E così, insomma, io che considero il referendum abrogativo di Landini un'opzione suicida, non ho niente di meglio da suggerire che attendere un altro referendum (quello confermativo sulle riforme costituzionali) e in quel momento ammucchiarmi con Berlusconi, Grillo e chiunque altro nell'occasione darà una mano ad affondare la nave di Renzi. A medio termine, cosa avrò ottenuto?
Andrà del tutto sprecato il tempo trascorso a discutere e votare le riforme (d'altro canto non sono davvero un granché, queste riforme: per evitare pasticci ci sarebbe bisogno di correggerle subito con ulteriori riforme, tanto vale ripartire da capo). Avrò umiliato Renzi, senza che sia ancora comparsa all'orizzonte un'alternativa credibile. Probabilmente la legislatura finirà subito dopo, e Renzi sarà ancora il candidato del PD. Tutto quello che spero di ottenere è lo spostamento del baricentro del PD più a sinistra. Non è un po' poco? Ma soprattutto:
Non è la stessa cosa che propongo da dieci, vent'anni?
Sempre con questo baricentro da spostare, possibile che non mi venga mai in mente altro? La cosa angustia anche me, anche se qualcuno la chiamerebbe coerenza e magari ne andrebbe fiero: probabilmente sono un riformista, uno che ha come obiettivo la realizzazione di un grande partito socialdemocratico all'europea che punti all'egemonia nel Paese, e dunque da quando c'è il PD (ma anche prima) non faccio altro che spingere il PD come una formichina spinge un pachiderma. Nel frattempo i grandi partiti socialdemocratici europei non se la stanno passando un granché bene: forse siamo alla fine di una certa dialettica novecentesca tra socialdemocrazia e conservatorismo liberale, ma io continuo a spingere imperterrito. Le altre opzioni le trovo ancora meno ragionevoli.
O meglio: le altre opzioni secondo me si riducono a una sola. Siamo a un bivio, come sempre. Non si tratta di scegliere tra sinistra e destra, né tra Renzi e anti-Renzi. Credo che alla prossima consultazione la scelta sarà tra Euro e non Euro: e che tutto il resto, Renzi incluso, sarà subordinato a questo: vogliamo l'Euro? Dovremo tenerci Renzi, ancora per un po'. Non vogliamo più l'Euro? È una prospettiva meno folle di quanto non fosse uno o due anni fa.
Due anni fa la vittoria di Hollande ci aveva fatto sperare nell'inizio di una nuova fase. La Francia socialista avrebbe potuto coalizzarsi con gli Stati indebitati del sud e rimettere in discussione la politica tedesca e nordica del rigore. Avrebbe potuto andare così, ma non è successo.
Persino Renzi prometteva che ne avrebbe discusso con la Merkel. È andata com'è andata. A chi avesse ancora dei dubbi, l'esito della trattativa Tsipras-UE dovrebbe esaurirli. Il rigore non si discute. A questo punto l'uscita dall'Euro diventa un'opzione. Dolorosa quanto si vuole, autolesionistica indubbiamente: ma è l'autolesionismo della disperazione. L'ultimo spazio a disposizione del condannato per negare agli altri il diritto di disporre di lui. Oggi, alla luce di quel che è successo negli ultimi anni, è giusto ricordare che l'uscita dall'euro sarebbe un'opzione catastrofica, ma non necessariamente la più catastrofica. È lecito discuterne, non solo tra i fulminati dei blog di pseudoeconomia: vogliamo andarcene o restare?
Io ovviamente voglio restare, però gli antieuristi li capisco molto più oggi che in passato. Soprattutto non credo che nei tempi brevi la situazione politica ci concederà il lusso di una terza posizione: o saremo con l'euro (e con Renzi) o saremo contro. E con Salvini.
Mi dispiace metterla giù così brutale, ma in coscienza non credo che sia molto più complicata. Se si vuole perseguire una politica economica davvero alternativa a quella imposta da Berlino e Francoforte, occorre uscire. Purtroppo non esistono uscite a sinistra e uscite a destra: ce n'è una sola. Ritenete di meritare un partito più a sinistra del PD, un partito non compromesso col renzismo? Pensate che l'unità monetaria, così com'è stata realizzata, sia stata una cessione imperdonabile di sovranità? Salvini e Grillo saranno i vostri alleati naturali. Ma anche la Meloni, e molti berlusconiani tra i quali magari Berlusconi stesso.
Un'alleanza trasversale anti-euro al momento è l'unica che può mettere Renzi in difficoltà. È uno dei motivi per cui il ballottaggio è pericoloso: mentre è al momento impensabile una coalizione Grillo-Berlusconi-Salvini (anche se la pensano allo stesso modo quasi su tutto), al secondo turno sarebbero gli elettori dei rispettivi partiti a superare le diffidenze dei vertici e concentrarsi sull'unico candidato anti-euro rimasto in lizza. Grillo non voterebbe mai per Salvini, ma l'elettore di Grillo non avrà le stesse pregiudiziali. E anche l'elettore di sinistra anti-euro non dovrebbe averne. A nessun eventuale partito di sinistra - ammesso che si riesca a riorganizzarne uno - sarà concessa l'ambiguità con cui Syriza vinse le elezioni: dentro l'euro ma contro l'austerità. Dentro l'euro ma forse fuori. Tsipras bluffava anche per noi: Bruxelles ha visto le carte, fine dei giochi. Ora siete liberi di pensare che l'Italia possa risolvere i suoi problemi rimettendosi a coniare moneta. Ma non siete più liberi di cercarvi un candidato: quel posto se l'è preso il ragazzone arrogante con le felpe.
Mi dispiace, forse non doveva finire così, ma qui le nostre strade si separano. Ci vediamo dall'altra parte.
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
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venerdì 27 febbraio 2015
mercoledì 25 febbraio 2015
Il referendum che Renzi può perdere
Cosa fare con(tro) Renzi.
Non prenderei nemmeno la parola, se non avessi maturato l'opinione che la politica sia un'arte molto meno raffinata di quel che vorrebbe essere. Viviamo in un complesso labirinto, vero: ma alla fine le scelte che ci arrivano davanti si presentano sempre in forma di bivi o trivi. Tutta la complessità che ci portiamo dentro alla fine la dobbiamo sacrificare di fronte a scelte secche: di qua o di là? Sinistra o destra? Restiamo fermi, proseguiamo, torniamo indietro? Chi tira una monetina può avere più successo di chi si carica sulle spalle vissuti o ideologie. E quindi anch'io dico la mia: prendetela come la monetina lanciata da un deficiente di passaggio.
Come ho scritto sopra, la prospettiva di un referendum abrogativo non mi esalta. Non ho mai creduto molto nel mezzo referendario - il più delle volte è un boomerang - e non mi piace andare alla carica contro l'artiglieria, mi pare che l'eroismo non riscatti la stupidità. Anche a me piacerebbe abrogare il Jobs Act - e la legge elettorale - e le riforme istituzionali - la buona scuola - insomma, anche a me piacerebbe deporre Renzi e i suoi manipoli, ma non disponendo di un numero di coorti sufficiente anche solo a impensierirlo, non mi resta che la ritirata e la guerriglia. Devo assicurarmi la complicità con le altre tribù che controllano il territorio, anche se non mi piacciono per niente. Devo tendere al nemico un'imboscata nel punto più difficile del percorso. Ci penso da parecchio e un punto del genere mi sembra d'averlo trovato.
Ci vorranno ancora mesi e forse più di un anno, ma prima o poi le riforme costituzionali Renzi-Boschi saranno sottoposte al vaglio dei cittadini, mediante un referendum (a meno che Renzi non si stufi e decida di tornare al voto senza la nuova legge elettorale, ma sarebbe una figuraccia). Attenzione però: non un referendum abrogativo. Confermativo. Che differenza c'è?
Tutta la differenza del mondo. Il referendum confermativo non prevede il quorum del 50%+1. Il referendum confermativo non è una giocata del Sì contro il Banco che vince sempre. Nel referendum confermativo, il Sì e il No se la giocano alla pari. Chi porta più elettori alle urne vince. E che ci vuole, direte voi, Renzi ha la maggioranza...
No. I sondaggi (che sbagliano sempre) lo danno sempre sotto il 40%. Parliamo sempre di dieci milioni di elettori, ma non andranno tutti a votare a un referendum in cui non serve nemmeno il quorum. Da questi inoltre vanno sottratti i suffragi di chi ha votato Renzi alle europee, e forse lo rivoterebbe anche a un ballottaggio contro Salvini o Di Battista, ma non ha nessuna intenzione di votare per le sue riforme. Quelli come me, insomma. Quanti siamo? Impossibile dirlo, ma potremmo essere decisivi.
E poi c'è tutto il composito arco costituzionale antirenziano. C'è Grillo, c'è Berlusconi che quelle riforme le ha scritte ma a questo punto non ha molta convenienza a farle passare. C'è anche Salvini, a cui in realtà un superballottaggio farebbe comodo, ma se il referendum confermativo diventa un referendum su Renzi, non potrà tirarsi indietro. C'è la sinistra-sinistra, c'è Sel, ci sono tutti. Tutti tranne lui e chi crede in lui. Sarà un referendum su di lui, e lui non ha dalla sua il 50% degli italiani: non lo ha mai avuto. Non ha neanche quell'appoggio televisivo che crede di avere: perlomeno se crede di poter litigare sia con Berlusconi sia con l'Usigrai, forse avrà la sorpresa di scoprire che certe ospitate domenicali non sono un atto dovuto. Per non parlare dell'enorme serbatoio dell'astensione, che per qualche irrazionale motivo mi pare più facile recuperare al No che al Sì.
Un referendum abrogativo non lo vinceremo mai, ma un referendum confermativo del genere è alla nostra portata. Non si tratta di andare a letto con Salvini o Grillo o Berlusconi, o perlomeno non si tratta di andarci per sempre: solo per qualche mese, e poi ognuno per la propria strada. Umiliare Renzi sulle riforme non significa cassare il Job Act, né i decreti sulla scuola eccetera eccetera. Ma a quel punto Renzi si troverebbe da solo, e senza quella legge elettorale che avrebbe premiato la sua solitudine. Dovrà venire a patti con qualcuno - qualcuno che esiste davvero, non il Ncd. Berlusconi? Difficile immaginarlo. Ma anche se fosse, a quel punto a sinistra si aprirebbe una prateria. Più plausibilmente, Renzi dovrà cercare alleati a sinistra. Non li troverà gratis. Dovrà concedere cose.
Certo, ci vorranno mesi, forse più di un anno, e intanto il Jobs Act cosa farà? Farà strame dei diritti cosiddetti acquisiti dei lavoratori, se quello era il suo obiettivo. E' da vent'anni che Ichino e co. ce ne cantano le magnifiche sorti e progressive: ora finalmente vedremo se è possibile diventare la Danimarca in tempi brevi. Se non succederà, sarà molto più facile smantellarlo. Se invece avrà creato occupazione, beh, dovremmo essere i primi a rallegrarcene: sarà segno che la crisi è finita. Un sacco di giovani troverà lavoro e rapidamente scoprirà che ha bisogno di più diritti, dopotutto: credo che il demansionamento non piacerà anche a loro. Insomma: ci stracciano lo Statuto dei lavoratori? Ne scriveremo un altro. E' chiaro che nel frattempo avremo perso qualcosa. Ma l'abbiamo già persa, non è che possiamo intestardirci sul promontorio del referendum abrogativo. Una buona ritirata strategica è meglio di mille nobili battaglie perse e Bakalave.
Io perlomeno la penso così.
Ma a questo punto sento fischiarmi le orecchie - sto per essere investito dall'onda d'urto di un'enorme obiezione. Lo so, lo so (continua...)
Non prenderei nemmeno la parola, se non avessi maturato l'opinione che la politica sia un'arte molto meno raffinata di quel che vorrebbe essere. Viviamo in un complesso labirinto, vero: ma alla fine le scelte che ci arrivano davanti si presentano sempre in forma di bivi o trivi. Tutta la complessità che ci portiamo dentro alla fine la dobbiamo sacrificare di fronte a scelte secche: di qua o di là? Sinistra o destra? Restiamo fermi, proseguiamo, torniamo indietro? Chi tira una monetina può avere più successo di chi si carica sulle spalle vissuti o ideologie. E quindi anch'io dico la mia: prendetela come la monetina lanciata da un deficiente di passaggio.
Come ho scritto sopra, la prospettiva di un referendum abrogativo non mi esalta. Non ho mai creduto molto nel mezzo referendario - il più delle volte è un boomerang - e non mi piace andare alla carica contro l'artiglieria, mi pare che l'eroismo non riscatti la stupidità. Anche a me piacerebbe abrogare il Jobs Act - e la legge elettorale - e le riforme istituzionali - la buona scuola - insomma, anche a me piacerebbe deporre Renzi e i suoi manipoli, ma non disponendo di un numero di coorti sufficiente anche solo a impensierirlo, non mi resta che la ritirata e la guerriglia. Devo assicurarmi la complicità con le altre tribù che controllano il territorio, anche se non mi piacciono per niente. Devo tendere al nemico un'imboscata nel punto più difficile del percorso. Ci penso da parecchio e un punto del genere mi sembra d'averlo trovato.
Ci vorranno ancora mesi e forse più di un anno, ma prima o poi le riforme costituzionali Renzi-Boschi saranno sottoposte al vaglio dei cittadini, mediante un referendum (a meno che Renzi non si stufi e decida di tornare al voto senza la nuova legge elettorale, ma sarebbe una figuraccia). Attenzione però: non un referendum abrogativo. Confermativo. Che differenza c'è?
Tutta la differenza del mondo. Il referendum confermativo non prevede il quorum del 50%+1. Il referendum confermativo non è una giocata del Sì contro il Banco che vince sempre. Nel referendum confermativo, il Sì e il No se la giocano alla pari. Chi porta più elettori alle urne vince. E che ci vuole, direte voi, Renzi ha la maggioranza...
No. I sondaggi (che sbagliano sempre) lo danno sempre sotto il 40%. Parliamo sempre di dieci milioni di elettori, ma non andranno tutti a votare a un referendum in cui non serve nemmeno il quorum. Da questi inoltre vanno sottratti i suffragi di chi ha votato Renzi alle europee, e forse lo rivoterebbe anche a un ballottaggio contro Salvini o Di Battista, ma non ha nessuna intenzione di votare per le sue riforme. Quelli come me, insomma. Quanti siamo? Impossibile dirlo, ma potremmo essere decisivi.
E poi c'è tutto il composito arco costituzionale antirenziano. C'è Grillo, c'è Berlusconi che quelle riforme le ha scritte ma a questo punto non ha molta convenienza a farle passare. C'è anche Salvini, a cui in realtà un superballottaggio farebbe comodo, ma se il referendum confermativo diventa un referendum su Renzi, non potrà tirarsi indietro. C'è la sinistra-sinistra, c'è Sel, ci sono tutti. Tutti tranne lui e chi crede in lui. Sarà un referendum su di lui, e lui non ha dalla sua il 50% degli italiani: non lo ha mai avuto. Non ha neanche quell'appoggio televisivo che crede di avere: perlomeno se crede di poter litigare sia con Berlusconi sia con l'Usigrai, forse avrà la sorpresa di scoprire che certe ospitate domenicali non sono un atto dovuto. Per non parlare dell'enorme serbatoio dell'astensione, che per qualche irrazionale motivo mi pare più facile recuperare al No che al Sì.
