Oltre a manifestare la mia (scontata) solidarietà per il mio collega Christian Raimo, faccio presente che tuttora, cercando per esempio "Christian Raimo ministro Valditara" su un motore di ricerca, è molto facile trovare contenuti che sono diffamatori sia nei confronti di Raimo, sia nei confronti del ministro. E non sono siti amatoriali. C'è per esempio un articolo dell'Ansa titolato così:
Leonardo
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Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
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domenica 10 novembre 2024
[Raimo non ha mai detto] Valditara cialtrone
sabato 9 novembre 2024
Agrippino, il patrono di scorta
9 novembre: Sant'Agrippino, co-patrono di Napoli, ma ce ne sono altri 46...
Una cosa che ho scoperto di San Gennaro – sì, lo so, dovrei parlare di Agrippino, oggi è la festa di Agrippino – ma una cosa che ho scoperto da qualche tempo su San Gennaro è che i francesi che entrarono nella Napoli insorta del 1799 lo arruolarono letteralmente nella rivoluzione, blandendo o minacciando il vescovo in carica affinché il sangue nell'ampollina si liquefacesse: per quanto rappresentanti di una civiltà laica, illuministica, diciamo pure anticlericale, una volta arrivati a Napoli i francesi fecero questa mossa già postmoderna di calare il berretto frigio sull'aureola del santo più popolare in città. Di lì a poco anche il Vesuvio eruttò: senza dubbio una coincidenza, ma è dal Seicento che la popolarità di Gennaro è legata all'attività del vulcano. I cronisti dicono che l'eruzione fu presa come un buon auspicio, il che è curioso: perlomeno io nella situazione avrei pensato l'esatto contrario. Perché sono il solito pessimista, oppure so già che quando i francesi se ne andarono, in città piombarono i sanfedisti, l'esercito contadino organizzato dal cardinale Ruffo: arrestarono i giacobini e riportarono sul trono Ferdinando Borbone, che si rimangiò immediatamente la costituzione e tutte le concessioni liberali. Non solo, ma si permise qualcosa di inaudito: siccome anche San Gennaro era stato rivoluzionario, gli revocò il patronato della città. Al suo posto fu proclamato patrono di Napoli Sant'Antonio Abate (che patrono rimase fino all'eruzione del 1831), il che è una vera ingiustizia, se non altro nei confronti degli altri 46 copatroni che da secoli facevano la scorta al santo più popolare. Prendi ad esempio Sant'Agrippino. Non se lo meritava lui, il patronato? Tutti quei secoli passati all'ombra di Gennaro non erano dunque serviti a niente?Agrippino è uno dei tanti santi che non ce l'ha fatta. Quelli di cui non parla più nessuno, sapete come funziona, no? Ogni volta che leggete di una storia di successo, dovete calcolare centinaia di altre storie che quel successo l'hanno mancato, di poco o di tanto. Uno su mille ce la fa – e noi di solito conosciamo la sua storia, non quella degli altri 999. Gli anglofoni lo chiamano survivor bias, pregiudizio del sopravvissuto. Agrippino fino a un certo punto aveva tutte le carte in regola per diventare un grande santo. Nessuno ha mai capito in che secolo sia vissuto, ma in una delle più antiche liste dei vescovi partenopei, era contato come sesto: e se dei primi cinque si sapeva pochissimo, di Agrippino si ricordavano alcuni miracoli, e soprattutto si conosceva il luogo dove era stato sepolto: le catacombe di Capodimonte. Anche se molto presto cominciarono a essere chiamate Catacombe di San Gennaro, è intorno ai resti di Agrippino che il complesso cimiteriale aveva preso forma. Gennaro inoltre è pur sempre un forestiero, a differenza di Agrippino non fu mai vescovo di Napoli. Avrebbe svolto il suo ministero a Benevento, per poi essere martirizzato a Pozzuoli e sepolto inizialmente nell'Agro Marciano. Sarebbe stato un vescovo-duca di Napoli, Giovanni I, a portare le spoglie di Gennaro nelle catacombe che forse al tempo si chiamavano di Agrippino.
