21 maggio: beato Enrico VI di Windsor (1421-1471), re imbelleAnonimo cinquecentesco
A pochi anni dalla morte, il culto di Enrico VI fu promosso da suo nipote Enrico VII, che in quanto fondatore della dinastia dei Tudor sentiva l'esigenza di sottolineare il suo legame con gli estinti Lancaster. E allo stesso tempo un re santo non è una cosa che si possa inventare dal nulla – non nel Rinascimanto, con in giro un bel po' di cronisti interessati a sviscerare il momento più critico del regno d'Inghilterra. Fu compilato comunque un intero libro di miracoli, da cui risultava che Enrico VI avesse resuscitato un'appestata e un supposto ladro di bestiame già appeso al cappio, e che il suo tocco fosse molto efficace contro la scrofola, a differenza ad esempio dell'ultimo esponente della casata degli York, Riccardo III. Forse il punto è che dal malvagio Riccardo i sudditi avevano paura di farsi toccare, laddove Enrico era stato tanto buono e inventarsi prodigi su di lui richiedeva meno fantasia. Ed ecco il paradosso: Enrico era venerato dal popolo proprio per i motivi per cui gli storici stavano cominciando a considerarlo un pessimo re.
Ci fu mai un re che ereditasse un trono
e ne fosse contento men che me?
Non feci in tempo a uscire dalla culla
che venni fatto re, di nove mesi.
Mai un suddito ha agognato di esser re
quanto io ho agognato e aspiro ad esser suddito
(Enrico VI Parte II, Atto IV, scena IX)
Il padre di Enrico gli aveva dato lo stesso nome e un'eredità impossibile da gestire. Era stato un grande re, ovvero un re piuttosto fortunato, ma tant'è: quel tipo di re cui ancora oggi si può dedicare un film e chiamare a interpretarlo Timothée Chamelet; laddove il figlio al massimo si meriterebbe un Paul Dano che fissasse spesso il vuoto dietro gli interlocutori. Il padre si era coperto di gloria durante la storica battaglia di Azincourt – a vederla da vicino, una carneficina nel fango, vinta da un contingente disperato, circondato da nemici soverchianti. Una di quelle situazioni in cui o si vince o si viene completamente annichiliti; nessun valido condottiero dovrebbe ritrovarcisi, ma a Enrico V era successo: in un qualche modo aveva vinto – dopodiché aveva dato l'ordine di sterminare tutti i prigionieri, perché non aveva abbastanza uomini per controllarli. Più tardi il re di Francia, Carlo VI Valois, avrebbe acconsentito a fargli sposare la figlia, accettandolo come legittimo erede. Questo Carlo VI, da come ce lo dipingono i cronisti, ha tutto l'aspetto di uno schizofrenico: alternava periodi di lucidità a deliri allucinati, che almeno in un caso lo avevano portato a roteare le sue armi sui suoi stessi uomini, uccidendone quattro. Enrico VI non avrebbe mai avuto crisi altrettanto violente, e non è nemmeno detto che ne avesse ereditato la patologia: ma l'eredità di un nonno che era un matto conclamato poteva essere ingombrante quanto quella del padre saggio e vittorioso. Un padre che tra l'altro Enrico non conobbe mai – morto di febbre tifoide in Francia, quando Enrico aveva appena nove mesi. La guerra, che si apprestava a compiere Cent'Anni, e ad Azincourt sembrava ormai vinta dagli inglesi, conobbe negli anni successivi una svolta completamente improvista: quando Parigi era saldamente nelle mani degli inglesi e ormai restava da assediare soltanto la roccaforte di Orléans, i francesi ripresero slancio e iniziativa grazie a... una contadinella, tale Giovanna D'Arco.
