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giovedì 24 aprile 2025

La terza Maria

Niccolò dell'Arco,
Compianto del Cristo Morto
Di Stefano Maioli - Opera propria, CC BY-SA 4.0
24 aprile: Santa Maria di Cleofa, madre dei fratelli di Gesù, per quanto strano ciò possa sembrare

Maria di Cleofa mi fa girare la testa, ogni volta che provo a raccapezzarmici. Forse era la zia di Gesù, forse la cognata, forse entrambe le cose? E come poteva essere madre di eventuali fratelli di Cristo, senza essere la madre del Cristo medesimo? Sono quei classici problemi che nell'antichità coinvolgevano chi cercava di recuperare un minimo di coerenza nei miti greci (in particolare nei rapporti di parentela tra gli Dei), un affanno simile a quello che oggi patiscono quelli che pretendono che funzioni la continuity nei fumetti dei supereroi. 

Nei vangeli la situazione è più circoscritta: a compatire Gesù sotto la croce c'è un gruppo di donne, un dettaglio che da subito sembrò verosimile ma forse anche consono a una sensibilità greco-romana in cui il cristianesimo fu immediatamente trapiantato: non si dà tragedia senza coro. E il coro dev'essere un personaggio collettivo, per cui ha persino un senso che queste donne non abbiano un nome o ne condividano uno che al tempo, ci informano gli archeologi, era davvero diffusissimo, benché nella Bibbia fino a quel momento solo la sorella di Mosè si chiamasse così: una donna su quattro si chiamava Maria, stando alle iscrizioni funerarie. Per cui non è così improbabile che due o tre donne ai piedi della croce si chiamassero Maria. Una sarebbe la madre di Gesù; un'altra è Maria di Magdala, che a sua volta racchiude altri personaggi: la peccatrice che aveva unto Gesù, l'invasata da cui lo stesso Gesù aveva scacciato ben sette demoni, la sorella di Marta e di Lazzaro. C'è poi, ai piedi della croce, una terza Maria, sulla quale gli evangelisti non riescono a mettersi d'accordo: Luca, che di solito è il più completista, si limita a definirla "di Giacomo". Per Marco e Matteo è la madre di Giacomo e Giuseppe, che quindi sono fratelli; Matteo definisce Giacomo "il minore" per distinguerlo dall'altro apostolo che porta lo stesso nome. In tutti i sinottici Giacomo il minore viene chiamato anche Giacomo d'Alfeo. In Matteo, poi, "Giacomo e Giuseppe" sono i primi nomi di una lista di fratelli di Gesù nominati dalla folla. ("Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?") Questa circostanza ha portato molti lettori a identificare Giacomo il minore con il Giacomo che San Paolo nella lettera ai Galati definisce "fratello del Signore", leader della comunità cristiano-ebraica di Gerusalemme. Ora, se si accetta l'idea che Gesù possa avere avuto fratelli di sangue (e alcune confessioni protestanti la accettano), Maria di Cleofa non potrebbe che essere la stessa Maria di Nazareth: e allora perché gli evangelisti nominerebbero due Marie diverse? Per i cattolici l'idea è da escludere: la madre di Dio sarebbe rimasta vergine anche dopo la nascita di Gesù. La presenza di entrambe le Marie davanti alla croce esclude anche la possibilità che Gesù avesse dei fratellastri, perché per sposare una delle due Giuseppe avrebbe dovuto rimanere vedovo dell'altra. 

Un'altra ipotesi, molto apprezzata dai cattolici, è che "fratelli" (adelphoi nell'originale greco) significhi "cugini": nel qual caso le due Marie potrebbero essere sorelle, e complimenti ai genitori per la fantasia. Qui interviene il quarto evangelista, quello che scrive per ultimo e che forse voleva proprio chiarire la questione: senonché finisce per confonderla ancor di più. Giovanni scrive che "Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre Maria di Cleofa e Maria di Magdala". Viene per la prima volta nominata una "Maria di Cleofa" (una variante di Alfeo?), un nome che fin qui era associato soltanto al discepolo che secondo Luca aveva riconosciuto Gesù a Emmaus. A parte questo, è da duemila anni che ci chiediamo se Giovanni abbia elencato tre donne o addirittura quattro. A quel tempo, si sa, non si mettevano le virgole, per cui sta a noi decidere se "la sorella di sua madre" e "Maria di Cleofa" siano una persona soltanto o addirittura due. Alcuni storici trovano inverosimile che due sorelle si chiamino entrambe "Maria" – io per contro insegno alle medie e mi è capitato di avere sorelle che si chiamavano Miriam e Meriem, per cui non trovo più inverosimile nulla. Tra l'altro Giovanni, che pure sostiene di essere l'apostolo più vicino alla madre di Gesù, non la chiama mai per nome. Un'altra ipotesi è che "sorella" qui significhi "cognata", e perché no? Maria di Cleofa potrebbe essere sorella di Giuseppe il falegname e moglie di Alfeo/Cleofa o viceversa: a quel punto gli apostoli Giacomo e Giuseppe sarebbero davvero cugini di Gesù. 