Una volta arrivato, Gennaro comincia inesorabilmente a eclissare il collega più anziano e più local, tanto che nel IX secolo nei pressi della catacomba sorge un monastero dedicato soltanto a lui. Agrippino non si rassegna, e nel secolo successivo lo stesso monastero viene chiamato "di San Gennaro e Sant'Agrippino". A questo punto i due santi, vissuti in città diverse e in periodi diversi, sembrano poter diventare una di quelle strane coppie di santi protettori della città, come Pietro e Paolo a Roma (un lontano ricordo dei mitologici dioscuri). I due compaiono assieme per esempio nella raccolta dei Miracoli di Sant'Agrippino, composta più o meno in questo periodo. Nel frattempo i loro resti erano stati traslati nella nuova cattedrale, assieme ai resti di altri protettori che si accumulavano man mano che la città aumentava la sua prominenza. Di Agrippino si smise di parlare, e del resto anche Gennaro conobbe una relativa eclissi della sua popolarità, più o meno fino al 1389, quando una cronaca registra per la prima volta la cerimonia delle ampolline. Di Agrippino non si conservavano reliquie altrettanto suggestive: anzi non si custodiva più nulla perché dopo due o tre traslazioni il corpo era scomparso. Solo nel 1774 venne rinvenuta un'urna di marmo contenente "reliquie incerte", sull'etichetta è scritto così, "che si pensa siano il corpo di Sant'Agrippino".
Nel frattempo il collega è ormai diventato una celebrità assoluta: il tesoro accumulato dai fedeli rivaleggia con quello della corona inglese, e ad Agrippino non ci pensa più nessuno. Ma non è detta l'ultima parola: è già successo, nel corso dei secoli, che un santo ormai sconosciuto tornasse sulla bocca di tutti. Di solito basta risolvere un grosso problema, un'epidemia o una calamità naturale: possibilmente non un vulcano, ormai è chiaro che se i napoletani si salvassero da un'eruzione, ringrazierebbero Gennaro e non lui: il vulcano ormai è preso. Ma Napoli è una città generosa di sciagure: c'è il bradisismo, le epidemie, e chissà cosa ci riserva nei prossimi anni il riscaldamento globale. La sensazione è che ci sarà lavoro per tutti e 47 i protettori, e una speranza per Agrippino.
venerdì 8 novembre 2024
Quattro santi incoronati (anzi 13)
8 novembre – Quattro Santi Incoronati
Nanni di Banco ftg Donatello |
Quello dei QSI è il classico caso in cui una leggenda ispira un monumento (in questo caso una chiesa del VI secolo a Roma, sul colle Celio) ma poi viene dimenticata, al punto che qualcuno, di solito un monaco, ritiene necessario inventarne un'altra che spieghi la natura del monumento stesso. E fin qui la matassa non sarebbe così difficile da sbrogliare. Ma in diversi casi, nel giro di qualche secolo, interviene un ulteriore monaco che conosce sia la prima leggenda sia la seconda: e invece di sceglierne una ed eliminare l'altra... cerca di fonderle in una sola. È l'incubo dei filologi moderni: lo scrivano pasticcione, creativo, volenteroso. Come sarebbe tutto molto più semplice se i monaci medievali fossero stati gli aridi copiatori che tutti credono. Magari. E invece no: interpretavano, cercavano di migliorare i testi che avevano sotto mano, li mescolavano ad altri testi... un caos.
I primi cenni sicuri a una basilica dedicata ai Quattro Incoronati dovrebbero risalire al VI secolo. Nessun cronista sente la necessità di spiegare perché, oltre a essere quattro, dovrebbero essere incoronati; ovvero, la corona è un simbolo associato sin dai primi secoli al martirio, per cui forse all'inizio si trattava di un semplice sinonimo per "martiri". Ma non è affatto chiaro, e in linea di massima nessun altro martire è definito ufficialmente "incoronato". La Passio che per prima racconta la loro storia è molto dibattuta: qualcuno la fa risalire addirittura al IV secolo, ma la più parte degli esperti propende per una datazione più tarda (VI o VII) che rende plausibile l'intervento di uno scrivano pasticcione. Costui ci racconta di quattro scalpellini vissuti a Sirmio, in Pannonia (oggi pianura ungherese), straordinariamente bravi nel loro mestiere e per questo invidiati dai colleghi. Questi, avendoli osservati mentre si facevano il segno della croce, deducono trattarsi di quattro stregoni in grado di fare apparire magicamente dalla pietra qualsiasi cosa. I quattro artisti (chiamati Claudio, Castorio, Simproniano e Nicostrato), si difendono dichiarando la loro fede cristiana, e causando la conversione di alcuni colleghi, tra cui un Simplicio che si farà battezzare da Cirillo, già vescovo di Alessandria, condannato ai lavori forzati nella stessa cava di marmo. Nel frattempo la loro abilità ha attirato l'attenzione dell'imperatore Diocleziano, il quale li mette alla prova commissionando loro una serie di raffigurazioni: troni, vittorie, corone, amorini, il sole sul suo carro: non sembra esserci un limite alle capacità di questi quattro scultori. E invece un limite c'è, e Diocleziano lo scopre quando chiede ai quattro di modellare una statua del dio Esculapio; i quattro (che ormai con Simplicio sono cinque) non possono obbedire e dichiarano, col loro rifiuto, di essere cristiani. La leggenda sembra contenere un'eco remota della polemica iconoclastica, perché di solito i santi vengono processati per non aver voluto sacrificare agli dei; solo i Quattro Coronati si rifiutano di ritrarli.
