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giovedì 31 marzo 2011

Delenda Cologno

Revolution Will Be Televised

Non è che i quotidiani (quelli alla Feltri, intendo) non abbiano una residuale importanza, nell'ispirare qualche migliaio di boccaloni da bar e in generale la classe imprenditoriale meno lucida d'Europa.

Non è che internet sia un mondo perfetto, con le sue comunità sempre meno comunicanti con l'esterno, una specie d'agenzia che trova a tutti gratis la stanza dove tutti la pensano come te, ti danno ragione, approvano i tuoi elementi.

Però pantomine come quella di Forum, o di Lampedusa, o della rissa alla Camera, ce lo ricordano tutti i giorni: l'arma più forte, l'unica che rimane al Rais per convincere e convincersi di essere ancora in sella, è sempre lei: la televisione. Così banale? Sì, così banale, mi dispiace, ma siamo sempre qui. Scenette come quella della finta terremotata non si farebbero, se non funzionassero ancora così bene, nel 2011 (e il Gabibbo non rilascerebbe dichiarazioni all'Ansa). Forse altrove le cose stanno cambiando, forse davvero twitter o facebook stanno veicolando nuove rivoluzioni, nel qual caso sono felice per egiziani e tunisini, ma qui da noi va così: chi controlla le emittenze, controlla gli italiani. Non tutti? Va bene, diciamo che ne controlla abbastanza per fottersi del resto.

Perché tutto il resto – le proteste a Lampedusa, l'indignazione degli aquilani, il cipiglio allucinato di La Russa, il sorriso mesto e incredulo di Frattini – non esiste; o meglio, esiste per una fetta di italiani che rimane la minoranza. Una minoranza enorme, ma minoranza, a cui non resta che chiudersi nella sua stanza cartacea o digitale (o magari andare al cinema), a indignarsi un altro po', che c'è sempre un motivo e ormai ci abbiamo preso gusto; ad aggiungere un'altra paginetta all'album delle figure di merda internazionali. Va così da vent'anni e non si vede francamente perché dovrebbe cambiare. I giovani, forse, man mano che si stancano dello scatolone di mamma e papà (che è sempre meno uno scatolone, ora è sottile e lucido come uno specchio, e succhia banda a internet). I giovani forse non ci cascano più come una volta, ma sono pochi.

Saranno vent'anni, ormai, che faccio questo discorso, e magari all'inizio esageravo. Di solito la risposta è sempre la stessa: spocchioso, elitario, tu offendi gli italiani, credi che siano cretini. Io non ho mai pensato che gli italiani siano cretini, più di me intendo. Si tratta di un semplice problema di input. Il più potente calcolatore mai costruito non troverà la soluzione corretta a un problema, se i dati che gli avete fornito sono errati. I cervelli per costruire ragionamenti complessi ce li abbiamo, in effetti non abbiamo altro (in effetti tutto questo rumore che sentite, questa frustrazione di fondo, non è la musica delle sfere, ma milioni di cervelli italiani che macinano a vuoto). Ma per elaborare una qualsiasi idea bisogna pur partire da osservazioni, da dati sensibili, ed è qui che siamo stati criminalmente truffati: tutto quello che la maggior parte degli italiani vede e sente passa ancora attraverso il diaframma televisivo, quella famosa calza davanti all'obiettivo. La vera agenda si stabilisce in tv, non in parlamento: vedi il modo in cui una situazione emergenziale ma tutto sommato non ancora drammatica come lo sbarco di profughi a Lampedusa è diventato la Priorità Numero Uno. Davvero, questi trucchetti, se non funzionassero, nessuno li farebbe più. Ma funzionano: e se non aumentano il consenso, comunque lo mantengono oltre il 50%, che è tutto quello che serve a Berlusconi e leghisti per rovinarci.

Oggi come vent'anni fa è la televisione che offre a Berlusconi la possibilità di costruirsi una realtà a suo piacimento dove Lampedusa può diventare la nuova Portofino. Il resto non ha nessuna importanza e forse costituisce soltanto una distrazione. I processi. Il dibattito parlamentare. La gente può anche andare a manifestare davanti al parlamento, o al Palazzo di Giustizia. Io nel 2011 resto convinto che l'Italia sia la nuova Romania, e che l'unica marcia veramente necessaria (e veramente pericolosa) sia quella su Cologno Monzese: e con mezzi ben più contundenti che le monetine. Ogni volta che scrivo questa cosa qualcuno si mette a ridere, va bene così. Ormai i giochi sono fatti, se siete d'accordo con me ormai lo siete da anni e non c'era nessun bisogno che leggeste tutto questo. Se invece non siete d'accordo, non lo sarete mai, ma per voi e per tutti voglio sempre restare il vecchietto rincoglionito che finiva tutti i discorsi con lo stesso ritornello. Perché insomma, io credo oggi come sempre che bisogna distruggere Mediaset.

mercoledì 30 marzo 2011

lunedì 28 marzo 2011

Ana contro Ana


Adesso magari qui non si vede proprio bene, ma questa rivista sta fieramente conducendo una campagna contro l'anoressia, andando alla radice del problema. E alla radice non ci sono certo le riviste di moda (ci mancherebbe altro) ma nemmeno le famiglie (un po' passée anche quest'abitudine di incolpare le famiglie), bensì... indovinate cosa c'è alla radice di tutto il problema, indovinate.

Ci sono i blog. Vogue vuole la vostra firma per chiuderli. I dettagli sull'Unità.it. Commentate laggiù.

Se vi dicessi che qualche giorno fa mi hanno chiesto di aderire a una petizione di Bob Marley contro i fumatori di cannabis(1), mi credereste? E a una raccolta di firme lanciata da Valentino Rossi contro i motociclisti che fanno rumore e inquinano? Oppure una raccolta di firme contro la piccola criminalità, patrocinata da Matteo Messina Denaro? No, in realtà volevo dirvi che mi hanno chiesto di firmare una petizione contro i siti pro-anoressia; petizione lanciata da Franca Sozzani, gloriosa direttore di Vogue Italia. Non sto scherzando. Bob Marley che ti chiede una firma contro le canne, quella ero uno scherzo. Franca Sozzani che combatte l'anoressia on line è una cosa reale.

E siccome l'anoressia è cosa fin troppo reale, non ci scherzerò sopra ulteriormente. Quello che mi interessa è capire. Per molti anni, ogni volta che un esponente del mondo della moda (stilista o giornalista) veniva invitato a un dibattito televisivo su questa malattia, la sua linea di difesa era più o meno la stessa: la colpa non è della moda, la moda non c'entra, le modelle magre valorizzano i vestiti, ma quelle anoressiche vengono licenziate, è tutta colpa della famiglia, certi genitori sono pazzi. Le cause dell'anoressia risiederebbero nelle carenze affettive; il fatto che molte vittime dell'anoressia sfoglino riviste come Vogue sarebbe un sintomo, non una causa. L'ideale di una bellezza tanto ossuta quanto lontana dalle misure standard delle nostre adolescenti, propagato dalle riviste di moda, non avrebbe nessuna conseguenza sul fatto che alcune di queste adolescenti rifiutino il cibo e facciano diete estreme. Bene, questo è un punto di vista. Discutibile, ma rispettabile.

Però adesso saltano fuori i blog pro-ana, i siti pro-anoressia. Che esistono, per carità: sono anni che gli esperti li studiano. Sono i diari on line in cui si racconta con dovizia di particolari come fingere di mangiare, come vomitare, quali lassativi assumere, e così via. Ecco, per Franca Sozzani questi siti sono pericolosi, perché sono alla portata di tutti. Esattamente come le copertine di Vogue e degli altri magazine di moda. Ma i magazine di moda non dovrebbero avere alcun effetto sulle adolescenti; i siti pro-ana sì. Com'è possibile? Se sbatti in prima pagina un mostro ossuto su una rivista patinata con una tiratura di migliaia non ottieni nulla; se metti lo stesso mostro ossuto su un piccolo blog con cento lettori diventi un pericolo? Non è un tantino illogico?

Mi spiace, non firmerò la petizione. Anche perché non mi è chiaro in che modo migliaia o milioni di firme possano ottenere “l'obiettivo finale di chiudere questi siti”. Non è che su internet non valgano le leggi del mondo reale: se un blog commette un reato nel Paese in cui è stato registrato (il che equivale più o meno ad ammettere che in quel Paese esistano reati di opinione), può essere chiuso dall'autorità senza bisogno che nessuno ci metta la firma. Purtroppo abbiamo scoperto che in Italia un blog si può chiudere per molto meno, anche soloper il sospetto di un inquirente. Detto questo: difendere l'anoressia, in Italia, è un reato? Se sì, le firme non dovrebbero servire; se no, qualcuno ritiene che dovrebbe esserlo? Ogni tanto si potrebbero raccogliere le firme per proporre una legge, invece che per obiettivi un po' fumosi come quello di chiudere “migliaia di siti” (che possono benissimo riaprire il giorno dopo su server e con domini diversi).

E tuttavia bisogna ringraziare la Sozzani, non soltanto per l'attenzione che dedica al problema dell'anoressia, ma anche al piccolo mondo dei blog, che sembra sempre sul punto di passare di moda: e invece guardaci, siamo su Vogue. Eppure c'è sempre qualcuno che tira fuori quella vecchia storia per cui i blog sono out, i blog sono il passato di internet, il futuro è second life (nel 2007), twitter (nel 2009), facebook (adesso), eccetera. In effetti i blog sono un fenomeno ormai antico, eppure sono quelli che fanno più paura di tutti. Nelle prime righe della petizione sembra che la Sozzani voglia soprattutto scagionare facebook, nel momento in cui qualcuno comincia ad accusarlo di essere la “causa principale dell'anoressia”. Per lei non è possibile “che un network da solo possa prendersi carico della diffusione di questo fenomeno”: basta studiare e documentarsi per scoprire che sotto il network esistono “migliaia di siti e blog pro-anoressia”. Si potrebbe anche ipotizzare che la Sozzani decida di prendersela coi blog perché sono i più sfigati, ormai, mentre il popolo di facebook va tenuto buono...