Un referendum abrogativo non lo vinceremo mai, ma un referendum confermativo del genere è alla nostra portata. Non si tratta di andare a letto con Salvini o Grillo o Berlusconi, o perlomeno non si tratta di andarci per sempre: solo per qualche mese, e poi ognuno per la propria strada. Umiliare Renzi sulle riforme non significa cassare il Job Act, né i decreti sulla scuola eccetera eccetera. Ma a quel punto Renzi si troverebbe da solo, e senza quella legge elettorale che avrebbe premiato la sua solitudine. Dovrà venire a patti con qualcuno - qualcuno che esiste davvero, non il Ncd. Berlusconi? Difficile immaginarlo. Ma anche se fosse, a quel punto a sinistra si aprirebbe una prateria. Più plausibilmente, Renzi dovrà cercare alleati a sinistra. Non li troverà gratis. Dovrà concedere cose.
Certo, ci vorranno mesi, forse più di un anno, e intanto il Jobs Act cosa farà? Farà strame dei diritti cosiddetti acquisiti dei lavoratori, se quello era il suo obiettivo. E' da vent'anni che Ichino e co. ce ne cantano le magnifiche sorti e progressive: ora finalmente vedremo se è possibile diventare la Danimarca in tempi brevi. Se non succederà, sarà molto più facile smantellarlo. Se invece avrà creato occupazione, beh, dovremmo essere i primi a rallegrarcene: sarà segno che la crisi è finita. Un sacco di giovani troverà lavoro e rapidamente scoprirà che ha bisogno di più diritti, dopotutto: credo che il demansionamento non piacerà anche a loro. Insomma: ci stracciano lo Statuto dei lavoratori? Ne scriveremo un altro. E' chiaro che nel frattempo avremo perso qualcosa. Ma l'abbiamo già persa, non è che possiamo intestardirci sul promontorio del referendum abrogativo. Una buona ritirata strategica è meglio di mille nobili battaglie perse e Bakalave.
Io perlomeno la penso così.
Ma a questo punto sento fischiarmi le orecchie - sto per essere investito dall'onda d'urto di un'enorme obiezione. Lo so, lo so (continua...)
martedì 24 febbraio 2015
Il referendum che Landini non può vincere
Scava una buca / organizza un referendum.
Il giorno che in Italia la sinistra conterà di nuovo qualcosa sarà il giorno in cui avrà fatto un po' la pace con sé stessa e il suo passato, anche il più recente e avvilente. Se ci sarà bisogno di un leader - e ce ne sarà bisogno - non verrà dalla Grecia, né dalla magistratura, né dalle colonne di Repubblica. Landini ha le carte in regola più di tanti altri. Dipenderà soprattutto da lui; quel che lascia perplessi è la sua strategia, che - se ho capito bene - passa per un referendum abrogativo contro il Jobs Act.
Può darsi che una campagna referendaria di questo tipo possa risultare utile per compattare quel settore della sinistra che raccoglierà le firme, e magari riconoscerà nell'occasione in Landini il suo punto di riferimento. Se questo è l'obiettivo, perché no. Purché sia chiaro un dettaglio: un referendum del genere lo perdiamo.
Nessuno ha dei dubbi su questo, vero?
Cioè il referendum si organizza per ritrovarsi, riprovare il gusto di stare assieme, magari conoscere qualche faccia nuova e fresca: si fanno i banchetti per raccogliere le firme, ci si prende una giornata per portarle a Montecitorio, poi dopo qualche mese si fa il referendum e si perde. Se il piano è questo, e se nessuno ne ha uno migliore, si può anche procedere. Se invece qualcuno è davvero convinto che un referendum abrogativo sul Jobs Act si possa vincere, ecco, scusate ma io scendo subito, anzi non sono nemmeno salito. Un conducente che vuole farmi fare un giro lungo e tortuoso in mancanza di meglio posso anche accettarlo; ma un conducente ubriaco, grazie, no.
Raccogliere firme è un modo come un altro di riorganizzarsi a livello di base. Grillo per esempio in questo stesso momento sta lavorando a un referendum consultivo sull'Euro - quello potrebbe persino vincerlo, visto che non serve il quorum del 50%+1. Peccato che non sia previsto dalla Costituzione e non serva a niente. Evidentemente l'obiettivo di Grillo non è uscire dall'Euro, ma tenere occupata la base e additare un obiettivo a lungo-medio termine, qualcosa che dia la soddisfazione di un lavoro compiuto: ce l'abbiamo fatta! abbiamo raccolto totmila firme inutili, vittoria! Ai soldati, nei periodi di inerzia, si fanno scavare delle buche che poi si fanno riempire. Le campagne referendarie funzionano un po' nello stesso modo.
Il problema è che un referendum sul Jobs Act non equivale a una fumosa consultazione sull'Euro. Ormai lo sappiamo come funziona, no? Il giorno dopo, quando i giornali riporteranno un quorum sotto il 40%, non potrai uscire e dire ai tuoi attivisti "Vabbe', ci abbiamo provato". O meglio, potrai anche provarci. Ma è facile che nello stesso momento Renzi starà esultando a reti unificate per la grande vittoria del non-voto, secondo una tradizione che data dai primi anni duemila.
Ora vorrei chiedere ai gentili lettori se qualcuno si ricorda del referendum del 2003 sull'articolo 18. Alcuni non votavano ancora, lo so. Altri c'erano, magari hanno pure raccolto firme e si ricordano. La cosa più interessante sarebbe contare quelli che c'erano e non se lo ricordano assolutamente: perché io almeno ho questa sensazione, che tra tanti dimenticabili referendum quello del 2003 sia in assoluto il meglio rimosso dalla memoria collettiva. Lo aveva promosso Rifondazione sull'onda della grande manifestazione CGIL del 23/3/02, anche se il sindacato si era tenuto a prudente distanza (come anche vent'anni prima con il referendum promosso dal PCI sulla scala mobile, perso anche quello). Andarono a votare soltanto il 27,5% degli aventi diritto, non il valore più basso in assoluto (due anni dopo per la fecondazione assistita votò il 25%). Comunque pochi, veramente troppo pochi: dodici milioni. (Qualcuno onestamente ritiene che oggi il Jobs Act chiamerebbe alle urne più gente di quante ne richiamava l'articolo 18 nel 2003? Tra le elezioni del 2001 e del 2013 l'astensione è aumentata del 10%).
D'altro canto Fausto Bertinotti in quell'occasione poteva persino dirsi soddisfatto che su dodici milioni di elettori, dieci avessero votato per abrogare le "norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori". Dieci milioni di elettori Rifondazione se li sognava: l'anno dopo ci furono le europee e ne raccolse due milioni scarsi, un soddisfacente 6%. Ora non voglio dire che coinvolgere gli attivisti in raccolte di firme sia la cosa più onesta da fare, visto che alla fine i referendum sono quasi sempre inutili; però magari se il tuo obiettivo è ricontarti e piantare bandierine su una base un po' più ampia, la cosa può anche funzionare. Va da sé che il Jobs Act resterà dov'è, più saldo che mai (Renzi racconterà che la maggioranza degli italiani lo vuole! Ecco perché non è andata a votare!), ma questo evidentemente non è l'obiettivo primario. Insomma come piano è quel che è, in mancanza di meglio...
Ehi, aspetta.
Forse c'è qualcosa di meglio. (Continua).
Il giorno che in Italia la sinistra conterà di nuovo qualcosa sarà il giorno in cui avrà fatto un po' la pace con sé stessa e il suo passato, anche il più recente e avvilente. Se ci sarà bisogno di un leader - e ce ne sarà bisogno - non verrà dalla Grecia, né dalla magistratura, né dalle colonne di Repubblica. Landini ha le carte in regola più di tanti altri. Dipenderà soprattutto da lui; quel che lascia perplessi è la sua strategia, che - se ho capito bene - passa per un referendum abrogativo contro il Jobs Act.
Può darsi che una campagna referendaria di questo tipo possa risultare utile per compattare quel settore della sinistra che raccoglierà le firme, e magari riconoscerà nell'occasione in Landini il suo punto di riferimento. Se questo è l'obiettivo, perché no. Purché sia chiaro un dettaglio: un referendum del genere lo perdiamo.
Nessuno ha dei dubbi su questo, vero?
Cioè il referendum si organizza per ritrovarsi, riprovare il gusto di stare assieme, magari conoscere qualche faccia nuova e fresca: si fanno i banchetti per raccogliere le firme, ci si prende una giornata per portarle a Montecitorio, poi dopo qualche mese si fa il referendum e si perde. Se il piano è questo, e se nessuno ne ha uno migliore, si può anche procedere. Se invece qualcuno è davvero convinto che un referendum abrogativo sul Jobs Act si possa vincere, ecco, scusate ma io scendo subito, anzi non sono nemmeno salito. Un conducente che vuole farmi fare un giro lungo e tortuoso in mancanza di meglio posso anche accettarlo; ma un conducente ubriaco, grazie, no.
Raccogliere firme è un modo come un altro di riorganizzarsi a livello di base. Grillo per esempio in questo stesso momento sta lavorando a un referendum consultivo sull'Euro - quello potrebbe persino vincerlo, visto che non serve il quorum del 50%+1. Peccato che non sia previsto dalla Costituzione e non serva a niente. Evidentemente l'obiettivo di Grillo non è uscire dall'Euro, ma tenere occupata la base e additare un obiettivo a lungo-medio termine, qualcosa che dia la soddisfazione di un lavoro compiuto: ce l'abbiamo fatta! abbiamo raccolto totmila firme inutili, vittoria! Ai soldati, nei periodi di inerzia, si fanno scavare delle buche che poi si fanno riempire. Le campagne referendarie funzionano un po' nello stesso modo.
Il problema è che un referendum sul Jobs Act non equivale a una fumosa consultazione sull'Euro. Ormai lo sappiamo come funziona, no? Il giorno dopo, quando i giornali riporteranno un quorum sotto il 40%, non potrai uscire e dire ai tuoi attivisti "Vabbe', ci abbiamo provato". O meglio, potrai anche provarci. Ma è facile che nello stesso momento Renzi starà esultando a reti unificate per la grande vittoria del non-voto, secondo una tradizione che data dai primi anni duemila.
Ora vorrei chiedere ai gentili lettori se qualcuno si ricorda del referendum del 2003 sull'articolo 18. Alcuni non votavano ancora, lo so. Altri c'erano, magari hanno pure raccolto firme e si ricordano. La cosa più interessante sarebbe contare quelli che c'erano e non se lo ricordano assolutamente: perché io almeno ho questa sensazione, che tra tanti dimenticabili referendum quello del 2003 sia in assoluto il meglio rimosso dalla memoria collettiva. Lo aveva promosso Rifondazione sull'onda della grande manifestazione CGIL del 23/3/02, anche se il sindacato si era tenuto a prudente distanza (come anche vent'anni prima con il referendum promosso dal PCI sulla scala mobile, perso anche quello). Andarono a votare soltanto il 27,5% degli aventi diritto, non il valore più basso in assoluto (due anni dopo per la fecondazione assistita votò il 25%). Comunque pochi, veramente troppo pochi: dodici milioni. (Qualcuno onestamente ritiene che oggi il Jobs Act chiamerebbe alle urne più gente di quante ne richiamava l'articolo 18 nel 2003? Tra le elezioni del 2001 e del 2013 l'astensione è aumentata del 10%).
D'altro canto Fausto Bertinotti in quell'occasione poteva persino dirsi soddisfatto che su dodici milioni di elettori, dieci avessero votato per abrogare le "norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori". Dieci milioni di elettori Rifondazione se li sognava: l'anno dopo ci furono le europee e ne raccolse due milioni scarsi, un soddisfacente 6%. Ora non voglio dire che coinvolgere gli attivisti in raccolte di firme sia la cosa più onesta da fare, visto che alla fine i referendum sono quasi sempre inutili; però magari se il tuo obiettivo è ricontarti e piantare bandierine su una base un po' più ampia, la cosa può anche funzionare. Va da sé che il Jobs Act resterà dov'è, più saldo che mai (Renzi racconterà che la maggioranza degli italiani lo vuole! Ecco perché non è andata a votare!), ma questo evidentemente non è l'obiettivo primario. Insomma come piano è quel che è, in mancanza di meglio...
Ehi, aspetta.
Forse c'è qualcosa di meglio. (Continua).
Il piccione in realtà sonnecchiava
Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (Roy Andersson, 2014).
Due commessi viaggiatori disadattati si aggirano per Goteborg cercando di smerciare scherzi di carnevale che non fanno ridere. Un capitano non riesce mai ad arrivare puntuale ad appuntamenti che forse non ha mai preso. Anche questo non fa ridere. In una palestra l'insegnante di tango ci prova con l'unico studente, in un ambulatorio torturano un babbuino (non fa ridere), nella taverna di Lotte la zoppa un bicchierino costa mezza corona o un bacio. Un tizio ha un infarto mentre cerca di stappare una bottiglia. Ogni tanto passa re Carlo XII, deciso a umiliare il Russo: smonta da cavallo, chiede dov'è il bagno, un'acqua minerale per favore, ci prova col barista. Questo effettivamente fa un po' ridere. Tutto rigorosamente in sfumature cinerine, e in camera fissa, perché la vita è assurda. In un cinema del cosiddetto circuito festivaliero, un pubblico insolitamente folto assiste alla proiezione di Un piccione seduto su un ramo eccetera. C'è molta attesa per un regista quasi del tutto sconosciuto a queste latitudini, ma premiato a Venezia con Leone d'oro. Il film è una serie di gag lentissime, quasi ipnotiche. Le poche che funzionano vengono ripetute finché non smettono di essere divertenti. Il pubblico ogni tanto ride. La prima mezz'ora.
Poi riaccendono il telefono.
In un angolo, il critico di Cuneo e provincia sgranocchia amaro i suoi pistacchi. Pensa: per questa questa roba mi sono perso il finale di stagione di Gomorra su rai3, coi sottotitoli. E dire che un film lo avevo già visto questa settimana, uno bellissimo, trascinante, un'esperienza per gli occhi, le orecchie e il cuore. Whiplash. Si chiama così, è l'opera autobiografica di un regista esordiente ha sbancato al Sundance e la notte successiva porterà a casa tre meritatissimi Oscar. Whiplash ha un montaggio che non ti lascia tregua, i suoi attori per farlo funzionare si sono presi a schiaffi e hanno suonato fino a perdere sangue dalle mani. È uscito due settimane fa, e avrei voluto recensirlo questa settimana, ma a Cuneo non si è ancora visto. In compenso Un piccione seduto eccetera è già al cinema Fiamma, dove potete recarvi alle 21:15 per scoprire, se ancora avevate dubbi, che la vita è assurda e che anche certe giurie della Mostra di Venezia non scherzano. In concorso, se vi ricordate, c'era Birdman. Secondo i giurati dell'Academy è il miglior film del 2014. La migliore regia del 2014. La migliore sceneggiatura originale. La migliore fotografia. D'altro canto è solo Hollywood, cosa vuoi che ne sappiano. Un film costruito come un unico piano sequenza, mah, troppo artificioso, troppo tecnico. Vuoi mettere con la camera fissa, quella sì che è artistica. Incidentalmente, è anche l'espediente adottato dalle sit-com televisive per semplificarsi la vita e tenere basso il budget, ma che c'entra? Roy Andersson non è mica Camera Cafè, lui fa tutta una ricerca sulla prospettiva, inoltre è molto più... lento, e... fa meno ridere, quindi... è Cinema d'Autore.