Una cosa interessante di questa tortuosa ricostruzione, è che è del tutto irrilevante da un punto di vista dottrinale. Lo chiarisce Gesù stesso, in un passo riportato dai tre sinottici: quando gli dicono che sono venuti a trovarlo sua madre e i suoi fratelli, lui risponde platealmente che "sua madre" e i "suoi fratelli" sono i suoi discepoli, e "chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio" (Matteo 12,50). Che sia zia, cognata o semplice conoscente, Maria è una delle donne che il terzo giorno dopo la deposizione vanno a visitare la tomba di Gesù (secondo Marco intendevano imbalsamarlo), ma trovano la tomba vuota. Un angelo le avvisa che il Salvatore è risorto. Corrono ad avvertire gli apostoli, i quali almeno secondo Luca restano piuttosto increduli. Lo stesso Paolo, quando raccontava la resurrezione, preferiva omettere il dettaglio della prima apparizione alle pie donne: probabilmente temeva che le testimonianze femminili non fossero abbastanza credibili. Matteo e Luca, viceversa, sembrano dare una certa importanza al fatto che le prime a essere informate della resurrezione siano le donne. È uno dei tanti indizi che ci suggeriscono che Paolo e i sinottici si rivolgessero a pubblici diversi, con sensibilità diverse.

martedì 22 aprile 2025

Il padre (più santo) di Origene

22 aprile: San Leonida martire, padre di Origene (✝204)

Di Leonida, padre di Origene, sappiamo poco, quasi solo un aneddoto: la notte, mentre Origene dormiva, Leonida gli baciava il petto, "quasi fosse un sacrario dello Spirito Santo". Così almeno secondo il solito Eusebio da Cesarea, ma c'è un problema: come faceva Eusebio a saperlo, se l'unico testimone sveglio era appunto Leonida, morto mezzo secolo prima che Eusebio nascesse, durante le persecuzioni di Settimio Severo? Escludiamo che prima delle persecuzioni, Leonida andasse in giro a raccontare dei bacini notturni che dava al suo figlio prediletto, di cui intuiva le doti intellettuali che considerava un dono dello Spirito Santo. È più probabile che a ricordare di questi bacini fosse Origene stesso, il quale evidentemente non dormiva davvero; a volte magari faceva finta. In età adulta avrebbe poi citato l'episodio in qualche omelia andata perduta, perché in quelle che abbiamo, l'autore parla pochissimo di sé. Ma anche in questo caso, come faceva il piccolo Origene a sapere che Leonida considerava il suo petto "un sacrario dello Spirito Santo"? Forse un giorno gliel'avrà chiesto e avrà ottenuto una sincera risposta; non è impossibile; ma secoli di relazioni tra padri e figli ci fanno sospettare che Origene non abbia mai svelato di essere sveglio e il padre non gli abbia mai davvero spiegato perché gli dava un bacino della buona notte sul cuore. È Origene a essersi convinto di essere uno speciale custode dello Spirito; di avere una potenzialità, un dono, qualcosa di cui il padre era orgoglioso. Cosa pensasse davvero il padre non possiamo saperlo, ma in generale cosa desiderano i padri? In generale il meglio per i figli; poi fortunatamente si tolgono di mezzo prima di verificare se il meglio arrivi o no. 

