Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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giovedì 20 marzo 2025

Due film che non c'entrano nulla


Forse perché non ho mai avuto molte illusioni sulla statura politica e morale di Giorgia Meloni, che mi ritrovo sempre meno in sintonia con chi la rimprovera. È un po' come Berlusconi, ai tempi in cui i suoi detrattori sbagliavano costantemente obiettivo: quello corrompeva la guardia di finanza, e loro gli davano del nano pelato. Aa Meloni invece l'altrieri ha osato non riconoscersi nel Manifesto di Ventotene, il che non può essere una sorpresa per chiunque conosca un po' sia lei sia il Manifesto: ma improvvisamente questo diventa un delitto di lesa maestà, all'improvviso una mattina il Manifesto di Ventotene diventa una specie di carta costituzionale benché nessun parlamento l'abbia approvata, e la maggior parte di noi l'abbia nemmeno letta. Però Repubblica la pubblica in edicola, e Benigni ci farà la sua predica annuale, quindi aa Meloni come si permette. Ora, quand'è successa questa cosa? Quand'è che Spinelli e Rossi, la cui eredità politica sembrava essersi perduta nell'immediato dopoguerra, sono diventati i nostri Padri Fondatori?

Non ne ho idea, è un caso che sinceramente non ho seguito. L'idea che la carta sia l'atto di concezione dell'Unione Europea mi è sempre sembrata una forzatura: Spinelli e Rossi avevano qualche buona idea (ma anche qualche abbaglio, inevitabile vista la situazione in cui scrivevano), ma non credo che senza le loro idee non avremmo avuto i trattati di Roma e poi di Maastricht. Così come è una forzatura affermare che l'europeismo sia nato a Ventotene, quando ne parlava ed esempio Mazzini già un secolo prima. A Ventotene la sinistra italiana arriva tardi, credo a metà degli anni Novanta: non ho argomenti per dimostrarlo, soltanto labili suggestioni (una Festa Nazionale dell'Unità a Reggio Emilia, più di vent'anni fa, con un padiglione che ricostruiva scala 1:1 la camera di Spinelli). 

Ad esempio l'anno scorso è uscito Un altro ferragosto di Virzì, che essendo il sequel di Ferie d'agosto è ambientato a Ventotene. Nel film Sandro, che già in Ferie era l'archetipo dell'intellettuale di sinistra declassato, ha sviluppato un'ossessione per una specie di pollaio che avrebbero costruito i confinati, e se ricordo bene ha chiesto l'intervento della Sovraintendenza ai beni culturali per preservare il monumento antifascista. Nel frattempo sta sempre peggio di salute e ha allucinazioni in cui vede Spinelli, Rossi, le rispettive mogli, e ovviamente Pertini: tutto un Walhalla laico di eroi che lo attende al di là della malattia. Mentre lo guardavo trovavo tutto molto appropriato, e allo stesso tempo cercavo di ricordarmi se nel film di un quarto di secolo prima Sandro avesse mai anche solo accennato agli antifascisti al confino sull'isola. 


L'ho voluto riguardare e ho avuto conferma che no del 1996, Sandro dei confinati non parlava mai, e sì che non teneva molto spesso la bocca chiusa. Rivista con gli occhi di oggi, una dimenticanza del genere è inspiegabile: insomma, il primo film che mette in luce la nuova lotta di classe tra ceto riflessivo impoverito e borghesia berlusconiana abbruttita è ambientato nell'isola che fu il simbolo dell'antifascismo: una metafora cotta e servita, eppure gli sceneggiatori non ne approfittano mai, come mai? Forse nel '96 gli sceneggiatori non sentivano la necessità di sottolineare quanto fosse importante Ventotene per l'antifascismo e l'europeismo perché, come tutti noi, al tempo il manifesto lo ignoravano, dei confinati avevano sentito parlare molto vagamente, e Ventotene l'avevano scelta magari perché era più facile girare lì che, poniamo, a Ponza. Tutti questi Grandi Padri che Sandro si crea nel secondo film, circondandosi di figure serie e sorridenti un po' come Fazio quando sceglie gli ospiti di riguardo, sono adozioni molto tardive, di gente che si è ritrovata orfana di Gramsci e Che Guevara a quaranta o cinquant'anni. Può darsi che gli autori del secondo film l'abbiano ammesso, quando a un certo punto ci fanno scoprire (spoiler) che il pollaio è un falso storico, l'ha rimesso assieme il figlio di Sandro da bambino. È un retroterra culturale postumo, non necessariamente posticcio, perché ai manifesti si può aderire a qualsiasi età. Bisogna però leggerli. Aa Meloni un po' lo ha letto – anche solo un paragrafo – e ovviamente non le è piaciuto, il che è abbastanza in linea col personaggio e la sua storia. Chi invece se la prende con lei, lo ha letto davvero? Non necessariamente. È una generazione cresciuta riempiendo gli scaffali dei soggiorni di supplementi editoriali (libri, vhs, cd, dvd, album di figurine) senza sentire l'esigenza di aprirli troppo, a rischio di consumarli. 

