionale; su Libero, Francesco Storace avverte che a Carpi “la scuola invita gli alunni a iscriversi all'ANPI” e lascia intendere che la responsabilità sia di una vicepreside “consigliere comunale del PD”. Il deputato leghista Rossano Sasso denuncia alla Camera l'invio di una “mail di un’associazione politica di sinistra”. Il sindaco di Carpi, Riccardo Righi (PD) reagisce denunciando una campagna orchestrata ai danni della comunità e della scuola. In effetti il liceo era già finito sotto i riflettori, mesi fa, perché su un manuale di Storia compariva un trafiletto su Salvini che (secondo i suoi sostenitori) non gli rendeva giustizia. Il manuale è stato adottato in tante scuole, ma – nota il sindaco – viene spesso presentato come il “libro di testo del Liceo Fanti”. Qualcuno poi si è ricordato che ai lontani dei Fridays for Future (2019) su un muro del liceo era comparso un murales in cui l'allora ex presidente Trump aveva un naso da maiale; chi lo dipinse è diplomato da un pezzo, ma il senatore Barcaiuolo ne parla come di una prova evidente della “propaganda politica” che si praticherebbe nell'istituto.
Quanto agli studenti del liceo, i loro rappresentanti negano recisamente che sia luogo di “indottrinamento”. “Notiamo come la nostra scuola propone una svariata gamma di attività e progetti che ci permette di ascoltare più voci e fare esperienze nei campi più diversi. Troviamo dunque in questo contesto errata l’interpretazione dei fatti degli ultimi mesi che ha sempre visto gli studenti come parte passiva a cui viene impartita un’ideologia”. Lascia ben sperare il fatto che all'allarmismo degli adulti, i giovani rispondano con parole di buon senso e forse anche troppo diplomatiche: perché l'idea che dei diciottenni si facciano “indottrinare” da una mail circolare che li invita a una polentata può essere concepita in buona fede solo da qualcuno che diciottenne non lo è mai stato, e non ne ha mai avuti in casa.
L'accusa più pretestuosa è spesso un'inconsapevole confessione. Sotto alla passione polemica – che si accende al primo pretesto, e quando non ne trova li inventa – c'è una fiducia commovente nella capacità che avrebbe la scuola di plasmare la coscienza degli studenti. La stessa fiducia che ha ispirato il Giorno del Ricordo – l'idea che basti dedicare un giorno all'anno in tutte le scuole ai massacri delle foibe per iscriverli indelebilmente in una coscienza nazionale. La stessa fede che ispira gli esperti a cui Valditara ha chiesto di riformare i “programmi”, ovvero le indicazioni nazionali. Nei loro interventi c'è un ritorno ossessivo ai temi dell'identità nazionale, che si costruirebbe attraverso l'insegnamento della Storia. Non lo chiamano “indottrinamento”, ma prevedono che cominci sin dalla scuola primaria. È chiaro che chi concepisce la scuola in questo modo non possa che guardare con sospetto a ogni proposta educativa che tradisca una concezione della Storia e dell'identità diverse dalla propria. Persino quando la proposta è una semplice polenta.