Un bar all'aperto. Passa una tizia e si sfila una scarpa. La sbatte contro il bancone e se ne va.
COMMESSO VIAGGIATORE: aveva un sasso nella scarpa.
ALTRO CLIENTE SEDUTO AL TAVOLINO: già.
COMMESSO VIAGGIATORE: è stato bello.
ALTRO CLIENTE: cosa c'è di bello in un sasso nella scarpa?
COMMESSO VIAGGIATORE: è stato bello quando se l'è tolto.
ALTRO CLIENTE: ...
COMMESSO VIAGGIATORE: mi scusi, non vorrei essere importuno, ma non le interessa per caso acquistare degli scherzi di carnevale? Ho qui dei pezzi molto interessanti che le posso cedere a metà prezzo.
ALTRO CLIENTE: no, grazie.
COMMESSO VIAGGIATORE: grazie a lei, mi scusi.
(L'altro cliente si alza dal tavolino e se ne va).
Un piccione ricorda inevitabilmente il teatro di Beckett, più o meno come un'aranciata a base di colorante può ricordare una spremuta... (continua su +eventi!) Beckett aveva un gran senso del ritmo, Andersson rallenta a piacere. Beckett aveva un raro umor nero, Andersson tira avanti con le stesse tre trovate per un’ora e mezza. Sembra persuaso che un Beckett rallentato e rarefatto funzionerà il doppio, e i giurati di Venezia gli danno pure ragione. Le gag non sono intrinsecamente più sottili o intelligenti di quelle di un film di Neri Parenti: sono solo molto più lente. Si ride (poco) perché la gente è brutta, perché la gente è stupida, perché i vecchi sono sordi, si ride persino di una bambina down che recita una poesia assurda. Ma è la vita a essere assurda, no? Quindi, insomma, vale tutto.
“Ed ecco un altro mercoledì”.
“Come? Non è giovedì?”
“No, è mercoledì”.
“Eppure stamattina mi sentivo che fosse un giovedì”.
“Ma come si possono sentire i giovedì? I giorni non si sentono. I giorni si contano: dopo lunedì c’è il martedì, e poi il mercoledì, e poi il giovedì…”
“Eppure mi sentivo che fosse un giovedì”.
(Altri cinque minuti se ne vanno così).
Sono molto contento di come sono andati gli Oscar. Tifavo per Birdman e Whiplash. Forse non sono capolavori, ma sono film che mi sono piaciuti immensamente mentre li guardavo. Non riuscivo a staccare gli occhi dallo schermo, volevo capire cosa sarebbe successo, soffrivo per la sorte dei personaggi. In entrambi i film questo coinvolgimento si interrompe bruscamente nel finale, come se stessi ascoltando due sinfonie che si chiudano sulla nota sbagliata. Comincio a domandarmi se dopotutto sono d’accordo con quel che ho visto. Mentre li vedevo ci credevo, ora che ho visto dove sono andati a parare – forse non ci credo più. Credo che sia tutto quello che si può domandare a un film: prima la partecipazione emotiva, poi lo straniamento critico. Birdman e Whiplash ci arrivano con espedienti diversi e forse ci arrivano per sbaglio, ma ci arrivano, e questo è quel che conta.
Un piccione non arriva da nessuna parte. Approfitta dell’ideologia più comoda possibile: il mondo è assurdo, quindi perché darsi la pena di concatenare cause ed effetti per raccontarti una storia? Perché muovere la macchina da presa? Ci sarà sempre qualche critico che vedrà il coraggio dove a volte c’è solo pigrizia, e surrealismo dove invece non c’è nemmeno più molta fantasia. Un piccione è al Fiamma di Cuneo, alle 21: 15.
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Il babbuino è in computergrafica, credo. |
Poi riaccendono il telefono.
In un angolo, il critico di Cuneo e provincia sgranocchia amaro i suoi pistacchi. Pensa: per questa questa roba mi sono perso il finale di stagione di Gomorra su rai3, coi sottotitoli. E dire che un film lo avevo già visto questa settimana, uno bellissimo, trascinante, un'esperienza per gli occhi, le orecchie e il cuore. Whiplash. Si chiama così, è l'opera autobiografica di un regista esordiente ha sbancato al Sundance e la notte successiva porterà a casa tre meritatissimi Oscar. Whiplash ha un montaggio che non ti lascia tregua, i suoi attori per farlo funzionare si sono presi a schiaffi e hanno suonato fino a perdere sangue dalle mani. È uscito due settimane fa, e avrei voluto recensirlo questa settimana, ma a Cuneo non si è ancora visto. In compenso Un piccione seduto eccetera è già al cinema Fiamma, dove potete recarvi alle 21:15 per scoprire, se ancora avevate dubbi, che la vita è assurda e che anche certe giurie della Mostra di Venezia non scherzano. In concorso, se vi ricordate, c'era Birdman. Secondo i giurati dell'Academy è il miglior film del 2014. La migliore regia del 2014. La migliore sceneggiatura originale. La migliore fotografia. D'altro canto è solo Hollywood, cosa vuoi che ne sappiano. Un film costruito come un unico piano sequenza, mah, troppo artificioso, troppo tecnico. Vuoi mettere con la camera fissa, quella sì che è artistica. Incidentalmente, è anche l'espediente adottato dalle sit-com televisive per semplificarsi la vita e tenere basso il budget, ma che c'entra? Roy Andersson non è mica Camera Cafè, lui fa tutta una ricerca sulla prospettiva, inoltre è molto più... lento, e... fa meno ridere, quindi... è Cinema d'Autore.
Un bar all'aperto. Passa una tizia e si sfila una scarpa. La sbatte contro il bancone e se ne va.
COMMESSO VIAGGIATORE: aveva un sasso nella scarpa.
ALTRO CLIENTE SEDUTO AL TAVOLINO: già.
COMMESSO VIAGGIATORE: è stato bello.
ALTRO CLIENTE: cosa c'è di bello in un sasso nella scarpa?
COMMESSO VIAGGIATORE: è stato bello quando se l'è tolto.
ALTRO CLIENTE: ...
COMMESSO VIAGGIATORE: mi scusi, non vorrei essere importuno, ma non le interessa per caso acquistare degli scherzi di carnevale? Ho qui dei pezzi molto interessanti che le posso cedere a metà prezzo.
ALTRO CLIENTE: no, grazie.
COMMESSO VIAGGIATORE: grazie a lei, mi scusi.
(L'altro cliente si alza dal tavolino e se ne va).
Un piccione ricorda inevitabilmente il teatro di Beckett, più o meno come un'aranciata a base di colorante può ricordare una spremuta... (continua su +eventi!) Beckett aveva un gran senso del ritmo, Andersson rallenta a piacere. Beckett aveva un raro umor nero, Andersson tira avanti con le stesse tre trovate per un’ora e mezza. Sembra persuaso che un Beckett rallentato e rarefatto funzionerà il doppio, e i giurati di Venezia gli danno pure ragione. Le gag non sono intrinsecamente più sottili o intelligenti di quelle di un film di Neri Parenti: sono solo molto più lente. Si ride (poco) perché la gente è brutta, perché la gente è stupida, perché i vecchi sono sordi, si ride persino di una bambina down che recita una poesia assurda. Ma è la vita a essere assurda, no? Quindi, insomma, vale tutto.
“Ed ecco un altro mercoledì”.
“Come? Non è giovedì?”
“No, è mercoledì”.
“Eppure stamattina mi sentivo che fosse un giovedì”.
“Ma come si possono sentire i giovedì? I giorni non si sentono. I giorni si contano: dopo lunedì c’è il martedì, e poi il mercoledì, e poi il giovedì…”
“Eppure mi sentivo che fosse un giovedì”.
(Altri cinque minuti se ne vanno così).
Sono molto contento di come sono andati gli Oscar. Tifavo per Birdman e Whiplash. Forse non sono capolavori, ma sono film che mi sono piaciuti immensamente mentre li guardavo. Non riuscivo a staccare gli occhi dallo schermo, volevo capire cosa sarebbe successo, soffrivo per la sorte dei personaggi. In entrambi i film questo coinvolgimento si interrompe bruscamente nel finale, come se stessi ascoltando due sinfonie che si chiudano sulla nota sbagliata. Comincio a domandarmi se dopotutto sono d’accordo con quel che ho visto. Mentre li vedevo ci credevo, ora che ho visto dove sono andati a parare – forse non ci credo più. Credo che sia tutto quello che si può domandare a un film: prima la partecipazione emotiva, poi lo straniamento critico. Birdman e Whiplash ci arrivano con espedienti diversi e forse ci arrivano per sbaglio, ma ci arrivano, e questo è quel che conta.
Un piccione non arriva da nessuna parte. Approfitta dell’ideologia più comoda possibile: il mondo è assurdo, quindi perché darsi la pena di concatenare cause ed effetti per raccontarti una storia? Perché muovere la macchina da presa? Ci sarà sempre qualche critico che vedrà il coraggio dove a volte c’è solo pigrizia, e surrealismo dove invece non c’è nemmeno più molta fantasia. Un piccione è al Fiamma di Cuneo, alle 21: 15.
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lunedì 23 febbraio 2015
Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2015)
The Imitation Game, regia di Morten Tyldum. Oscar per la migliore sceneggiatura originale.
Più che un film a tesi, The Imitation Game è un film a suggestione: Alan Turing avrebbe passato il test di Turing? L'inventore del computer non era in un qualche modo un computer anch'esso, un "autistico ad alto funzionamento"? Dietro alla sua passione per la crittografia, non covava forse la frustrazione di non riuscire a decodificare i normali messaggi degli uomini? Tutto ciò che della biografia dello scienziato non si concilia con questa suggestione viene completamente eliminato o stravolto: persino la sua omosessualità, tema tutt'altro che marginale, è sacrificato in nome della necessità di trasformare Turing in un automa incapace di relazionarsi con gli umani. Gli autistici tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, “Cristopher” – non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome “The Bombe”. Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c’è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l’esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (in realtà ne vennero costruiti centinaia). La scena dell'illuminazione al pub è un classico esempio di come anche un buon biopic possa per esigenze drammatiche offendere l'intelligenza dei suoi spettatori: l'idea che Turing afferra in quell'occasione (bisogna trovare una frase ricorrente!) è in sostanza l'abc della crittografia.
La teoria del tutto, regia di James Marsh. Oscar al migliore attore protagonista (Eddie Redmayne)
Se The Imitation Game si sforza di trasformare un uomo in un calcolatore, La teoria del tutto può irritare per il motivo opposto: hai uno dei più grandi fisici teorici di tutti i tempi, e decidi di raccontarne solo la vita sentimentale? Per di più, affidandoti alla biografia di un'ex moglie - chi mai appalterebbe il proprio biopic a un'ex moglie? A Stephen Hawking è successo anche questo, e pare che il risultato gli sia persino piaciuto. Ci troviamo dunque davanti a un film accurato? No, pare di no. La teoria del tutto non solo preferisce alle equazioni i sentimenti, ma anche di questi ci dà una versione edulcorata, soprattutto ai danni di Jane (che è forse il motivo per cui Stephan ne è rimasto contento). Del tutto omessa è la carriera accademica di quest'ultima. Completamente stravolti, rispetto al testo, sia il primo incontro che l'episodio della riconciliazione finale.
Selma, regia di Ava DuVernay. Oscar alla miglior canzone (Glory).
Rispetto ad altri film degli ultimi anni, Selma sembra insolitamente fedele alla storia che racconta, anche a scapito della riuscita spettacolare. Raramente si era visto un leader così amletico e scoraggiato come il Martin Luther King di Oyelowo, proprio nel film che dovrebbe cantarne il coraggio e la determinazione. La principale critica che viene mossa agli sceneggiatori riguarda la figura del presidente Johnson, che da saggio politico bianco invano cerca di convincere MLK a un atteggiamento più prudente e attendista. Ai collaboratori di Johnson, neanche a farlo apposta, risulta il contrario: il presidente e MLK stavano lavorando assieme, anzi MLK organizzava le sue marce su diretta indicazione di Johnson. Resta il fatto che nel medesimo periodo la FBI stalkerava casa King con lettere e telefonate minatorie. Un'iniziativa di Hoover, o l'ordine partiva da più in alto? Può darsi che i tentennamenti del personaggio Johnson nascano da un'esigenza narrativa: è quasi l'unico uomo bianco del film dotato di una coscienza. Gli altri odiano senza nemmeno ricordare bene più il perché. Se non ci fosse Johnson, sospeso tra Hoover e MLK, non ci sarebbe un vero conflitto, un vero campo di battaglia.
Più che un film a tesi, The Imitation Game è un film a suggestione: Alan Turing avrebbe passato il test di Turing? L'inventore del computer non era in un qualche modo un computer anch'esso, un "autistico ad alto funzionamento"? Dietro alla sua passione per la crittografia, non covava forse la frustrazione di non riuscire a decodificare i normali messaggi degli uomini? Tutto ciò che della biografia dello scienziato non si concilia con questa suggestione viene completamente eliminato o stravolto: persino la sua omosessualità, tema tutt'altro che marginale, è sacrificato in nome della necessità di trasformare Turing in un automa incapace di relazionarsi con gli umani. Gli autistici tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, “Cristopher” – non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome “The Bombe”. Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c’è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l’esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (in realtà ne vennero costruiti centinaia). La scena dell'illuminazione al pub è un classico esempio di come anche un buon biopic possa per esigenze drammatiche offendere l'intelligenza dei suoi spettatori: l'idea che Turing afferra in quell'occasione (bisogna trovare una frase ricorrente!) è in sostanza l'abc della crittografia.
La teoria del tutto, regia di James Marsh. Oscar al migliore attore protagonista (Eddie Redmayne)
Se The Imitation Game si sforza di trasformare un uomo in un calcolatore, La teoria del tutto può irritare per il motivo opposto: hai uno dei più grandi fisici teorici di tutti i tempi, e decidi di raccontarne solo la vita sentimentale? Per di più, affidandoti alla biografia di un'ex moglie - chi mai appalterebbe il proprio biopic a un'ex moglie? A Stephen Hawking è successo anche questo, e pare che il risultato gli sia persino piaciuto. Ci troviamo dunque davanti a un film accurato? No, pare di no. La teoria del tutto non solo preferisce alle equazioni i sentimenti, ma anche di questi ci dà una versione edulcorata, soprattutto ai danni di Jane (che è forse il motivo per cui Stephan ne è rimasto contento). Del tutto omessa è la carriera accademica di quest'ultima. Completamente stravolti, rispetto al testo, sia il primo incontro che l'episodio della riconciliazione finale.