***



E ora qualcosa che non c'entra davvero nulla, ma siccome si parla di film, segnalo che su Raiplay c'è ancora non so per quanto The Fabelmans in versione originale coi sottotitoli: un altro film in cui a un certo punto ci sono lunghe scene in una scuola dove ragazzi e ragazze interagiscono, si parlano, si innamorano, ma soprattutto si bullizzano come belve e si pestano a sangue. Queste scene, che sono familiari alla mia generazione più dei Promessi Sposi, forse non le avrei mai trovate così strane se poi nella vita mi fossi ritrovato di nuovo nella scuola media, un posto dove ovunque vada il preadolescente devono esserci in media 1-2 adulti a guardarlo, tranne in bagno; e ciononostante colluttazioni se ne verificano ogni giorno, senza gli eccessi delle scuole americane, per il semplice motivo che appunto: adulti ce ne sono dappertutto, e per quanto non sempre siano svelti di riflessi, sono comunque un grosso deterrente che impedisce al cervello del preadolescente di anche solo concepire pestaggi organizzati o assalti alla baionetta nei corridoi. 

Insomma se mi chiedete perché la società USA sembra subito più violenta della nostra, senz'altro sono convinto che un certa disponibilità di armi c'entri per qualcosa; ma poi l'idea forse cattolica che i ragazzini van guardati. Senonché. 

Senonché in molte scuole adesso va di moda questa DADA, ovvero "Didattiche per Ambienti Di Apprendimento", che significa in soldoni che invece di spostare gli insegnanti dall'aula della classe A all'aula della classe B, sposti le classi dall'aula dell'insegnante A all'aula dell'insegnante B. Come tutte le didattiche, ha una sua funzionalità: ad esempio negli USA diverse materie sono opzionali, per cui è normale che gli studenti cambino non soltanto aula, ma proprio classe, ovvero trovino altri studenti, a seconda della materia. Da noi però succede questa cosa, che molte novità vengono accettate un po' alla svelta perché bisogna semplicemente mostrare ai genitori che stiamo innovando, e a parte questo non è che possiamo permetterci più elasticità di tanto, perché l'organico è quello che è (anzi lo tagliano), quindi le classi rimangono le stesse, però... cambiano aula. Se lo chiedete a me, spostare classi di 25 ragazzi invece che insegnanti singoli è un'autoevidente assurdità logistica, che serve semplicemente per limare altri minuti di intervallo tra una lezione e l'altra: è normale che gli studenti se ne dicano entusiasti, così come molti genitori che appunto, come me sono cresciuti più coi telefilm americani che con Leopardi. Poi in questo modo servono gli armadietti, vi immaginate? Proprio come nelle highschool, ma quanto sarà figo? Quindi qual è il problema?

Mah, ditemi voi. Se l'insegnante A resta fermo nella sua aula A, e l'insegnante B nella sua aula B, cosa succede nei corridoi compresi tra A e B? Esatto, un sacco di ragazzi di tutte le classi liberamente in giro. Capite che ci sono le premesse per cominciare anche noi a scrivere film e serie in cui ci si accoltella sui pianerottoli, è finalmente un gap con la scuola anglosassone che stiamo per colmare, vi immagino entusiasti, e poi tra vent'anni da tutto questo bullismo chissà che geni incompresi verranno fuori, che Spielberg, che Watterson, finalmente. 

mercoledì 19 marzo 2025

Oggi a Gaza, domani a chi

Mondoweiss
Nei giorni migliori mi concedo di pensare che se pure Gaza verrà annientata – cosa può restarne, dopo l'ennesimo bombardamento? – il suo sacrificio non sarà stato vano. L'empio è caduto nella trappola tesa con le proprie mani. Tempo una generazione, e anche i suoi discendenti avranno vergogna di lui. Ci domanderanno: come è potuto succedere? E noi che abbiamo assistito a tutto questo, anche se troppo spesso distoglievamo lo sguardo per sopravvivere, qualche spiegazione potremo offrirla. Gaza dimostra, bruciando, che ogni nazionalismo – anche il più nobile, anche il più giustificato – ha un esito disumano. Se persino il popolo più oppresso può diventare tanto spietato con un altro popolo in cui avrebbe tanti motivi per specchiarsi: se persino Israele può diventare in breve tempo il Faraone, l'argomento è chiuso. Qualcuno obietterà che dopo il Novecento non c'era nemmeno bisogno di riaprirlo: che Gaza è una lezione non solo atroce, ma ridondante. Ma nei giorni migliori vorrei riuscire a trarre anche da un massacro qualcosa di utile.

Nei giorni peggiori temo che sia solo l'inizio: che i tabù infranti a Gaza quando l'artiglieria ha cominciato a bersagliare ospedali e scuole non siano che i primi bagliori di una nuova era di massacri abbacinanti. Che la Palestina sia soltanto il punto nevralgico dove prima che altrove l'edificio umano manifesta le sue crepe. E no, nessuno si domanderà come sia potuto succedere, perché succederà ancora e ancora in Cisgiordania o in Yemen e in tanti altri luoghi, finché magari non succederà a noi, se non ci saremo trovati un padrone abbastanza potente. Ma se già oggi per molti di noi è normale che sia successo, perché le prossime generazioni dovrebbero trovarlo illogico, o sbagliato? Chi di noi ha assistito a tutto questo lamentandosene, passerà per un pazzo o un inetto. Chi corregge il beffardo si attira insulti, chi riprende l'empio riceve affronto.