venerdì 28 febbraio 2025
Trump ci è, Trump ci fa
E forse confondiamo anche stavolta effetti e cause: Trump potrebbe essere impazzito perché è troppo potente, ma potrebbe anche essere diventato così potente proprio perché è un povero pazzo; chi altro avrebbe potuto intestarsi con disinvoltura strappi in politica estera e interna inimmaginabili dal 1945. Può darsi che la democrazia ceda alla follia quando non sa più risolvere le sue contraddizioni, o uscire dalle situazioni in cui si è cacciata. Una di queste, al netto dei retroscena che ognuno racconta come più gli garba, è l'Ucraina: una situazione che si è ingarbugliata molto prima del 2022, degli accordi di Minsk e di Euromaiden. Storicamente, i democratici rappresentanti dell'Occidente hanno ritenuto che l'Ucraina fosse scalabile; che messo alle strette, Putin avrebbe dovuto cedere, o che un suo eventuale bluff sarebbe stata la sua fine politica. Possiamo discutere lungamente su chi abbia più di altri abbia commesso questo errore (Obama? Angela Merkel?) Quello che a questo punto dobbiamo accettare è che un errore di valutazione c'è stato. Non solo, ma dobbiamo anche riconoscere che non lo pagherà chi lo ha commesso, bensì gli ucraini e, meno pesantemente, gli europei. La retorica democratica crolla di schianto e ci accorgiamo che oltre a "un invasore e un invaso" c'erano venditori di armi che ci speculavano, venditori di gas che dalla fine dei due Nord Stream hanno tratto un immediato vantaggio, compratori di terre rare che stanno per chiudere un buon affare, ecc. Tutto questo, i cultori della democrazia potrebbero trovarlo osceno, ma possono consolarsi: la democrazia è sospesa, al suo posto c'è un pazzo che fa un po' quel che gli pare.
In Palestina, una situazione molto diversa: ma anche lì, dopo aver coccolato per decenni un regime basato sulla segregazione religiosa (e razziale); dopo averlo visto diventare sempre più violento e meno incline ai compromessi, a un certo punto ti scoppia il bubbone, ti ritrovi un genocidio sulla riva del Mediterraneo e cosa fai? Accetti le tue responsabilità? No, perché nel frattempo tu, democrazia occidentale, hai pensato bene di suicidarti. Non fai neanche le primarie del partito democratico; alle elezioni candidi il nonno in carriola e quando diventa chiaro che la carriola ha delle difficoltà lo sostituisci con una vice la cui impopolarità era abbastanza nota; siccome Trump aveva già vinto contro una donna wasp, ci mandi una donna neanche wasp, perché vuoi proprio essere sicuro di perdere. La responsabilità se la prenderà un povero pazzo, anzi una squadra di pazzi un po' nerd incapaci di notare le differenze tra realtà e simulazioni AI, che magari riusciranno a confondere i sionisti eludendo le loro richieste con proposte ancora più folli. È una teoria.
Rimane sempre sul tavolo l'ipotesi che con Trump e Musk il capitale abbia raggiunto il punto di accumulazione dopo del quale la realtà semplicemente collassa: i cittadini contemplano interdetti ma non possono farci niente perché il capitale ha già da tempo attirato a sé non solo gli strumenti del consenso, ma anche le infrastrutture della comunicazione: nonché esercito e finanza, per cui non si vede proprio come uscire da quello che ormai è un buco nero. Ma probabilmente è un'ipotesi troppo pessimistica: voglio dire, tiranni impazziti ne abbiamo avuti sempre, e in un qualche modo ne siamo sempre usciti; probabilmente anche Svetonio era convinto di vivere negli ultimi giorni dell'umanità, tutti sono convinti di questa cosa, e prima o poi qualcuno ci beccherà. Sarebbe molto buffo che quel qualcuno fossi io.
martedì 25 febbraio 2025
Contro Ario e le sue arie
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domenica 23 febbraio 2025
Il sudtirolese che non giurò a Hitler
24 febbraio: Beato Josef Mayr-Nusser (1910-1945), sudtirolese antinazistaManifesto nazista in Sudtirolo,
CC BY-SA 4.0
Nell'ottobre del 1939 il Brennero divenne il confine inquieto tra due regimi alleati che però a quel punto perseguivano entrambi una politica razziale. Le autorità fasciste e naziste misero i sudtirolesi di lingua tedesca di fronte a una scelta secca tra due opzioni: emigrare nel Reich che aveva appena annesso l'Austria, o restare in un'Italia fascista che già da anni aveva chiuso le scuole in lingua tedesca e perseguiva una politica di italianizzazione forzata. La maggior parte (più o meno 185mila su 267mila) scelse di emigrare, ma la situazione era molto incerta: i tedeschi non chiarivano in quali terre i sudtirolesi si sarebbero insediati. In compenso la propaganda filonazista faceva girare la voce che i Dableiber, ovvero i sudtirolesi che sceglievano di restare in Italia, sarebbero stati deportati in Sicilia o Africa Orientale. Josef Mayr-Nusser aveva 29 anni, proveniva come un po' tutti da una famiglia contadina (il padre era morto di colera combattendo nella Grande Guerra), da ragazzino avrebbe voluto studiare astronomia ma era il secondo fratello di cinque e la famiglia poteva permettersi soltanto l'istruzione del primogenito in seminario. Così Josef si era formato da autodidatta, studiando Tommaso d'Aquino e Thomas More; si era trovato un posto di impiegato a Bolzano, dividendo il tempo libero tra il volontariato per la società di Vincenzo de' Paoli e la militanza nell'Azione Cattolica, l'unica associazione giovanile non fascista tollerata dal regime.