Selma, regia di Ava DuVernay. Oscar alla miglior canzone (Glory).
Rispetto ad altri film degli ultimi anni, Selma sembra insolitamente fedele alla storia che racconta, anche a scapito della riuscita spettacolare. Raramente si era visto un leader così amletico e scoraggiato come il Martin Luther King di Oyelowo, proprio nel film che dovrebbe cantarne il coraggio e la determinazione. La principale critica che viene mossa agli sceneggiatori riguarda la figura del presidente Johnson, che da saggio politico bianco invano cerca di convincere MLK a un atteggiamento più prudente e attendista. Ai collaboratori di Johnson, neanche a farlo apposta, risulta il contrario: il presidente e MLK stavano lavorando assieme, anzi MLK organizzava le sue marce su diretta indicazione di Johnson. Resta il fatto che nel medesimo periodo la FBI stalkerava casa King con lettere e telefonate minatorie. Un'iniziativa di Hoover, o l'ordine partiva da più in alto? Può darsi che i tentennamenti del personaggio Johnson nascano da un'esigenza narrativa: è quasi l'unico uomo bianco del film dotato di una coscienza. Gli altri odiano senza nemmeno ricordare bene più il perché. Se non ci fosse Johnson, sospeso tra Hoover e MLK, non ci sarebbe un vero conflitto, un vero campo di battaglia.
domenica 22 febbraio 2015
Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2014)
Saving Mr Banks, regia di John Lee Hancock, nomination per la migliore colonna sonora.
Saving Mr Banks non riscrive soltanto la storia, ma vorrebbe tanto convincerti che riscrivere la storia in certi casi è la cosa migliore da fare. Soprattutto in presenza di genitori discutibili, alcolizzati o maneschi: perché rivangare? Non è molto meglio ricordarseli mentre riparano aquiloni mai esistiti? Lo stesso accade alla protagonista, la spigolosa Pamela L. Travers, di cui si cancella la vita affettiva (trascorsi omoerotici inclusi, ovviamente) e famigliare: la creatrice di Mary Poppins nel film afferma di non amare i bambini e di non volerne. In realtà ne adottò uno, ma è una storia abbastanza triste, che alla Disney decidono di eliminare. Rimane la fiaba a lieto fine di una scrittrice inglese che non vorrebbe vedere la sua opera trasformata in un'americanata, ma poi vede il risultato e si commuove: col cavolo. I testimoni oculari ci dicono che alla prima (alla quale si era imbucata) la Travers piangeva, sì, ma di rabbia. Alla fine delle proiezioni cercò di convincere Mr Disney a cancellare almeno l'animazione grafica, ricevendone un educato ma fermo diniego: "Pamela, la nave è già salpata". Gli altri incontri-scontri con Walt, che occupano una buona parte del film, sono la drammatizzazione di un dialogo che avvenne per lo più in forma epistolare tra le due sponde dell'oceano. All'autrice il risultato finale piacque così poco che non concesse i diritti per i sequel (pensate i milioni che avrebbe potuto farci), e quando glieli chiesero per una riduzione teatrale, mise per iscritto che voleva soltanto musiche britanniche scritte da autori britannici. Niente Poco di zucchero, niente Spazzacamin, niente Supercalifragiliecc.: la Travers non poteva soffrirle. Difficile immaginarla più antipatica di come la interpreta Emma Thompson, vero? E invece tocca rassegnarsi: questa è la versione disneyana.
Philomena, regia di Sthephen Frears, nomination per il miglior film, migliore attrice protagonista (Julie Dench doveva vincere!), migliore sceneggiatura non originale, miglior colonna sonora.
Philomena non è Hollywood e si vede. Anche nel senso che l'amalgama tra fiction e realtà non funziona, non convince (e in fondo è meglio così). Per più di un'ora è un film che racconta con molto equilibrio una storia vera e agghiacciante di figli del peccato venduti da conventi irlandesi a facoltose famiglie americane: e tutto sembra filare benissimo senza bisogno di deformare i fatti accaduti. Quando all'improvviso irrompe in scena su una sedia a rotelle una suora zombie di 90 anni che rivendica il suo ruolo di venditrice di neonati e si mette a fare una predica contro le insidie della carne - è come se Stephen Frears avesse appaltato il finale del film agli autori di Don Zauker, e forse non ce n'era bisogno. Va da sé che suor Hildegard in realtà era già morta, e prima di morire aveva collaborato con alcune madri desiderose come Philomena di ritrovare i loro figli. Trasformarla nel simbolo di un cattolicesimo arcigno e in decomposizione è una scelta drammatica un po' facile, e soprattutto apre il fianco a polemiche abbastanza pretestuose - d'altro canto è una mossa così teatrale da denunciarsi da sola. A Hollywood sono più sottili, più professionali.
American Hustle, regia di David O. Russell,
dieci nomination e neanche un premio (film, regia, il quartetto degli attori, sceneggiatura originale, scenografia, montaggio, costumi).
"Some of this actually happened". È la didascalia iniziale, potrebbe essere il manifesto del nuovo cinema biopico. Alcune cose verosimili sono finte, altre inverosimili sono proprio vere, e com'è andata davvero non lo sapremo mai. A David O. Russell premeva raccontare una celebre operazione FBI invertendo l'usuale punto di vista: i suoi imbroglioni hanno un'etica, gli agenti federali sono arrivisti senza scrupoli. Ma l'eterna lotta tra il bene e il male non diventa meno banale se la capovolgi, e Russell fatalmente si ritrova a descrivere un sindaco mafioso proprio come si sarebbe presentato lui: un buon padre di famiglia disposto a tutto per trovare lavoro alla sua gente. Tanto poi alla fine chi si ricorda la trama? Di American Hustle sopravvive il parrucchino di Christian Bale, le scollature di Amy Adams, lo smalto per le unghie di Jennifer Lawrence, il petto villoso di Bradley Cooper. Si ha la sensazione che dentro a una confezione così smagliante - e storicamente accurata - si possa contraffare qualsiasi contenuto. In questo film c'è del buono, del meno buono, del falso, e del vero, ma godetevi il pacchetto.
Saving Mr Banks non riscrive soltanto la storia, ma vorrebbe tanto convincerti che riscrivere la storia in certi casi è la cosa migliore da fare. Soprattutto in presenza di genitori discutibili, alcolizzati o maneschi: perché rivangare? Non è molto meglio ricordarseli mentre riparano aquiloni mai esistiti? Lo stesso accade alla protagonista, la spigolosa Pamela L. Travers, di cui si cancella la vita affettiva (trascorsi omoerotici inclusi, ovviamente) e famigliare: la creatrice di Mary Poppins nel film afferma di non amare i bambini e di non volerne. In realtà ne adottò uno, ma è una storia abbastanza triste, che alla Disney decidono di eliminare. Rimane la fiaba a lieto fine di una scrittrice inglese che non vorrebbe vedere la sua opera trasformata in un'americanata, ma poi vede il risultato e si commuove: col cavolo. I testimoni oculari ci dicono che alla prima (alla quale si era imbucata) la Travers piangeva, sì, ma di rabbia. Alla fine delle proiezioni cercò di convincere Mr Disney a cancellare almeno l'animazione grafica, ricevendone un educato ma fermo diniego: "Pamela, la nave è già salpata". Gli altri incontri-scontri con Walt, che occupano una buona parte del film, sono la drammatizzazione di un dialogo che avvenne per lo più in forma epistolare tra le due sponde dell'oceano. All'autrice il risultato finale piacque così poco che non concesse i diritti per i sequel (pensate i milioni che avrebbe potuto farci), e quando glieli chiesero per una riduzione teatrale, mise per iscritto che voleva soltanto musiche britanniche scritte da autori britannici. Niente Poco di zucchero, niente Spazzacamin, niente Supercalifragiliecc.: la Travers non poteva soffrirle. Difficile immaginarla più antipatica di come la interpreta Emma Thompson, vero? E invece tocca rassegnarsi: questa è la versione disneyana.
La vera suor Hildegard incontra il figlio di Philomena (e non le rivela la sua identità). |
Philomena non è Hollywood e si vede. Anche nel senso che l'amalgama tra fiction e realtà non funziona, non convince (e in fondo è meglio così). Per più di un'ora è un film che racconta con molto equilibrio una storia vera e agghiacciante di figli del peccato venduti da conventi irlandesi a facoltose famiglie americane: e tutto sembra filare benissimo senza bisogno di deformare i fatti accaduti. Quando all'improvviso irrompe in scena su una sedia a rotelle una suora zombie di 90 anni che rivendica il suo ruolo di venditrice di neonati e si mette a fare una predica contro le insidie della carne - è come se Stephen Frears avesse appaltato il finale del film agli autori di Don Zauker, e forse non ce n'era bisogno. Va da sé che suor Hildegard in realtà era già morta, e prima di morire aveva collaborato con alcune madri desiderose come Philomena di ritrovare i loro figli. Trasformarla nel simbolo di un cattolicesimo arcigno e in decomposizione è una scelta drammatica un po' facile, e soprattutto apre il fianco a polemiche abbastanza pretestuose - d'altro canto è una mossa così teatrale da denunciarsi da sola. A Hollywood sono più sottili, più professionali.
American Hustle, regia di David O. Russell,
dieci nomination e neanche un premio (film, regia, il quartetto degli attori, sceneggiatura originale, scenografia, montaggio, costumi).
"Some of this actually happened". È la didascalia iniziale, potrebbe essere il manifesto del nuovo cinema biopico. Alcune cose verosimili sono finte, altre inverosimili sono proprio vere, e com'è andata davvero non lo sapremo mai. A David O. Russell premeva raccontare una celebre operazione FBI invertendo l'usuale punto di vista: i suoi imbroglioni hanno un'etica, gli agenti federali sono arrivisti senza scrupoli. Ma l'eterna lotta tra il bene e il male non diventa meno banale se la capovolgi, e Russell fatalmente si ritrova a descrivere un sindaco mafioso proprio come si sarebbe presentato lui: un buon padre di famiglia disposto a tutto per trovare lavoro alla sua gente. Tanto poi alla fine chi si ricorda la trama? Di American Hustle sopravvive il parrucchino di Christian Bale, le scollature di Amy Adams, lo smalto per le unghie di Jennifer Lawrence, il petto villoso di Bradley Cooper. Si ha la sensazione che dentro a una confezione così smagliante - e storicamente accurata - si possa contraffare qualsiasi contenuto. In questo film c'è del buono, del meno buono, del falso, e del vero, ma godetevi il pacchetto.
giovedì 19 febbraio 2015
Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2013)
"Biopic" è una parola che abbiamo preso in prestito dall'inglese non molto tempo fa. In realtà i film biografici e/o storici esistono da sempre, e con loro tutto il repertorio di errori, inesattezze, licenze drammatiche. Non abbiamo mai chiesto a un film di raccontarci tutta la verità e nient'altro che la verità, ma negli ultimi tempi la messa in scena delle frottole comincia a risultare un po' inquietante. I film probabilmente non hanno aumentato la loro dose di bugie, ma sono diventati più verosimili - e quindi anche un po' più ambigui. Questo per dire che se avete visto un biopic negli ultimi due anni, probabilmente vi siete convinti di cose non vere. Vediamo qualche esempio, tra i film candidati nelle ultime edizioni degli Oscar.
Argo, di Ben Affleck
Oscar per il miglior film, per la migliore sceneggiatura non originale, per il miglior montaggio.
Per esempio, vi ricordate Argo? Quel bel film "tratto da una storia vera" in cui per riportare a casa dall'Iran di Khomeini un gruppo di cittadini americani, l'agente CIA Ben Affleck si improvvisa produttore di un film di fantascienza? Ecco, le cose non andarono esattamente così. L'invenzione più macroscopica è il ruolo della CIA, che si prende i meriti che nella realtà dovrebbero andare all'intelligence canadese. Più comprensibile l'invenzione di un inseguimento all'aeroporto, che aggiunge un po' di azione al film, laddove nella realtà l'operazione filò molto più liscia. Sotto la pesante patina anni '80, il film contrabbanda un'ossessione per la simultaneità del tutto contemporanea: televisori dappertutto, in cucina, in bagno. Sono scatoloni ingombranti, ma stanno dove oggi starebbero tablet e notebook. Affleck e compagnia fanno il possibile per recuperare il sapore analogico dei file cartacei, delle telefonate criptate, ecc.; ma a un certo punto vogliono farci credere che bastassero pochi secondi da Washington per prenotare un aereo a Teheran: faccia refresh, dice la spia all'addetta all'imbarco, vedrà che la prenotazione c’è. Un refresh nel 1980.
Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow
Oscar per il miglior montaggio sonoro. Nomination alla protagonista (Jessica Chastain), al miglior film, alla sceneggiatura originale e al montaggio.
Ancora un agente segreto contro tutti. A un certo punto di Zero Dark Thirty, l'agente Maya sembra l'unica al mondo a cui interessa ancora trovare Bin Laden. Il suo capo è esasperato: lo vuoi capire che ormai Al Qaeda è una rete di individui che si coordina su internet? Perché perdi ancora tempo con la leggenda del vecchio della montagna? Riuscire a raccontare l'operazione di intelligence che portò alla localizzazione ed eliminazione di Bin Laden come il risultato della testardaggine di un'unica donna contro il 'sistema' sembra un piccolo capolavoro di propaganda. Del resto non sapremo mai come andarono davvero le cose. Oggi conosciamo forse il nome di Maya (Alfreda Frances Bikowski), ma non ci è dato sapere quanto le servirono davvero le confessioni strappate sotto tortura dalla Cia prima dell'amministrazione Obama. La Bigelow non prende davvero posizione: non nega le torture ma ci suggerisce che se ne sarebbe potuto fare a meno; in compenso ci mostra un torturatore che sfoga il suo stress abbracciando teneramente una scimmietta. Secondo un consulente del dipartimento di Stato il film esagera l'importanza della tortura e minimizza il ruolo di Obama. Che altro dovrebbe dire un uomo di Obama? Forse tra cinquant'anni qualche faldone verrà desecretato e si potrà fare un film più obiettivo. Nel 2012 era troppo presto, decisamente. Alla fine del film mi rimane soprattutto la sublime metafora involontaria di quell'Hummer pieno di agenti Cia che gira in tondo per le stradine polverose di un quartiere pakistano senza che nessuno sembri farci caso.
The Master, di Paul Thomas Anderson.
Nomination al migliore attore protagonista (Joaquin Phoenix), e ai migliori attore e attrice non protagonisti (P.S.Hoffman e Amy Adams).