Dopo le prime vittorie il primogenito superstite di Carlo VI si lascia convincere a farsi incoronare a Reims – che è la città dove tradizionalmente si incoronavano i re di Francia. Gli inglesi rispondono al gesto provocatorio organizzando un'incoronazione alternativa a Parigi per Enrico, il quale dunque a nove anni deve compiere una faticosa traversata e sostare per mesi in Normandia, perché anche i dintorni di Parigi non erano sicuri dalle scorrerie armagnacche. Non è impossibile che una simile esperienza sia stata determinante a determinare la futura condotta di un re poco incline a invasioni e combattimenti. Non solo Enrico stesso era francese per metà, ma a 23 anni il rivale/cugino Carlo VI riuscì a strappargli una tregua biennale proponendogli di sposare una sua nipote, Margherita d'Angiò. Pare che Enrico si sia lasciato convincere al matrimonio perché gli emissari ne decantavano la straordinaria bellezza – dopodiché può darsi che il matrimonio non sia stato mai consumato: Enrico stesso confessava di non ricordare quando e come avesse messo sua moglie incinta di un principe di Galles. La diplomazia non cessava di inviluppare le dinastie in contorte genealogie, malgrado l'evidenza ormai dimostrasse che molti difetti dei regnanti erano di carattere ereditario, al punto che il ricorso all'adulterio a volte era un correttivo necessario.
Non è che Enrico fosse un re pacifista; ma figlio devoto di una Valois, sposo affezionato di un'Angiò, non è così strano che tra i falchi che proponevano di continuare a mandare truppe in Francia, e le colombe che suggerivano un negoziato e un disimpegno, Enrico inclinasse sempre più verso i secondi. Del resto madre e moglie avevano il vantaggio di restare a corte, coi loro uomini di fiducia (che magari a volte erano anche amanti, ma è difficile scrostare il gossip accumulatosi da secoli), mentre i falchi, essendo più propensi a combattere, a corte si vedevano meno spesso e anche i più valorosi strateghi, prima o poi finivano per morire in battaglia. Così, anche dopo che Giovanna fu catturata, processata e bruciata, i francesi continuarono a combattere e la loro avanzata, dapprima molto graduale, verso il 1450 divenne inarrestabile, coinvolgendo anche territori legati alla corona da generazioni, come l'Aquitania. Le truppe inglesi erano vittime di un circolo vizioso: la corona, dubitando di poter concludere vittoriosamente un conflitto così lungo, non vi investiva abbastanza, il che portava gli inglesi a perdere ulteriori battaglie, confermando in questo modo i dubbi della corona. Non possiamo nemmeno escludere che Enrico, animato da un sincero sentimento religioso, non fosse stato turbato dal martirio di Giovanna: per quanto gli inglesi la considerassero una strega, a corte aveva avuto la possibilità di sentire la versione dei francesi.
Per quanto gli storici la considerino finita nel 1453, la guerra dei Cent'Anni non si concluse con un trattato di pace, ma con il ritiro degli inglesi da tutti i territori oltre la Manica (salvo Calais): il che coincise più o meno con la prima vera crisi depressiva di Enrico e l'inizio di un vero e proprio collasso dell'apparato statale inglese che prende il nome di Guerra delle Due Rose. A parte la questione dinastica, come al solito intricata (semplificando: l'inettitudine di Enrico, ultimo Lancaster, offriva alla casata degli York un argomento in più per reclamare il trono), l'impressione è quella di un regno che crolla sulle sua fondamenta, le quali evidentemente poggiavano sulla guerra infinita: centinaia di possidenti avevano perduto le loro lucrose proprietà, e il monopolio su determinati commerci, come il vino d'Aquitania; generazioni di fanti e cavalieri abituati a vivere di scorrerie nel continente, una volta tornati nell'Isola, non avevano che da trovare una nuova scusa per rimettersi a razziare, e la rivalità tra York e Lancaster era buona come qualsiasi altra. Schiacciato da un meccanismo che non aveva la possibilità di comprendere, a Enrico capitò di essere imprigionato, liberato, riportato sul trono (in stato catatonico, secondo i cronisti), imprigionato di nuovo, finalmente assassinato, rimpianto dal popolo e venerato dai successori. E quando il processo di canonizzazione si interruppe dopo lo scisma anglicano, la figura di Enrico fu ripresa da un giovane drammaturgo evidentemente affascinato dai monarchi deboli, matti o scostanti: William Shakespeare, che a Enrico dedicò una monumentale trilogia. A rileggerla, si traggono conclusioni che Machiavelli sottoscriverebbe: il re più pacifico di tutti aveva trascinato l'Inghilterra in una guerra civile, il più gentile aveva consentito ai malvagi di trionfare. Evidentemente un re non dev'essere un santo, il suo operato deve essere giudicato secondo parametri diversi. Era una tesi che i Tudor stavano già applicando.