L'Azione manteneva un minimo di copertura per i sudtirolesi che rifiutavano l'assimilazione e organizzavano scuole clandestine (Katakombenschule) per insegnare tedesco ai bambini. Per Mayr-Nusser scegliere l'Italia nel 1939 significava rinnegare pubblicamente la propria cultura: ma aveva letto il Mein Kampf, e il nazismo gli appariva il male peggiore. Fu una scelta presa in relativa solitudine, mentre anche il vescovo di Bolzano e Bressanone prendeva la via della Germania. Mayr-Nusser invece aderì al gruppo antinazista clandestino che prendeva il nome dall'eroe della resistenza antinapoleonica, l'Andreas-Hofer-Bund. Nel 1942 sposò Hidegard Straub, da cui ebbe subito un bambino (il compositore Albert Mayr). Dopo l'otto settembre 1943, l'Alto Adige fu di fatto annesso al Terzo Reich: nel 1944 Mayr-Nusser fu arruolato forzatamente in un plotone di Waffen-SS e condotto in un campo di addestramento in Prussia dove però il 4 ottobre si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà a Hitler. Condannato a morte, Mayr-Nusser non fece nemmeno in tempo a raggiungere il campo di concentramento di Dachau: morì ammanettato nel carnaio dei vagoni, secondo il referto ufficiale di broncopolmonite.La notte di Santa Valpurga |
mercoledì 19 febbraio 2025
A furia di esportarla, la democrazia è finita
Sono giorni molto confusi: sarebbe saggio non scrivere niente. Ma nella confusione tante cose si rivelano: certo, rischio di svelarmi anch'io. Rispetto ad altri ho un vantaggio: non ho mai confuso gli Stati Uniti d'America con mio padre. Non ho mai dato per scontato che sarebbero venuti a salvarmi da qualsiasi guaio in cui mi sarei cacciato – ragion per cui non ho mai creduto molto in questa cosa di dichiarare guerre, o di combattere a oltranza quando altri me ne dichiaravano, e forse qualche volta ho ceduto territori che mi spettavano, ma l'alternativa era perderne ancora di più, e così me ne sono fatto una ragione. Crescere è anche questo, ma molta gente qui da noi non è mai cresciuta, e probabilmente adesso è tardi. È ingiusto immaginarli mentre si ingegnano di salire sul carro del vincitore, perché anche per quello serve un ingegno che loro non hanno mai applicato. La realtà è che non sanno saltare: i loro genitori o nonni su quel carro sono saliti nel 1944/45, e da allora la questione non si è più posta, la questione non esisteva, Washington era il fulcro morale del mondo. L'idea che abbia trascinato l'Ucraina in una proxy war non è accettabile; la possibilità che ora la molli al suo destino (cioè alla povera Unione Europea), accordandosi con quello che fino a ieri mattina era l'Impero del Male, non è assolutamente immaginabile, dev'essere un incubo. Proprio ora che i filistei si avvicinano, Dio non ci parla più. Persino i governanti sono sotto choc: convocano vertici non si sa nemmeno più di cosa, UE più Regno Unito ma senza gli staterelli troppo riottosi. C'è chi propone di continuare a combattere, ora sapete come dovevano sentirsi i giapponesi in certe isole.