Leonida fu martirizzato ad Alessandria d'Egitto verso il 204. Quando lo arrestarono, Origene aveva diciassette anni e avrebbe voluto seguirlo, ma la madre gli nascose i vestiti, o almeno così ci racconta sempre Eusebio. Origene scrisse allora una lettera al padre per esortarlo al martirio. Il martirio ci fu, ma anche la confisca dei beni, e Origene si ritrovò sul groppone sei fratelli minori più la vedova. Era comunque un ragazzo promettente e grazie al sostegno di una matrona cristiana in un qualche modo riuscì a cavarsela: si mise a insegnare retorica, a copiare manoscritti, e nei ritagli di tempo divenne uno degli intellettuali più importanti del secolo III. Santo no, però, perché in quel periodo era complicato: la dottrina non era ancora del tutto fissata, il che lasciava agli intellettuali ampi margini di speculazione. Origene ad esempio non credeva che le pene infernali potessero durare in eterno, ma soprattutto pensava che il figlio fosse subordinato al padre, il che sarebbe stato recisamente escluso dal concilio di Nicea; così si ritrovò eretico, per quanto stimato da tanti contemporanei, compresi un paio di padri della Chiesa. Nel secolo successivo poi su di lui si impigliarono voci sempre più infamanti, così che il primo ad aver dichiarato che "Non c'è salvezza al di fuori della Chiesa"... è tuttora considerato al di fuori della Chiesa. Al tempo del padre le cose erano più semplici: bastava morire da martiri, e nessuno sarebbe andato a controllare se morivi per le idee giuste. Così insomma per quel che ne sappiamo, Leonida è in paradiso e il figlio fuori. Ma che paradiso può essere per un padre, se il figlio resta fuori. 

domenica 20 aprile 2025

Se una santa alza un piede per te

20 aprile: Sant'Agnese di Montepulciano (1274-1314), mistica


Agnese era talmente famosa per i miracoli che diventò badessa a quindici anni; nella sua Leggenda, Raimondo di Capua racconta che cominciò a guarire i malati quando era ancora una bambina. Ma il più famoso è postumo e piuttosto macabro: quando nel probabile centenario della sua nascita, Caterina di Siena si recò in visita nel suo sacrario, vi trovò un corpo che a quanto pare era ancora incorrotto, e si chinò per baciarle un piede in segno di devozione. Il piede, dicono i testimoni, si sollevò per accorciare la fatica di Caterina. Bisogna però avvertire che il biografo di Agnese, Raimondo, era anche il padre spirituale che i domenicani avevano procurato a Caterina, il quale si trovava dunque in una posizione privilegiata per orchestrare un prodigio come questo, dal significato palese: Caterina era l'erede di Agnese, in quanto domenicana, mistica e santa. Raimondo, accettando la direzione spirituale di un personaggio irregolare come Caterina, era probabilmente conscio di giocarsi la carriera: la ragazza destava scalpore per le lettere che scriveva e inviava ai potenti della Terra, ma come tutti i mistici tra Due e Trecento si muoveva sulla lama sottile che separava l’eredità della santità. Il compito di Raimondo era farne una santa; il precedente di Agnese forniva sia al maestro sia all’allieva un canovaccio da seguire. Possiamo immaginare che Caterina abbia imparato come comportarsi da santa sul libro di Raimondo: anche se il gusto per le privazioni e i digiuni eroici lo aveva già sperimentato ben prima di incontrarlo, leggendo di Agnese aveva scoperto che si poteva vivere per quindici anni a pane e acqua, e che una santa seria al posto del cuscino usa una pietra. 

Il problema è che mentre Agnese era già una leggenda, Caterina viveva ancora nel mondo complicato dei viventi ed è probabile che abbia un poco invidiato la relativa facilità con cui la consorella Agnese era riuscita a farsi spedire bambina in un convento, mentre Caterina per convincere i suoi che non avrebbe sposato il cognato rimasto vedovo dovette fare più di uno sciopero della fame. Anche per farsi accettare come religiosa Caterina aveva faticato non poco, mentre Agnese che viveva in un secolo dove le confraternite religiose erano meno strutturate, aveva trovato immediatamente posto in una comunità quasi spontanea, le cosiddette Suore del Sacco, dette così dal vestito molto ruvido che portavano. Agnese, dappertutto riverita e onorata, a quindici anni era già superiora a Proceno (oggi provincia di Viterbo), e in seguito avrebbe ceduto al desiderio dei compaesani di Montepulciano di fondarne un altro nel suo luogo di nascita, aderendo alla regola domenicana. Caterina invece avrebbe viaggiato in lungo e in largo senza mai trovare pace, impiegata in missioni diplomatiche che la esposero almeno una volta a un attentato, a Firenze. Agnese, come conviene a una santa protagonista di una leggenda, faceva tanti miracoli: dove passava scendeva una manna, un pulviscolo bianco fatto di tante minuscole croci. Anche Caterina qualche miracolo avrebbe voluto farlo: tutti in particolare le chiedevano di riportare il papa da Avignone a Roma e lei in teoria ci riuscì; ma poi scoppiò la guerra, il papa morì subito, i cardinali italiani ne elessero uno e i francesi un altro, tutta una confusione che Caterina cercò di risolvere digiunando, finché ne morì, nove giorni dopo la festa della sua santa modello. Qualche anno dopo Raimondo diventò maestro generale dell'Ordine, come Caterina aveva previsto. Il corpo di Agnese è ancora custodito in una teca, a Montepulciano, anche se i piedi sono piuttosto incartapecoriti e da quella volta nessuno ha più visto muoverli. 