Diocleziano non è quel tipo di imperatore che si faccia sfuggire l'opportunità di uccidere dei cristiani; a malincuore, perché si trattava di ottime maestranze, consegna i Quattro più uno a un magistrato che non perde tempo a condannarli a morte: cinque casse piombate vengono rovesciate nel Danubio. Nicomede, loro discepolo, ne recupererà i corpi. A questo punto l'autore della Passio avrebbe dovuto inventarsi qualche complicata e miracolosa vicenda attraverso cui i resti dei Quattro (più Simplicio) sarebbero giunti a Roma; e invece no: decide di aggiungere una postilla alla storia che la rende molto più tortuosa, e lascia intendere la necessità di giustificare una tradizione diversa, secondo la quale i Quattro del colle Celio sarebbero soldati romani. Ma com'è possibile, se sono annegati in cinque casse piombate sul Danubio? La leggenda prevede che l'anno successivo Diocleziano faccia erigere un tempio a Esculapio a Roma. Durante l'inaugurazione è previsto che i legionari facciano un sacrificio al dio, ma quattro sottufficiali (corniculari) si rifiutano, rivelando così il loro cristianesimo. Diocleziano li fa flagellare a morte proprio nell'anniversario del martirio dei Quattro scalpellini pannonici; san Sebastiano ne recupera i corpi e li fa seppellire al terzo miglio della via Labicana. Il papa Milziade stabilisce che vengano venerati come martiri, e siccome nessuno conosceva i loro nomi, li ribattezza post mortem coi nomi dei quattro scalpellini morti nello stesso giorno: Claudio, Nicostrato, Simproniano e Castorio. Ed ecco spiegato perché i Quattro Coronati sono cinque scultori, ma anche quattro legionari, per un totale di nove martiri.
Senonché, ce ne sono altri quattro: Secondo, Carpoforo, Vittorino e Severiano. Questi ultimi compaiono un un'altra Passio (dedicata a San Sebastiano), e si trovano già raffigurati nelle decorazioni delle catacombe di Albano, risalenti al V secolo. Si tratterebbe di quattro legionari martirizzati sempre da Diocleziano, e sempre per non aver voluto sacrificare ad Esculapio; ma sulla via Appia. Può darsi che si tratti di una leggenda successiva, ma anche di quella originale, che lo scrivano pasticcione avrebbe rielaborato a modo suo.
Il successo dei Quattro Incoronati dipende soprattutto dal fatto che, in quanto scalpellini, in molte zone d'Europa diventano protettori di scultori, intagliatori e artisti in generale: e come tali molto spesso soggetti di ritratti scolpiti e dipinti, anche per orgoglio corporativo. Il sospetto è che parte del mistero intorno ai QSI non dipenda dall'incrostarsi di leggende diverse, ma sia stato in parte alimentato dagli operatori della categoria, che più di altre era gelosa dei propri segreti professionali. Addirittura i Quattro – talvolta raffigurati con scalpello, cazzuola o altri strumenti del mestiere – vengono reclamati come fondatori e protettori della massoneria, perlomeno dalla loggia inglese dei Quatuor Coronati.
Una leggenda più suggestiva che credibile è quella riportata da Giorgio Vasari su Nanni di Banco, l'autore del gruppo marmoreo dei Quattro Coronati in una delle nicchie della chiesa fiorentina di Orsanmichele. Nanni, dopo aver sbagliato le misure delle statue, avrebbe potuto contare sull'aiuto del maestro Donatello, che gliele avrebbe scorciate e ravvicinate in cambio di una cena. Peccato che le due statue riaccostate facciano parte di un unico blocco di marmo.