In mezzo a tutto questo, bisogna ammettere che Giorgia Meloni galleggia meglio di altri corpi, per tutta una serie di motivi, e il primo è che galleggiare è il suo mestiere. A differenza di tanti altri statisti e governanti, l'atlantismo per lei è solo un episodio: il giorno prima di abbracciarlo con tutta sé stessa stava ancora spacciando qualche palla delle content farm putiniane, come il piano Kalergi; e dopodomani potrebbe ricominciare imperterrita, qualsiasi cosa pur di stare a galla. Per tanti altri sarà più difficile, a certe ironie della sorte non si sopravvive: credevano che la guerra in Ucraina avrebbe portato a un regime change a Mosca, e invece è cambiato il regime a Washington. Immagino il dilemma: farsi trumpiani, o inventarsi all'improvviso un europeismo in cui non credevano neanche lunedì scorso? Quel che è certo è che non diranno mai scusate, ci siamo sbagliati, credevamo che gli USA fossero sinceramente interessati a riportare i confini dell'Ucraina al '92. Credevamo che gli ucraini avrebbero combattuto fino all'ultimo uomo per questi sacri confini, ma d'altro canto non credevamo che ce ne sarebbe stato bisogno perché credevamo che qualche mese di guerra di posizione avrebbe fatto saltare Putin, e inoltre credevamo che il sistema di potere russo consistesse essenzialmente in questo malvagio Putin; una volta saltato, la Russia si sarebbe trasformata in una democrazia liberale. Credevamo, credevamo. Scusate, con questa idea di esportare la democrazia facciamo gli stessi errori di calcolo da trent'anni, ma l'ipotesi che la calcolatrice sia un pezzo di plastica coi numeri finti non ci ha ancora sfiorato; confondiamo la geopolitica con la morale e abbiamo la morale di un bambino di otto anni; la maestra è uscita da un po' senza incaricare nessuno di scrivere buoni e cattivi alla lavagna e questo ci destabilizza. Siamo tutti troppo deboli e immaturi per confessare di essere deboli e immaturi, e così anche stavolta stringeremo i denti e faremo finta di andare avanti. Dio non ci parla più, ma fingeremo di ascoltarlo lo stesso.
martedì 18 febbraio 2025
Quel Che Dio Vuole prega per noi
domenica 16 febbraio 2025
La Trappola Trans
Riassunto della puntata precedente: il Sanremo di Carlo Conti è, come si poteva prevedere, un passo indietro sia da un punto di vista artistico, sia del costume. È un festival che non può negare che esistano delle questioni aperte, dei conflitti in corso: ma invece di affrontarli li mette in scena in una versione edulcorata o farsesca: un Tale e Quale Show in cui al posto del cantante che l'anno scorso proponeva di fermare un genocidio ce n'è un paio che cantano, per l'ennesima volta, Imagine come se fosse mai servita a qualcosa; al posto del Benigni faro della sinistra antiberlusconiana c'è un Benigni anziano costretto ad autoprofanarsi ritornando all'Inno del Corpo Sciolto; e al posto del movimento Lgbt c'è Malgioglio. In particolare la grande assente sarebbe la queerness. Ora, il dibattito sulla queerness è stato fatto infinite volte e giunge sempre a un punto di stallo: c'è chi considera il queer come liberatorio sempre e comunque, e c'è chi è portato a immaginare che anche il queer, come qualsiasi altro atteggiamento umano, possa raggiungere un limite X oltre il quale risulti controproducente alla causa che dovrebbe difendere. Io perlomeno tendo a pensarla così, ma non perché mi ritenga un "moderato" nemico di qualche "massimalista": semplicemente credo che ogni contenuto possa essere distorto fino a trasformarsi nella parodia di sé stesso.