Non so che dire, ma credo che siamo a un bivio importante. Ci sono stati in passato massacri peggiori che Gaza, ma nessun massacro è stato così ben documentato, e a volte mi domando se non sarà davvero questo a perderci definitivamente. Perché dovremo scegliere: o cancellare tutto, dimenticare, per poi magari riscoprire quanto accaduto tra una generazione, quando vergogna e sensi di colpa saranno scesi entro limiti accettabili – o normalizzare tutto, come i ragazzi israeliani che fanno i balletti scemi su tiktok, come tutti i ragazzi del mondo, ma sui ruderi dei bombardamenti, indossando la biancheria di profughi e di morti, e irridendo il loro accento. Non riesco sinceramente a pensare a qualcosa di più osceno, ma è perché sono stato cresciuto in un certo modo, in particolare con un rispetto per la vita umana che in questi giorni mi sta paralizzando. Se fossi un giovane israeliano non potrei permettermelo, se fossi un giovane israeliano dovrei salvare la mia nazione dal perfido nemico stupratore e rapitore, e se anche solo per un istante pensassi a lui come a un essere umano, quel dubbio mi travolgerebbe, in certi casi potrebbe uccidermi. Se fossi un israeliano che telecomanda droni assassini su una popolazione inerme concentrata in quella che il mio governo aveva definito una safe zone, che potrei pensare? Devono essere bestie, altrimenti non mi sarebbe concesso ucciderli. E per essere sicuro che siano bestie, devo allenarmi a trattarle come tali. Sarà questo il nostro futuro


In fondo non è troppo diverso dal nostro passato. Per quanto terribilmente aggiornata, la violenza degli israeliani è socialmente molto simile a quella scatenata dagli imperi coloniali, soprattutto nelle zone dove gli europei cercavano di radicarsi. Per questo il paragone più preciso non è quello abusato con la Germania nazista, ma l'apartheid sudafricano, e forse la questione irlandese. Così, nei giorni migliori mi ricordo che anche l'apartheid sembrava invincibile, e per decenni l'Ulster è rimasta una piaga aperta. Forse un giorno anche a Gaza tutto questo sembrerà assurdo come dovrebbe sembrarci il passato. L'empio sarà preso nelle proprie iniquità, tenuto stretto dalle funi del suo peccato. L'empio fa un'opera illusoria, ma chi semina giustizia ha una ricompensa sicura.

martedì 18 marzo 2025

Un alieno a Lucca

18 marzo: San Frediano (✝ 588), patrono di Lucca. 

San Frediano devia il Serchio (Filippo Lippi)

Parlando del sesto secolo, devo confessare un pregiudizio: secondo me non abbiamo la minima idea di cosa sia successo. In Italia, perlomeno. Altrove era quasi un secolo decente, in Persia addirittura un buon secolo: ma da noi, quando si parla di epoche buie, alla fine stiamo parlando del secolo VI. Ci siamo entrati che eravamo praticamente ancora cittadini Romani – di un impero momentaneamente sospeso, ma da neanche trent'anni – ne siamo usciti che non avevamo la minima idea di chi fossimo e dove ci trovavamo a vivere. Nel secolo precedente erano arrivati Eruli, Goti e tanti altri, ma in un qualche modo un equilibrio si era trovato; Teodorico era stato un re migliore di tanti imperatori fantoccio. Nel quinto secolo il tentativo dei Romani d'Oriente di riconquistare l'Italia porta a una guerra di trent'anni che spiana la strada a un'epidemia che potrebbe avere dimezzato la popolazione. Quando alla fine i figli di conquistati e conquistatori sembrano aver recuperato un modus vivendi, ecco arrivare i Longobardi che probabilmente hanno le idee meno chiare di tutti. Questi avvenimenti poi ci vengono narrati per lo più da uno di loro (Paolo Diacono), però vissuto due secoli dopo e determinato a dimostrare che i Longobardi avevano proprio fatto bene a riportare pace e ordine in una penisola disastrata: ma è forte il sospetto che Diacono, oltre a dover recuperare fatti e detti ormai remoti, stia cercando nella storiografia una compensazione per le sconfitte più recenti che hanno reso i Longobardi sudditi dei Franchi. Lo stesso Diacono alla fine è un funzionario alla corte carolingia, probabilmente bullizzato in quanto Longobardo, e chissà quanta bile spurgava scrivendo storie su quanto nobilmente i suoi antenati avevano governato i loro pezzi d'Italia. Così insomma quel poco che sappiamo sul sesto secolo italiano ci arriva da fonti non così attendibili, e questo spiegherebbe come mai sia il periodo in cui gli agiografi si sfrenano e inventano, per certi Santi, storie meravigliose che nessuno può andare a confutare.