Ma io preferisco pensare che il Direttore stia riconoscendo quello che altri non ammettono più: Facebook non può essere la causa scatenante di nulla, perché Facebook è solo una rete che socializza i contenuti; ma i contenuti sono altrove. Li fanno i blog (e quindi no, professor McLuhan, il medium non è esattamente il messaggio; perlomeno le due cose non coincidono). E di questo voglio ringraziare Franca Sozzani, a nome di tutta la categoria di blogger, compresi i diari on line delle anoressiche, dei bombaroli, degli erotomani e di quelli che sognano di avere storie sentimentali con animali pelosi immaginari (esistono): i contenuti, belli o brutti o pericolosi che siano, in rete ce li mettiamo noi. Certo, ormai dipende solo da facebook o da twitter se qualcuno li legge o no. Però chi li produce siamo noi. Grazie, direttore di Vogue, per avercelo riconosciuto.

Io poi resto convinto che qualche contenuto lo producano anche i giornalisti, e perfino quelli di moda; e che un contenuto preciso (grosso modo “magro è bello”) lo contenga anche un mostro ossuto in prima pagina su una rivista patinata. Che sta in edicola, o in sala d'aspetto, o sul tavolino di casa, dove anche un adolescente (con carenze affettive, certo) può dare un'occhiata. Ma questa resta solo una mia teoria.

(1) Courtesy of Livefast

giovedì 24 marzo 2011

Il Paese che ha bisogno di Popstar

Riassunto della puntata precedente - qualche tempo fa avevo cominciato una recensione di Popstar della cultura, di Alessandro Trocino, poi Trocino stesso è intervenuto nei commenti causandomi un attacco di timidezza, per cui in questa seconda puntata parto definitivamente per la tangente.


4. L a     t e r r a     t u r r i t a – "Popstar della cultura", dicevamo. Avrebbe senso un titolo del genere all'estero? Perché magari le popstar esistono anche lì – basta dare un'occhiata a Bérnhard-Henri Lévy per sospettarlo. Ma il fenomenale cozzo tra i termini “popstar” e “cultura” fa scintille soltanto nella nostra lingua. In inglese probabilmente no. In inglese diventare una popstar è ormai “culturally relevant” per definizione: il pop è una cultura, se non la cultura tout court, il mainstream. Nessuno negherebbe l'aspetto culturale del fenomeno Lady Gaga, è una battaglia persa in partenza. Per contro, in Italia Allevi deve ancora dimostrare qualcosa al mondo della Cultura. Dischi, ne vende; però i virtuosi storcono il naso. Allo stesso modo, Saviano deve continuamente dimostrare di essere uno scrittore e non un cronista; viceversa, Camilleri deve dimostrare che è qualcosa di più dallo scrittore di gialli; in generale, la Cultura italiana rimane una turris eburnea, un club di terzo livello, puoi sgobbare tutta la vita senza riuscire a ottenere le credenziali sufficienti. Non che si scriva un granché di interessante, da anni, a questo livello; c'è il sospetto diffuso che sia ormai un ospizio, ma non importa, è un ospizio di gente raffinata che non ha bisogno di popstar.

Viceversa, le popstar hanno terribilmente bisogno della tessera del club. Guardiamoli bene. In una nazione senza turris eburnea, cosa succederebbe ai nostri fantastici sei? Beppe Grillo farebbe lo stand up comedian. Magari avrebbe un suo posto fisso in tv; in ogni caso non avrebbe bisogno di fondare un partito o un culto personale per vendere biglietti e dvd. Camilleri farebbe il giallista, e sarebbe apprezzato dal suo pubblico come tale; non ci si porrebbe il problema della letterarietà, della sicilianità, dell'espressionismo, del retaggio sciasciano, verghiano, tomasidampedusiano; scriverebbe gialli buoni o meno buoni e sarebbe valutato dai critici per le loro qualità intrinseche. Corona farebbe l'alpinista, magari lo scultore. Ogni tanto pubblicherebbe qualche raccontino naif, che avrebbe un suo pubblico. Allevi suonerebbe il piano e venderebbe dischi. Saviano farebbe davvero il cronista, o magari lo scrittore di docu-fiction; magari avrebbe scritto Gomorra tale e quale (e vivrebbe sotto scorta tale e quale), ma nessuno avrebbe sentito la necessità di scriverci sopra “romanzo”, col dibattito che ne è seguito. Petrini farebbe il critico gastronomico, non il gastrorivoluzionario. Insomma, queste popstar avrebbero tutte una collocazione e un successo. Senza la necessità di assediare la turris eburnea della Cultura. Necessità assolutamente italiana: è da noi che un'antologia di reportage va spacciata per romanzo per stimolare un dibattito culturale. È da noi che un pianista pop deve affettare manie da grande compositore per farsi notare dai critici. È da noi che un giallista, per farsi rispettare, deve mostrare di appartenere alla letteratura cosiddetta 'alta', che è detta così ormai soltanto da noi; è da noi che un comico per conquistare i suoi spazi alternativi al quasi monopolio tv deve diventare un predicatore itinerante. Anche se non esiste praticamente più, la torre ebrunea funziona ancora da richiamo: ascolteremo il pianista Allevi soltanto se lui ci darà la sensazione di essere il nuovo Mozart, leggeremo Camilleri soltanto se ci darà la sensazione di un nuovo espressionismo siciliano. Le popstar magari in principio erano soltanto onesti operatori culturali, ma le attese e la mentalità del pubblico le hanno spinte fatalmente verso il cosiddetto Midcult.

5. I t a l y ' s    B e s t    P o p s t a r – Il termine midcult è preso da un saggio di Dwight MacDonald, che in Italia è conosciuto soprattutto per la rilettura che ne dà Umberto Eco nella Struttura del cattivo gusto (Apocalittici e integrati, 1964). MacDonald vede il Midcult come genere intermedio tra la Cultura Bassa o Masscult e la Cultura Alta, o avanguardia. Secondo Eco il Midcult “1) prende a prestito procedimenti dell'avanguardia e li adatta per confezionare un messaggio comprensibile e godibile a tutti; 2) impiega questi procedimenti quando sono già noti, divulgati, frusti, consumati; 3) costruisce il messaggio come provocazione di effetti; 4) lo vende come Arte; 5) pacifica il proprio consumatore convincendolo di aver realizzato un incontro con la cultura, in modo che esso non si ponga altre inquietudini”. Sullo stesso MacDonald, però, Eco formula qualche sospetto di snobismo: “non si pone mai la domanda se molte delle operazioni dell'avanguardia siano state prive di ragioni storiche profonde, o se queste ragioni non vadano proprio cercate nel rapporto tra avanguardia e cultura media”. Eco ha in merito un'opinione più precisa, e vent'anni dopo diventerà la massima popstar del Midcult italiano portando col Nome della Rosa l'avanguardia nel giallo storico (o portando gli stilemi di genere nel romanzo d'avanguardia?) Di anni ne sono passati altri trenta, ma il Nome della Rosa rimane secondo me un esempio abbastanza ineguagliato in Italia di Midcult di qualità. Quello che altrove è la norma – penso al genere artistico americano che ultimamente consumiamo con più appetito, le fiction: le migliori si collocano più o meno in mezzo tra avanguardia e Masscult, prendono in prestito le intuizioni del cinema d'autore e le riadattano ai soliti canovacci dei feuilleton – il risultato è ottimo intrattenimento, che magari ci fa venir voglia di saperne di più, così come Eco ci faceva venire voglia di studiare i pauperisti medievali.

6. D a l l a     T o r r e     a l     P o n t e – Il problema è tutto qui: le nuove popstar italiane riusciranno come Eco a gettare analoghi ponti verso forme d'arte e contenuti un po' più complessi? Il lettore di Camilleri proseguirà in direzione Sciascia o D'Arrigo? Se regalo un cd di Allevi a un tredicenne, getto i semi che mi frutteranno un trentenne estimatore di Bach? A ben vedere è lo stesso problema che ci pone il caso Moccia: una dodicenne che legge Moccia oggi è davvero una dodicenne conquistata alla lettura? Il fatto che in una singola unità di tempo legga Moccia invece di pittarsi le unghie guardando una soap (che magari è scritta meglio di un romanzo di Moccia) è positivo in sé? Ricordiamoci l'altra faccia della medaglia: la dodicenne che, davanti a Moccia (o a un cd di Allevi) decide per sempre che la letteratura (o la musica) è robaccia che non fa per lei: e così grazie a Moccia abbiamo perso una potenziale lettrice di Tolstoj (o estimatrice di Mozart). La popstar ideale è quella che mentre ti spaccia canzoncine ti introduce a una tradizione musicale composita e interessante; possiamo criticarlo per la qualità delle canzoncine, ma ha più senso aspettare e vedere come cresceranno i suoi fans. Vale anche per quelle popstar che si muovono su un terreno più politico che culturale: Beppe Grillo non lo giudicheremo dalla biowashball, ma dalla qualità della classe dirigente che avrà o non avrà saputo formare. I discepoli di Petrini rimarranno una casta chiusa di ghiottoni facoltosi o riusciranno a cambiare la mentalità con la quale ci nutriamo tutti i giorni? Più che per i ritornelli, vale la pena di aspettare e giudicare le popstar per l'eredità che ci lasceranno. (Questa, per diversi di loro, somiglia già a una sentenza di condanna. Ma non voglio scrivere quali, metti caso che invece mi sbaglio).

martedì 22 marzo 2011

Andate avanti voi

Gli Dei dell'Alba

- Gli dei dell'Odissea sono una famiglia allargata di entità litigiose e scostanti, non proprio onnipotenti ma comunque piuttosto potenti, che questo potere lo usano un po' come gli viene, tifando ora per questo ora per quel mortale: sicché anche il destino di Odisseo è tirato un po' di qua un po' di là finché Zeus Atena e Poseidone non si stancano del giocattolo.

Gli dei di Odissey Dawn, migliaia di anni più tardi, continuano a rifarsi ai modelli classici. Hanno folgori più veloci del suono, ordigni invisibili e micidiali, però non è che abbiano le idee molto chiare su cosa colpire e perché. Arrivano sempre in ritardo, quando i guai sono stati commessi e i mortali che li invocavano già da qualche giorno morti; quando infine colpiscono, colpiscono comunque in fretta e male, senza obbedire a un disegno preciso, a un coordinamento. Si capisce a questo punto la fretta di Gheddafi nei giorni scorsi: si trattava di spicciarsi a far deserto prima che i lamenti dei ribelli disturbassero troppo le orecchie degli dei. Stava per farcela, ma poi l'Oracolo internazionale, che si chiama ONU, ha rilasciato una delle sue enigmatiche Risoluzioni, in cui chiedeva di salvare i civili in qualsiasi maniera. Anche bombardandoli a tappeto? In qualsiasi maniera: quindi pronti, partenza, via. Chi comanda? Non si sa. Alla fine probabilmente sarà Zeus Obama, per via che possiede più folgori e più possenti; ma finché esita, è una gara a chi fa più casino. È anche lo stato dell'arte del diritto internazionale: una cosa che a 66 anni dalla nascita dell'ONU, a venti dalla prima guerra del Golfo, a dieci dall'intervento in Afganistan, continua a non assomigliare a niente di sensato. Semplicemente, gli Oracoli di New York o di Ginevra rilasciano risoluzioni e poi chiunque abbia degli aeroplani da quelle parti può iniziare a bombardare. Stavolta è stato Sarkozy, e gli altri a ruota. C'è evidentemente qualcosa che non va, ma cosa?