mercoledì 6 novembre 2024
Pavia è una provincia della mente
– Tutti con in mano birra e Camogli / noi senza fidanzate troie né mogli. Sidney Sibilia continua a raccontare la stessa storia, il che non è per forza un male, finché la sa raccontare. Ci sono scelte che a questo punto dobbiamo accettare come autoriali, ad esempio il fatto che non senta la necessità di costruire un personaggio femminile non dico complesso (neanche i personaggi maschili sono molto complessi), ma almeno un filo simpatico. Era una cosa che saltava agli occhi già al secondo Smetto quando voglio, nel momento in cui persino la necessità di raddoppiare i membri della banda non portava all'ingresso di nessun cervello in fuga femminile: in un film di simpatici mascalzoni le donne dovevano restare esclusivamente Principi di Realtà incarnati, poliziotte o fidanzate incazzose. In dieci anni Sibilia avrebbe avuto tutto il tempo per imbarcare qualche ragazza terribile nelle sue ciurme di simpatici corsari, ma se controllate non è successo, anzi il contrario: mentre Hollywood persevera nel piano di portare le donne a vedere i supereroi ficcando attrici donne nei costumi da supereroi, Sibilia persiste ostinato in un immaginario anni '80 in cui le ragazze sono confinate ai bordi della storia, donzelle da salvare o trofei da conquistare. La Silvia dell'Uomo ragno è persino più antipatica della Gabriella dell'Isola delle rose: gli sceneggiatori non si preoccupano nemmeno di occultare quanto il suo interesse per Max sia direttamente proporzionale all'affermazione commerciale di quest'ultimo. Le storie di Sibilia, dobbiamo accettarlo, sono storie di maschi: forse non è in grado di raccontarne altre, forse filano così bene proprio perché non prova nemmeno a farle diverse. E anche al pubblico femminile piacciono così, mi pare.
– Potrebbe essere una forzatura considerare Hanno ucciso l'Uomo Ragno come un prodotto di Sidney Sibilia, che credo abbia diretto solo la prima puntata. E però tutta la serie aderisce perfettamente a un genere che ha inventato lui, e che malgrado funzioni così bene, continua a girare quasi solo lui: come definirla, una storia alla Sibilia? È indicativo che in italiano non mi venga in mente nessuna etichetta, e in inglese subito una: Rag to Riches, dalla miseria al successo. (È indicativo che in italiano un modo di dire similmente allitterante indichi la situazione inversa: dalle stelle alle stalle). Dove la miseria iniziale non è certo quella dei romanzi anglofoni ottocenteschi; è più una marginalità, una provincialità, dalla quale i protagonisti lottano per affrancarsi con mezzi quasi sempre scorretti: i cervelli in fuga di Smetto quando voglio sintetizzavano molecole proibite, l'ingegnere matto dell'Isola delle Rose costruiva una piattaforma esentasse, Erry taroccava le cassette, e gli 883... no, gli 883 non hanno fatto quasi niente di male, dai. O no? Perché a volte mi viene il dubbio di averli odiati molto, ma a questo punto non ne sono più sicuro.
– Ma chi sarai per fare questo a me. Guardando Hanno ucciso l'Uomo Ragno, mi sono reso conto che conoscevo tutte le canzoni del loro primo disco. Questo è imbarazzante. Ufficialmente io appartengo a quella comunità di persone che gli 883, all'inizio dei Novanta, "non li calcolavano", non riuscivano nemmeno a disprezzarli: erano semplicemente non-musica. Anche dopo le rivalutazioni di rito, credevo di aver sempre provato nei loro confronti una gamma di emozioni che va dall'indifferenza al fastidio. Il fastidio, in particolare, dipende dall'estrema cantabilità dei loro pezzi, che mi restano in testa per settimane intere; l'unica possibilità è sempre stata cambiare immediatamente la frequenza appena li sentivo arrivare, ed evitare come la peste ogni network che frequentavano, ovvero tutti. Dunque io da trent'anni mi sto raccontando di avere sempre evitato gli 883; e tuttavia questo "fastidio" non è mai diventato "odio", come avveniva anche solo pochi anni prima per contenuti merceologicamente simili: tuttora io so di avere odiato il giovane Jovanotti, con un'intensità che lascia alcune tracce nella mia psiche. Laddove no, non ho mai odiato Max Pezzali, perché avrei dovuto? La spiegazione che mi sono sempre dato è cronologica: quando sentii Non me la menare su K Rock Scandiano, io avevo già 18 anni. Non potevo che considerarla roba da ragazzini, e perché mai avrei dovuto prendermela coi ragazzini? Jovanotti era diverso, era un coetaneo che faceva lo scemo, sembrava volerti cavare gli schiaffi dalle mani a forza di sorrisi idioti. Gli 883 sono stati forse il primo prodotto che sembrava destinato a una generazione più giovane. Detestarli sarebbe stato come strappare caramelle ai bambini. D'altro canto, non potevo neanche permettermi di ascoltare un ragazzo più o meno della mia età che cantava "a me piacciono le birre scure e le moto da James Dean" senza provare vergogna per lui. Avrei ascoltato altro, francamente non ricordo nemmeno cosa. I Soundgarden, o gli Stone Roses.