Prendi San Frediano: nella sua storia, per come c'è arrivata, non c'è molto che abbia senso. Tanto per cominciare era irlandese – o almeno avrebbe sostenuto di esserlo: il suo nome all'inizio suonava come "Frigianu" che potrebbe essere irlandese come frigio, ed era figlio di un re dell'Ulster in un periodo in cui nelle Isole Britanniche c'erano più re che avvocati – sul serio, probabilmente se avevi un po' di terra, un'azienda agricola con qualche centinaio di servi, ti proclamavi re del tale scoglio e nessuno aveva argomenti per contestare la tua intronizzazione. Detto questo, che accidenti ci fa il figlio di un re dell'Ulster in Toscana nel secolo più brutto della storia d'Italia? Ma che domande, fa l'eremita su un monte tra Lucca e Pisa. Cioè di montagne non ne poteva trovare di più vicine a casa? Beh, in Irlanda effettivamente no. Ora, non è escluso che l'Italia centrale fosse già un polo di attrazione per i pellegrini di tutta l'Europa Occidentale che almeno una volta nella vita volevano vedere Roma e le tombe degli apostoli: dopodiché alcuni invece di tornare a casa si sceglievano un eremo in Umbria, o Toscana, terre che a mio personale parere non avrebbero avuto bisogno di matti da fuori, ma non è escluso che possa essere successo.
Basilica di San Frediano

Così come non è impossibile che quando gli chiesero da dove veniva, Frediano rispondesse citando in assoluto l'isola più lontana che conosceva, che tutti conoscevano, perché non aveva la minima intenzione di chiarire le sue origini. Magari era pisano e a Lucca per aver successo doveva fingere di venire dall'altro capo del mondo. Oppure era un alieno, o un uomo venuto dal futuro: ipotesi che darebbero un senso a quel che succede poi, perché i lucchesi del sesto secolo decidono che è la persona giusta per fare il vescovo. Ovvio no? La carica ecclesiastica più importante, in un momento in cui il potere amministrativo è vacante o completamente scomparso; una carica evidentemente elettiva, che molto spesso nelle leggende viene assegnata per acclamazione, sicché immaginiamo quanti notabili in città ambissero a un ruolo di tale prestigio e responsabilità, eh però sul monte c'è un eremita che viene da un posto lontanissimo, quindi è meglio acclamare lui. La scelta inconsulta si rivela, neanche a farlo apposta, la più saggia, perché l'eremita venuto da un'isola lontana e pietrosa capisce che il problema n.1 di Lucca è la palude, e che la soluzione non può che essere deviare il Serchio, fino a quel momento un affluente dell'Arno. Il che è effettivamente un'ottima idea: è solo strano che venisse a un eremita di origine irlandese – a meno che laggiù non avessero già iniziato a canalizzare, ma non ne sappiamo nulla. Nella versione più favolosa (riportata anche da Gregorio Magno), a Frediano basta tracciare il segno con un rastrello o col suo pastorale, e il Serchio lo segue in direzione del mare. Sembra un tentativo di spiegare il nome del fiume (in latino sarculus è il rastrello): la classica etimologia popolare, perché gli antichi lo chiamavano Auserculus, piccolo Auser (parola etrusca che secondo Svetonio indicherebbe la divinità). 

In altre versioni, Frediano a Roma non ha solo visitato i luoghi santi ma ha anche studiato idraulica: e malgrado prima che lo disturbassero i lucchesi preferisse farsi i fatti suoi su un monte, ora che è vescovo non vede l'ora di mettere le sue competenze a frutto. Sembra la classica pezza messa da un agiografo un po' più attento degli altri ai problemi di coerenza narrativa, ma avrebbe più senso se Frigiano/Frediano non fosse un semplice eremita, bensì il capo di una comunità monastica, magari di regola irlandese, come quelle che Colombano di Bangor stava cominciando a fondare nella parte occidentale del continente. Purtroppo le date non tornano, perché Colombano non avrebbe lasciato l'Irlanda prima del 590, e avrebbe fondato l'abbazia di Bobbio (oggi in provincia di Piacenza) solo nel 614. Siccome però stiamo parlando del sesto secolo, le date vanno prese con le pinze. Non sarebbe l'unico caso in cui l'iniziativa di bonificare la palude sarebbe stata presa da una comunità monastica, il cui leader non necessariamente era un esperto di idraulica, ma in seno alla comunità era più facile trovarne uno: i monaci erano all'avanguardia per quel che riguardava la trasmissione dei saperi, e avevano già cominciato a ricopiare i manoscritti antichi. La nomina a vescovo potrebbe essere persino la conseguenza, e non la causa dell'opera di bonifica: un abate che ti risolve il problema delle piene è decisamente degno del titolo.

Anche l'erezione del duomo sarebbe una sua responsabilità: non solo l'avrebbe progettato, ma anche spostato miracolosamente i blocchi di marmo più pesanti. In effetti di fianco all'altare maggiore c'è ancora un monolite di pietra calcarea di metri 5,22x4,05 detto il Sasso di San Frediano. Vi si legge, in latino: O tu che leggi, chiunque tu sia: sei di pietra se questa pietra non ti muove all'ammirazione e alla venerazione di San Frediano. È un'iscrizione cinquecentesca: fino a quel secolo il Sasso aveva fatto da base all'altare. Frediano insomma è un superuomo, il sunto leggendario dei fatti di un secolo in cui tra tanta distruzione qualcuno comunque aveva ricominciato a costruire qualcosa, ma chi? già a poche generazioni di distanza nessuno riusciva a ricordarlo, e ai bambini che chiedevano non restava che raccontare che boh, sarà stato Frediano. Ma da dove veniva? Eh, da lontano.