Potrebbe essere l'Europa. Non esiste. È un'espressione geografica. Lo abbiamo sempre saputo, ma fa comunque male constatarlo, perché noi europei invece esistiamo. E senza essere antiamericani per principio, ma avendo sofferto il protagonismo USA in Medio Oriente che ci ha esposto agli attentati dei terroristi islamici, per una volta tanto che lo Zeus a stelle e strisce era riluttante a prendere il comando delle operazioni, avremmo potuto dimostrare che sappiamo prenderci cura del nostro cortile (perché la Libia in fondo è questo: una tirannide affacciata sul nostro cortile). Avete sentito parlare qualche rappresentante di quella cosa che eleggiamo ogni cinque anni e si chiama Parlamento Europeo? Avete sentito una dichiarazione di Javier Solana [update: Solana non è più Mister Pesc, lo è soltanto sul sito della Treccani, è l'ultima volta che uso la Treccani].

Quanto all'Italia, siamo onesti. È una piccola nazione sempre in mezzo ai guai, cronicamente assetata di gas e petrolio, a cui si poteva giusto chiedere qualche baciamano in meno, prima, e meno capricci sui profughi, adesso. Non siamo onnipotenti e lo sappiamo da generazioni: per questo i nostri padri saggiamente scelsero di cedere parte della nostra sovranità a quegli organismi sovranazionali che, in teoria, dovrebbero saper guardare un po' più in là. Non dovremmo essere messi nella condizione di trattare paci separate con questo o quel tiranno, però è successo: è solo colpa nostra? Del resto, nessuno sembra volercelo rimproverare, per il solito motivo che gli dei hanno bisogno delle nostre basi. Noi però vorremmo più chiarezza e chiediamo che l'operazione passi sotto il controllo Nato, insomma, o arriva subito zeus Obama o non se ne fa più niente. È penoso doversi dire d'accordo con Frattini, ma sembra una richiesta ragionevole. Almeno la Nato si sa cos'è: l'alleanza militare di cui ci onoriamo di essere, da sessanta e più anni, i generosi albergatori. E ci ritroviamo così, atlantici per inerzia, filoamericani per paura d'essere europei.

Nel frattempo sui media possiamo passare il tempo con uno dei nostri passatempi preferiti, dalla prima guerra di Libia in poi (giusto un secolo fa): il cancan neutralisti/interventisti. Come se poi il nostro parere contasse qualcosa, come se gli dei ci stessero a sentire. A sinistra ci sbraneremo come al solito, sarà divertente, ma un po' già visto. Più interessante l'atteggiamento della stampa filogovernativa, che a momenti si mette a sventolare la bandiera arcobaleno. Non è del tutto una sorpresa: anche ai tempi feroci del 2003, quando su decine di blog liberali (nati tutti all'improvviso) garriva la bandiera stelle-e-strisce, l'unico organo di stampa genuinamente neocon era il Foglio, e già allora serviva più a punzecchiare i pacifisti che a motivare i berlusconiani. Questi ultimi in fondo non si sono mai scostati molto da quella posizione che storicamente più ci appartiene, almeno dal 1915: se proprio deve essere guerra, occorre attendere finché non sia chiaro che i nostri amici la stanno vincendo; in caso contrario, cambiare amici. Così, mentre a sinistra si discute di massimi sistemi, di diritto internazionale, al limite di dubbi interiori, si gioca a chi l'ha più duro e puro (l'ideale), a destra si ostenta il pragmatismo dei furbacchioni, quelli che la sanno lunga e si mettono in guardia gli uni gli altri contro quel Sarkozy che vuole rubarci il petrolio, dopo la fatica e la saliva spese da Silvio e dalle altre hostess per aspirarlo a Gheddafi. Spicca nel coro dei furboni la voce bassa e greve dei leghisti, sulla nota costante del “no” agli sbarchi: in fondo, in mezzo a tanti strateghi da bar sport, sono quelli che danno l'impressione di maggior concretezza. Per loro non c'è crisi internazionale e umanitaria che non si possa nascondere sotto il tappeto, tutto è subordinato alla quantità di vuccumprà che con la scusa dello status di profughi di guerra potrebbero avvicinarsi alle porte di Varese o Bergamo. Per evitare questa invasione i leghisti sono disposti a mandare un Silvio a sbaciucchiare qualsiasi beduino pianti la tenda in Villa Pamphili: la concretezza dei leghisti è questa cosa qui, l'astuzia del cumenda che si cautela dagli zingari lasciando le chiavi di casa alla badante.


Quanto al Silvio in questione, forse ha ragione Libero a mostrarcelo mentre saluta i liberatori e gli scappa da ridere. Non sa dirci nemmeno se i nostri aerei stiano bombardando o no, non che abbia molta importanza. Notate: di fianco c'è ancora la pubblicità del finto diario del clown precedente, più professionale, ma meno divertente. Anche lui stringeva patti pericolosi con dittatori criminali, ma poi li prendeva sul serio, si prendeva sul serio, e la cosa alla lunga lo rovinò. Silvio invece è il trastullo degli dei: farà qualsiasi cosa per divertivi, e se alla fine sarà costretto a bombardarvi, la cosa comunque gli dispiacerà. Siamo brava gente, noi.

lunedì 21 marzo 2011

La scuola dell'Apocalisse

Prof, ma la fine del mondo è vicina?


La scuola dell'Apocalisse (Ho una teoria #67) si legge sull'Unita.it e si commenta laggiù.

Io lavoro nella scuola media, e ci sono cose che mi toccano più o meno tutti i giorni: per esempio, fare l'appello, correggere compiti, e spiegare ai ragazzi che il mondo non sta per finire. Quest'ultima cosa è una relativa novità – ovvero, sarà da qualche anno, più o meno da quando Giacobbo scoprì la bufala dell'apocalisse Maya nel 2012 e decise di mungerla per bene – che ogni tanto mi tocca interrompere una lezione di Storia o grammatica per rassicurare dodicenni impauriti sull'assoluta ininfluenza delle congiunzioni planetarie, sull'inaffidabilità del calendario Maya e soprattutto di Voyager. Però è soltanto negli ultimi giorni che l'apocalisse è diventata un'ossessione quotidiana.

Non è solo colpa della tv. Ormai tutti i miei studenti, anche i meno facoltosi, accedono quotidianamente a internet, anche soltanto per controllare il proprio profilo facebook. Sui social network le catastrofi epocali arrivano per mille rivoli, filtrate da una rete che lascia passare soltanto i titoli più strillati – del resto, qualcuno ha letto titoli non strillati la scorsa settimana? Non credo si sia mai abusato tanto di un termine, “apocalisse”, che a rigore implicherebbe la chiusura immediata dei quotidiani: nel giorno del Giudizio, nessuno si preoccuperà di passare dalle edicole. E non è nemmeno tutta colpa dei giornalisti: la fatidica parola è stata adoperata almeno da una fonte ufficiale, il commissario all'energia dell'Unione Europea, Gunther Oettinger, per descrivere quello che stava succedendo martedì nella centrale di Fukushima. A quel punto chi poteva più impedire ai giornalisti di calcare i toni? Soprattutto quelli delle versioni on line, sempre più vincolati al numero di clic che riescono a ottenere dagli utenti (e si capisce al volo che “Apocalisse” fa più clic di “allarmante fuga di particelle radioattive”).

A tutt'oggi, domenica 20 marzo, non sappiamo ancora se il disastro di Fukushima si rivelerà grave quanto quello di Chernobyl – se non più grave ancora. Ma chi sui media ha gridato per una settimana all'apocalisse non ci ha certo aiutato a farci un'idea. Sicuramente sarà riuscito a vendere qualche migliaio di copie in più, a farsi guardare o cliccare di più. Ma nel farlo ha disseminato in mezzo a noi un'onda di ansia che non sarà cancerogena quanto le radiazioni di Fukushima, ma non è nemmeno del tutto innocua.

Sono soprattutto i ragazzini a non essere schermati. Sono grandi abbastanza per accedere ai titoli urlati, abbastanza inesperti per non capire che si tratta in buona parte di un gioco delle parti mediatico tra i filo-nuclearisti che minimizzano e gli anti-nuclearisti che apocalizzano. Sono nati dopo Chernobyl, parola che sentono pronunciare col tremore con cui in un esorcismo cinematografico si evoca uno dei nomi del demonio: nessuno si prende la briga di spiegare loro che sì, Chernobyl fu una tragedia per russi e ucraini, e anche per gli italiani, a voler prendere per buona la stima choc di tremila morti (Istituto Superiore della Sanità) – ma si tratta più o meno delle vittime di un anno di incidenti stradali in Italia, non della Fine del Mondo. Che è quello a cui pensa un ragazzino, quando sente dire “Apocalisse”. Ha torto? Dobbiamo cambiare significato al termine, visto che i media non riescono più a trattenersi dall'usarlo?

Più che al titolo urlato del quotidiano on line, i ragazzi credono al link catastrofista che un amico gli ha passato su facebook. In nove casi su dieci i link portano a impresentabili siti complottardi, dove l'apocalisse è messa in relazione con ufo, scie chimiche, complotti pluto-masso-giudaici, insomma tutta la paccottiglia che in questi anni si è accumulata negli angoli meno presentabili di internet. Manca solo la solita quartina di Nostradamus-che-aveva-previsto-tutto (ne uscì una, apocrifa, quando erano ancora calde le ceneri dell'11 settembre). In compenso abbiamo una Madonna apparsa a un giovinetto brasiliano che aveva previsto tutto (ma non poteva apparire a un pastorello giapponese?), e a poche ore dallo tsunami c'era già qualcuno su youtube pronto a sostenere che una scossa del genere era stata provocata via satellite dal Nuovo Ordine Mondiale, che ogni tanto avrebbe necessità di sacrifici umani su larga scala.