E allora come mai quel primo disco lo so quasi a memoria?
– Basta uscire più di dieci chilometri / Che noi stronzi ci perdiamo. C'è una spiegazione quasi convincente, ovvero: mi avevano bocciato alla prova pratica per la patente. Il primo disco degli 883 esce in un momento in cui non ho ancora il controllo dell'autoradio, e tuttavia esco due o tre sere alla settimana. E siccome vivo in provincia, "uscire" significa infilarsi nell'auto di un coetaneo, sperando che sappia guidare, una cosa che a rifletterci mi dà ancora oggi brividi retroattivi. Il primo disco degli 883 è una delle cassette che imparo a memoria sul sedile posteriore dei miei amici o amiche. Se penso a un altro disco che ho conosciuto in questo modo, mi viene in mente il primo di Ligabue. Non coincidentalmente, in entrambi i dischi c'è almeno un brano che sembra parlare di "noi" che ci aggiriamo nella provincia di notte cercando la vita (e scansando la morte a ogni sorpasso). Ma se la comitiva di Sogni di rock'n'roll sembra quella dei miei amici più vecchi ("qualcuno ha imbarcato, il più scemo le ha prese e ha una faccia così"), quelli di Con un deca e di Rotta per casa di Dio sono di un lustro più giovani, e completamente sterilizzati: nessuno imbarca, nessuno le prende, è tutta gente ancora orfana della sala giochi. Sogni di rock'n'roll mi commuove al primo ascolto, Con un deca mi deprime. Forse per lo stesso motivo per cui a tutti oggi piace rivalutarla. Magari oggi vi piace riconoscervi nelle foto brufolose di quegli anni, ma gli specchi non sono belli quando ti arrivano in faccia senza preavviso. Ligabue ci consentiva di immaginarci un po' più stagionati, un po' più vissuti. Questa casa non è un albergo ci ricordava che vivevamo ancora coi nostri genitori.
– Aeroplano che te ne vai / lontano da qui chissà cosa vedrai. Ci sono altre spiegazioni, apparentemente più profonde, legate ai contenuti. Oggi se un cantante riesce a specchiare due o tre atteggiamenti della sua generazione, ne siamo già abbastanza contenti. Nel 1992 non mi bastava. Ero esigente. Avevo degli ideali, non mi ricordo neanche quali, in ogni caso non tolleravo la mediocrità. I cantanti avrebbero dovuto cambiare il mondo, o almeno provarci; questo Pezzali che si struggeva perché a Pavia c'erano poche discoteche mi ispirava un disgusto abbastanza ideologico. Doveva sembrarmi un involucro vuoto; la sua adolescenza era una sala giochi, il suo obiettivo una discoteca piena di tipe in tacchi alti. Tutto qui, in confronto Ligabue era un esistenzialista. Nel frattempo crescevo, mi diplomavo, università, e intanto facevo volontariato nell'Agesci. Un altro flash: io che tiro giù testo e accordi di Aeroplano per cantarla coi lupetti. I lupetti (10-13 anni) volevano cantare Aeroplano, e io acconsento ad accompagnarli con la chitarra. Capite cosa fa il volontariato alla gente.
– Ma non so se crederci o no. I personaggi di Sibilia vogliono evadere da una mediocrità che può essere economica (Smetto quando voglio), culturale (Mixed by Erry), o... geografica? Hanno ucciso l'Uomo Ragno potrebbe essere sottotitolata 1991 fuga da Pavia. A differenza di tanti altri eroi che "hanno un sogno", per buona parte del percorso Max non sa nemmeno esattamente cosa vuole. Tutti in quegli anni credevamo di poter fare i musicisti e i cantanti: lui nemmeno tanto, sembra arrivarci per caso (un altro flash: a vent'anni finisco di scrivere una canzone. Non so più perché mi ostino a scriverle, tutti i gruppi si sono sciolti, non ho un target preciso, mi aggiro esausto in un sogno inflazionato. La registro, la riascolto. Non è male, è molto cantabile. In effetti è troppo cantabile. Sembra un pezzo di Pezzali. Smetto di scrivere canzoni. Maledetto Aeroplano).