lunedì 17 marzo 2025

Armiamoci, e qualcuno partirà


– La manifestazione europeista di sabato aveva una piattaforma talmente confusa che avrei potuto andarci anch'io – perché per quanto "riarmo" sia una parola indigesta, se si trattasse di sganciarci dagli USA e riconoscere che abbiamo priorità diverse (al di là del matto che cambia idea tutti i giorni, anche prima e dopo di lui gli USA avevano e avranno priorità diverse), se si trattasse di dissolvere la Nato e riprenderci le nostre responsabilità difensive, io non avrei obiezioni. Ma nessuno in piazza ha osato proporlo, e quindi dopo esserci andato mi sarei andato parecchio a disagio. Avrei trovato perlopiù anziani preoccupati non tanto dal rischio di un'escalation militare nell'Europa orientale, ma dal fatto che a est c'è un dittatore cattivo che tortura la gente, cosa che noi europei a quanto pare non facciamo (in effetti queste cose le amiamo delegare). Anziani preoccupati non tanto dalla necessità di ridefinire il nostro rapporto con gli USA, ma perché a ovest c'è un matto cattivo che non rispetta i trattati – come se invece tutte le decisioni che abbiamo preso fin qui fossero sagge e razionali. Dagli anziani ci si aspetterebbe almeno saggezza, e invece sembrano il segmento più eccitato da semplificazioni che fino a qualche anno fa avrebbero trovato offensive.

– La causa di tanta eccitazione e tanta semplificazione sono i quotidiani, di cui i boomer sono ormai gli ultimi lettori. Viene spontaneo ricordare i girotondini di vent'anni fa – la confusione esistenziale di Michele Serra ricorda molto quella di Nanni Moretti. Coi girotondini Repubblica cercava di intestarsi una resistenza antiberlusconiana del ceto medio-riflessivo che dopo le elezioni del 2001 era perlopiù rimasto in casa, terrorizzato prima dal Movimento dei Movimenti bastonato a Genova, e poi dal contraccolpo dell'11 settembre. Ma era un'altra repubblica, e soprattutto un'altra Repubblica. Quella di adesso è, le piaccia o no, l'house organ di Stellantis, che ha bisogno del piano di riarmo molto più di quanto Putin abbia bisogno dell'Ucraina occidentale. Non so quanto Serra se ne renda conto e alla fine temo non abbia molta importanza, se non per una questione mia affettiva che non ha senso approfondire. 

– L'età media era molto elevata, anche se confrontata con quella di un 25 aprile medio. Al 25 aprile la bandiera più sventolata ormai è la palestinese, ieri era proibito portarla: qualche cosa vorrà dire. Dopodiché immagino che gli organizzatori non si siano sospettati neanche per un istante razzisti, mentre parlavano a una piazza tutta bianca (non solo di capelli) dell'eccezionalità della nostra cultura occidentale europea. Nel frattempo a Gaza manca l'acqua potabile perché i nostri alleati israeliani hanno staccato la corrente agli impianti di desalinizzazione. La coincidenza la noteranno più i posteri, forse sarà la cosa che più noteranno della manifestazione di sabato.

– La questione ucraina sembra davvero troppo cruciale e delicata per farla descrivere agli ucraini, che pure in Italia ci sono, ma sui palchi di queste manifestazioni non salgono, non parlano. Forse qualcuno si dimentica di invitarli. Oppure un tipo di retorica è diventata fastidiosa a loro molto prima che a noi.

– Mettiamoci un po' di ottimismo della volontà. È servita una micidiale guerra di posizione con centinaia di migliaia di morti, ma i tedeschi hanno ufficialmente smesso di credere nell'austerità. Ottocento miliardi è una cifra ipotetica, buttata lì per spaventare il nemico, ma una volta accettato che situazioni emergenziali giustificano spese eccezionali, sarà molto più facile individuare le eccezioni, anche perché il futuro di crisi ce ne riserva tante, probabilmente più climatiche che geopolitiche. Ma se possiamo investire in furgoni, purché blindati, si tratterà di convertirli in autoambulanze e camion dei pompieri e siamo abbastanza creativi per farlo. Se poi il M5S torna al governo, non si può escludere che scopriamo la necessità di un bonus facciate per rendere finalmente le nostre dimore sicure anche da un punto di vista strategico: e prima che i tedeschi capiscano che li abbiamo presi in giro anche stavolta, potrebbero passare altre due eurolegislature. Viva l'Europa.