Sarà anche la fatica di dover sfatare ogni giorno tutte queste sciocchezze, ma è da un pezzo che ho smesso di trovarle divertenti. L'angoscia dei miei studenti di fronte a questi argomenti è reale. Io avevo la loro età ai tempi di Chernobyl e ricordo bene la paura per un evento enorme a cui non si riusciva bene a dare forma. Al tempo però in tv non c'erano Giacobbo e gli altri venditori di apocalisse un tanto al chilo: al massimo Piero Angela, che in prima serata provava a spiegarti cos'erano le radiazioni coi meravigliosi disegni di Bruno Bozzetto. Se oggi riesco a non spaventarmi davanti a un titolo che strilla “Apocalisse”, se conosco la differenza tra fusione nucleare e fusione del nocciolo, tra fuga radioattiva e contaminazione radioattiva, lo devo un po' anche alla tv dei tempi di Quark. Non era perfetta, ma cercava di fornire delle conoscenze ai futuri cittadini. Mentre Voyager, Mistero, e tutti i venditori di Apocalisse cartacei e on line, hanno bisogno soltanto di pesci che abboccano. Il danno che hanno fatto alla nuova generazione coi raccontini dell'orrore che hanno spacciato per approfondimenti scientifici, l'ansia e l'incertezza che hanno distribuito a piene mani per aumentare lo share, vendere un libro o aumentare una tiratura, non possiamo misurarla. Ma probabilmente ci danneggerà nei prossimi anni più delle radiazioni di Fukushima.

sabato 19 marzo 2011

Crux desperationis

Io l'ultima sentenza di Strasburgo, se devo essere sincero, non l'ho molto capita. Il problema del crocefisso non mi sembra così complesso, e trovo molto strano che in due anni si riescano a scrivere sentenze così diverse. Comunque ne approfitto per ripubblicare l'unico pezzo di questo blog che piacque anche a Giuliano Ferrara, a proposito buongiorno Giuliano Ferrara, l'ho rivista in tv, una volta non era così noioso.

Il Calvario quotidiano

Io un crocefisso l'ho già tolto.
Due settimane fa, nell'intervallo. Stavo dando un'occhiata ai traffici loschi in zona distributore di merendine, quando vengono in due a dirmi che in Seconda è caduto Gesù. Mi reco immediatamente sul luogo del misfatto e interrogo i testimoni oculari. Chi è stato? Silenzio. Proiettili, elastici, palline di carta? Negano tutti, del resto non mi pare l'abbiano mai considerato un bersaglio; hanno una certa soggezione. Forse una vibrazione del pavimento, qualcuno che saltella o che va a sbattere contro la parete, una porta chiusa di scatto: sia come sia, sembra caduto da solo. Ne traggo auspici non buoni.
Ma in quanto insegnante ostento razionalità e pragmatismo. Do un'occhiata al Cristo in questione: è caduto per l'ultima volta. Frattura completa del polso sinistro, il destro era già partito mesi fa. O anni fa. Anche il chiodino sotto i piedi è sparito da molto. A questo punto mi spiace, ma finché qualcuno (chi?) non stanzia nuovi fondi, il crocefisso se ne resta nel cassetto in fondo.

Oggi l'ho rivisto in corridoio, però a grandezza naturale. Sanguinava copioso. Subito ho pensato a una rissa in IIC, poi mi sono accorto della corona di spine e della croce che portava in spalla, quindi, insomma, era Lui.
“Domine, quo vadis?”
“E non parlare latino, che tu sappia io ho mai saputo il latino?”
“No, che io sappia no”.
“Mi dà anche un po' ai nervi”.
“In effetti è comprensibile. Ma insomma, Signore, dove vai?”
“Dove vado, dove vuoi che vada. A farmi crocifiggere un'altra volta, vado”.
“Ma no, dai, Maestro...”
“...visto che la prima non è bastata”.
“Non te la prendere, ti prego. A scuola succede, le cose cadono, si rompono... ho dovuto metterti nel cassetto, ma ti giuro che...”
“Ma non ce l'ho con te, cosa c'entri te. Sei anche tu un povero cristo”.
“Grazie, Maestro”.
“Ce l'ho con i farisei, per prima cosa”.
“Aaah, i farisei”.
“Hai capito, no?”
“Beh, magari un aiutino...”
“Quelli che mi hanno preso per un simbolo della cultura, della tradizione. Una bandierina, praticamente. Aho', ma stiamo a scherzare?”
“Però anche la tradizione ha la sua importanza...”
“Cioè secondo voi io mi sono fatto inchiodare mani e piedi per rappresentare una tradizione? Cioè, siamo a questo? Babbo Natale, la Befana e Cristo in Croce? Magari vi aspettate che vi porti anche i regali?”
“Ma no, non dico questo, però...”
“Però niente. Li vedi questi chiodi qua? Li vedi?”
“Ehm, sì”.
“Sono autentici, va bene? Non sono un simbolo, sono una rappresentazione realistica. Duemila anni fa i ribelli li uccidevano così. Li esponevano su un trespolo finché non morivano soffocati. Perché fossero da esempio. Tutto molto razionale, ma anche molto teatrale, ma anche violentissimo, Dio Me! Io rappresento questo, va bene? Rappresento un supplizio capitale! Rappresento la crudeltà dell'uomo e la ribellione dell'uomo! Rappresento la Morte! Rappresento il...”
“Ehm, Maestro... forse sarebbe meglio abbassare un po' la voce”.
Il Martirio!
Ssssssssssssh!
“Cos'è, hai paura?”
“Maestro, in effetti sì. Siamo nel 2009, è pieno di bambini musulmani qui, e quella parola...”
“Quella parola è italiana, ha radici nel latino che ti piace tanto, è il fondamento della tua cosiddetta tradizione, sepolcro imbiancato che non sei altro”.
“Sì, sì, Maestro, è vero... d'altronde...”
“D'altronde?”
“Non puoi negare che suoni po', come dire... scandalosa”.
“E che m'interessa a me? Guarda che io non sono mica un santone indiano peace and love! Io non sono venuto a portare la pace, ma la spada”.
“Matteo Dieci Trentaquattro”.
“Appunto. Io sono lo Scandalo! Sono pornografia, non so se è chiaro! Un uomo trafitto da chiodi che grida dai vostri muri, che chiama al combattimento per la salvezza! Io sono questo, mica l'albero di Natale”.
“Ecco, Maestro, in effetti, se mi ci fai pensare, sì. Tu sei molto scandaloso. Molto più di quanto io quotidianamente possa sopportare”.
“Tuo problema, non mio”.
“Però succede un po' come con tutti gli spettacoli disgustosi... all'inizio non riesci a guardarli, ma se ti abitui a darci un'occhiata tutti i giorni, dopo un po' non ci fai più caso... diventi parte di uno sfondo familiare”.
“Ah, dici che è così? Va bene, allora toglietemi immediatamente”.
“Ma poi i Vescovi...”
“Tiratemi fuori solo ogni tanto, quando i fedeli meno se lo aspettano. Io non voglio passare sullo sfondo, io voglio spaventarvi”.
“Se la metti così...”
“E aggiungo una cosa. È proprio sulla mia consistenza di carne e sangue e ossa e chiodi che è fondato il realismo europeo, è chiaro? Se avete avuto Giotto Caravaggio e Mapplethorpe lo dovete solo a me! Esclusivamente a me!”
“Adesso, Mapplethorpe...”
“Adesso niente. Rileggiti Auerbach. Che se era per gli ebrei o per Maometto, con le loro menate filosofiche sulla non rappresentabilità del divino, a quest'ora eravate ancora lì a eccitarvi sui triangoli e gli ottagoni. Dario Argento deve tutto a me. Che dico. Tinto Brass...”
“Piano, Gesù, piano!”
“E adesso salta fuori che sono solo una tradizione. Il mandolino è una tradizione. La pizza è una tradizione. Appendete i mandolini e non rompete, io sono Gesù Cristo morto in croce, non ci credi?, vuoi toccare?”
“No, no, no, mi fido”.
“No, ma guarda, tocca”.
“Maestro, sul serio, io...”
“No, tu adesso tocchi. Il cristianesimo si tocca, va bene? Non è una menata filosofica: è carne e sangue, pane e vino. E i farisei lo sai che fine fanno. Finiscono in vomito”.
“Apocalisse Tre Quindici”.
“Precisamente. E poi ce l'ho anche coi Sadducei”.
“I sadducei”.
“Hai capito, no?”
“Ehm”.
“Ma perché perdo tempo con te. Matteo Ventidue Ventitré”.
“Quelli che non credono nella resurrezione”.
“Ecco. Non ci vogliono credere? Va bene. Che problema c'è? Nessun problema. Voi non ci credete, io non vi risorgo. Non esisto nemmeno, per voi. Facciamo che sono un pezzo di legno”.
“Quindi?”
“Quindi cos'è questa storia che mi denunciate a Strasburgo? Cosa posso aver fatto, se sono un pezzo di legno?”
“Dunque, se ho ben capito la sentenza, la tua presenza sul muro, in quanto pezzo di legno... impedirebbe ai loro figli di crescere secondo i principi dei genitori”.
“Vabbè, siamo alle comiche. Ma che principi hanno questi genitori, si può sapere?”
“Beh, presumo che si tratti dell'illuminismo, del razionalismo...”
“Non conosco, ma dev'essere un pensiero molto debole, se si cancella appena fissi un pezzo di legno. Cos'è, sono un totem, adesso? Se mi fissi ti faccio dimenticare la lezione? Mi volto un attimo e mi tornate all'età della pietra?”
“Maestro, ci vuole tolleranza...”
“Ma tolleranza di che. È come quelli che si sbattezzano. In teoria non credono nel battesimo. In pratica però hanno paura di restare segnati per sempre da uno schizzo d'acqua. Va bene, allora a questo punto chiamiamo Wanna Marchi che vi fa le carte e vi vende i numeri del lotto, a proposito, di che segno sei?”
“Maestro, ci vuole rispetto...”.
“Che poi, spiegami. Il genitore ha il diritto che il figlio sia educato secondo i suoi principi? Non suona un po' totalitario? E quindi ti cresci un piccolo a tua immagine e somiglianza, che creda solamente nelle cose in cui credi in te, e poi la prima volta che lo lasci libero nel mondo, lui vede due legnetti appesi al muro che non corrispondono al suo sistema di credenze e va in confusione? Corte dei diritti dell'uomo, intervieni immediatamente! Il pezzetto di legno sta fissando il mio bambino! Ma come li tirate su questi ragazzi?”
“Facciamo quel che possiamo”.
“Il mondo è pieno di cose. Per dire, ci sono i semafori e non sempre segnano verde. I bambini lo devono sapere. Ci sono persone nel parco che offrono caramelle e non sono tutti buoni. Poi ci sono i pezzetti di legno e non tutti corrispondono alle cose a cui crede mamma o papà. Vogliamo abolirli a scuola? E quando li incontreranno nella vita, come si comporteranno?”
“Quindi Maestro, in conclusione, dobbiamo riappenderti o no?”
“Ma fate quel che vi pare, tanto comunque sia non avete capito. Mi sembra tutto così poco serio. Il fariseo che mi pianta come una bandierina, il sadduceo che vede la bandierina e si sente leso nei suoi diritti umani, è l'umanità? Sembra un pollaio. Non ci sono cose più serie? A scuola, poi. Che io nelle scuole ci vado, lo so quali sono i veri problemi”.
“Eh, immagino”.
“No, non puoi neanche immaginare, fidati. Sai quante non sono a norma? Sai quante non rispettano la 626? Sai quanto costerebbe metterle tutte in sicurezza?”
“Ecco, Maestro, questi sono effettivamente problemi seri...”
“Sai che mancano i sostegni? I corsi di recupero? Sai che la scuola assomiglia sempre meno un luogo educativo e sempre più a una casa di detenzione? Parliamo di questo!”
“No, Maestro, appunto. Proprio perché sono problemi seri, è meglio non parlarne”.
“E perché?”
“Perché, perché... perché a parlarne non si risolvono, e allora ci si deprime soltanto. Siamo in crisi, tutti vorrebbero scuole più belle, ma votano il primo che gli promette una tassa in meno, quindi...”
“Vi consolate chiacchierando di bandierine”.
“Sì. I problemi veri sono deprimenti. I problemi identitari invece, come dire, sono sexy. Tutti possono dire la loro senza impegno... ieri le bandierine, domani i dialetti...”
“Oggi i Cristi in croce...”
“Maestro, sì. Ma non devi prendertela”.
“No, no, non me la prendo. Adesso però vado. Mi aspettano in sala mensa”.