Ad esempio due anni fa, dopo l'ultima esibizione di Rosa Chemical, il dubbio mi è venuto: ma non è che l'hanno fatto apposta? Chiara Ferragni, tra l'altro, era appena salita nell'empireo delle maestre di vita. Una scenetta che all'inizio mi era sembrata semplicemente estemporanea e di cattivo gusto è stata ripresa dalla stampa di destra con un'attenzione morbosa, perché? In un qualche modo sembrava dare forma allo stereotipo del travestito pericoloso che approccia eterosessuali e li converte alla fluidità – uno stereotipo che, ribadisco, non ha riscontri nella cronaca o nel mondo reale, ma che evidentemente fa parte dell'immaginario di tanti italiani, ed è un immaginario omofobo nel vero senso del termine "fobia", che prima di odio è paura. Se il movimento Lgbt ne ha tratto qualche vantaggio, io non l'ho visto. Davvero Rosa Chemical sembrava se lo fossero inventato i Feltri e i Sallusti a tavolino, con tutti i tatuaggi e gli ammiccamenti giusti per spaventare la maggioranza silenziosa. Nei mesi successivi è partita un'operazione di ridimensionamento della famiglia Ferragni che forse era inevitabile – avevano raggiunto troppo presto la quota Benigni, ormai erano i fari dell'opposizione al governo, ma si trattava di celebrità fragili, ancora affidate ad aziende a conduzione famigliare e tanta attenzione su di loro ha reso più evidenti le loro magagne. Questo però è già un altro discorso. Il discorso che volevo fare, me ne rendo conto mentre me lo scrivo, è il solito dai tempi di Genova: come fa un movimento a difendersi dagli agenti provocatori, da chi ne assume i comportamenti più estremi per suscitare un facile scandalo e suscitare una reazione violenta? Nel caso della queerness, la situazione si fa ancora più spinosa perché distinguere un queer dalla parodia di un queer è un'impresa davvero difficile – se non è Malgioglio.
Qualche giorno fa, sull'organo dell'ipocrisia fintoprogressista, Paola Concia è stata così gentile da spiegarci che il movimento Lgbt italiano è stato rovinato dal "massimalismo". Copio e incollo:
Abbiamo iniziato a copiare le rivendicazioni di oltre oceano, leggendo con ammirazione che i sessi erano più di due, che si dovevano avere bagni di genere neutro, che la fluidità di genere doveva diventare legge di stato, che le donne biologiche dovevano essere definite come persone che mestruano per non offendere nessuno, che esisteva un diritto alla filiazione da parte delle coppie omosessuali maschili e così via. Giorno dopo giorno, si è fatta strada l’idea tra noi che non bastava chiedere leggi contro le discriminazioni e per il matrimonio egualitario oppure una modifica della legge sulle adozioni e sulla legge 164/82 sulle persone transessuali - battaglie su cui avremmo potuto trovare al nostro fianco milioni di cittadini - ma che bisognava andare oltre. Gestazione per altri, schwa, asterischi e fluidità sono diventate le nostre parole d’ordine e i nostri campi di battaglia. Parcellizzare i diritti è diventato il nostro mantra, quando la garanzia dei diritti universali è sempre stata la nostra bussola.