– Credo che Elly Schlein – che da due anni si muove su una lama sottile ondeggiando molto ma non è ancora precipitata – abbia bisogno del sostegno di tutti noi, dove "noi" è un insieme che probabilmente include gente molto più a sinistra di me ed Elly Schlein. Il PD poteva spaccarsi, o appiattirsi sulla linea dell'Armiamoci e Partite che piace molto ai suoi parlamentari, e molto meno ai suoi elettori. È riuscita a elaborare una risposta più complessa, a mantenere la linea e a parare i colpi, presentandosi anche lei in piazza (anzi, è stata tra i primi ad aderire, depotenziando tutta l'iniziativa perché tra la sua idea di Europa e quella molto vaga di Serra c'è una sensibile differenza). Si poteva fare di meglio? Ovviamente. Qualche politico oggi in Italia avrebbe saputo fare di meglio? Guardatevi in giro.

giovedì 13 marzo 2025

L'Occidente e le sue storie

[Questo pezzo è stato pubblicato sul Manifesto del 12/3/2025; nello stesso giorno mi hanno invitato a parlare delle Indicazioni Nazionali a Fahrenheit, su Radio 3 (nei primi minuti). Considerato che le Indicazioni erano uscite il giorno prima, sono stato abbastanza tempestivo. Ma ce ne sarebbe ancora parecchio da dire, davvero è uno di quei casi in cui non si sa da che parte cominciare, salvo che avevo fretta e ho cominciato comunque].

La pietra dello scandalo arriva piuttosto tardi, addirittura a pagina 69 di un documento (la bozza delle «Nuove Indicazioni 2025» per la scuola) che fino a quel momento non sembrava dirompente come certe dichiarazioni avevano fatto intendere.

Finché non si arriva alla voce «Storia», pagina 69, e a un’affermazione perentoria: «Solo l’Occidente conosce la Storia». Segue una citazione di Marc Bloch, che però una tale perentorietà non se l’è permessa: al limite ha riconosciuto che a differenza del cristianesimo «altri sistemi religiosi hanno potuto fondare le loro credenze e riti su una mitologia quasi estranea al tempo umano» (Apologia della storia).

Che questo abbia impedito alle civiltà non occidentali di sviluppare una storiografia e un senso della storia, è un salto logico che Bloch non si permetteva: tanto più fa strano trovarlo messo per iscritto ottanta anni dopo la sua scomparsa. In mezzo c’è stata la decolonizzazione e ci sono stati i postcolonial studies, insomma i momenti per mettere in dubbio il nostro eurocentrismo non sono mancati. La maggioranza della comunità degli studiosi ne ha approfittato: purtroppo non chi ha redatto le Indicazioni Nazionali, che da pagina 69 cominciano a tradire un’impostazione reazionaria. Che è quello che ci si poteva aspettare dal governo più a destra espresso dal parlamento dal 1945 in poi (e certe affermazioni apodittiche potrebbero davvero essere state scritte in quegli anni: «La storia è divenuta… l’arena per eccellenza dove post factum si affrontano il bene e il male variamente intesi. Dove rimane memoria delle imprese degli individui e dei popoli, e si compie in qualche modo il loro destino finale»).

È comunque indicativo che queste affermazioni non provengano da un burocrate di partito, ma riecheggino le posizioni di un illustre membro della commissione di area liberale, Ernesto Galli della Loggia, espresse nei suoi libri: L’aula vuota (2019); Insegnare l’Italia (con Loredana Perla, 2023). Come studioso e cittadino, mi confesso un po’ perplesso davanti a pagine che tradiscono una concezione della Storia così hegelianamente centrata sui noi stessi; pagine che tra l’altro escono con un pessimo tempismo, proprio in quel marzo 2025 in cui questo Occidente compatto, unico portatore di una Storia «come specchio dei progressi dello spirito umano» sembra essersi fratturato. Già molti fieri araldi dell’Occidente stanno sostituendo la parola con «Europa», nei discorsi e nei cortei. Magari in futuro scopriremo di avere più cose in comune con Asia e Africa che con l’America, chi può dirlo – del resto se la Storia ha uno «strettissimo rapporto con la politica», non è così strano che si modifichi ogni volta che si modifica quest’ultima.

Come insegnante, mi consolo pensando che all’atto pratico non è che le cose cambino molto; l’unica novità è questa idea balzana di stirare la Storia di prima media da Carlo Magno alla rivoluzione industriale (Lutero e Galileo diventeranno mere comparse). Quanto alla Storia africana e asiatica, sui manuali ne abbiamo sempre trovata pochissima. Coi nostri studenti di origine extraeuropea ci scusavamo dicendo che era una lacuna di tutto il nostro sistema: ecco, le Indicazioni ci propongono di non chiedere più scusa. Pazienza se metà delle nostre classi proviene da famiglie che si riconoscono in altre storie. Spiegheremo loro che non sono storie interessanti. Dopodiché cresceranno, e un giorno in cattedra ci saranno loro. Probabilmente per allora questa pagina 69 sarà solo un remoto ricordo, di quando ancora qualche prof bianco si ostinava a voler spiegare soltanto la Storia dei bianchi.


mercoledì 12 marzo 2025

Il gesuita che doveva sparire

12 marzo: Beato Rutilio Grande Garcia (1928-1977), sacerdote salvadoregno.