giovedì 17 marzo 2011

Almeno un pareggio

Fratelli d'Italia,
l'Italia è un po' stanca.
è al verde, va in bianco,
e il rosso l'ha in banca.
Dov'è la Vittoria,
diciamolo, dove?
Siam qui dalle nove
e Vittoria non c'è.

Fratelli d'Italia,
l'Italia è per terra,
in crisi, in declino,
e pure un po' in guerra.
Dove sei, Vittoria,
la volta che servi?
Che rabbia, che nervi,
l'Italia imprecò.

Fratelli d'Italia, l'Italia è un po' a pezzi,
per quanto la osservi non ti raccapezzi:
dopo altri tre anni di aiuti a Tremonti,
né mari né monti ne possono più.

Fratelli d'Italia, l'Italia è precaria:
stivale spaiato che scalcia nell'aria.
Dov'è la Vittoria? Ma quanto fattura?
Di monte in pianura l'Italia franò.

Poropò
Poropò
Poropoppoppoppoppò

Dall'Alpe a Sicilia,
dovunque è una pena:
ogni uomo per Silvio
ha dolori alla schiena.

Del sangue d'Italia
non sei già satollo?
Vuoi spezzarci l'ossa?
vuoi pure il midollo?

Fratelli d'Italia,
rompete le righe.
Chi mai v'ha promesso
vent'anni anni di sfighe?
E chi v'ha arruolato
alla guerra infinita,
pensando a una gita,
l'Italia tradì.

(Si stringono a corte,
- ma con un' "o" sola! -
Son pronti alla morte,
finché è una parola.
Si stringono a corte,
a leccare il più forte,
se ha le gambe corte
in ginocchio si stan).

Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è rotta:
nessuno al timone
che tenga una rotta.
Dov'è la Vittoria
(o almeno un Pareggio?)
Qui dal male al peggio
in picchiata si va.

Noi siam da cinque anni
calpesti e derisi,
perché siam coglioni,
perché siam divisi.
Vogliamo un po' bene
a 'sto suolo natìo?
Uniti, perdio,
chi vincer ci può?

Fratelli d'Italia,
sorelle, cognate,
non datevi vinti,
non vi rassegnate.
L'Italia è in ginocchio,
ma non è finita.
Siam pronti alla vita,
l'Italia chiamò.

Poropò
Poropò
Poropoppoppoppoppò

(Buoni primi 150 anni - io adesso vado al Mattatoio a leggere cose patriottiche).

mercoledì 16 marzo 2011

I falsi e i veri Lemming

Shiva e i topolini

- Stavolta sono Madre Natura, anch'io ho la password – mi è stata data in caso di catastrofi, direi che ci siamo. Io però sono Madre solo per modo di dire, e non è che sia tenuta a rendervi conto di quello che succede in questi giorni. Scrivo soltanto per rassicurare chi in questi giorni si è preoccupato per me. Una cosa abbastanza buffa. Voi. Preoccupati per me. No, state tranquilli, io ho visto passare comete e meteoriti, e ho fulgide memorie di quando l'atmosfera era nera delle polveri di milioni di vulcani. In un modo o nell'altro ce l'ho sempre fatta e ce la farò anche stavolta. No, non vi dovete preoccupare per me.

Del resto so che non potete farne a meno; che siete programmati per farlo. Questa idea che avete di me, come una madre dai capelli bianchi, tradizionalista e un po' rintronata, una da non disturbare mentre lavora ad uncinetto con gli elementi, è una proiezione di qualcosa che vi portate dentro, si tratterà magari della vostra vera madre, si sa che la vostra specie ha sempre avuto un rapporto complesso con gli anziani. Io in realtà sono una tipa sbarazzina che si diletta di fulmini e uragani, e la prospettiva di una contaminazione radioattiva su larga scala, con mutazioni genetiche annesse, mi elettrizza. In generale mi piace tutto quello che rompe gli schemi, distrugge, spazza via, in India mi chiamano anche Shiva, il Distruttore. Voi occidentali fate sempre più fatica a capirlo, questo mio aspetto. Ogni volta che capita un disastro cercate in qualche modo di assumervene la responsabilità, persino la devastazione di Haiti qualcuno è riuscito a metterla in conto a Marx, e ora su facebook fantasticate di raggi della morte che scatenerebbero l'armageddon. Siete nevrotici, a un certo punto vi siete inventati un gioco in cui voi sareste il mio figlio ribelle: voi il Progresso e io il Passato, la tradizione, la conservazione... da quel momento in poi, ogni passo in avanti lo mettete con la sensazione di calpestarmi. Se solo vi rendeste conto che le vostre progressiste pedate non mi hanno mai fatto realmente male, che questo terribile conflitto tra me e voi non esiste, così come non esiste tutta questa distanza tra voi e me... Nulla di ciò che è reale è razionale, e men che meno voi. Non siete Idee che imprimono la Materia, non siete lo Spirito che dà ordine al Caos, non siete nemmeno parassiti che intossicano il grande albero della vita: voi non siete che l'homo sapiens sapiens, un rametto che un giorno si biforcherà, oppure si spezzerà: roba mia fino al midollo, io vi ho fatto e a me ritornerete, non che ve ne siate mai andati molto lontano. Non preoccupatevi per me, davvero.

Se solo vi poteste guardare dall'alto, o dal basso, o da una qualsiasi distanza... Se foste quegli animaletti razionali che pensate di essere, non piazzereste decine di centrali nucleari sull'orlo di una faglia sismica. Vi basterebbe la modesta razionalità delle formiche, quando ottimizzano la struttura di un formicaio in base alla sua funzionalità, invece di gareggiare a chi fa più figli e produce più kilovattora. Se foste razionali avreste avuto tutto il tempo, negli ultimi 50 anni, per creare un'authority sovranazionale che ora distribuirebbe in parti eque l'energia prodotta dai pannelli solari del Sahara, dalle pale eoliche sui promontori degli Oceani, e perché no, da centrali nucleari moderne, sicure, costruite nei luoghi meno esposti alle onde telluriche. Tutto questo un animale razionale lo avrebbe pianificato da tempo, per far fronte alla crescente domanda d'energia. Ma in realtà un animale veramente razionale non avrebbe nemmeno il problema di una crescente domanda d'energia, in quanto si guarderebbe bene dal sovrappopolare il suo habitat naturale: e non per un supposto amore materno nei miei confronti (che non vi ricambio certo), ma perché chi è veramente razionale tende a volersi preservare in vita. Voi no, voi correte verso il disastro in ordine sparso. Guerra nucleare, riscaldamento globale, pandemia, semplice carestia? A chi tocca scegliere, a me o a voi? Ma non fa tutta questa differenza.

Per milioni di anni avete occupato la vostra nicchia, senza disturbare più di tanto. Con la rivoluzione industriale avete cominciato a crescere e moltiplicarvi, buffo, avete inventato le macchine e le avete usate per realizzare un versetto della Bibbia. Eravate tre miliardi nel 1960, quattro quindici anni dopo, adesso siete sei, la crescita è costante. Devo sentirmi impressionata? Non sono impressionata, non siete il primo animaletto che a un certo punto esplode oltre i confini della sua nicchia: quando non riuscirò più a nutrirvi, vi stabilizzerete. Voi stessi lo sapete, nel vostro istinto: nelle cellule di ognuno di voi, forse in un filamento, in una proteina, scalcia il germe dell'autodistruzione. È solo il lato oscuro della vostra volontà di affermarvi, la molla che spinge i vostri ingegneri a cercare il petrolio sotto gli abissi dell'oceano, quando vi basterebbe semplicemente riprodurvi meno e bruciarne meno. È lui che vi spinge a progettare centrali nucleari sulle faglie, e a non dismetterle quando sono vecchie. È l'irrefrenabile impulso ad autodistruggervi, che vi porta a stoccare armamenti ad alto potenziale e armi batteriologiche. Voi vi credete razionali, ma è una sottospecie dell'istinto la presunta ragione che vi governa, e che vi suggerisce quasi sempre la soluzione più economica per me, più micidiale per voi stessi.

Non preoccupatevi di me, sul serio. Io esisterò sulla terra, sempre diversa, finché il sole manterrà una certa distanza e una certa forza gravitazionale. Poi mi spegnerò, e non sopravviverà nessuno per rimpiangermi. Preoccupatevi piuttosto per voi stessi, per le vostre piccole esistenze guidate dall'istinto, che corrono verso catastrofi prevedibili, previste, preventivate. Io, come s'è visto, mi salvo sempre. Ma non ho mai avuto pietà di nessuno, milioni di fossili nei vostri musei ve lo possono confermare.