sabato 19 aprile 2025

Il papa verso lo scisma

19 aprile: Leone IX (1002-1054)

Lo scisma più annoso, quello che non si è ricomposto ancora dopo secoli di tentativi, ha motivi più storici che dogmatici: cristiani di rito latino e cristiani di riti orientali (greco o slavo) hanno sempre avuto qualche difficoltà a capirsi, ma questo non aveva impedito loro di sentirsi parte di una stessa Chiesa... fino a quando? Sui libri di Storia trovate di solito una data, 1054 (a volte 1055). Ma cosa successe in quell'anno, di così irreparabile, tra Roma e Costantinopoli? Chi sono insomma i responsabili di questo strappo che non si è più ricucito, e che tuttora sanguina ogni volta che si riapre un fronte in Europa, nei Balcani come in Ucraina? Il patriarca di Costantinopoli nel 1054 era Michele Cerulario: e a Roma chi c'era? In teoria Leone IX, ma ecco: è difficile capire come siano andate le cose. È molto più facile notare come generazioni di storici e agiografi abbiano tentato di sminuire le responsabilità di questo papa che è venerato come un santo e ammirato come un grande riformatore; per cui attribuirgli uno scisma sembrava forse indelicato.  

Quando un papa sceglie, tra tanti nomi, Leone, di solito ci si aspetta che dia battaglia, e Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg ci provò, anche se alla fine non si può dire che ne vinse. Parente neanche troppo lontano dell'imperatore Corrado II, Brunone in quanto terzogenito era destinato alla carriera ecclesiastica, che non significava necessariamente passare la vita sui breviari. Ad esempio: per conquistarsi il titolo di vescovo della sua Toul, in Lorena, Brunone si mise a 24 anni a capo di un contingente di cavalieri teutonici che accompagnarono Corrado in una campagna in alta Italia. La responsabilità della missione sarebbe spettata al vescovo in carica, troppo anziano: Brunone era già il suo vice e se ne prese carico, in attesa di sostituirlo anche sulla cattedra. Questo precoce successo militare avrebbe segnato il suo destino, per più di un motivo. È probabile che Brunone nell'occasione si sia fatto un'opinione di sé che non sarebbe riuscito nei fatti a dimostrare: per prima cosa, un condottiero vincente – ma è destino dei condottieri continuare a vincere finché non perdono. Nell'occasione potrebbe anche essersi infiltrata nella sua coscienza quell'idea che noi postmoderni chiamiamo meritocrazia: la convinzione che ai posti di comando dovrebbero starci quelli che se lo meritano. Il che sarebbe ineccepibile, senonché molto spesso a parlare di meritocrazia è gente, fateci caso, con un cognome illustre: e arciconvinta di meritarselo. Brunone era figlio di conti (che gli avevano dato un nome che richiamasse quello di altri famosi prelati), parente di imperatori: se non avesse combattuto qualche battaglia a 24 anni sarebbe diventato vescovo comunque; magari un po' più tardi, ma lo richiedeva il suo lignaggio. E però era convinto di esserselo conquistato sul campo, non come certi vescovi a cui la cattedra gliela pagava papà perché si sistemassero, seguendo una pratica che la Chiesa ufficialmente denigrava. Tale pratica era chiamata “simonia”,  dal nome di quel Simone Mago che negli Atti degli Apostoli, invidioso dei miracoli praticati dai cristiani, aveva offerto denaro a Pietro affinché lo ammettesse tra gli apostoli. 