Non è un film su Ron Hubbard. Così ha spiegato per mesi il regista, prima ai finanziatori titubanti e poi ai critici. Il personaggio di Hoffman, che come Ron Hubbard aveva iniziato scrivendo romanzi pulp, in effetti si chiama in un modo diverso - Amy Adams no, si chiama proprio Mary Sue, come la terza moglie di Hubbard. La strana famiglia passa molto tempo in mare, probabilmente per sfuggire a certe indagini federali - proprio come Hubbard, che si autonominò commodoro di una piccola flotta al largo del Portogallo. Il marito ha un figlio scettico che considera il padre un imbroglione. Un figlio di Hubbard cambiò il cognome. Le tecniche di auditing assomigliano a quelle di Scientology. I contratti con termine a un miliardo di anni furono a un certo punto somministrati agli adepti di Scientology. Però P.T.Anderson ha ragione: non è un film su Scientology, non solo per questioni legali. La storia si concentra sulle esperienze del marinaio Freddy, che dopo la guerra entra nell'orbita di una setta pseudoscientifica, sviluppando un rapporto complesso col suo fondatore. Freddy è un personaggio di finzione: il suo punto di vista è interessante, ma inventato di sana pianta. La sensazione di assistere dal di dentro alla nascita di una religione contemporanea è forte, ma completamente illusoria.
No, di Pablo Larraín.
Nomination al miglior film straniero.
No non è propriamente cosa di Hollywood, ma è piaciuto anche là, e soprattutto è un caso limite. Girato nel formato 4:3 e nelle tinte pacchiane dei tv color degli anni '80, il film racconta la storia del referendum che pose fine al regime di Pinochet dalla parte di un giovane pubblicitario che crede di poter sloggiare un dittatore con gli stessi mezzi con cui si vendono bibite frizzanti e forni a micro-onde, e forse ha ragione. Ovviamente dal Cile molti ci hanno fatto sapere che le cose non andarono esattamente così, che il quarto d'ora di pubblicità anti-Pinochet concesso dal regime fu importante ma non determinante, e che a sconfiggere il dittatore fu il coraggio dei volontari che convinsero i cittadini a registrarsi per votare eccetera. Larraín ha risposto che non era sua intenzione mostrare la realtà: ma il suo film si amalgama così bene con gli spot d'annata che è letteralmente impossibile capire quali spezzoni siano falsi e quali veri. A un certo punto compare lo stesso Pinochet, e il regista racconta divertito di aver ricevuto dei complimenti per la somiglianza dell'attore. Probabilmente Larraín non voleva falsificare la memoria storica, ma ci ha dimostrato che i mezzi tecnici per farlo sono già a nostra disposizione.
Lincoln, di Steven Spielberg.
Oscar per il migliore attore protagonista (Daniel Day-Lewis) e per le scenografie.
È "il tradimento dell'opera dello storico", "un sogno", ha dichiarato a un certo punto Spielberg. Un modo elegante per ammettere che lo sceneggiatore Tony Kushner non era riuscito a rendere abbastanza avvincente o simbolica la battaglia parlamentare sul tredicesimo emendamento senza inventarsi dettagli di sana pianta. La moglie di Lincoln che assiste a una seduta del congresso (accompagnata dalla serva afroamericana)? Soldati che recitano a memoria i discorsi del presidente - come se fossero in grado di leggerli su qualche quotidiano che nemmeno li riportava integralmente? E a proposito dell'ossessione per la simultaneità: il generale Grant sul fronte non ha niente di meglio da fare che seguire una noiosa votazione del Congresso in diretta telegrafica? Il film sposa del tutto una tesi discutibile: c'era un solo momento per abolire la schiavitù su tutto il territorio dell'Unione, e Lincoln doveva coglierla a ogni costo, prolungando la guerra e corrompendo il corrompibile. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Anzi, la politica radicale perseguita dai Repubblicani di Thaddeus Stevens (il memorabile Tommy Lee Jones) fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori. Un secolo dopo in molti stati del Sud vigeva ancora la segregazione. Ma questo è un altro film...
Argo, di Ben Affleck
Oscar per il miglior film, per la migliore sceneggiatura non originale, per il miglior montaggio.
Per esempio, vi ricordate Argo? Quel bel film "tratto da una storia vera" in cui per riportare a casa dall'Iran di Khomeini un gruppo di cittadini americani, l'agente CIA Ben Affleck si improvvisa produttore di un film di fantascienza? Ecco, le cose non andarono esattamente così. L'invenzione più macroscopica è il ruolo della CIA, che si prende i meriti che nella realtà dovrebbero andare all'intelligence canadese. Più comprensibile l'invenzione di un inseguimento all'aeroporto, che aggiunge un po' di azione al film, laddove nella realtà l'operazione filò molto più liscia. Sotto la pesante patina anni '80, il film contrabbanda un'ossessione per la simultaneità del tutto contemporanea: televisori dappertutto, in cucina, in bagno. Sono scatoloni ingombranti, ma stanno dove oggi starebbero tablet e notebook. Affleck e compagnia fanno il possibile per recuperare il sapore analogico dei file cartacei, delle telefonate criptate, ecc.; ma a un certo punto vogliono farci credere che bastassero pochi secondi da Washington per prenotare un aereo a Teheran: faccia refresh, dice la spia all'addetta all'imbarco, vedrà che la prenotazione c’è. Un refresh nel 1980.
Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow
Oscar per il miglior montaggio sonoro. Nomination alla protagonista (Jessica Chastain), al miglior film, alla sceneggiatura originale e al montaggio.
Ancora un agente segreto contro tutti. A un certo punto di Zero Dark Thirty, l'agente Maya sembra l'unica al mondo a cui interessa ancora trovare Bin Laden. Il suo capo è esasperato: lo vuoi capire che ormai Al Qaeda è una rete di individui che si coordina su internet? Perché perdi ancora tempo con la leggenda del vecchio della montagna? Riuscire a raccontare l'operazione di intelligence che portò alla localizzazione ed eliminazione di Bin Laden come il risultato della testardaggine di un'unica donna contro il 'sistema' sembra un piccolo capolavoro di propaganda. Del resto non sapremo mai come andarono davvero le cose. Oggi conosciamo forse il nome di Maya (Alfreda Frances Bikowski), ma non ci è dato sapere quanto le servirono davvero le confessioni strappate sotto tortura dalla Cia prima dell'amministrazione Obama. La Bigelow non prende davvero posizione: non nega le torture ma ci suggerisce che se ne sarebbe potuto fare a meno; in compenso ci mostra un torturatore che sfoga il suo stress abbracciando teneramente una scimmietta. Secondo un consulente del dipartimento di Stato il film esagera l'importanza della tortura e minimizza il ruolo di Obama. Che altro dovrebbe dire un uomo di Obama? Forse tra cinquant'anni qualche faldone verrà desecretato e si potrà fare un film più obiettivo. Nel 2012 era troppo presto, decisamente. Alla fine del film mi rimane soprattutto la sublime metafora involontaria di quell'Hummer pieno di agenti Cia che gira in tondo per le stradine polverose di un quartiere pakistano senza che nessuno sembri farci caso.
The Master, di Paul Thomas Anderson.
Nomination al migliore attore protagonista (Joaquin Phoenix), e ai migliori attore e attrice non protagonisti (P.S.Hoffman e Amy Adams).
Non è un film su Ron Hubbard. Così ha spiegato per mesi il regista, prima ai finanziatori titubanti e poi ai critici. Il personaggio di Hoffman, che come Ron Hubbard aveva iniziato scrivendo romanzi pulp, in effetti si chiama in un modo diverso - Amy Adams no, si chiama proprio Mary Sue, come la terza moglie di Hubbard. La strana famiglia passa molto tempo in mare, probabilmente per sfuggire a certe indagini federali - proprio come Hubbard, che si autonominò commodoro di una piccola flotta al largo del Portogallo. Il marito ha un figlio scettico che considera il padre un imbroglione. Un figlio di Hubbard cambiò il cognome. Le tecniche di auditing assomigliano a quelle di Scientology. I contratti con termine a un miliardo di anni furono a un certo punto somministrati agli adepti di Scientology. Però P.T.Anderson ha ragione: non è un film su Scientology, non solo per questioni legali. La storia si concentra sulle esperienze del marinaio Freddy, che dopo la guerra entra nell'orbita di una setta pseudoscientifica, sviluppando un rapporto complesso col suo fondatore. Freddy è un personaggio di finzione: il suo punto di vista è interessante, ma inventato di sana pianta. La sensazione di assistere dal di dentro alla nascita di una religione contemporanea è forte, ma completamente illusoria.
No, di Pablo Larraín.
Nomination al miglior film straniero.
No non è propriamente cosa di Hollywood, ma è piaciuto anche là, e soprattutto è un caso limite. Girato nel formato 4:3 e nelle tinte pacchiane dei tv color degli anni '80, il film racconta la storia del referendum che pose fine al regime di Pinochet dalla parte di un giovane pubblicitario che crede di poter sloggiare un dittatore con gli stessi mezzi con cui si vendono bibite frizzanti e forni a micro-onde, e forse ha ragione. Ovviamente dal Cile molti ci hanno fatto sapere che le cose non andarono esattamente così, che il quarto d'ora di pubblicità anti-Pinochet concesso dal regime fu importante ma non determinante, e che a sconfiggere il dittatore fu il coraggio dei volontari che convinsero i cittadini a registrarsi per votare eccetera. Larraín ha risposto che non era sua intenzione mostrare la realtà: ma il suo film si amalgama così bene con gli spot d'annata che è letteralmente impossibile capire quali spezzoni siano falsi e quali veri. A un certo punto compare lo stesso Pinochet, e il regista racconta divertito di aver ricevuto dei complimenti per la somiglianza dell'attore. Probabilmente Larraín non voleva falsificare la memoria storica, ma ci ha dimostrato che i mezzi tecnici per farlo sono già a nostra disposizione.
Lincoln, di Steven Spielberg.
Ultimamente la somiglianza dei protagonisti è inversamente proporzionale alla qualità del prodotto. |
È "il tradimento dell'opera dello storico", "un sogno", ha dichiarato a un certo punto Spielberg. Un modo elegante per ammettere che lo sceneggiatore Tony Kushner non era riuscito a rendere abbastanza avvincente o simbolica la battaglia parlamentare sul tredicesimo emendamento senza inventarsi dettagli di sana pianta. La moglie di Lincoln che assiste a una seduta del congresso (accompagnata dalla serva afroamericana)? Soldati che recitano a memoria i discorsi del presidente - come se fossero in grado di leggerli su qualche quotidiano che nemmeno li riportava integralmente? E a proposito dell'ossessione per la simultaneità: il generale Grant sul fronte non ha niente di meglio da fare che seguire una noiosa votazione del Congresso in diretta telegrafica? Il film sposa del tutto una tesi discutibile: c'era un solo momento per abolire la schiavitù su tutto il territorio dell'Unione, e Lincoln doveva coglierla a ogni costo, prolungando la guerra e corrompendo il corrompibile. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Anzi, la politica radicale perseguita dai Repubblicani di Thaddeus Stevens (il memorabile Tommy Lee Jones) fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori. Un secolo dopo in molti stati del Sud vigeva ancora la segregazione. Ma questo è un altro film...
La Grande Proletaria è confusa
Ci sono due ipotesi.
La prima è che ci sia da qualche parte in Italia (ma più facilmente altrove) un Potere forte, un gruppo di pressione che ci vuole tra breve in Libia a difendere qualcosa, l'occidente o la cristianità o un oleodotto. Al fine di convincere l'italiano medio, notoriamente refrattario all'idea di combattere (cioè la guerra al cinema non gli dispiace, e i soldati in parata li ammira volentieri: ma morire per questioni territoriali è proprio una cosa che storicamente non gli va giù), al fine di convincerlo, dicevamo, questo Potere forte sta disseminando notizie allarmiste nei media italiane (l'ultima di ieri erano gli "scafisti kamikaze"), calcando la mano su semplici concetti geografici del tipo "la Libia è a sud di Roma" e offrendo finalmente un po' di ribalta agli orrori di quella guerra.
La seconda ipotesi è che non ci sia nessun Potere forte - o meglio, di Poteri forti ce ne sono senz'altro, ma nessuno è particolarmente interessato a un intervento italiano in Libia, o all'Italia in generale. E allora perché si leggono titoli come "l'IS a Roma", e il Giornale ieri titolava "SIAMO NEL MIRINO Arriva la bomba umana"? Ecco, la seconda ipotesi è che i media stiano facendo tutto da soli, seguendo i loro automatismi. C'è una notizia? Fa paura? C'è un modo di scriverla perché ne faccia ancora di più? Sennò la gente non compra / non legge / non clicca / ecc.
La seconda ipotesi è più semplice, non coinvolge nessun Nuovo Ordine Mondiale, ed è quindi preferibile. Controprova: quando qualche anno fa un gruppo di pressione del genere esisteva davvero, e la partecipazione dell'Italia alla Guerra al Terrore di Bush era ancora in discussione, le cose si facevano più seriamente. Bufale ce n'erano anche allora (alla fine le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non è che fossero meno farlocche dei gommoni esplosivi), ma le trovavi negli editoriali del Foglio o della Stampa, non sotto la testata del Giornale. Il Corriere dava risalto ai deliri senili di Oriana Fallaci, sul Foglio Ferrara si rivendeva come consulente Cia, eccetera. Pagliacciate se ne facevano anche allora, ma con più metodo, e soprattutto con una grande costanza: chi c'era se lo ricorderà, di Iraq discutemmo per due anni prima di intervenire davvero. Un sacco di gente aprì blog apposta per farci sapere che intervenire in Iraq era necessario.
Invece stavolta che è successo? Ci siamo scordati della Libia per tre anni, e poi all'improvviso una banda ha conquistato un'emittente radio e ci ha informato di questa curiosa particolarità geografica per cui in effetti sì, la Libia è a sud di Roma. A quel punto dovremmo sentire già suonare pifferi e grancasse; e invece sulla Stampa il titolo dice "Soluzione politica per la Libia", il Corriere sembra più preoccupato da Tsipras, la Fallaci è tornata in tv con una fiction che però era programmata da mesi. Insomma la Libia sembra esserci cascata addosso mentre eravamo in tutt'altro affaccendati, il classico surplus di disgrazie che non vengono mai da sole. E dire che era assolutamente prevedibile, sin dal momento in cui Sarkozy decise di appoggiare dal cielo gli oppositori di Gheddafi. Eliminare un tiranno è sempre la cosa giusta da fare, ma forse bisognava anche avere un piano per il dopo. Non lo avevamo. Dietro la fobia dei complotti c'è l'orrore del vuoto: il Mediterraneo brucia e nessuno sa o vuole dirci cosa fare.
La prima è che ci sia da qualche parte in Italia (ma più facilmente altrove) un Potere forte, un gruppo di pressione che ci vuole tra breve in Libia a difendere qualcosa, l'occidente o la cristianità o un oleodotto. Al fine di convincere l'italiano medio, notoriamente refrattario all'idea di combattere (cioè la guerra al cinema non gli dispiace, e i soldati in parata li ammira volentieri: ma morire per questioni territoriali è proprio una cosa che storicamente non gli va giù), al fine di convincerlo, dicevamo, questo Potere forte sta disseminando notizie allarmiste nei media italiane (l'ultima di ieri erano gli "scafisti kamikaze"), calcando la mano su semplici concetti geografici del tipo "la Libia è a sud di Roma" e offrendo finalmente un po' di ribalta agli orrori di quella guerra.