Ora, a mio avviso questo discorso è interessante perché non una sola cosa di quelle descritte dalla Concia è dimostrabile – si tratta in effetti di talking points, parole d'ordine che quasi sempre sono state escogitate o messe in rilievo dalla stampa di destra. "Leggendo con ammirazione che i sessi erano più di due": se ne può parlare – se ne parla da decenni – ma c'è stata una concreta iniziativa legislativa in tal senso? "Si dovevano avere bagni di genere neutro": li avevamo all'università negli anni '90, più che altro per le limitazioni architettoniche, succede anche in molti bar; qualcuna/o è morta/o per questo? "Le donne biologiche dovevano essere definite come persone che mestruano": sul serio? È stato l'argomento di una rivendicazione seria di un movimento strutturato, o una boutade che ha fatto un po' discutere? "Diritto alla filiazione da parte delle coppie omosessuali maschili": questa è più seria, ed è triste vederla infilata in un mazzo di sciocchezze. Davvero, mancano soltanto i lego transgender di Mattia Feltri, è veramente strano che non li abbia tirati fuori, forse non ha fatto in tempo. "Gestazione per altri, schwa, asterischi e fluidità sono diventate le nostre parole d’ordine e i nostri campi di battaglia": ancora lo schwa, sul serio? L'ultima volta che ho controllato, erano stati pubblicati quattro libri contro lo schwa e ancora neanche un libro intero a favore – anche perché chi se lo leggerebbe un libro intero sullo schwa, santo Dio. Lo schwa, con buona pace di chi prova davvero a usarlo, è un feticcio della destra, non del femminismo. Fin qui è servito molto più a spaventare che a includere, il che è abbastanza buffo perché a differenza di Rosa Chemical non viene nemmeno a twerkarti sulle ginocchia; è una letterina abbastanza innocua che puoi benissimo evitare di leggere, se ti fa davvero così schifo.
Quel che si capisce è che Paola Concia a un certo punto si è sentita scavalcata da un attivismo che chiedeva cose diverse da quelle che chiedeva lei, e ha deciso che queste cose non erano giuste e che quell'attivismo nuoceva alla sua causa. Il che è comprensibile e legittimo. Quel che non è legittimo è sostituire le istanze che non approvi con una parodia. Probabilmente capita a tutti di farlo, ebbene, a volte la chiamiamo 'satira' ed è accettabile. Se invece stai scrivendo un manifesto del movimento lgbt riformista no, siamo più dalle parti della bassa propaganda che si crede intelligente, e infatti siamo sul Foglio. "Massimalismo" è un termine che da decenni individua la cattiva fede di chi lo usa; mi verrebbe da far presente che la Concia potrebbe prendere le distanze dal "massimalismo" di chi ha deciso che la questione palestinese si risolve spianando la Palestina, ma cadrei nella stessa trappola. Mentre invece è da un'altra trappola che volevo mettere in guardia, anche se non sono sicuro che esista. Ma nel dubbio – e nel buio – uno non fa male a dire a chi ha vicino: ehi, occhio, forse ci sono delle trappole.
Ehi, state attentə. Può darsi che anche in passato alcune vostre forme di lotta o di espressione abbiano goduto di un'esposizione particolare non perché funzionavano, ma perché i vostrə avversarə le consideravano talmente eccessive da trasformarsi in autoparodie. A torto o a ragione, non importa: ma può darsi che di alcuni argomenti si sia parlato di più perché a loro interessava che ne parlaste. Può anche darsi che ve ne siate resə conto ma abbiate comunque pensato di cavalcare il drago; forse vi illudevate di domarlo, o semplicemente vi stavate divertendo, e tanta attenzione lusingava quell'amor proprio senza il quale nessuno lotterebbe per nessuna causa. Non vi giudico, non credo avrei fatto meglio di voi. L'unica cosa che posso dire è: attentə, forse ci sono delle trappole.
sabato 15 febbraio 2025
Volete farci rimpiangere Amadeus, ma dobbiamo resistere
Io capisco che a questo punto la tentazione di rimpiangere il Sanremo di Amadeus sia molto forte. Vorrei comunque invitarvi a resistere, a rifletterci un attimo sopra. Due anni fa, quando si paventava che la destra al governo volesse prendersi la Kermesse con la forza, un coglione scriveva: "Può darsi che Sanremo stia diventando quel che per gli americani è Hollywood: cioè in un certo senso un grosso equivoco, la ridotta di un progressismo ormai più immaginario che reale". " Sanremo come riserva di un progressismo in via d'estinzione/assimilazione, dove anche istanze interessanti come l'antiproibizionismo o l'emancipazione sessuale vengono difese da fenomeni da baraccone che alla lunga si rivelano controproducenti". Rosa Chemical aveva appena molestato Fedez in diretta: un episodio più ridicolo di altri (se ve lo siete dimenticati, vi invidio) ma che col tempo ha assunto un peso simbolico, non sono sicuro che si possa dire peso simbolico ma stasera passatemela.