– Due discoteche, centosei farmacie. Quel che Pezzali ha chiaro sin da subito è che non vuole studiare e non vuole lavorare, perlomeno non nel dignitosissimo negozio di suo padre. E ce l'ha con Pavia, ce l'ha con la provincia, dove "non succede mai niente". Una cosa che in quegli anni ho sentito dire da centinaia di persone, che si incontravano in posti dove stava succedendo qualcosa. Un altro flash. Ho lasciato lo scoutismo, ho fondato un circolo culturale con ex compagni di liceo. Fondiamo una rivista, poi ne fondiamo un altra, cominciamo ad attirare un po' di gente. A un certo punto arriva un coetaneo altissimo che s'intende già di musica, mi sembra di conoscerlo perché ai concerti la sua testa spunta sempre tra me e il palco. Ci spiega, dati alla mano, che viviamo in una delle zone più interessanti del mondo per offerta musicale. Ci guardiamo smarriti: siamo in via Giardini, tutt'intorno c'è Modena, tutt'intorno c'è la provincia di Modena. Sbagliato, ci spiega paziente il giovane Damir Ivic: tutto intorno a noi c'è una conurbazione che da Bologna arriva almeno fino a Reggio, dove nel giro di una sera un automunito può spostarsi dal Link al Maffia e godere di una varietà di proposte che si può paragonare solo a quella di Londra (o forse Berlino). Quindi, insomma, cos'è la provincia? È vivere su un'autostrada piena di possibilità, e concedersi il lusso di ignorarle ? In Italia sicuramente esistono province vere, lontane centinaia di chilometri dal progresso economico e culturale: ma non era la realtà mia, o di Pezzali. Si potrebbe argomentare il contrario: gli 883 ce la fanno perché la loro supposta provincialità si può aggirare in cinquanta minuti d'autostrada, che in quei beati anni senza autovelox di notte potevano contrarsi fino a una mezz'ora. Certe zone suburbane di Milano sono peggio servite. Mentre si strugge perché "in questa città non c'è niente", i suoi coetanei probabilmente gravitano già sulla Capitale Morale due o tre sere a settimana, o si godono il clima della città universitaria. Il "niente" che opprime gli 883 è qualcosa di più profondo che anticipa il sottovuoto spinto di molti interpreti della generazione successiva; è uno spazio arredato con accessori/feticci quasi sempre immaginari, in cui ogni tanto irrompe una realtà di mediocrità sconfinata: tappetini nuovi e arbre magique. È una qualità essere i portavoce di una generazione, se poi di quella generazione restituisci un ritratto piatto e sconfortante?– Appuntamento alle nove e mezza ma io / L'ultimo flash: alla biblioteca Delfini appena aperta attacco una pezza a una ragazza, o forse è lei che attacca me. In ogni caso io nel frattempo ho preso la patente, così le propongo una serata al Circolo Left di Ponte Alto, dove al mercoledì non si balla lo ska, bensì c'è Tommaso Labranca che presenta a una dozzina di persone Andy Warhol era un coatto, leggendoci una disamina di Sei un mito che ricordo ancora. Era probabilmente la prima volta che riuscivo a portare fuori una ragazza. A Modena, anzi a Ponte Alto. Il mercoledì sera. Tommaso Labranca in carne ossa faceva l'esegesi degli 883. Ci credevamo in provincia, ci crediamo ancora.
martedì 5 novembre 2024
Spogliarsi in novembre a Teheran
Lei ha lineamenti dolci; le altre un nasone, ehm, diciamo medio-orientale. |
No, ma io sono sicuro che visti da una certa distanza, noi (occidentali) risultiamo abbastanza strani. Faccio un esempio.
Immaginate di vedere una donna seminuda in giro per la vostra città, in un giorno di novembre non troppo caldo come questo. Cosa fareste? Magari niente. Cosa pensereste? Che la ragazza ha un problema, e che forse bisognerebbe avvisare qualcuno, un vigile il pronto soccorso.
Certo, non si potrebbe escludere il movente politico: magari è seminuda in segno di protesta per, boh, l'inquinamento, il riscaldamento globale. Ragioni persino condivisibili, ma lo stesso non vi sembrerebbe il caso di andare in giro così. Cosa può ottenere, a parte un malanno? No, a ogni buon conto davvero è meglio chiamare i vigili. Ecco.
Immaginate la stessa donna seminuda in giro per Teheran, ed ecco, è un'eroina. Teheran è a mille metri sul mare, a novembre può fare abbastanza freddo, e però improvvisamente non avete dubbi: se si è spogliata è per protestare contro un regime maschilista e teocratico. Non solo, ma la sua protesta solitaria ha comunque un senso. E chi ha chiamato le guardie è un infame perpetuatore di un regime teocratico e maschilista. Ora.