Per Brunone, che apparteneva a un movimento di riforma della Chiesa che si irradiava soprattutto dai monasteri cluniacensi, la simonia era uno scandalo che andava rimosso ad ogni costo, e non è nemmeno così necessario calarsi nella mentalità rigorista di un vescovo del secolo XI per condividerne i motivi: una Chiesa che metteva all’asta i ruoli apicali sarebbe stata inevitabilmente gestita da figli di papà solo raramente, e casualmente, competenti e meritevoli. E allo stesso tempo, non era la simonia un fenomeno inevitabile, in una società che considerava la carriera ecclesiastica come appannaggio delle famiglie più nobili, un modo di tenere impegnati i secondi o terzogeniti senza frazionare più di tanto l’asse ereditario? Da questi rampolli delle grandi famiglie ci si aspettava comunque che contribuissero alla gloria delle loro diocesi con donazioni di beni immobili, terre in beneficio e chiese monumentali, per cui davvero: c’era così tanta differenza tra Brunone e certi vescovi che per diventarlo cominciavano a pagare in anticipo? A distanza di secoli io non ci vedo tantissima differenza, ma capisco quanto fosse vitale per Brunone notarla e farla notare. Ad esempio, quando il vecchio vescovo di Toul passò a miglior vita, l'imperatore voleva investire Brunone senza tanti complimenti, ma quest'ultimo obiettò che la diocesi di Toul era soggetta a quella di Treviri, e che quindi la nomina spettava all'arcivescovo di colà. Giunto a Treviri, però Brunone scoprì che l'arcivescovo lo avrebbe nominato soltanto in seguito a un giuramento di fedeltà che non era previsto dal diritto canonico, sicché alla fine B. riuscì nell'impresa di litigare sia con l'imperatore sia con l'arcivescovo – ovvero con entrambe le autorità che dovevano designarlo. Così almeno scriveva il biografo ufficiale di Leone, mentre il papa era ancora in vita, ma guardando alle date qualcosa non va: tutto questo doppio braccio di ferro tra imperatore e arcivescovo dovrebbe essersi risolto (a favore di Brunone) in meno di due mesi, che in un secolo in cui le informazioni viaggiavano a cavallo passavano in un soffio. È probabile che le resistenze di Brunone siano state ingigantite dal biografo per dimostrare l’alto senso che aveva il futuro Papa per l’autonomia della Chiesa e le prerogative della sua carica, nonché per mascherare un’evidenza: nel giro di cinquanta giorni il vescovo designato dall’imperatore era già in cattedra, con tanti saluti all’autonomia della Chiesa e le prerogative eccetera. Da cui un sospetto: forse tutta la retorica antisimoniaca era funzionale all’affermazione di una nuova gerarchia selezionata direttamente dall’imperatore.

Vent’anni dopo la manfrina si ripeté, stavolta intorno al Soglio di Roma. Alla morte di papà Damaso II, l’imperatore (che ora era Enrico III, figlio di Corrado) non si diede nemmeno la pena di scendere in Italia: convocò una dieta a Worms e nominò Brunone. Brunone obiettò ovviamente che non era degno, ma soprattutto che la nomina spettava al clero romano e persino al popolo: dopodiché arrivò a Roma, vestito da umile pellegrino – ma accompagnato dal fior fiore dei riformisti, tra cui Ugo di Cluny e un giovane Ildebrando di Soana che da qui in poi sarebbe stato l’eminenza grigia dei pontefici riformisti, finché non sarebbe diventato papa lui stesso col nome di Gregorio VII. L’elezione fu una semplice ratifica della designazione imperiale, dopodiché Brunone (da qui in poi Leone) procedette a sorprendere i romani con atteggiamenti che ricordano, alla lontana, quelli di un’altro Papa venuto da lontano, Giovanni Paolo II: considerandosi, più che vescovo dell’Urbe, capo della Chiesa universale (o almeno imperiale), Leone si mise in viaggio e in sei anni di pontificato, si è calcolato che a Roma abbia trascorso soltanto qualche manciata di mesi. Ovunque andava, Leone convocava sinodi che servivano soprattutto a sollevare dai loro incarico i vescovi simoniaci – da sostituire ovviamente con uomini di fiducia di Leone e dell’imperatore. Ma forse perché la simonia non era sempre così facile da dimostrare, sempre più spesso nell’obiettivo di Leone e dei suoi collaboratori c’era un altro fenomeno, il Nicolaismo: l’abitudine di molti prelati a convivere con donne, dalle quali avevano persino bambini. Una plateale violazione dei voti sacerdotali (che però ci avevano messo secoli a essere formalizzati: e a Oriente i sacerdoti si sposavano tranquillamente) ma anche una seria minaccia all’unità patrimoniale della Chiesa. Non sempre le cose andavano lisce: a Mantova durante il sinodo del 1053 scoppiò un tumulto, animato a quanto pare dai servi dei vescovi convocati: vescovi evidentemente molto legati ai loro comportamenti simoniaci e alle loro concubine, sicché Leone dovette lasciare la città senza riuscire a punire nemmeno i colpevoli. 