La seconda ipotesi è che non ci sia nessun Potere forte - o meglio, di Poteri forti ce ne sono senz'altro, ma nessuno è particolarmente interessato a un intervento italiano in Libia, o all'Italia in generale. E allora perché si leggono titoli come "l'IS a Roma", e il Giornale ieri titolava "SIAMO NEL MIRINO Arriva la bomba umana"? Ecco, la seconda ipotesi è che i media stiano facendo tutto da soli, seguendo i loro automatismi. C'è una notizia? Fa paura? C'è un modo di scriverla perché ne faccia ancora di più? Sennò la gente non compra / non legge / non clicca / ecc.
Andiamo avanti così, continuiamo a togliere ore di geografia a scuola, ché tanto non serve a niente. |
Invece stavolta che è successo? Ci siamo scordati della Libia per tre anni, e poi all'improvviso una banda ha conquistato un'emittente radio e ci ha informato di questa curiosa particolarità geografica per cui in effetti sì, la Libia è a sud di Roma. A quel punto dovremmo sentire già suonare pifferi e grancasse; e invece sulla Stampa il titolo dice "Soluzione politica per la Libia", il Corriere sembra più preoccupato da Tsipras, la Fallaci è tornata in tv con una fiction che però era programmata da mesi. Insomma la Libia sembra esserci cascata addosso mentre eravamo in tutt'altro affaccendati, il classico surplus di disgrazie che non vengono mai da sole. E dire che era assolutamente prevedibile, sin dal momento in cui Sarkozy decise di appoggiare dal cielo gli oppositori di Gheddafi. Eliminare un tiranno è sempre la cosa giusta da fare, ma forse bisognava anche avere un piano per il dopo. Non lo avevamo. Dietro la fobia dei complotti c'è l'orrore del vuoto: il Mediterraneo brucia e nessuno sa o vuole dirci cosa fare.
mercoledì 18 febbraio 2015
Il giorno della pecora
Shaun - Vita da pecora: Il film! (Richard Starzak, Mark Burton, 2015)
Quando eravamo cuccioli ci innamoravamo di tutto, la felicità era a portata di zampa come un osso o un ciuffo d'erba. Quando eravamo cuccioli tutto era perfetto e indistruttibile come in un cartone animato di plastilina. Ma poi il cartone animato è andato avanti, le puntate sono diventate stagioni, le stagioni sono volate, e adesso ci costa così fatica anche soltanto recitare la sigla. Come ogni mattino il gallo canterà, il Fattore ti schiaccerà il naso con la porta, e insieme verrete a scortarci verso un altro giorno inutile. Se solo esistesse un altrove dove poter scappare. Il primo colpo di genio bussa a film appena iniziato: la sigla del cartone televisivo (che ogni habitué di Rai Yoyo non può non conoscere a memoria) destrutturata e interpretata dai suoi protagonisti con sempre minor convinzione. La tv come recinto da evadere, il cinema come spazio di fuga. Ma attente, pecorelle: oltre il recinto potrebbe attendervi una gabbia anche peggiore...
Comparsa per la prima volta in un episodio di Wallace e Gromit, la pecora Shaun è ormai il personaggio di maggior successo della Aardman Animations: ma se il vostro amore per gli studios di Bristol e per la loro stopmotion fuori dal tempo si è sviluppato al cinema, grazie a Galline in fuga o la Maledizione del Coniglio Mannaro, è possibilissimo che la pecora fin qui vi sia sfuggita. Chi invece per motivi famigliari si ritrova spesso il telecomando bloccato sul 43, guarda a Shaun con reverenza e gratitudine: è senz'altro il personaggio meno infantile di tutto il palinsesto. In effetti non è ben chiaro che ci faccia tra Peppa Pig e i Teletubbies. Shaun non è soltanto pensato per un pubblico più grandicello: è proprio la sua comicità a non entrare negli stampini con cui si produce oggi l'intrattenimento per le fasce protette.
I cartoni di oggi sono in sostanza tutti sit-com in miniatura: i personaggi, spesso animali antropomorfi, sono inseriti in un contesto sociale modellato sulla famiglia contemporanea, hanno amici con cui litigano e fanno la pace e nel giro di tre-quattro minuti commettono qualche marachella e imparano la lezione. I migliori - quasi sempre inglesi, come Peppa - aggiungono al modello uno humour che li rende più tollerabili ai genitori, ma si guardano bene dal sovvertire la formula. Shaun guarda semplicemente altrove, al surrealismo comico dei Looney Tunes e ancora più indietro. Shaun non parla; vive nel mondo muto e pieno di rumori delle comiche in bianco e nero. Non è un bambino, è una pecora geniale in un mondo di adulti carichi di difetti e frustrazioni. In una delle mie puntate preferite, le pecore si travestono per salvare la festa in maschera organizzata dal Fattore. In qualche modo la cosa funziona, il Fattore balla e beve, e dopo un po’ comincia a provarci con la pecora più grossa. Esatto, lo fanno vedere su Rai Yoyo più o meno verso l’ora di cena. Pensate sia il caso di avvertirli? Il film porta le pecore nella Grande Città – una meravigliosa metropoli di plastilina, tentacolare e familiare a un tempo – e offre anche al Fattore una mezza giornata per riscattarsi dalla mediocrità. Il tema dell’evasione si conferma essere uno dei più congeniali per gli animatori della Aardman: i pochi minuti che Shaun e il cane Blitzer trascorrono nella cella dell’accalappia-animali comunicano un senso di angoscia che non è comune trovare in un prodotto per bambini.
Quando eravamo cuccioli ci innamoravamo di tutto, la felicità era a portata di zampa come un osso o un ciuffo d'erba. Quando eravamo cuccioli tutto era perfetto e indistruttibile come in un cartone animato di plastilina. Ma poi il cartone animato è andato avanti, le puntate sono diventate stagioni, le stagioni sono volate, e adesso ci costa così fatica anche soltanto recitare la sigla. Come ogni mattino il gallo canterà, il Fattore ti schiaccerà il naso con la porta, e insieme verrete a scortarci verso un altro giorno inutile. Se solo esistesse un altrove dove poter scappare. Il primo colpo di genio bussa a film appena iniziato: la sigla del cartone televisivo (che ogni habitué di Rai Yoyo non può non conoscere a memoria) destrutturata e interpretata dai suoi protagonisti con sempre minor convinzione. La tv come recinto da evadere, il cinema come spazio di fuga. Ma attente, pecorelle: oltre il recinto potrebbe attendervi una gabbia anche peggiore...
Me and the farmer like brothers, like sisters |
Comparsa per la prima volta in un episodio di Wallace e Gromit, la pecora Shaun è ormai il personaggio di maggior successo della Aardman Animations: ma se il vostro amore per gli studios di Bristol e per la loro stopmotion fuori dal tempo si è sviluppato al cinema, grazie a Galline in fuga o la Maledizione del Coniglio Mannaro, è possibilissimo che la pecora fin qui vi sia sfuggita. Chi invece per motivi famigliari si ritrova spesso il telecomando bloccato sul 43, guarda a Shaun con reverenza e gratitudine: è senz'altro il personaggio meno infantile di tutto il palinsesto. In effetti non è ben chiaro che ci faccia tra Peppa Pig e i Teletubbies. Shaun non è soltanto pensato per un pubblico più grandicello: è proprio la sua comicità a non entrare negli stampini con cui si produce oggi l'intrattenimento per le fasce protette.
I cartoni di oggi sono in sostanza tutti sit-com in miniatura: i personaggi, spesso animali antropomorfi, sono inseriti in un contesto sociale modellato sulla famiglia contemporanea, hanno amici con cui litigano e fanno la pace e nel giro di tre-quattro minuti commettono qualche marachella e imparano la lezione. I migliori - quasi sempre inglesi, come Peppa - aggiungono al modello uno humour che li rende più tollerabili ai genitori, ma si guardano bene dal sovvertire la formula. Shaun guarda semplicemente altrove, al surrealismo comico dei Looney Tunes e ancora più indietro. Shaun non parla; vive nel mondo muto e pieno di rumori delle comiche in bianco e nero. Non è un bambino, è una pecora geniale in un mondo di adulti carichi di difetti e frustrazioni. In una delle mie puntate preferite, le pecore si travestono per salvare la festa in maschera organizzata dal Fattore. In qualche modo la cosa funziona, il Fattore balla e beve, e dopo un po’ comincia a provarci con la pecora più grossa. Esatto, lo fanno vedere su Rai Yoyo più o meno verso l’ora di cena. Pensate sia il caso di avvertirli? Il film porta le pecore nella Grande Città – una meravigliosa metropoli di plastilina, tentacolare e familiare a un tempo – e offre anche al Fattore una mezza giornata per riscattarsi dalla mediocrità. Il tema dell’evasione si conferma essere uno dei più congeniali per gli animatori della Aardman: i pochi minuti che Shaun e il cane Blitzer trascorrono nella cella dell’accalappia-animali comunicano un senso di angoscia che non è comune trovare in un prodotto per bambini.
L’equivoco è sempre lo stesso: Shaun non è esattamente un prodotto per bambini, ma probabilmente se alla Rai se ne fossero accorti in Italia nessuno lo conoscerebbe, e oggi non sarebbe nemmeno nelle sale. In realtà un po’ di comicità vecchio stile ai bambini non può che far bene – certo, rinunciare ai dialoghi significa privarsi dello humour di altre produzioni Aardman, ma la pecora è comunque divertentissima e gli ottanta minuti volano. Verso la fine accade il solito misfatto: smettiamo di ammirare ogni fotogramma per quello che è, un capolavoro di tecnica artigianale, e ci concentriamo sull’azione, dando per scontato che quelle forme di plastilina siano vive e dotate di passioni e sentimenti. Poi le luci si accendono, parte la sigla: la grande fuga è finita.
Shaun è al Multisala Impero di Bra (20:20), all’Italia di Saluzzo (17:00), al Cinecittà di Savigliano (20:20). Beeeeeeeh!
lunedì 16 febbraio 2015
Questo pezzo non fa ridere (perché voi invece)
Ma certo, anch'io sono stato giovane e ho pensato che dei comici non avevo bisogno. Gente che ti fa ridere mentre il mondo brucia? Spacciatori d'oppio dei popoli, giullari del regime, boooooooh. Oggi la penso in un modo diverso, perché sono vecchio.
Ma anche perché il mondo là fuori è un vero casino - cioè lo è sempre stato, ma da qualche anno a questa parte veramente esagera. C'è bisogno di spiegarvelo? Come ormai non potete più far finta di non sapere, la Libia è nel caos.
Ovviamente è anche colpa nostra, per via di quello che abbiamo fatto e soprattutto lasciato fare qualche anno fa, quando ci fu una cosa che allora chiamavamo primavera araba. Il prezzo dei cereali era impennato, fiorivano rivolte qua e là per il Mediterraneo, e in certi casi se ne approfittò per mandare in pensione alcuni dittatori decisamente impresentabili. L'unico posto in cui la cosa ha funzionato senza troppi disastri fu la Tunisia - meglio che niente.
In Egitto l'esercito scaricò Mubarak, lasciò soffriggere i fratelli Musulmani e poi tornò al potere senza Mubarak (meglio che niente?) In Siria è successo quel che sta succedendo: in sostanza chi pensava di levare di mezzo il dittatore Assad ha scoperchiato un nido di tagliagola, col bel risultato che ora i tagliagola scorrazzano liberi tra Iraq e Kurdistan, girano snuff e li mostrano ai nostri figli su youtube, e a noi tocca pure appoggiare il dittatore e gasatore Assad.
In Libia dopo Gheddafi è proseguita in sostanza la guerra tribale, che nessuno si è filato finché un gruppetto tra tanti non ha issato la bandiera nera dei tagliagola e ci ha ricordato la distanza in miglia nautiche da Roma. Anche qui, come in Siria, la sensazione è che i tagliagola stiano facendo tutto quello che possono per attirare l'attenzione di chi può bombardarli dal cielo e poi asfaltarli a terra, e soffrano molto il fatto che dopo quindici anni di guerra al terrore noi non ci crediamo più così tanto, nella favola dei bombardamenti mirati e nel peacekeeping.
Soprattutto non ci crediamo noi italiani, che per motivi storici dovremmo essere gli ultimi a partecipare a una missione del genere, ma per motivi geografici ci troveremo comunque in prima linea, come ai tempi della Bosnia e del Kossovo (avete voluto una nazione a forma di portaerei?) A quel punto le possibilità di attentati di matrice islamista, come in Francia e in Danimarca, aumentano esponenzialmente. Borghezio e Salvini secondo me non vedono l'ora. Questo è il mondo in cui ultimamente vivo, e immagino anche voi.
Quindi se ogni tanto c'è qualcosa di leggero in tv, chessò, Sanremo, e un comico prova a tirarmi su il morale con qualche battuta disimpegnata, io non ho obiezioni: voi ne avete? Io no, la vita è così dura. Per favore, comico, dammi del tuo meglio.
Il bambino grasso! ma certo! fa ridere perché, invece di essere magro, come tutti i bambini in tv, lui è grasso! Quindi è divertente, perché... boh, perché probabilmente soffre della sua grassezza. Gli altri stanno comodi nella poltrona e lui no, ah ah ah, soffre! E io non soffro come lui! Io mi diverto! Grazie comico! Ora non sto più pensando ai tagliagola dell'Isis, ora sto pensando al fatto che ci sono bambini obesi e hanno una speranza di vita inferiore alla mia! Ah ah ah aah ah.
Bah.
Proprio quando ci vorrebbe davvero qualcuno che non ti facesse pensare troppo a quel che succede, che ne so, in Ucraina - ma a chi la voglio raccontare?
L'Ucraina è lontana e nemmeno le badanti la rimpiangono troppo; quel che davvero mi pesa è l'embargo. Dovete sapere che dalle mie parti, in questi anni difficili, c'è stato qualcosa a cui ci siamo aggrappati come a un solido albero maestro in un naufragio, e questo qualcosa era il Ricco Russo Cafone. Sapete quando dicevano che il Lusso teneva, che il Lusso ci avrebbe salvato: vi sarete domandati anche voi chi era previsto si comprasse tutto questo Lusso neanche troppo ben confezionato. Il RRS (PPC) era la risposta. Non c'era vestito ultravalutato che non avrebbe comprato per sé o per qualche sua accompagnatice; non c'era ristorante esagerato in cui non avrebbe ordinato ostriche champagne e cocacola, perché egli era Ricco, Russo e Cafone, e sopra ogni considerazione geopolitica sarebbe sempre prevalso l'atavico amore per Toto Cutugno.