Non voglio farvi la morale, sono d'accordo anch'io che il contesto è tutto. Lo stesso gesto può essere follia a Vigevano ed eroismo a Teheran, lo capisco. E persino la follia, può avere a Teheran delle ragioni profonde che a Vigevano non sarebbero ammissibili. Vi capisco e vi capirò anche la prossima volta che una ragazza a Vigevano farà una mattana per protestare contro il riscaldamento globale o qualche genocidio, e voi le riderete in faccia perché certe forme di protesta sono sciocche ecc. Ma sentite questa:
Mettete che dopodomani, a urne chiuse, gli iraniani decidano davvero di bombardare seriamente Israele; e mettiamo che Israele nei giorni seguenti si senta obbligato a rispondere. La ragazza, nel frattempo, che fine avrà fatto? Magari sarà in una struttura carcerario-manicomiale, ecco, è la classica struttura che l'esercito iraniano potrebbe usare per scudare un obiettivo militare che gli israeliani avrebbero tutto il diritto di distruggere.
Così, ricapitolando: una ragazza, se si spoglia a novembre, sembra un po' pazza.
Se si spoglia a novembre per una causa, comunque un po' pazza.
Se si spoglia a novembre per una causa a Teheran, è un'eroina.
Se si spoglia a novembre per una causa a Teheran e la internano sopra un obiettivo militare... non è più niente che valga la pena di difendere, anzi, cambiamo discorso.
Per cui insomma secondo me risulteremmo strani, noi occidentali. Visti da una certa distanza. Ma quella distanza sembra che non l'abbiamo più a disposizione, ed è un peccato.
venerdì 1 novembre 2024
Siamo tutti antisemiti
La campagna di diffamazione nei confronti di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, va inserita nella più ampia battaglia che Israele sta conducendo contro l'ONU. A sua volta questa battaglia non è che uno degli episodi più significativi della guerra tra Israele e la realtà – non essendo in fin dei conti l'ONU che una vaga autorità sovranazionale, con poteri nulli o molto blandi, ma che non può che ratificare l'evidenza: ad esempio se c'è un genocidio, non può impedirsi di notarlo ed esprimere crescente preoccupazione. Questo è intollerabile per il movimento sionista, che si ritiene ormai al di sopra di qualsiasi giudizio: ogni critica, anche quando priva di conseguenze, è comunque una minaccia alla sua stessa esistenza, e la sua stessa esistenza è prioritaria rispetto a ogni altro fenomeno (in particolare rispetto all'esistenza del popolo palestinese: ma persino la vita di centinaia di ebrei può essere serenamente sacrificata). L'Onu, che non ha ancora accettato tutto questo, non può che essere una "palude antisemita", le sue agenzie covi di terroristi, tra cui quella Francesca Albanese che ha l'impudenza di documentare il genocidio in rapporti sempre più cospicui e puntuali. E siccome chi ha la pazienza di ascoltare l'Albanese e di leggere quel che scrive non vi troverà una sola parola di odio nei confronti degli ebrei, non resta che allargare la definizione di antisemitismo, di modo che includa qualsiasi tipo di critica nei confronti di qualsiasi cosa Israele possa avere mai fatto o possa fare da qui in poi.
Non è nemmeno una novità; negli ultimi vent'anni l'etichetta "antisemita" è stata appioppata con tale disinvoltura da perdere ogni pregnanza, come succede alle parole che ci fioriscono troppo spesso sulle labbra. La deriva semantica è andata di pari passo con l'affermarsi della "Definizione operativa di antisemitismo" dell'IHRA. Questa definizione ha una lunga storia, su cui non mi dilungo; diciamo che si tratta di una risposta pseudo-istituzionale a una domanda che durante la Seconda Intifada diventava sempre più pressante: preso atto che l'antisemitismo è sempre e comunque da condannare, cos'è questo antisemitismo? Domanda più che legittima: il problema è che forse non è stata posta alle persone giuste. La Definizione è un pasticcio, non sono il primo a dirlo né il più competente; ma credo sia utile ricordarlo, perché c'è chi continua a impugnarla come se fosse uno strumento affilato e non una pistola di gomma. Qualche giorno fa un radiologo di Toronto ha avvertito l'Albanese che se tentasse di venire in città, potrebbe essere arrestata: e perché? Perché in Canada la Definizione operativa di antisemitismo è legge. E benché gli sia stato prontamente obiettato che no, la Definizione è per definizione "non-legally binding", ormai la pista era tracciata e molti montoni hanno ritenuto necessario accodarsi.
