18 novembre: Noè, patriarca, patrono della biodiversità, primo ubriaco
Settantacinquemila anni fa, più o meno, potrebbe essere successo qualcosa di molto brutto. La specie umana, già in circolazione da centomila anni, con la sua spiccata propensione a dilagare, si sarebbe praticamente estinta. Si sarebbero salvati pochissimi esemplari, qualche migliaio appena: tra loro vi sarebbe anche l'Adamo Y-cromosomale, ovvero il tizio di cui siamo tutti pro-pro-pro-nipoti. Da non confondere con l'Adamo della Bibbia. Che cosa può essere successo di così terribile? Conoscendo un po' madre natura e la sua fantasia in fatto di catastrofi, abbiamo soltanto l'imbarazzo della scelta: meteoriti, glaciazioni, eruzioni vulcaniche – l'ipotesi più accreditata combina proprio le ultime due: durante un periodo già mediamente glaciale, un enorme vulcano in Indonesia avrebbe disperso nell'atmosfera miliardi di tonnellate di diossido di zolfo, abbassando la temperatura di 15°C per qualche anno. Noi discendiamo dai sopravvissuti e chissà, forse ne siamo consapevoli. In qualche oscura cella del nostro bagaglio genetico potrebbe resistere l'informazione ancestrale: ce l'abbiamo fatta. Con qualche deduzione elementare che ne consegue: Dio ci vuole bene. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno; ma forse la maggior parte della nostra specie è più incline a pensare: ehi, Dio ci voleva tutti morti e ce l'ha quasi fatta. Dunque questo Dio ci ama o no? Siamo i prescelti o una semplice eccezione nel Suo piano? Cosa avevano fatto di male gli umani per meritare un castigo del genere? Potrebbe ricapitare?
Magari non tutti gli umani si facevano queste domande. Magari non tutti gli umani si sentivano proiettati verso una catastrofe, messi alla prova da un Dio che li ritiene responsabili di ciò che hanno commesso gli antenati e di ciò che combineranno i discendenti. Non tutti si sorprendevano, in notti insonni, a fantasticare strategie di sopravvivenza, nascondigli dove sopravvivere a inverni più rigidi, alture dove ripararsi nel caso non smettesse di piovere per mesi. Non erano tutti così matti, ma ecco, proprio perché non lo erano, si sono estinti. L'inverno li ha ghiacciati o un diluvio se li è presi. Noi discendiamo da qualche psicopatico che un disastro del genere se lo aspettava. Così non c'è veramente molto da sorprendersi, se passiamo il tempo a scrutare il cielo (o uno schermo pieno di notizie) presentendo una catastrofe che non arriva mai. Almeno una volta è arrivata, e non era nemmeno la prima. Qualche profeta di sventure, prima o poi, ci beccherà.
Quando il mito di Noè viene messo per iscritto, nella Genesi, il diluvio è già un tropo letterario secolare. Ne avevano scritto i Sumeri (nell'Epopea di Gilgamesh) e gli Accadici, ed è difficile capire chi abbia copiato chi. Ne parlano gli Indù. Anche gli Egizi ricordavano qualcosa del genere – nel loro caso però il dio solare Ra avrebbe sommerso la terra non d'acqua, ma di un cocktail di birra e ocra rossa, che la dea leonessa Sekhmet avrebbe scambiato per il sangue degli uomini, bevendone fino a inebriarsi senza completare lo sterminio della razza umana che Ra in precedenza aveva pure sollecitato. Perché in linea di massima il diluvio implica che gli Dei si siano stancati degli uomini, dopo averli creati. Nel racconto sumerico si legge in controluce l'insofferenza dell'allevatore per una specie che si riproduce troppo rapidamente, compromettendo l'habitat delle altre creature: gli uomini – creati dagli Dei per sobbarcarsi dei lavori più faticosi – dopo un millennio stanno pullulando come un esperimento fuori controllo, e il loro baccano disturba Enlil, Dio della folgore. Solo un uomo saggio, Upanistim, sopravviverà all'inondazione, grazie a un'enorme imbarcazione che un altro dio gli ha suggerito di costruire. La Genesi recupera evidentemente il modello accadico-sumero, ma è un testo molto più recente (forse mille anni più recente, che combina peraltro almeno due versioni diverse, prodotte da autori con mentalità molto diversa. Accade dunque nella Bibbia quello che capita agli autori contemporanei che per inclinazione o necessità ripescano vecchie fiabe molto semplici e di sicura presa, miti o trame di vecchi film o fumetti, ma sentono l'esigenza di problematizzarle, di razionalizzarle, insomma di adeguarle a un pubblico che immaginano un po' più maturo – un pubblico che vuole la storia semplice, ma non vuole sembrare troppo semplice a sé stesso mentre la consuma. Le divinità non possono più essere una banda di superuomini capricciosi che prima creano gli umani e poi cercano di affogarli perché fanno troppa confusione. Chi scrive la Genesi non è un filosofo, ma sta già ragionando per assoluti: se è una Divinità, dev'essere Una Sola, perché ha più senso che molti. Deve sapere tutto – ma allora perché ha cambiato idea, creando gli uomini per poi affogarli? Deve essere infinitamente potente – ma allora perché si comporta in modo così contraddittorio? L'unica soluzione disponibile, per tutte queste contraddizioni, è la stessa che ci assiste ogni giorno mentre tentiamo di galleggiare nel caos che ci travolge: è colpa nostra. Ed eccoci a quei due terribili versetti, Genesi 6,5-6:
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo.
Non sappiamo esattamente quanti secoli separino il racconto di Upanistim da quello di Noè, ma in quell'intervallo dobbiamo presumere che l'uomo si sia munito dei sensi di colpa. Gli uomini della leggenda sumera venivano affogati perché facevano troppo rumore: quelli della Bibbia vengono puniti perché sono malvagi. Nel frattempo la divinità è diventata un'entità più astratta: unica, onnisciente, onnipotente, e in teoria misericordiosa. Ma è proprio la necessità di dover conciliare questa entità astratta con fenomeni contraddittori a spostare la responsabilità della catastrofe sugli uomini. Dio non può avere sbagliato i calcoli, quindi siamo noi che lo abbiamo deluso.
Noè è il nono patriarca della Bibbia; in un certo senso è il primo profeta (Dio gli rivela verità che gli altri uomini non riconoscono, e gli chiede di fare qualcosa che gli altri uomini troveranno ridicolo). Non è il primo ebreo, ma il patto che stipula con Dio alla fine del Diluvio anticipa quello di Abramo. È l'ultimo capostipite comune, dopodiché la razza umana si tripartirebbe definitivamente nelle discendenze dei suoi tre figli: i semiti da Sem, gli iafetiti (indoeuropei) da Iafet, i camiti (neri africani) da Cam. E che questi ultimi fossero già vittima di pregiudizi e segregazione sembra suggerircelo la Genesi, quando racconta che Cam fu maledetto dal padre perché aveva riso di lui, scoprendolo ubriaco. Noè in effetti aveva una scusante: prima di lui la Bibbia non ne fa menzione, quindi Noè ne è considerato l'inventore, e l'episodio potrebbe descrivere il primo caso di ubriachezza sperimentato dall'uomo. Gli autori ci tengono a mettere in chiaro che avvenne anni dopo il diluvio; quando aveva sentito le voci che gli dicevano di costruire un'enorme arca per tutti gli animali, Noè era ancora perfettamente sobrio.

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