Avrete sentito parlare dei lemming, quei roditori nordici così lesti a riprodursi che gli eschimesi pensavano che piovessero dal cielo. Non è vero. Non è nemmeno vero che periodicamente corressero verso le scogliere al suicidio di massa: era a una storia a fumetti, che poi diventò un documentario Disney, e da lì in poi non ve la siete più tolta dalla testa. Come ogni leggenda, dice molto soprattutto su chi la racconta. Siete voi i veri lemming, figli del cielo nati per correre: troppo indaffarati e impazienti anche solo per alzare gli occhi e fissare il crepaccio in cui state per lanciarvi. In bocca al lupo, topolini.

lunedì 14 marzo 2011

Il blog è morto 4567


Domenica ero all'Unità con tutta questa gente che, fidatevi, dal vero è assai più bella. Si doveva parlare di Unità d'Italia, ma se metti dei bloggers italiani a un tavolo, un'oretta di autodenigrazione collettiva non ce la leva nessuno. Vecchi, aggressivi, autoreferenziali: siamo noi, i blog italiani (tranne quelli della foto, ovviam)

Il pezzo si può commentare anche sulla nuova piattaforma dell'Unità, quindi non si può più commentare qua.  

È vero che i blog sono autoreferenziali?

Un certo grado di autoreferenzialità è inevitabile. Ma diventa insostenibile soltanto quando si tratta di blog. Se si invitano dieci scrittori a una tavola rotonda, è ovvio attendersi che discutano di letteratura. Se chiami dieci economisti, di economia. Ma se dieci blogger intorno a un tavolo si ritrovano a parlare di blog, devono per forza chiedere scusa per l'autoreferenzialità. In realtà tutta questa spinta ad annoiare i lettori raccontando i fatti nostri, ieri, non si sentiva. Si è discusso dello spazio che condividiamo. Non è mai stato uno spazio molto popolato e importante, quello dei blog italiani: sei o sette anni fa la stampa provò anche a venderci come la nuova rivoluzione internettiana, ma la verità è che non siamo mai stati moltissimi e non siamo mai stati eccezionali. Però secondo me l'autoreferenzialità non deve portarci all'autodenigrazione. Qualcosa di buono lo abbiamo fatto: abbiamo portato qualche argomento, sollevato qualche questione, e in generale lo strumento che abbiamo scoperto ormai dieci anni fa continua a essere molto valido. Per fare un esempio: in queste ore il reportage in lingua italiana più interessante dal Giappone si legge su un blog, Pesceriso. Ovviamente l'autore parla delle cose che capitano intorno a lui, che vive a Tokio. È autoreferenziale? Avercene.

È vero che i blog sono aggressivi?

È vero che i blog – e la Rete in generale – ci mettono in una condizione ideale per esprimere un'aggressività che nella vita 'reale' siamo costretti a contenere. Per molti anni internet è stato un luogo dove non mostravamo i nostri volti, proprio come non li mostriamo mentre guidiamo nel traffico cittadino: l'aggressività dell'internauta in questo senso non è molto diversa da quella dell'automobilista, è un 'calcare i toni' che denuncia l'ansia di non riuscire a farsi capire. Però il blog è uno strumento complesso, non funziona soltanto con la rabbia o con l'indignazione. Prima o poi l'energia che si manifesta in modo aggressivo si deve articolare in qualcosa di più articolato: lo stesso Grillo dopo o giorni del Vaffanculo ha dovuto mostrarsi propositivo, era il suo stesso pubblico che glielo chiedeva. Ma Grillo è un caso molto particolare, preferisco citare il mio: ero una persona molto più aggressiva e insicura quando ho cominciato a scrivere. Sono abbastanza contento di avere trasformato tante orribili incazzature in frasi e in ragionamenti, che altre persone hanno condiviso. Può anche darsi che se fossi rimasto senza questo 'sfogatoio' a un certo punto sarei esploso e avrei fatto la rivoluzione. Io però sono uno di quelli che crede alle rivoluzioni lente, graduali, che passano per la progressiva acquisizione di una consapevolezza. La gente che scoppia all'improvviso mi ricorda i kamikaze di Hamas, mi auguro di poterne farne a meno.

È vero che i blog sono vecchi, ormai?

Sì, infatti ci avevano già dati per morti nel 2004, nel 2005, nel 2007... la prova della nostra decadenza è che nessuno fa più un bel titolo “il blog è morto”, non facciamo più notizia neanche come zombie. Senz'altro non è più lo strumento preferito dai teenager, ammesso che lo sia stato: però fino a tre-quattro anni fa, quando la principale piattaforma di aggregazione giovanile era MSN, era normale sentire un quindicenne dire “ho un blog”, “questa la metto sul mio blog”. Poi c'è stato youtube, poi myspace, adesso facebook, e gli adolescenti sono stati tra i più rapidi a cambiare mezzo. Senza dubbio lo strumento testuale è il più difficile da padroneggiare per loro; si fa molto prima a taggare una foto o caricare un video. Non credo sia il caso di farne un dramma, c'è un tempo per comunicare con le immagini e un tempo per sperimentare la comunicazione testuale (e sui blog si sta molto meglio da quando pettegolezzi barzellette e chiacchiere varie sono finite su Facebook). Detto questo, aveva ragione ieri chi si lamentava che fossimo le solite facce stanche, i soliti capelli grigi. Dove sono i blogger giovani? Ecco, appunto: dove sono? Io di blogger bravi ventenni non ne conosco: sarà un mio limite, ma se penso alle cose che scrivevo a vent'anni... fortuna che non c'erano ancora i blog.

E l'Unità d'Italia, in tutto questo?

Più che unità d'Italia, preferirei parlare di unità di italiani, che su internet sono una tribù compatta, forse un po' troppo impermeabile, tenuta assieme dal collante della lingua italiana. È chiaro che è una lingua banalizzata e standard, credo che entro certi limiti sia il prezzo da pagare. Però è una base su cui ripartire con quell'opera di rialfabetizzazione che secondo me è una delle componenti fondamentali di quella famosa rivoluzione di cui si parlava ieri. Ora che abbiamo un vocabolario comune, possiamo riallargarlo pian piano. I blog possono avere il loro ruolo in questo processo: possono riscoprire parole e concetti e rilanciarli in modo virale. In realtà il successo di una iniziativa come quella di ieri (magari tutti i problemi tecnici avete partecipato in tantissimi), dimostra che le persone hanno voglia di scriversi, leggersi, confrontarsi: i blog servono a questo. E a sentirci dire che siamo autoreferenziali. Certo: parliamo delle cose che ci interessano, che ci succedono, che conosciamo. Di cos'altro dovremmo parlare? http://leonardo.blogspot.com

venerdì 11 marzo 2011

L'Italia è un blog

Domenica prossima, dalle 11 alle 13, l'Unità (giornale) festeggia l'Unità (d'Italia) con una grande tavolata di blogger di tutto rispetto. E poi ci sono anch'io! Seguiteci in streaming sul sito dell'Unità, cercheremo di battere il Papa nella sua stessa fascia oraria. Potrete dialogare con noi scrivendo a unisciti@unita.it, o via facebook, o twitter.

Dove il sì suona
Io ho l'impressione che se si raccogliessero tutte le discussioni che si sono fatte, in rete, negli ultimi mesi, sul centocinquantenario dell'Unità, sull'importanza di festeggiarlo oppure no; sull'importanza del Risorgimento, o viceversa sulla sua irrilevanza – se sia il caso di celebrare Garibaldi o seppellirlo, celebrare Cavour o seppellirlo, e l'Inno, e la Bandiera, eccetera – se si prendessero tutte queste discussioni, e si infilassero nello stesso file, con lo stesso carattere – facciamo un bel Bodoni corpo 10, e poi si premesse il fatidico tasto “Print”, ebbene, avremmo scritto il più grosso libro mai prodotto sul Risorgimento italiano. E anche il più inconcludente, il più illeggibile, il meno necessario. Sono d'accordo. Però vorrei un attimo ragionare sulla quantità. Quanto stiamo scrivendo, sull'Unità d'Italia? Non era mai successo, per un motivo semplice. Siamo in tanti, che scriviamo: non siamo mai stati così tanti. I linguisti hanno un bel da lamentarsi che la qualità del nostro italiano stia peggiorando: hanno ragione. Resta il fatto della quantità: non abbiamo mai scritto così tanto come negli ultimi anni, da quando esiste internet. E su internet esistono siti, forum, chat, social network, e anche blog. Molti di loro hanno scritto qualcosa sull'Unità d'Italia. Magari giusto per ribadire che non valeva la pena di festeggiarne il 150°, che è meglio concentrarsi su altri problemi; che loro più che italiani si sentono europei, o padani, o cittadini del mondo, o napoletani, o interisti. E poi hanno premuto il tasto publish.

E su internet è comparso un altro testo.
In lingua italiana.

"Si scopron le tombe, si levano i morti! I martiri nostri son tutti risorti!" E poi che farebbero, una volta risorti, i nostri martiri? è ragionevole pensare che per prima cosa vorrebbero verificare se ne è valsa la pena. A quel punto potremmo mostrargli l'enorme libro che abbiamo scritto negli ultimi due mesi, sui blog e sui forum e sui social network (e sì, anche nei giornali). Pensate che lo disprezzerebbero? Al contrario, piangerebbero calde lacrime di zombies, per quello che sono riusciti a scatenare. Ce l'hanno fatta, forse non a fare l'Italia, ma a fare l'Italiano. Centocinquant'anni fa la lingua di Dante era l'idioletto di una esigua minoranza di persone – quanto a quelli che sapevano correttamente usarlo per scrivere non erano probabilmente più di qualche migliaio. Oggi scriviamo centinaia di libri al giorno, siamo instancabili. La wikipedia in lingua italiana ha più di 780.000 voci – più di quella in spagnolo castigliano, e lo spagnolo è la lingua ufficiale di una ventina di nazioni, la quarta più parlata nel mondo. L'italiano non è mai stato così brutto, forse, ma nemmeno così vitale. Possiamo anche passare il tempo a litigare sull'unità d'Italia, senza accorgerci che proprio mentre ne litighiamo – in lingua italiana – la stiamo celebrando. Celebriamo l'unità di genti che nel 1861 forse non avevano niente in comune, e che oggi ascoltano le stesse canzoni, guardano gli stessi film doppiati nella stessa lingua, e da qualche anno a questa parte scrivono, indefessi, su internet. Una sterminata produzione letteraria che dovrebbe chiudere qualsiasi dubbio sull'identità. Ci piaccia o no, siamo italiani, da Ventimiglia a Trieste (non un metro più in là).