Poi gli americani, pardon, la Nato ha deciso di espandersi a est - perché poi? Non c'è un perché, un'alleanza militare o si espande o si ritira, la stasi non esiste - Putin si è sentito minacciato dalla prospettiva di qualche base missilistica o dronica a meno di 300 km da Mosca, ha armato qualche separatista, Obama ci ha imposto l'embargo, tanto a lui che frega? Mica deve vendere accessori griffati ai mafiosi di San Pietroburgo, lui, e così addio Ricco Russo Cafone, dasvidaniya PPC. Ho sentito dire che a Madonna di Campiglio è un mortorio, vi rendete conto? E non torneranno mai più, sapete, non torneranno. Putin vuole potenziare il prodotto interno, farà costruire qualche Madonna di Campiglio sugli Urali. Nella crisi in cui siamo avevamo un solo relitto a cui appoggiarci, e ci hanno tolto anche quello in nome di beghe geopolitiche che comunque a noi non frutteranno un soldo. Non ha neanche senso lamentarsene, è andata così. Si fossero almeno tenuti Toto Cutugno, no, ne faranno una copia autoctona. Se magari ci fosse un modo stasera di riderci su, un comico che riuscisse a strapparci una risata con qualcosa di genuinamente divertente...
Ma anche perché il mondo là fuori è un vero casino - cioè lo è sempre stato, ma da qualche anno a questa parte veramente esagera. C'è bisogno di spiegarvelo? Come ormai non potete più far finta di non sapere, la Libia è nel caos.
Ovviamente è anche colpa nostra, per via di quello che abbiamo fatto e soprattutto lasciato fare qualche anno fa, quando ci fu una cosa che allora chiamavamo primavera araba. Il prezzo dei cereali era impennato, fiorivano rivolte qua e là per il Mediterraneo, e in certi casi se ne approfittò per mandare in pensione alcuni dittatori decisamente impresentabili. L'unico posto in cui la cosa ha funzionato senza troppi disastri fu la Tunisia - meglio che niente.
In Egitto l'esercito scaricò Mubarak, lasciò soffriggere i fratelli Musulmani e poi tornò al potere senza Mubarak (meglio che niente?) In Siria è successo quel che sta succedendo: in sostanza chi pensava di levare di mezzo il dittatore Assad ha scoperchiato un nido di tagliagola, col bel risultato che ora i tagliagola scorrazzano liberi tra Iraq e Kurdistan, girano snuff e li mostrano ai nostri figli su youtube, e a noi tocca pure appoggiare il dittatore e gasatore Assad.
In Libia dopo Gheddafi è proseguita in sostanza la guerra tribale, che nessuno si è filato finché un gruppetto tra tanti non ha issato la bandiera nera dei tagliagola e ci ha ricordato la distanza in miglia nautiche da Roma. Anche qui, come in Siria, la sensazione è che i tagliagola stiano facendo tutto quello che possono per attirare l'attenzione di chi può bombardarli dal cielo e poi asfaltarli a terra, e soffrano molto il fatto che dopo quindici anni di guerra al terrore noi non ci crediamo più così tanto, nella favola dei bombardamenti mirati e nel peacekeeping.
Soprattutto non ci crediamo noi italiani, che per motivi storici dovremmo essere gli ultimi a partecipare a una missione del genere, ma per motivi geografici ci troveremo comunque in prima linea, come ai tempi della Bosnia e del Kossovo (avete voluto una nazione a forma di portaerei?) A quel punto le possibilità di attentati di matrice islamista, come in Francia e in Danimarca, aumentano esponenzialmente. Borghezio e Salvini secondo me non vedono l'ora. Questo è il mondo in cui ultimamente vivo, e immagino anche voi.
Quindi se ogni tanto c'è qualcosa di leggero in tv, chessò, Sanremo, e un comico prova a tirarmi su il morale con qualche battuta disimpegnata, io non ho obiezioni: voi ne avete? Io no, la vita è così dura. Per favore, comico, dammi del tuo meglio.
Il bambino grasso! ma certo! fa ridere perché, invece di essere magro, come tutti i bambini in tv, lui è grasso! Quindi è divertente, perché... boh, perché probabilmente soffre della sua grassezza. Gli altri stanno comodi nella poltrona e lui no, ah ah ah, soffre! E io non soffro come lui! Io mi diverto! Grazie comico! Ora non sto più pensando ai tagliagola dell'Isis, ora sto pensando al fatto che ci sono bambini obesi e hanno una speranza di vita inferiore alla mia! Ah ah ah aah ah.
Bah.
Proprio quando ci vorrebbe davvero qualcuno che non ti facesse pensare troppo a quel che succede, che ne so, in Ucraina - ma a chi la voglio raccontare?
L'Ucraina è lontana e nemmeno le badanti la rimpiangono troppo; quel che davvero mi pesa è l'embargo. Dovete sapere che dalle mie parti, in questi anni difficili, c'è stato qualcosa a cui ci siamo aggrappati come a un solido albero maestro in un naufragio, e questo qualcosa era il Ricco Russo Cafone. Sapete quando dicevano che il Lusso teneva, che il Lusso ci avrebbe salvato: vi sarete domandati anche voi chi era previsto si comprasse tutto questo Lusso neanche troppo ben confezionato. Il RRS (PPC) era la risposta. Non c'era vestito ultravalutato che non avrebbe comprato per sé o per qualche sua accompagnatice; non c'era ristorante esagerato in cui non avrebbe ordinato ostriche champagne e cocacola, perché egli era Ricco, Russo e Cafone, e sopra ogni considerazione geopolitica sarebbe sempre prevalso l'atavico amore per Toto Cutugno.
Poi gli americani, pardon, la Nato ha deciso di espandersi a est - perché poi? Non c'è un perché, un'alleanza militare o si espande o si ritira, la stasi non esiste - Putin si è sentito minacciato dalla prospettiva di qualche base missilistica o dronica a meno di 300 km da Mosca, ha armato qualche separatista, Obama ci ha imposto l'embargo, tanto a lui che frega? Mica deve vendere accessori griffati ai mafiosi di San Pietroburgo, lui, e così addio Ricco Russo Cafone, dasvidaniya PPC. Ho sentito dire che a Madonna di Campiglio è un mortorio, vi rendete conto? E non torneranno mai più, sapete, non torneranno. Putin vuole potenziare il prodotto interno, farà costruire qualche Madonna di Campiglio sugli Urali. Nella crisi in cui siamo avevamo un solo relitto a cui appoggiarci, e ci hanno tolto anche quello in nome di beghe geopolitiche che comunque a noi non frutteranno un soldo. Non ha neanche senso lamentarsene, è andata così. Si fossero almeno tenuti Toto Cutugno, no, ne faranno una copia autoctona. Se magari ci fosse un modo stasera di riderci su, un comico che riuscisse a strapparci una risata con qualcosa di genuinamente divertente...
domenica 15 febbraio 2015
Il diabolico piano di M. Renzi
A questo punto, se Renzi sta eseguendo un piano, si tratta quantomeno di un congegno molto complesso. L'alternativa, purtroppo più verisimile, è che stia tirando leve a casaccio nella speranza che l'aggeggio si metta in moto oppure esploda - farebbe veramente qualche differenza per lui?
È molto difficile scrivere di Renzi senza intrupparsi tra chi ormai lo detesta o lo appoggia per partito preso. A me piacerebbe conquistare una postazione neutra (sarà dura, coi miei precedenti), e da questa chiedermi: perché Matteo Renzi ha perso così tanto tempo dietro a Berlusconi - un anno! - se dopotutto le riforme non le voleva fare con lui? E se le voleva fare con lui, perché si è giocato un'alleanza portata avanti con tanta fatica, il tutto per mandare al Quirinale un presidente nemmeno così tanto renziano? Sul serio prevedeva di arrivare a questo punto, col parlamento scassato e una riforma costituzionale promossa da una maggioranza alla camera che rappresenta, ricordiamolo, meno di un terzo dell'elettorato? E se non voleva arrivare a questo punto, com'è successo che ci sia arrivato?
La tentazione di buttarla in psicologia è molto forte. Con Berlusconi Renzi sembra avere in comune un narcisismo che lo porta a concepire l'azione politica come un'infinita lotta per l'autoaffermazione. Come Berlusconi, Renzi ci prova a governare, ma quello che gli piace davvero è la campagna elettorale. Non c'è nessun motivo sensato per buttare via il lavoro di un anno e andare alle elezioni, e infatti non è detto che Renzi desideri farlo: ma inconsciamente è lì che ci sta portando. Questa è una prima ipotesi, che probabilmente fa torto all'intelligenza dell'uomo.
Forse vale la pena di mettersi nei suoi panni - il che implica non credere alle storie che più volte ci ha raccontato. Per esempio: non è vero che le riforme si dovevano per forza fare con Berlusconi, almeno tecnicamente, visto che nemmeno Berlusconi portava in dote il numero di parlamentari sufficiente a ottenere la maggioranza qualificata necessaria. Anche prima che Berlusconi chiudesse le porte, sapevamo che queste riforme avrebbero richiesto un referendum confermativo. Fino a un mese fa questo referendum rischiava di diventare una consultazione popolare sul patto del Nazareno: vi piace la coppia Renzi-Berlusconi, sì o no? Ma ora che ha chiuso con Berlusconi, il referendum diventa quello che Renzi ha sempre voluto che fosse: un plebiscito su di lui.
In questa prospettiva tutto diventa un pretesto: la tenuta del parlamento, il senso di un'alleanza portata avanti per un anno, la natura stessa di queste riforme che all'inizio erano molto brutte ma poi sono state emendate a piacere: tutto questo Renzi se lo può giocare in una sera, perché quello che conta è che si vada a votare, e forse è davvero meglio andarci subito, mentre Forza Italia è nel caos e Salvini promette bene ma non è ancora diventato il leader di una piattaforma di centrodestra.
Quindi forse Renzi ce l'ha, un piano. Sta a noi decidere di farcelo piacere o no. Il fatto che si vada alle elezioni invece che a un referendum può fare la differenza. Il referendum ci imporrebbe di scegliere se farci piacere la riforma di Renzi o umiliarlo. Davanti a un bivio del genere io non avrei molti dubbi su che direzione prendere. Ma se invece del referendum si andrà alle elezioni, le opzioni in ballo saranno diverse: grosso modo sarà o Renzi o fuori dall'Europa. Ecco, a quel punto molti come me, che non avrebbero votato per lui al referendum, potrebbero decidere di sostenerlo anche se non lo sopportano. Quindi, tra elezioni anticipate e referendum confermativo, Renzi ha un buon motivo per preferire le prime.
Oppure non ha nessuna idea di quel che sta facendo: sta smontando e rimontando pezzi nella speranza che il congegno si metta in modo oppure esploda. In fondo per lui non deve fare tutta questa differenza.
È molto difficile scrivere di Renzi senza intrupparsi tra chi ormai lo detesta o lo appoggia per partito preso. A me piacerebbe conquistare una postazione neutra (sarà dura, coi miei precedenti), e da questa chiedermi: perché Matteo Renzi ha perso così tanto tempo dietro a Berlusconi - un anno! - se dopotutto le riforme non le voleva fare con lui? E se le voleva fare con lui, perché si è giocato un'alleanza portata avanti con tanta fatica, il tutto per mandare al Quirinale un presidente nemmeno così tanto renziano? Sul serio prevedeva di arrivare a questo punto, col parlamento scassato e una riforma costituzionale promossa da una maggioranza alla camera che rappresenta, ricordiamolo, meno di un terzo dell'elettorato? E se non voleva arrivare a questo punto, com'è successo che ci sia arrivato?
La tentazione di buttarla in psicologia è molto forte. Con Berlusconi Renzi sembra avere in comune un narcisismo che lo porta a concepire l'azione politica come un'infinita lotta per l'autoaffermazione. Come Berlusconi, Renzi ci prova a governare, ma quello che gli piace davvero è la campagna elettorale. Non c'è nessun motivo sensato per buttare via il lavoro di un anno e andare alle elezioni, e infatti non è detto che Renzi desideri farlo: ma inconsciamente è lì che ci sta portando. Questa è una prima ipotesi, che probabilmente fa torto all'intelligenza dell'uomo.
Forse vale la pena di mettersi nei suoi panni - il che implica non credere alle storie che più volte ci ha raccontato. Per esempio: non è vero che le riforme si dovevano per forza fare con Berlusconi, almeno tecnicamente, visto che nemmeno Berlusconi portava in dote il numero di parlamentari sufficiente a ottenere la maggioranza qualificata necessaria. Anche prima che Berlusconi chiudesse le porte, sapevamo che queste riforme avrebbero richiesto un referendum confermativo. Fino a un mese fa questo referendum rischiava di diventare una consultazione popolare sul patto del Nazareno: vi piace la coppia Renzi-Berlusconi, sì o no? Ma ora che ha chiuso con Berlusconi, il referendum diventa quello che Renzi ha sempre voluto che fosse: un plebiscito su di lui.
In questa prospettiva tutto diventa un pretesto: la tenuta del parlamento, il senso di un'alleanza portata avanti per un anno, la natura stessa di queste riforme che all'inizio erano molto brutte ma poi sono state emendate a piacere: tutto questo Renzi se lo può giocare in una sera, perché quello che conta è che si vada a votare, e forse è davvero meglio andarci subito, mentre Forza Italia è nel caos e Salvini promette bene ma non è ancora diventato il leader di una piattaforma di centrodestra.
Quindi forse Renzi ce l'ha, un piano. Sta a noi decidere di farcelo piacere o no. Il fatto che si vada alle elezioni invece che a un referendum può fare la differenza. Il referendum ci imporrebbe di scegliere se farci piacere la riforma di Renzi o umiliarlo. Davanti a un bivio del genere io non avrei molti dubbi su che direzione prendere. Ma se invece del referendum si andrà alle elezioni, le opzioni in ballo saranno diverse: grosso modo sarà o Renzi o fuori dall'Europa. Ecco, a quel punto molti come me, che non avrebbero votato per lui al referendum, potrebbero decidere di sostenerlo anche se non lo sopportano. Quindi, tra elezioni anticipate e referendum confermativo, Renzi ha un buon motivo per preferire le prime.
Oppure non ha nessuna idea di quel che sta facendo: sta smontando e rimontando pezzi nella speranza che il congegno si metta in modo oppure esploda. In fondo per lui non deve fare tutta questa differenza.
sabato 14 febbraio 2015
Un giorno da cretini
Italiano medio (Maccio Capatonda, 2015)
Essere un cretino, almeno per un giorno. Non dirmi che non ne hai mai avuto voglia. Guardati intorno. In tv c'è Sanremo, e non ti piace una canzone. Al cinema c'è 50 sfumature di grigio, ti annoia già dal titolo. Non dirmi che non ci hai mai pensato: se stasera fossi un cretino allora sì che mi divertirei. Riderei di qualsiasi cosa, mi accoppierei con qualsiasi cosa; guiderei un macchinone in mezzo alla carreggiata perché sì; sarei felice. Magari non tutta la vita, ma se ci fosse una pillola e avesse un effetto di due ore, non la prenderesti?