Amadeus e Conti hanno tanto in comune, come sa bene chi li ha confusi per anni inciampando nel preserale di Rai1. Stessa età, stesso apprendistato nelle radio private italiane proprio nel momento in cui cominciavano a diventare network commerciali, col conseguente tragico abbassamento dell'offerta culturale. Stessa stella polare: dare alla gente quello che la gente vuole. Dei due, Amadeus è il settentrionale: più aperto alle novità, e convinto (con maldissimulata arroganza) di poter fondare la sua legittimità su parametri oggettivi, economici. Che questi parametri fossero sistematicamente falsificati, per lui faceva parte del gioco. C'era una clausola non scritta per cui il Sanremo di Amadeus doveva andare bene, benissimo, sempre meglio, tutti lo stavano guardando e questo faceva di Amadeus il miglior conduttore e direttore artistico di questo Sanremo che il mondo ci invidiava. Perché i numeri dicessero davvero qualcosa del genere, Amadeus doveva portare la diretta fino alle tre del mattino, né la cosa gli veniva più di tanto contestata perché alla fine la Rai è da vent'anni che fa i numeri così – andate a vedere a che ora del mattino finisce Ballando con le stelle, uno show il cui target di riferimento sonnecchia già alle dieci e mezza. Un trucco noto a tutti i professionisti del settore e praticato in piena luce, con la complicità dei network concorrenti, l'omertà dei giornalisti e immagino la rassegnazione degli inserzionisti, che pagavano cifre importanti per andare in onda a mezzanotte o all'una davanti a spettatori tramortiti. Nel frattempo il palinsesto è diventato il cimitero delle idee, che anche quando sono originali vengono stiracchiate per ore e ore (Geppi Cucciari ne sa qualcosa). Non credo sia una coincidenza che, scaduti i cinque anni del contratto, l'Auditel abbia improvvisamente rivisto i criteri – probabilmente la coperta era stara tirata così forte e così a lungo che gli strappi erano inemendabili. Ed è arrivato Carlo Conti. È arrivato lasciando subito capire che il senso dell'operazione era tirare il Remo in barca: i dirigenti Rai mettevano le mani avanti già alla conferenza stampa di martedì: ogni confronto statistico con le edizioni di Amadeus sarebbe fuorviante perché, perché, le piattaforme, ecc. ecc. (poi i confronti li hanno fatti lo stesso, perché da qualche parte sono riusciti a distillare uno zerovirgola in più), ma non era più così importante perché non è sui numeri che Conti costruisce il suo consenso.
Carlo Conti viene da quell'isola culturale che è la Toscana, dove ogni novità dall'estero giunge attutita e annacquata; la sua capacità di fornire alla gente "quel che la gente vuole" non si basa su numeri veri o gonfiati, ma sull'intuito, su una connessione profonda con la media gaussiana del Paese – che magari è altrettanto illusoria dei numeri di Amadeus, ma gli consente di regnare sul caos con più serenità, laddove il collega del nord tradiva a ogni passo falso il nervosismo. Conti ha una sensibilità musicale più retriva, incline a quel cattivo gusto melodrammatico che quando arriva a Sanremo purtroppo fa il pieno: cantanti ciechi, bambini sapienti, il Volo... e mamme malate, è stato l'anno delle mamme malate. Non sono venuto a difenderlo. È un cattivo gusto che non nasce evidentemente dal nulla; ha radici profonde, più centromeridionali e purtroppo non ci sono più in giro artisti in grado di farci qualcosa di interessante, anche solo di provarci (Modugno, Lucio Dalla). Dico "purtroppo" ma le radio commerciali hanno terribili responsabilità. e Conti viene da lì.