Questo ha anche un lato oscuro. Internet è una rete che ci consente di condividere le nostre conoscenze con il mondo. Su facebook potremmo dialogare con persone di Paesi stranieri – non ci capita mai. Se siamo esperti di un argomento, potremmo entrare in un forum mondiale dove se ne discute – abbiamo mai pensato seriamente di farlo? E anche i nostri blog, potrebbero servirci per evadere un po' dalla provincia. In dieci anni che ne scrivo uno, mi dev'essere capitato di essere linkato all'estero una volta sola. Da un blog francese. I francesi sono un altro popolo di 60 milioni di persone che vive a poche ore da me, la Provenza mi è molto più familiare del basso Lazio. Ma ai francesi quel che scrivo non è mai interessato, e io non ho mai fatto molto per interessare i francesi. Non è terribilmente provinciale, questo?

Non siamo in generale, noi blog italiani, terribilmente provinciali? Internet poteva servirci a conoscere il mondo, ma il più delle volte ci serve a specchiarci in noi stessi. Ci troviamo gli stessi dibattiti che affliggono la nostra piccola tv italiana, i nostri piccoli quotidiani. Questa lingua, che ci rende stranieri a chi vive a poche ore da noi, sta diventando una prigione. Là fuori ci sono miliardi di persone che progressivamente si stanno accorgendo di vivere nello stesso mondo, con gli stessi problemi. E poi ci siamo noi, il popolo del Sì, una piccola sacca di indigeni autoctoni che continua a discutere animatamente degli anniversari della sua tribù. Da lontano gli altri ci osservano – forse hanno paura a disturbarci, come quelle popolazioni amazzoniche che vanno lasciate così come sono, per preservare una biodiversità, eccetera.

Forse è quello che siamo, una tribù rimasta ai margini del grande discorso globale, con una lingua autoctona che è meglio preservare così com'è. Vitali, ma chiusi in noi stessi. Per saperlo forse basta aspettare fino al 2061, quando festeggeremo il bicentenario. Non ha molta importanza di cosa ci troveremo a parlare per l'occasione – se sia il caso di celebrare Garibaldi o seppellirlo, di celebrare Cavour o seppellirlo, l'Inno o la Bandiera, eccetera. Ha molta più importanza la lingua che useremo. Sarà ancora il nostro italiano? Sarà una buona notizia? (Se vi va se ne parla domenica).

giovedì 10 marzo 2011

Il nuovo Baudo (è meglio del vecchio)

Ho letto Popstar della cultura di Alessandro Trocino, e non so se consigliarlo. Il fulcro del testo è l'introduzione, che trovate integrale sul Post, dove si illustra quella fenomenale definizione che poi vale il libro intero: popstar della cultura, appunto. Seguono sei brevi monografie su altrettante popstar (Saviano, Allevi, Petrini, Grillo, Mauro Corona, Camilleri), che in generale suscitano in me l'effetto instant book, non so se riesco a spiegarmi, quando pensi: “Questo è interessante, dovrei leggermi un vero libro sull'argomento”. Forse Trocino ha avuto un po' troppa fretta di uscire dopo il successo di Via con me, che è un po' la premessa di tutto il libro (Fazio come nuovo sacerdote della nuova cultura midcult). In effetti tutti e sei i personaggi si dimostrano molto interessanti e meritevoli di analisi un po' più approfondite, salvo che a quel punto magari Grillo si sarebbe incazzato e avrebbe sequestrato tutto (sì, pare che Grillo faccia ritirare le biografie non autorizzate, è un dettaglio interessante, se si pensa che la vita di Grillo è materiale da Dostoevskij). E in generale, chi si sarebbe letto un volume di trecento pagine, di cui magari cinquanta sulla concezione petriniana dell'agricultura, o altre trenta sul neoprimitivismo coroniano? Mi viene quasi il dubbio che le sei monografie funzionino soprattutto per le scintille che fanno nel sommario: l'effetto di leggere accostamenti come Saviano-Allevi. In realtà Trocino concede molto a Saviano, ed è persino disposto a riconoscere che quella di Grillo non è antipolitica, non più di quella di molti politici. Ma insomma, alla fine un dibattito su questo libro non può che vertere sulla definizione di popstar. Se dovessi riassumere il tutto in una pagina, metterei questa:

L’intellettuale moderno non è più da tempo la cinghia di trasmissione tra il partito e le masse. All’egemonia culturale della sinistra è subentrata, silenziosa ma devastante, una nuova egemonia “sottoculturale”, per usare un’espressione di Massimiliano Panarari, che ha soppiantato la prima, inoculando nella società il pericoloso e pandemico germe del populismo mediatico.
Sedici anni di dominio berlusconiano hanno impresso un segno indelebile nel carattere nazionale. Per uscire dalle strettoie della sottocultura berlusconicentrica e per sfuggire al gorgo mefitico dell’autoreferenzialità, l’intellettuale ha ceduto di schianto. Succube da decenni di dibattiti autopoietici e di soporiferi cineclub, ormai ebbro e nauseato dalla propria presunta superiorità morale, da tempo degradata in un indifendibile moralismo da casta protetta, la sinistra culturale ha rotto le righe e, muovendosi in ordine sparso, si è buttata nello stesso circuito di populismo della destra, innervato da robuste iniezioni di moderni steroidi catodici. Quel che rimane dell’industria culturale in mano alla sinistra scimmiotta il baudesco nazionalpopolare, utilizzando le antiche corde dell’emozione, del sentimento, dell’anima, dell’antirazionalismo, dell’antimodernismo e della cialtroneria, che da sempre costituiscono il nerbo della melodrammatica e furbesca indole italica. Così nasce e prospera Giovanni Allevi...



Alcune obiezioni:

1. B e r l u s c o n i    h a    v i n t o. Ci ha inoculato. Abbiamo ceduto di schianto e adesso ci ritroviamo Allevi, mentre prima ascoltavamo... ascoltavamo... boh, Benedetti Michelangeli? Trocino, che pure identifica con molta chiarezza quali sono i contenuti deteriori delle 'popstar' (sentimentalismo, antirazionalismo, primitivismo, eccetera), e altrove se la prende esplicitamente con i “venditori di apocalisse”, ecco, Trocino non è del tutto immune dal sentimento apocalittico. Addirittura nella sua versione più svenduta, l'antiberlusconismo. Per immaginare che Berlusconi ci abbia lasciato un segno indelebile, dobbiamo postulare un'età dell'innocenza in cui non eravamo berlusconiani, non avevamo ancora colto la mela del biscione e quindi fruivamo di una cultura vera, senza popstar. Ma è mai esistita questa età dell'oro in cui invece di Allevi ascoltavamo Benedetti Michelangeli, mentre sfogliavamo La dialettica dell'Illuminismo invece di Camilleri? Lo chiedo a voi, io non me la ricordo, sarà che sono giovane?

Trocino stesso indica come prima manifestazione di popstar culturali la tenzone post 11 settembre tra la Fallaci e Terzani sulle pagine del Corriere. Ecco, per esempio, la Fallaci. Senz'altro una popstar quando scriveva La Rabbia e l'Orgoglio (la cui estrema appendice si chiama, guardacaso, Apocalisse). Ma la Fallaci degli anni Settanta? Qualla delle super-mega-interviste coi protagonisti del Novecento? La Fallaci di Un uomo o di Lettere a un bambino? Non aveva già il piglio, il carisma e il pubblico di una popstar? E... Pasolini? Trocino si ritrova a citarlo spesso, come padre putativo di un certo sentimento antimoderno che serpeggia tra le nuove popstar. Pasolini è un autore contorto e aggrovigliato sulla sua stessa ideologia, ma pensiamolo semplicemente nel ruolo che interpretava (che aveva in un qualche modo acconsentito a interpretare) nel dibattito culturale degli anni '70; pensiamo alle Lettere Corsare: non era una popstar – anzi, meglio, una rockstar – anche lui, quando scriveva “io so” o “vi odio cari studenti”? E la Morante del Mondo salvato dai ragazzini? E Don Milani, non quello asperrimo delle Esperienze pastorali, ma quello edulcorato della vulgata veltroniana, quello che è un eroe perché non boccia gli studenti poveri? E Dario Fo? E Indro Montanelli quando faceva lo storico? Ed Enzo Biagi quando diventava un marchio di fabbrica (garanzia di medietà) da appiccicare su qualsiasi prodotto industriale, compresi i fumetti? Tutto questo succedeva quando Berlusconi faceva al massimo il palazzinaro: non l'ha inventato lui il midcult. In seguito non mi sembra che abbia aggiunto molto a una formula già rodata. Ne ha semplicemente approfittato, come qualsiasi editore (Feltrinelli non lo ha fatto? E Adelphi?)

2. F a z i o    è    i l   n u o v o     B a u d o. Sono d'accordo. E allora? Secondo me sarebbe d'accordo lo stesso Fazio, probabilmente è il disegno che persegue da anni. A questo punto però propongo un esercizio intellettuale: immaginare cosa sarebbe Domenica In, il contenitore domenicale della Rai, se lo gestisse Fazio da dieci anni, come probabilmente sarebbe successo senza editti praghesi e in generale senza Berlusconi al potere. Non c'è dubbio che lo avrebbe gestito come lo gestiva Baudo negli anni Ottanta: invitando cantanti e scrittori, presentando balletti cantanti e telefilm, e dando verso sera la linea a 90° minuto. Secondo me Fazio ha sempre voluto essere quello lì, quello che regna sulla domenica italiana. E non c'è dubbio che sarebbe una domenica nazionalpopolare, ma che domenica sarebbe? Un'intervista a Peter Gabriel (all'ora in cui invece si parla del delitto di Avetrana), un siparietto con Albanese (invece che Platinette), due chiacchiere divulgative con Odifreddi (invece di un servizio sulla fine del mondo nel 2012), un balletto ma sperimentale, poi un'ospitata di Follett o Calasso che presentano il loro cartonato (invece di un servizio dalla casa del Grande Fratello). Che domeniche sarebbero? Naturalmente noi avremmo meglio da fare che guardarlo – ma non sarebbe un netto miglioramento, non solo nei confronti della merda che affligge la nostra digestione mentre sonnecchiamo sul divano, ma anche rispetto alla Domenica baudiana? Insomma, preso atto che Fazio è il nuovo Baudo, è così male come Baudo? Baudo non invitava la Fallaci o Pasolini, è arrivato troppo tardi: ma non è neanche riuscito a scovare Pier Vittorio Tondelli o Andrea Pazienza. Io ricordo immarcescibili i vari Bevilacqua, Gervaso, De Crescenzo, Luca Goldoni, per carità tutta gente simpatica, ma non stiamo neanche a scomodare il termine popstar. E invece un Pazienza da Fazio ci sarebbe andato. E gli avremmo dato del nazionalpopolare. Perché saremmo convinti di vivere in una pessima Italia, non sapendo quanto è pessima quella in cui Berlusconi ha vinto e la domenica è affidata a creature come Giletti, o Giurato.