Per aver ricordato a italiani e tedeschi le politiche genocide del loro passato, Francesca Albanese è stata accusata di "holocaust inversion", che non è una mossa speciale in un gioco di ruolo, ma una violazione del penultimo comma della Definizione: quello che ci ricorda che "Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti" è antisemitismo. Quindi anche ricordare agli italiani che in passato hanno commesso un genocidio è antisemitismo? Sì, nel momento in cui gli italiani oggi sono alleati degli israeliani. Più che un rapporto di causa-effetto qui siamo alla libera associazione di idee: ogni volta che in una conversazione ti viene in mente l'Olocausto, potresti essere antisemita. Ora devo confessare una cosa.#FrancescaAlbanese is dangerous. And, if her invitation to the University of #Toronto is upheld, I will also be there to explain who she is, why her hatred of #Israel is the new face of #antisemitism, and how, since October 7, she has become a mouthpiece for #Hamas. https://t.co/4GytZzs75B
— Bernard-Henri Lévy (@BHL) October 25, 2024
Per molti anni – troppi – ho cercato di rispettare la Definizione, come se fosse una cosa seria. Mi era sembrata da subito un po' parziale e discutibile, ma credevo che criticarla sarebbe stato controproducente. Pensavo invece che rispettandola io avrei reso le mie critiche a Israele inattaccabili anche dal più parziale degli osservatori. In un mondo che aveva ormai fatto del '900 il suo testo sacro, e in cui il nazismo veniva tranquillamente definito Male Assoluto, la pietra di paragone con cui misurare gli altri Mali Relativi, io rinunciavo a ricorrervi per... fair play. Stavo insomma commettendo l'errore che così spesso rimprovero agli altri: accettare le regole del gioco che mi impone l'avversario, confidando di essere comunque in grado di batterlo, perché? Probabilmente perché mi credevo in possesso di prodigiose capacità dialettiche che avrebbero trionfato contro ogni ostacolo e cattiva fede. L'IHRA mi chiedeva di non paragonare "la politica israeliana contemporanea" a quella dei nazisti? Ok, non l'avrei fatto, in fondo la reductio ad Hitlerum è sempre la mossa di chi ha scarsa immaginazione, scarsa cultura, io invece avrei paragonato Israele a Sparta, toh. (Nello stesso periodo Netanyahu ci informava che l'Olocausto era un piano escogitato dal Gran Muftì di Gerusalemme).
Nota bene: continuo a pensare che il paragone diretto tra Shoah e Nakba sia fuorviante. Non ho intenzione di chiamare nazisti gli israeliani che radono al suolo Libano e Palestina; peraltro credo che ormai non ce ne sia bisogno, le atrocità che commettono sono molto meglio documentate di quelle dei vecchi documentari in bianco e nero. Detto questo no, in coscienza non posso accettare che "Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti" sia antisemitismo. Sarà pessima propaganda, criticabile in quanto tale (come d'altro canto è criticabile chi paragona ai nazisti i combattenti palestinesi), ma vorrei una volta tanto ricordare che l'antisemitismo è, letteralmente, l'odio nei confronti degli ebrei. Gli ebrei sono senz'altro un insieme complesso di persone, che forse elude qualsiasi definizione univoca (una religione, ma anche una comunità laica, in certi periodi un gruppo etnico), ma non possono essere ridotti in buona fede alla "politica israeliana contemporanea" qualsiasi essa sia. Persino se volessimo confondere ebrei e israeliani (e non ci è concesso), ebbene non è mai successo che il 100% degli israeliani approvasse le politiche del governo... e a proposito: perché non ci è concesso confondere ebrei e israeliani?
Perché i due insiemi non coincidono, come dovrebbe essere chiaro a chiunque avesse frequentato la scuola dell'obbligo con profitto; ma anche perché l'ultimo comma della Dichiarazione afferma che "Considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele" equivale ad antisemitismo. Esatto, i due ultimi comma della Dichiarazione si contraddicono tra loro in modo così palese da farci dubitare che chi li ha messi vicini non abbia semplicemente voluto prendere in giro chiunque tenti di prendere la Dichiarazione sul Serio. Prima ci viene detto che criticare in un certo modo la politica israeliana è antisemitismo; in seguito ci viene ricordato che confondere Israele con gli ebrei è antisemitismo. Ne dobbiamo concludere che siamo tutti antisemiti, compreso chi ha stilato la Dichiarazione; sicuramente chi la prende per oro colato; il che mi induce a dissociarmi, troppo tardi ma meglio che mai (continua).