Ma i veri problemi – che gli furono fatali – Leone li incontrò nel Meridione, dove nell'equilibrio già molto relativo tra ducati longobardi, arabi di Sicilia e Bizantini si erano inseriti con una certa prepotenza i Normanni. I papi li avevano appoggiati – in funzione antiaraba – ma ora cominciavano a temere il loro espansionismo. Leone IX decise di contrastarli proprio nel momento in cui, sul piano dottrinale, era ai ferri corti con i loro avversari: i Bizantini. Da questi ultimi Leone pretendeva, oltre al riconoscimento del primato di Roma (che in linea teorica il patriarca Michele Cerulario non avrebbe potuto discutere) anche la restituzione delle diocesi della Sicilia e del meridione, che dopo secoli di dominio bizantino erano passate al rito greco: e piuttosto di cederle il Cerulario era disposto a rivangare le vecchie polemiche di secoli prima, il filioque e la comunione coi pani azzimi, insomma tutti i pretesti che tornavano utili per minacciare uno scisma. Un politico più astuto forse avrebbe a questo punto sostenuto i Normanni in funzione antibizantina, ma Leone IX forse non lo era, per cui lo si ritrovò ad allearsi coi Bizantini che non riconoscevano la sua autorità spirituale contro i Normanni che invece la riconoscevano; una contraddizione che si sarebbe risolta se almeno Leone avesse vinto, ma prevedibilmente successe il contrario. Dalla Germania, Enrico III si limitò a mandare un contingente di cavalieri, ma non ritenne necessaria la sua presenza. Così toccò a Leone condurre l'esercito: spettacolo inconsueto anche nel medioevo. I Normanni riuscirono a sorprenderlo prima che si potesse riunire con gli alleati Bizantini e lo fecero prigioniero, che è sempre un fatto increscioso per un pontefice: e se anche tutte le fonti dicono che fu trattato con tutti gli onori, e liberato in meno di un anno, è pur vero che di lì a poco morì, ad appena 52 anni e alla vigilia dello scisma d'oriente. Nel frattempo, in effetti, il cardinale che Leone aveva inviato per trovare un compromesso col Cerulario (Umberto di Silva Candida) ottenne il risultato opposto: Umberto e Michele si scomunicarono a vicenda, decretando ufficialmente uno scisma che dura tuttora. A quel punto però Leone era già morto da qualche mese, il che ha dato ai teologi qualche argomento per sostenere che la scomunica impartita da Umberto non avesse più valore legale. Eppure lo scisma c'è, nessuno è più riuscito a risanarlo.

venerdì 18 aprile 2025

Ognuno potrà farsi la sua Storia su misura

Dopo un paio di settimane, è sintomatico che là fuori ancora qualcuno parli del video fake di Barbero. Una storia che sembra escogitata per confermare la saggezza di quegli indigeni che per prima cosa rompevano le macchine fotografiche agli esploratori, non perché le confondessero con delle armi, ma perché capivano benissimo cosa fossero: strumenti che servono a rubare la tua immagine, e quindi la tua anima. Per un secolo li abbiamo presi in giro e poi... abbiamo scoperto i deepfake.

Provo a riassumere. Bottura (che stimo e che saluto) scrive un programma su rai3, che come tutti i programmi rai durano un'ora, un'ora e mezza più di quanto dovrebbero durare per essere divertenti. Riempirlo di contenuti di qualità è economicamente impossibile, e questo conduce rapidamente il nostro autore a un patto col diavolo, ovvero con l'AI: la quale AI forse un giorno scriverà davvero testi interessanti, ma nel frattempo, ricordiamolo, il motivo per cui qualcuno la progetta e qualcun altro la usa è la possibilità di produrre ingenti quantità di contenuti scadenti in tempi brevissimi e a costo zero. È da sempre che su Splendida Cornice compaiono dei video deepfake, anche se di solito più brevi e soprattutto la Cucciari avvisa immediatamente che sono deepfake. Da cui la domanda: ma c'è una sostanziale differenza da quando i deepfake li usava Striscia per far ballare la macarena ai politici a quando li usa Bottura per far dire Barbero che armarsi è giusto? A parte il fatto che a tutti, ogni tanto dovrebbe venire il dubbio: ma se lo facessero a me, un video in cui dico cose in cui non credo, ne sarei contento? A parte questo ognuno risponda secondo coscienza. 