3. L e     c e n e r i    d i     G r a m s c i. Per l'apocalittico Trocino l'apparizione di queste popstar è un chiaro sintomo degenerativo della cultura di sinistra (ogni tanto compare Gramsci come nume tutelare, per la verità la riflessione di Gramsci sul nazionapopolare era un po' più sottile). Ora, dare addosso alla sinistra è uno sport nazionale che pratico anch'io a livello amatoriale (ma da bambino sognavo il professionismo). Però, insomma, chi ce lo ha detto che Allevi è di sinistra? Lui no, lui non lo ha detto. Da cosa si dovrebbe capire? E Mauro Corona? Non potrebbe essere considerato più agevolmente un autore di destra, col suo primitivismo apocalittico? A volte, più che essere di sinistra, queste popstar “vengono” dalla sinistra: vedi Petrini, con la sua storia di comunista di sezione. Trocino poi insiste molto sui 'tradimenti' di Petrini, sui suoi flirt con la Lega. Si potrebbe semplicemente prendere atto che il fondatore di Slow Food, partendo da sinistra, si è spostato consapevolmente su posizioni conservatrici che lo portano per forza a incrociarsi con movimenti tradizionalisti e identitari. Lo stesso Saviano, prima che con “Vieni via con me” si ritrovasse nella ridotta televisiva antiberlusconiana, godeva di una certa trasversalità politica, secondo Facci e Socci era addirittura un intellettuale di destra (a proposito: e Socci? Non è a suo modo una popstar, anche se più locale, diciamo un neomelodico della parrocchietta? E Veneziani? E Buttafuoco? E chi li legge? Sì, appunto, è il solito problema della cultura italiana di destra, che non trovi nessuno disposto a leggertela, figurati a passarti i riassunti). Il fatto che da sinistra spuntino più popstar dipende se mai dal fatto che sempre di consumo culturale stiamo parlando, e il bacino di questo consumo è sempre il famoso ceto medio riflessivo coi capelli grigi che intasa le librerie Feltrinelli alle sei di pomeriggio di ogni santo sabato: i libri e i dischi li comprano praticamente solo loro  (per dire io Trocino l'ho preso in biblioteca), quindi è abbastanza naturale che oggi le popstar nascano lì. Ma non restano lì, questo mi sembra importante. Si diventa popstar quando si riesce a sfondare il proprio bacino tradizionale e a piacere anche a tutti gli altri. Lo stesso Camilleri, prima di darsi alle invettive impegnate, ha conquistato la sua popolarità sulla cosa più trasversale che esista sui banchi del mercato letterario: il giallo seriale. Roba tendenzialmente conservatrice, non fosse perché di solito la Legge trionfa e l'Ordine viene ripristinato: salvo che in quegli anni c'è stata un'enorme rivalutazione del noir da sinistra, che ha permesso a Camilleri e ai suoi lettori di non percepire quel senso di colpa – ma anche quel delizioso senso di proibito – che avevano i 'compagni' di trent'anni fa che sfoggiavano Marcuse sugli scaffali del soggiorno ma sul comodino ammucchiavano Gialli Mondadori. C o n t i n u a . . .

mercoledì 9 marzo 2011

La Winx di Veltroni

Veltroni 132 - Nessuno 113

Io mi rendo conto che a volte mi rendo noioso, con Veltroni, che per quante ne dica e ne faccia non è senz'altro sulla lista dei primi dieci problemi di ciascuno di noi. Però stavolta penso che valga la pena di insistere, almeno qui. Ha anche a vedere con quello che si diceva lunedì, l'esigenza di darsi obiettivi precisi, anche minuscoli, ma raggiungibili. Ecco, stasera potrei scrivere di tante cose (la Libia, la scuola, la crisi) senza riuscirne a cambiare neanche una. Oppure potrei insistere su Veltroni, perché forse stasera qui si può fare un passo concreto per ridimensionarlo. Esatto, ormai Veltroni è alla mia portata. Non significa che io sia diventato importante, eh, attenzione. Significa semplicemente che Veltroni sta diventando piccolo, e che le sue dichiarazioni strampalate stanno cominciando a perdersi nel brusio di fondo (che sarei poi io, ciao, mi chiamo Leonardo e produco brusio).

Del resto, giudicate voi. Domenica Veltroni ha chiamato nelle piazze il popolo pacifista. Ha deciso di farlo attraverso facebook, il che a mio parere rappresenta una mossa suicida, una dimostrazione abbastanza plateale di non conoscenza delle dinamiche internettiane – nessuno pretende del resto che WV le conosca, di sicuro ha meglio da fare che imparare cosa sono i tag e i like – ma non dovrebbe esserci qualcuno in grado di consigliarlo? Non è il rappresentante di un'importante corrente del PD? Non si sa. Sia come sia, l'appello è ancora là. Ha collezionato centinaia di commenti, e non sono tutti ingiuriosi come ho scritto lunedì. Ci mancherebbe, il mondo è bello perché è vario. Ma vogliamo parlare dei “like”, o come si chiamano in italiano i “mi piace”? Il pezzo di Veltroni, pubblicato la domenica mattina, piace per ora a 132 persone. Vi sembrano tante? A me non sembrano tante. Mi sembrano quasi 132 sassolini sulla tomba del carisma di un leader. Esagero? Un importante uomo politico si domanda perché le piazze non si riempiono per la pace, o contro Gheddafi (come se fosse la stessa cosa manifestare per la pace e contro Gheddafi), e il suo accorato invito alla mobilitazione... piace a 132 persone. Così, a occhio non ci riempi una piazza. D'altro canto è solo un numero, e i numeri da soli non dicono molto.

Ma è sufficiente accostarli ad altri numeri: per esempio io (che non sono nessuno), lunedì mattina ho pubblicato sull'Unita.it un pezzo in cui rispondevo a Veltroni. Mi è venuto magari un po' pedestre, va bene, chiedo scusa, in ogni caso la mia risposta a Veltroni piace per ora a 113 persone. Sono molte? Sono poche? Per i numeri che faccio di solito io su facebook, sono parecchie. In termini assoluti sono pochissime. Ma se le confrontiamo col dato di Veltroni... Pensateci, è un ex segretario del PD, uno che va ancora in prima pagina con le sue dichiarazioni (ieri ha dato un'intervista sul Sole 24 Ore, sconclusionata come al solito, dove continua a domandarsi perché i pacifisti non sostengono i guerriglieri. Veltroni, insomma, quelli che manifestavano contro l'intervento in Iraq erano pacifisti; quelli che marciano su Tripoli sono guerriglieri. Davvero è così difficile capire la differenza?) Ecco, una personalità del genere chiama i pacifisti alle armi su facebook, e ottiene 132 like. Uno sfigato gli risponde, e ne ottiene 113. E con un po' di sforzo secondo me quel 113 potrebbe anche superare il 132. Esatto, sì, vi sto chiedendo di votare per me su Facebook. Lo so che è imbarazzante, ma credo che potrebbe avere un pur minuscolo significato mediatico. Come minimo, sarebbe la dimostrazione che è meglio non usarlo, Facebook, se sei Walter Veltroni e vuoi chiamare il tuo popolo alle barricate. Non è l'ambiente adatto. Lo so che fuori c'è un mondo che non saprà mai chi sono io e conosce e stima WV. Lo so, Facebook non è assolutamente rappresentativo di nessun bacino elettorale. Però un flop su Facebook è pur sempre un flop. Il ridimensionamento di un personaggio che non sta facendo bene al PD passa anche attraverso momenti come questi: lui prova una sortita, rimedia pernacchie, la prossima volta starà più attento.

È qualcosa che è già successo, in passato, per esempio a Francesco Rutelli. Ve lo ricordate, Rutelli? Vi ricordate che a un certo punto siete persino arrivati a considerare il pensiero di votare per lui? Per molto tempo la sua figura dominò il dibattito politico: la sua scelta di campo prodiana, le sue sbandate centriste, riempivano le prime pagine. Poi successe qualcosa. Lentamente, molto prima che scomparisse dalla scena, Rutelli smise di essere interessante. Cos'era successo? Non si è capito bene, ma nessuno mi toglierà mai dalla testa che fu a causa delle Winx, le popolari bamboline. Ovvero, a un certo punto qualcuno pubblicò un sondaggio sui leader del centrosinistra (Rutelli era evidentemente tra i candidati), qualche buontempone tra i leader inserì le Winx, che non sbancarono, ma guadagnarono un dignitoso uno o due per cento, attestandosi – questo è importante – molto al di sopra del dato di Francesco Rutelli. A quel punto forse anche ai vertici capirono. Continuarono a candidarlo, perché l'autolesionismo a sinistra è un dato oggettivo: riuscirono persino a perdere il municipio di Roma: però ormai era andata, dopo il confronto con le Winx Rutelli non è più stato lo stesso. Era già antipatico più o meno a tutti, ma tutti davano per scontato che fosse il candidato adatto a qualcun altro. I comunisti pensavano ai cattolici, i cattolici pensavano ai radicali, i radicali pensavano mboh, mal che vada ce lo siamo tolti di dosso. Le Winx ci hanno liberato dal sortilegio, grazie Winx. E infatti poi Rutelli è persino uscito dal PD, e sapete quanto ha perso nei sondaggi il PD quando Rutelli è uscito con tutti i suoi teodem? Niente, anzi, ha guadagnato un po'. Grazie Winx.

Ecco, forse il caso, o il destino, o il complotto plutomassogiudaicofacebookiano, mi ha dato la possibilità di essere la Winx di Walter Veltroni. Credo sia mio dovere giocare il mio ruolo fino in fondo. Non sono nessuno, sono un personaggino inutile che scrive pezzi lunghi e seriosi. Però su facebook forse sono più popolare di Walter Veltroni. Quindi, cari giornalisti, non pretendo certo che mi prendiate sul serio. Ma la piantiamo piuttosto di prendere sul serio Walter Veltroni?