Conti lavora di bilancino, che dopo decenni di Rai1 riesce a muovere con la destrezza del prestigiatore. I conflitti, lo ha capito da Pippo Baudo, non si nascondono sotto il tappeto (a rischio di inciamparci), ma si mimano in scena, in una versione talmente edulcorata da poter passare liscia anche le rare volte che gli spettatori sono svegli. L'anno scorso hanno litigato per la Palestina? Carlo Conti ci sbatte sopra un video del papa (all'insaputa di quest'ultimo!) chiama due artiste israeliane a cantare Imagine – e pazienza se in inglese la canzone dice che il mondo sarebbe più pacifico senza religioni; ognuno la canta e la capisce nella lingua sua. Nel frattempo il loro governo, perseguendo una politica di segregazione su base religiosa, continua a bombardare Libano e Cisgiordania alla faccia di un Cessate il Fuoco ma ehi, non si può dire che Carlo Conti non si sia posto il problema. Laddove Amadeus, l'anno scorso, dava alle maestranze l'impressione di non riuscire a gestirlo; Ghali e D'Amico fecero impazzire giornalisti e politici dicendo semplicemente "stop genocidio": quest'anno non lo ha detto ancora nessuno. C'è da ospitare Benigni che deve lanciare il suo ritorno in Rai? Conti lo ospita molto volentieri, ma pretende da lui non soltanto il solito ecumenismo (viva il Presidente della Repubblica), ma anche l'Inno del corpo sciolto, la rivincita dello Strapaese sul vecchio attore che ancora si illude di essere un maître à penser – no, sorride Conti (ed è la cosa più diabolica che ha fatto in tre serate): tu se vieni qui devi ricordare a tutti che eri un guitto, e un guitto ritornerai. ("Dovunque sei, lì sei in Toscana").
E poi c'è la Minaccia Gender: Amadeus era stato molto criticato, dalla stampa di destra, per l'episodio di Rosa Chemical che sembrava costruito a tavolino per fornire proprio alla destra un casus belli; l'archetipo del travestito pericoloso che molesta eterosessuali a tradimento. Un archetipo che non ha riscontri nella cronaca o nel mondo reale, ma che evidentemente fa parte dell'immaginario di tanti italiani. Conti lo sa e il suo bilancino non ha un sussulto: in questi casi si chiama Malgioglio. Malgioglio è il travestito rassicurante – lo è talmente che passa più tempo in tv dello stesso Carlo Conti, e quando passa fa il picco. La copia edulcorata della copia edulcorata della copia edulcorata della copia edulcorata di un travestito che nessuno si ricorda più chi fosse talmente la copia è stata edulcorata, forse Paolo Poli ma non vorrei offenderne la memoria. Se devo essere sincero non lo sopporto – più per saturazione che per omofobia, ma evidentemente il Paese Reale lo trova ancora buffo e bisogna ammettere che per uno della sua età (l'età della maggior parte del pubblico) ha i tempi comici. Giulia Blasi rimpiange Drusilla Foer e posso capire, ma ho qualche dubbio che si tratti di una differenza sostanziale, ovvero: la Foer aveva testi migliori, ma passava soltanto una sera su cinque e metà dei suoi testi li interpretava davanti a un pubblico sonnecchiante. Malgioglio in Rai c'è almeno una sera alla settimana: la quota Lgbt, in Rai, è rappresentata da Malgioglio. È senza dubbio un problema, ma Conti ha la sola colpa di mettervelo sotto il naso, laddove forse con Amadeus qualcuno si illudeva davvero che la galassia Lgbt avesse trovato un portale per connettersi con il Paese Reale in prima serata. Forse un po' ogni tanto davvero il portale si è aperto, a sprazzi, anche grazie a un artista (Mahmood) che in questi anni è veramente cresciuto e qualcosa di nuovo lo ha portato. E infatti Conti lo è andato a riprendere anche se quest'anno non era in gara, perché il bilancino funziona così. Significa che lo ha normalizzato? Tutto si normalizza, dopo un po' (Continua!)