Il video in questione proponeva un paragone storico notevolmente più bislacco del solito. Di solito chi fa propaganda cerca di paragonare quello che sta succedendo oggi (chiamiamolo A) con quello che è successo in un altro periodo storico (chiamiamolo B) che infallibilmente è il 1939 – siccome la propaganda al 90% serve a giustificare delle guerre, e l'unica guerra che la coscienza collettiva dà per giustificata sin dalla scuola dell'obbligo è quella contro i nazisti, B è praticamente sempre il 1939. Bottura invece se ne esce con questa idea senza senso di un tentativo degli austriaci di conquistare l'Italia che non solo non è mai successo (cioè inventati uno scenario e poi arrabbiati perché nel tuo scenario accadono cose ingiuste) ma è anche una grottesca inversione di quello che hanno sperimentato i sudtirolesi dopo il 1918: dal loro punto di vista sono gli italiani che li hanno invasi, sono loro che li hanno forzati a parlare in italiano e/o, dopo il 1939 a levare le tende.

Il video fora l'attenzione collettiva, come purtroppo non succede mai alle cose meglio riuscite; tra i critici c'è anche chi nota che in questo caso qualcuno sta speculando sull'immagine di uno storico con un minimo di competenza per raccontare una storiella che non ha senso, uno scenario fittizio che non funziona. Lo stesso Bottura a un certo punto capisce di avere esagerato, almeno dal punto di vista tecnico, e ammette che in futuro starà più attento. Barbero dal canto suo la prende sportivamente, e quindi perché ne stiamo parlando ancora? Perché la fuori c'è gente che non solo è convinta che mettere in bocca a Barbero un messaggio opposto a quello che dice Barbero non sia una pratica scorretta, ma trova il contenuto del finto Barbero interessante. Parliamo di giornalisti, di esperti di comunicazione, di gente che sostiene di condividere con Barbero una passione per la Storia. Quello che hanno in comune, è l'avere sostenuto con molta causa una certo tipo di narrazione intorno al conflitto ucraino, e una non-accettazione del fatto che questa narrazione non avrà evidentemente un lieto fine. Il che li porta a contorsioni logiche e retoriche spettacolari – per chi vi assiste – ma forse anche pericolose.

In controluce c'è tutto un problema di ridefinizione della satira, un genere da cui la mia generazione si aspettava la "resistenza umana", ovvero la creazione di una dimensione altra in cui i torti del potere venivano vendicati da un'eletta schiera di autori satirici che in effetti erano molto bravi, fu un'età dell'oro, ma è finita; e ha lasciato questi cinque-sessantenni orfani non già di un'ideologia, ma di una cosa un po' meno interessante: una retorica. Se non si sono mai chiesti quale sia la differenza tra "satira" e "propaganda", non è per un caso, ma perché la risposta li schianterebbe: non c'è nessuna differenza. La chiamiamo "satira" quando se la prende coi nostri nemici – e in quel caso a quanto pare tutto le è concesso, anche rubare l'immagine e l'anima dei suoi avversari e indossarla per far loro dire il contrario di quello in cui credono – e "propaganda" quando se la prende coi nostri amici, nel qual caso, va da sé, è di regime. Ma se una la vediamo rossa e l'altra la vediamo blu, l'unica cosa che sappiamo davvero è la direzione verso la quale ci stiamo spostando. E questo è forse il motivo per cui continuiamo a parlare di questa storia abbastanza minuscola, mentre fuori si bombardano ospedali: qualcuno sta precipitando, non può più fidarsi dei maestri, come Barbero, nei quali aveva riposto illimitata fiducia; deve ricostruirsi un sistema morale e deve farlo alla svelta; e per quanto non sembri una buona idea, l'AI è lì a disposizione: non costa niente, è veloce, convincente, ormai la usano tutti, insomma perché no. 