(Non c'entra nulla, ma stamattina dovrebbe esserci un pezzo mio sul Manifesto, magari interessa).

https://www.jesuits.global/it/2019/02/01/tributo-a-rutilio-grande-sj/

Affacciato sulla strada che collega il borgo di El Paisnal con la cittadina di Aguilares (El Salvador), c'è ancora un monumento con tre croci metalliche che spuntano dal marmo. Ormai nessuno lo tocca più, ma i primi anni furono complicati. Le croci a volte venivano divelte, persino il marmo si sgretolava o spariva. Non si trattava di miracoli, ma dei trattori degli squadroni della morte. Le croci segnavano il punto in cui il 12 marzo del 1977 le loro pallottole avevano raggiunto l'auto dove viaggiavano padre Rutilio Grande, il catechista settantaduenne Manuel Solórzano e Nelson Rutilio Lemus. Quest'ultimo era un ragazzo di sedici anni, che con Rutilio e Manuel andava a celebrare la novena di San Giuseppe nel villaggio natale di padre Rutilio. Altri tre ragazzi nell'autovettura rimasero indenni, e al processo identificarono gli squadristi, che comunque furono assolti. L'obiettivo era evidentemente padre Rutilio (bersagliato da dodici pallottole), che malgrado avesse rinunciato a un ruolo prestigioso nel seminario di San Salvador per occuparsi di una semplice parrocchia, continuava a dare molto fastidio ai proprietari terrieri. Di Rutilio doveva scomparire anche la memoria: il busto in marmo che lo ritraeva fu fatto saltare in aria pochi giorni dopo l'inaugurazione. L'autore, lo scultore spagnolo Pedro Gross, scampò a un attentato e preferì lasciare il Paese.  

Pedro Gross con il busto dedicato a Padre Rutilio 

Chi ancora ricorda la guerra civile che insanguinò El Salvador negli anni Ottanta, sa che scoppiò in seguito all'assassinio del vescovo Oscar Romero, mentre officiava una messa, nel 1980; uno dei martiri più scenografici della storia della Chiesa, perché il cecchino scelse di colpire il vescovo proprio durante l'elevazione, mentre reggeva ostia e calice (ricordo la didascalia del fumetto pubblicato dal Piccolo Missionario: "il sangue del vescovo si mescola a quello di Cristo"). Si tratta probabilmente del momento più adatto per sparare a un sacerdote officiante: ha le braccia alzate, il petto necessariamente proteso. Ma sembra anche un riconoscimento dell'assassino nei confronti della sua vittima, quasi una confessione: devo ucciderti, ma non posso evitare di fare di te un martire, un eroe. La crudezza con cui fu eliminato può suggerire l'impressione che Romero fosse uno di quei cristiani militanti che in quegli anni avevano spostato il baricentro verso la sinistra dei campesinos – col risultato di attivare la reazione di forze nazionaliste che potevano contare sull'appoggio dell'esercito e il benestare del Pentagono. Ma Romero non era un teologo della liberazione, anzi: quando fu nominato vescovo di San Salvador, all'inizio del 1977, passava per un conservatore, o in ogni caso un uomo di Chiesa che non intendeva immischiarsi nella politica. A trasformarlo nel leader dell'opposizione salvadoregna fu la strage di Aguilares. Rutilio era un suo collaboratore, e probabilmente un suo amico; Romero accorse subito a El Paisnal per celebrare una lunga messa che doveva servire anche a placare gli animi. La domenica, tutte le celebrazioni salvadoregne furono sospese: centocinquanta sacerdoti co-celebrarono con Romero un'unica messa nella cattedrale, per ricordare Rutilio, Solórzano e Lemus. E siccome per il governo si trattava di un semplice e increscioso caso di delinquenza comune, il vescovo annunciò che non avrebbe più preso parte a eventi ufficiali finché il governo salvadoregno non avesse identificato e punito i colpevoli. Il governo non li identificò mai, e nei tre anni che gli rimanevano da vivere Oscar Romero non strinse più la mano a un solo politico salvadoregno, diventando la voce più autorevole dell'opposizione al regime. 

Monumento a Romero e Grande, El Paisnal

Neanche Rutilio dava l'impressione di essere un rivoluzionario. A leggere un po' di testimonianze sembra di riconoscere quel tipo di prete timido che da adolescente può sentire il richiamo della vita sacerdotale perché sembra venire incontro alle necessità di un temperamento introverso: la promessa di un'esistenza pacifica, l'inserimento in una comunità dove ci si aspetta di svolgere un ruolo utile ma non troppo appariscente. Dopodiché Rutilio ha la trovata di entrare nei gesuiti sudamericani proprio nei terribili anni Settanta, il che lo porterà a diventare il leader di intere comunità di proletari angariati da una classe proprietaria avida e assassina; ruolo che Rutilio accetterà con cristiana rassegnazione e (sembra) non troppo entusiasmo. Mentre era già in macchina, quella sera, e forse aveva capito di essere seguito, i ragazzi gli sentirono dire: "Bisogna fare quel che Dio vuole". 