lunedì 14 aprile 2025

Tomaide e Abbondio

14 aprile: Santa Tomaide d'Alessandria, vergine e martire (♱476)

Oggi li chiamiamo femminicidi e alla fine non li trattiamo molto diversamente: ne discutiamo, cerchiamo di esecrare gli assassini, di ricordare le vittime, di dare un senso al loro sacrificio. Per molto tempo questo compito, che oggi spesso è demandato ai cronisti di nera, se lo è assunto la Chiesa. Nell'Alessandria d'Egitto del quinto secolo – forse la città più grande del mondo – Tomaide è una ragazza che resiste alle avances pesanti del suocero. Quest'ultimo è un pescatore già anziano che in quello che oggi i giornalisti definirebbero "raptus omicida" la taglia a metà. Poi diventa cieco e si costituisce (verrà decapitato). Tomaide diventa immediatamente oggetto di venerazione, il che ci fa capire come il concetto del martirio si stesse allargando; Tomaide in effetti non è morta per difendere la fede cristiana, che ad Alessandria è maggioritaria (se non praticamente obbligatoria, a quasi un secolo dall'editto di Tessalonica). Non lotta nemmeno per offrire la sua verginità a Dio, visto che era già sposata. Tomaide lotta per lo stesso motivo per cui lotterà Maria Goretti un millennio e mezzo dopo, per lo stesso motivo per cui lottano le ragazze in ogni epoca e di ogni religione. Le martiri della violenza sessuale sul calendario non sono numerose, ma ricorrenti, e illustrano la posizione della Chiesa sul problema (che non fu la stessa nei secoli, e variava col variare delle nozioni; Agostino ad esempio, contemporaneo di Tomaide, nella Città di Dio sembra rifiutare l'idea che la violenza si possa consumare senza che la donna sia almeno in parte consenziente, una concezione quindi molto più antica dei blue jeans attillati: solo morendo la vittima poteva insomma dimostrare la sua contrarietà all'atto). 
Anche Tomaide divenne famosa per un olio, che in quel caso non distillava dalle ossa, ma era semplicemente l'olio che veniva usato per alimentare il lume sulla sua tomba, dopo che il corpo fu traslato a Costantinopoli. L'olio di Tomaide serviva ad allontanare le tentazioni carnali: e se mi chiedete come si faceva a ottenere olio da un lume, che l'olio in effetti lo brucia, non so che dirvi, non saprei proprio come ricavarlo. Saprei invece come usarlo.


Anonimo
15 aprile: Sant'Abbondio, mansionario (VI secolo)

Il patrono di don Abbondio è un santo che apparentemente non gli somiglia, un presbitero umile ma che svolge con grande dignità le sue funzioni di mansionario presso la basilica vaticana (quella vecchia, poi distrutta nel Rinascimento per far posto al guazzabuglio barocco). Il mansionario è un viceparroco senza incarichi amministrativi: in sostanza deve dire messa e amministrare i sacramenti. Un giorno una ragazza disabile, che in quella chiesa è una presenza fissa, le si para davanti: sostiene di avere avuto, a forza di preghiere, un'udienza in sogno con San Pietro in persona, e che San Pietro le ha detto per la guarigione di rivolgersi al mansionario. Eh, beh, se te l'ha detto San Pietro... Abbondio, che fino a quel momento non aveva mai pensato di poter fare un miracolo, senza fare una piega prende la mano della ragazza e la guarisce. L'episodio, riportato da Gregorio Magno nei suoi Dialoghi, è un manifesto della santità cattolica: Dio concede la grazia attraverso tutta una gerarchia di intermediari, uno in cielo (Pietro) e uno in terra (Abbondio). Questo è tutto quello che sappiamo del santo di oggi, che a volte viene confuso col vescovo patrono di Como, nato a Tessalonica e morto nel 499: ma è probabilmente un Abbondio diverso (molte pagine web sostengono che il vescovo sia "morto sul rogo", non si capisce per quale motivo, visto che il Cristianesimo era ormai religione di Stato da un secolo). Abbondio il mansionario è il patrono di tutti i dipendenti a cui un boss chiede di fare qualcosa di impossibile e loro, senza scomporsi più di tanto, lo fanno, o almeno ci provano. In fondo anche Manzoni chiede al suo don Abbondio di mostrare coraggio in un mondo di gangster: salvo che il suo Abbondio invece di essere un santo è un uomo come noi.

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