Alla fine degli anni Settanta, El Salvador era un esperimento sociale fuori controllo. Tra i Paesi continentali dell'America Centrale è sempre stato il più piccolo e il più popolato; la presenza di più manodopera a basso costo aveva attirato a partire dagli anni Sessanta gli investimenti delle multinazionali della frutta, che avevano favorito il Salvador rispetto al Paese confinante e complementare, l'Honduras: quest'ultimo meno popolato, più povero, ma più vasto e dotato di uno sbocco strategico sull'Atlantico che al Salvador manca. Lo squilibrio era potenzialmente esplosivo, ed esplose nell'estate del 1969 in quel conflitto eternato dal reporter Ryszard Kapuściński col nome di "Guerra del calcio", perché scoppiò dopo un match tra le due nazionali. Purtroppo il nome lascia intendere un trionfo dell'irrazionalità tra due nazioni di tifosi regrediti a uno stadio barbarico a causa della passione sportiva. Ma la guerra scoppiò dopo la partita probabilmente per evitare che quest'ultima fosse annullata (era uno spareggio per qualificarsi ai mondiali del Messico): e a provocarla furono i vincitori sul campo di gioco, ovvero i salvadoregni. La posta in gioco era molto più cruciale: l'Honduras, dopo aver accolto trecentomila immigrati dal Salvador in piena esplosione demografica, li aveva rimandati alla frontiera disattendendo gli accordi presi con lo Stato confinante. Il Salvador attaccò per i solito motivi razionali per cui una nazione attacca un'altra, ovvero aveva un esercito più numeroso e organizzato, e per qualche giorno sembrò vincere proprio per questo motivo; dopodiché cominciò a ritirarsi proprio come succede agli eserciti più numerosi e organizzati una volta esaurito lo slancio iniziale. L'armistizio certificò che i confini restavano gli stessi; il che significava che il Salvador aveva pagato un prezzo rilevante in vite umane per ritrovarsi con lo stesso problema iniziale, perché quasi tutti i trecentomila profughi che in teoria avrebbero potuto tornare in Honduras, non osarono farlo. Si ritrovarono disoccupati in uno Stato grande quanto una regione italiana, dove la ricchezza era divisa equamente tra quattordici famiglie e anche le piantagioni delle multinazionali non assumevano più. Alcuni aderirono alle forze rivoluzionarie di matrice comunista che nel 1980 sarebbero confluite nel Fronte Farabundo Martí; altri si rivolgevano alle parrocchie, e trovavano sempre più spesso sacerdoti disposti ad ascoltare le loro rivendicazioni: i seguaci di quella "teologia della liberazione" che ai proprietari sembrava più indigesta del comunismo. 

Il 6 agosto in Salvador è festa nazionale. Il 6/8/1970, in una messa solenne alla presenza del governo, Rutilio aveva definito Gesù Cristo il "Rivoluzionario numero uno della Storia". In pieno entusiasmo postconciliare citava l'enciclica Populorum progressio di Paolo VI: "i contadini prendono coscienza, anch’essi, della loro miseria immeritata”, e proponeva una "trasfigurazione evangelica" della nazione, niente più che la realizzazione del motto riportato sulla bandiera: Dio, unione, libertà. Con queste parole commosse il generale Fidel Sánchez Hernández (il presidente che aveva trascinato il Salvador nella Guerra del Calcio), che gli fece dono di una copia della Costituzione da cui non si sarebbe più separato; si espose alle critiche del clero più tradizionalista e si giocò la candidatura già avanzata a direttore del seminario nazionale. Se la cosa lo scosse, non lo diede a vedere: chiese al vescovo una parrocchia qualsiasi e accettò (malvolentieri) quella che includeva il suo villaggio natìo. Da qui in poi, più che con le parole, avrebbe parlato coi fatti. Il passaggio dal latino allo spagnolo, sancito dal Concilio, forniva l'occasione per alfabetizzare i contadini: avrebbero imparato a leggere il vangelo, ma anche i loro diritti costituzionali. Un altro suo discorso, otto anni più tardi, lo espose di nuovo all'attenzione di osservatori sempre più incattiviti: un suo collega sacerdote (Mario Londono) era stato prima sequestrato da un gruppo paramilitare, poi liberato dall'esercito che però aveva approfittato del fatto che fosse di nazionalità colombiana per deportarlo. Padre Rutilio aveva reagito accusando apertamente le autorità. "So bene che molto presto anche a Bibbia e Vangelo non sarà più concesso di attraversare il confine. Solo le copertine riusciranno ad arrivare da noi, dato che tutte le pagine sono sovversive. Al punto che se Gesù passasse il confine a Chalatenango, non gli consentirebbero di entrare. Lo accuseranno, il figlio di Dio, di essere un agitatore, uno straniero ebreo venuto a confondere il popolo con idee esotiche, straniere, antidemocratiche... Fratelli, senza dubbio lo crocifiggerebbero di nuovo". 

Non solo Gesù non riuscì a passare, ma Rutilio fu ammazzato tra El Paisnal e Aguilares: e anche la sua statua fu fatta esplodere, le croci sulla strada fatte sparire. Tre anni dopo fu ucciso Romero ed El Salvador divenne uno di quei Paesi di cui si parlava sempre verso la fine del telegiornale, ogni giorno centinaia di morti: per cui ce lo immaginavamo grandissimo, altrimenti come potevano morirne tanti tutti i giorni? Gli americani sostennero gli squadroni della morte, dopodiché ci fecero un film, credo con James Belushi. Oggi il presidente è un imprenditore di origine palestinese che ha reso i bitcoin una valuta nazionale. Garcia, Solorzano e Remus sono stati beatificati nel 2022; Romero è stato canonizzato nel 2018 da Papa Francesco.

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