Italiano medio è il film non troppo deludente di Maccio Capatonda, un comico che negli ultimi anni ha rischiato parecchio tra youtube tv e radio, oscillando tra l'abisso di non essere capito e quello di finire a lavorare allo zoo di 105. Non è poi così strano che dopo tanti rischi, nel momento di portare il suo mondo al cinema, abbia prevalso una certa prudenza: se Italiano medio ha un difetto è proprio di essere esattamente il film di Maccio Capatonda che un po' tutti ci aspettavamo. Non poteva mancare Herbert Ballerina, ovviamente c'è Ivo Avido, e tutta la compagnia di giro che rafforza la sensazione di trovarsi davanti a una puntata speciale di Mario, un po' meno folle di quelle che vanno in rotazione su Mtv. Del resto, avercene. Cioè non è che la situazione del cinema italiano (e non solo di quello) sia tale da farci sputare sopra a una puntata speciale di Mario. Il buon successo di Italiano medio non va solo letto in assoluto, ma anche confrontato con quello delle solite-commedie-italiane che stanno uscendo in questo stesso periodo e che scompaiono dai radar già alla seconda settimana. Maccio è andato molto meglio di Belen, questo forse un mese fa non era prevedibile - in realtà non ho niente contro Belen attrice, ma se in giro c'è un film che mentre ti fa ridere ti piazza qualche riferimento a Franzen o Palahniuk, non è una buona notizia?
Italiano medio è anche un compendio di tutto quello che Maccio ha fatto fin qui. Com'è noto, il film sviluppa le premesse di uno dei finti trailer che lo fecero conoscere negli ultimi anni di Mai dire Goal. Il trailer in questione per la verità è un po' più tardo (2012), ma il film che ne scaturisce potrebbe essere stato scritto anche dieci anni fa (continua su +eventi!) per come inquadra una serie di bersagli che oggi sono già un po' sfumati all'orizzonte: i calciatori scemi e le veline, i tronisti e i privé. Come già in Mario, Maccio qui dà libero sfogo a un antiberlusconismo viscerale come al cinema forse non abbiamo mai visto: l'arrivo della tv commerciale è considerato alla stregua della cacciata dal paradiso terrestre. La doppia identità del suo eroe, Giulio Verme, è un risultato di quello choc primigenio: da una parte un neobarbaro lobotomizzato, dall'altra un moralista sterile incapace di qualsiasi attrito con la realtà. Già questa piccola analisi, buttata lì in un film che non si vergogna nemmeno un istante di far ridere con scoregge e giochi di parole, sta qualche metro sopra alla capacità di autoanalisi delle commedie sofisticate che si fanno giù a Roma, dove essere berlusconiani o anti è semplicemente una questione di status, molto spesso ereditato o ricevuto in dote. Maccio è più viscerale, ma anche più interessato al concetto del "berlusconi in me": si capisce che è alla ricerca di una sintesi, e che è molto scettico sulla possibilità di raggiungerla (in questo senso il finale è sì, sorprendente, e ti riconcilia col senso del film). Forse ha qualche compromesso da rimproverarsi (lavora per uno dei programmi radiofonici più trucidi, gira film con la Medusa). Nel frattempo ti abbozza anche un'idea del grillismo, la solidarietà di un gruppo di freak che nel deserto sociale si ritrova insieme contro tutto senza nemmeno bene ricordarsi il perché. Pacifisti violenti, complottisti creativi, imbecilli che ci fanno sentire intelligenti, ex vip qualunque non rassegnati all'oblio, non manca nessuno. Non so se Italiano medio farà ancora ridere tra vent'anni, ma sicuramente tornerà utile per farci ricordare come ci sentivamo. Circondati da cretini, invidiosi dei loro trionfi, disperatamente disposti a dialogare con loro.
Alla terza settimana, Italiano medio è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (sabato solo alle 22:40; da domenica a venerdì alle 22:40 ma anche alle 20:30).
Essere un cretino, almeno per un giorno. Non dirmi che non ne hai mai avuto voglia. Guardati intorno. In tv c'è Sanremo, e non ti piace una canzone. Al cinema c'è 50 sfumature di grigio, ti annoia già dal titolo. Non dirmi che non ci hai mai pensato: se stasera fossi un cretino allora sì che mi divertirei. Riderei di qualsiasi cosa, mi accoppierei con qualsiasi cosa; guiderei un macchinone in mezzo alla carreggiata perché sì; sarei felice. Magari non tutta la vita, ma se ci fosse una pillola e avesse un effetto di due ore, non la prenderesti?
Italiano medio è il film non troppo deludente di Maccio Capatonda, un comico che negli ultimi anni ha rischiato parecchio tra youtube tv e radio, oscillando tra l'abisso di non essere capito e quello di finire a lavorare allo zoo di 105. Non è poi così strano che dopo tanti rischi, nel momento di portare il suo mondo al cinema, abbia prevalso una certa prudenza: se Italiano medio ha un difetto è proprio di essere esattamente il film di Maccio Capatonda che un po' tutti ci aspettavamo. Non poteva mancare Herbert Ballerina, ovviamente c'è Ivo Avido, e tutta la compagnia di giro che rafforza la sensazione di trovarsi davanti a una puntata speciale di Mario, un po' meno folle di quelle che vanno in rotazione su Mtv. Del resto, avercene. Cioè non è che la situazione del cinema italiano (e non solo di quello) sia tale da farci sputare sopra a una puntata speciale di Mario. Il buon successo di Italiano medio non va solo letto in assoluto, ma anche confrontato con quello delle solite-commedie-italiane che stanno uscendo in questo stesso periodo e che scompaiono dai radar già alla seconda settimana. Maccio è andato molto meglio di Belen, questo forse un mese fa non era prevedibile - in realtà non ho niente contro Belen attrice, ma se in giro c'è un film che mentre ti fa ridere ti piazza qualche riferimento a Franzen o Palahniuk, non è una buona notizia?
Italiano medio è anche un compendio di tutto quello che Maccio ha fatto fin qui. Com'è noto, il film sviluppa le premesse di uno dei finti trailer che lo fecero conoscere negli ultimi anni di Mai dire Goal. Il trailer in questione per la verità è un po' più tardo (2012), ma il film che ne scaturisce potrebbe essere stato scritto anche dieci anni fa (continua su +eventi!) per come inquadra una serie di bersagli che oggi sono già un po' sfumati all'orizzonte: i calciatori scemi e le veline, i tronisti e i privé. Come già in Mario, Maccio qui dà libero sfogo a un antiberlusconismo viscerale come al cinema forse non abbiamo mai visto: l'arrivo della tv commerciale è considerato alla stregua della cacciata dal paradiso terrestre. La doppia identità del suo eroe, Giulio Verme, è un risultato di quello choc primigenio: da una parte un neobarbaro lobotomizzato, dall'altra un moralista sterile incapace di qualsiasi attrito con la realtà. Già questa piccola analisi, buttata lì in un film che non si vergogna nemmeno un istante di far ridere con scoregge e giochi di parole, sta qualche metro sopra alla capacità di autoanalisi delle commedie sofisticate che si fanno giù a Roma, dove essere berlusconiani o anti è semplicemente una questione di status, molto spesso ereditato o ricevuto in dote. Maccio è più viscerale, ma anche più interessato al concetto del "berlusconi in me": si capisce che è alla ricerca di una sintesi, e che è molto scettico sulla possibilità di raggiungerla (in questo senso il finale è sì, sorprendente, e ti riconcilia col senso del film). Forse ha qualche compromesso da rimproverarsi (lavora per uno dei programmi radiofonici più trucidi, gira film con la Medusa). Nel frattempo ti abbozza anche un'idea del grillismo, la solidarietà di un gruppo di freak che nel deserto sociale si ritrova insieme contro tutto senza nemmeno bene ricordarsi il perché. Pacifisti violenti, complottisti creativi, imbecilli che ci fanno sentire intelligenti, ex vip qualunque non rassegnati all'oblio, non manca nessuno. Non so se Italiano medio farà ancora ridere tra vent'anni, ma sicuramente tornerà utile per farci ricordare come ci sentivamo. Circondati da cretini, invidiosi dei loro trionfi, disperatamente disposti a dialogare con loro.
Alla terza settimana, Italiano medio è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (sabato solo alle 22:40; da domenica a venerdì alle 22:40 ma anche alle 20:30).
venerdì 13 febbraio 2015
Canzoni ascoltabili a Sanremo (3)
(Prosegue dall'anno scorso)
Il ragazzo della via Gluck (1966, Adriano Celentano)
Questa è la storia di uno di noi. Esempio raro di canzone che a Sanremo non deve proprio niente - qualcuno si ricorda che partecipò? Del resto fu bocciata subito, e non credo che sussistano filmati dell'esibizione. Celentano avrebbe poi partecipato con molti altri suoi classici, e vinto nel 1970 con un pezzo che mi causa sofferenza anche solo a ricordarne il titolo. La via Gluck è un caso a parte, il classico miracolo che poi Celentano tentò più volte di replicare in laboratorio - una ballatona ecologista, che ci vuole? - senza riuscirci mai. In quella strofa lagnosa c'è qualcosa di arcaico, un vago sapore di cantastorie in piazza che poi nel ritornello si camuffa da gospel. Era una melodia strana, a sentirla per la prima volta. Ufficialmente l'autore della musica è proprio A. Celentano, il che avrebbe un senso (c'è qualcosa di insopprimibilmente barbarico in quella cantilena) ma alla Siae è registrato anche il nome di Detto Mariano. E poi c'è il testo (Beretta/Del Prete), che sposa perfettamente l'ambigua ingenuità della musica, chiude bruscamente con fiori e amori e inquadra boom e speculazione edilizia con la spietata lucidità dei disegni dei bambini. Potremmo dire che Celentano, proprio mentre ci offriva un saggio impressionante delle sue qualità vocali, stava inventando qualcosa di molto meno cantato e molto più moderno. Potremmo anche aggiungere che nel call and response finale il giovane divo del rock si sta già allenando al ruolo di re degli ignoranti, trasformando consapevolmente la cronaca desolata del boom in una querula lagna dal barbiere, e signora mia io non so mica dove andremo a finire ("Non lasciano l'erba! Non lasciano l'erba! Eh, no, se andiamo avanti così / chissà / come si farà"). Pochi mesi dopo Gaber scrisse una borghesissima Risposta al Ragazzo della via Gluck molto meno conosciuta, ma a suo modo ugualmente geniale.
4 marzo 1943 (1971, Lucio Dalla, testo micidiale di Paola Pallottino)
Dice ch'era un bell'uomo. Non c'è niente da fare, ogni volta che controllo mi accorgo che non vinse Sanremo, poi me ne dimentico. È una nozione che mi rifiuto di registrare. 4 marzo arrivò terza: non male per una canzone che per strada aveva perso qualche pezzo di testo ("bestemmio", "puttane") e addirittura il titolo ("Gesù Bambino"). Anche 4 marzo riprende molto alla lontana una melodia popolare - lo stornello - barattando il ritornello con un elementare fraseggio di violino che ti si conficca nel cuore. Non c'è niente di più banale del passaggio dal do al la minore, non c'è nulla di più potente. Se poi dal la minore, invece di proseguire per il solito giro, ritorni subito al do, è come se dicessi alle lacrime: statevene pure lì dove siete, questa storia squallida e triste la racconterò come una favola a lieto fine. Quattro marzo è un romanzo in tre minuti, un piccolo congegno micidiale, scritto da una signora che poi nella vita fece tutt'altro. Chi la cantava invece in seguito sarebbe diventato uno dei più grandi cantautori italiani, ma non aveva quasi ancora messo un verso su un foglio. Non stupisce che abbia vinto a Sanremo - ah, non ha vinto? E chi vinse quell'anno? Boh.
Lei verrà (1986, Mango).
Amore che non dà più sogni. Io nel 1986 ormai c'ero, nel senso che non scambiavo più Toto Cutugno per un cantautore impegnato o Vasco per un barbone. Da quel che ho capito la persistenza di personaggi come Albano e Romina sta alimentando una specie di mito del Sanremo anni Ottanta come un oggetto monolitico: non era così, era qualcosa in costante evoluzione. Nell'86 Albano e Romina non venivano da due anni e sembrava che nessuno li rimpiangesse, come se ce li fossimo già lasciati alle spalle. Il presente era Eros Ramazzotti, era Zucchero, ed era persino Mango, che a metà Ottanta si stava ritagliando un'imprevedibile egemonia. In quell'edizione firmava la sigla della Goggi, il pezzo della Bertè (che nella finale si mise un pancione finto), un pezzo per le Nuove proposte e ovviamente Lei verrà, che nell'86 non assomigliava a nulla, o meglio: assomigliava solo a Mango, originale e riconoscibile a un tempo. Credo che tutti i musicisti abbiano diritto a scrivere almeno una progressione Pachelbel nella loro carriera: credo che pochi negli ultimi quarant'anni se la siano cavati con la levità di Pino Mango, sospeso miracolosamente sulla cresta di cose che non ci piacevano più (il falsetto) o che stavano per stancarci definitivamente. Con Lei verrà Mango sembrava entrato a pieni diritto nell'olimpo della musica italiana: non so poi come andò a finire, forse ne uscì poco dopo per qualche scelta sbagliata; forse entrò un sacco di gente e smettemmo di considerarlo un olimpo.
(Lo so, ce ne sono tantissime altre, non mancheranno occasioni).
Il ragazzo della via Gluck (1966, Adriano Celentano)
Questa è la storia di uno di noi. Esempio raro di canzone che a Sanremo non deve proprio niente - qualcuno si ricorda che partecipò? Del resto fu bocciata subito, e non credo che sussistano filmati dell'esibizione. Celentano avrebbe poi partecipato con molti altri suoi classici, e vinto nel 1970 con un pezzo che mi causa sofferenza anche solo a ricordarne il titolo. La via Gluck è un caso a parte, il classico miracolo che poi Celentano tentò più volte di replicare in laboratorio - una ballatona ecologista, che ci vuole? - senza riuscirci mai. In quella strofa lagnosa c'è qualcosa di arcaico, un vago sapore di cantastorie in piazza che poi nel ritornello si camuffa da gospel. Era una melodia strana, a sentirla per la prima volta. Ufficialmente l'autore della musica è proprio A. Celentano, il che avrebbe un senso (c'è qualcosa di insopprimibilmente barbarico in quella cantilena) ma alla Siae è registrato anche il nome di Detto Mariano. E poi c'è il testo (Beretta/Del Prete), che sposa perfettamente l'ambigua ingenuità della musica, chiude bruscamente con fiori e amori e inquadra boom e speculazione edilizia con la spietata lucidità dei disegni dei bambini. Potremmo dire che Celentano, proprio mentre ci offriva un saggio impressionante delle sue qualità vocali, stava inventando qualcosa di molto meno cantato e molto più moderno. Potremmo anche aggiungere che nel call and response finale il giovane divo del rock si sta già allenando al ruolo di re degli ignoranti, trasformando consapevolmente la cronaca desolata del boom in una querula lagna dal barbiere, e signora mia io non so mica dove andremo a finire ("Non lasciano l'erba! Non lasciano l'erba! Eh, no, se andiamo avanti così / chissà / come si farà"). Pochi mesi dopo Gaber scrisse una borghesissima Risposta al Ragazzo della via Gluck molto meno conosciuta, ma a suo modo ugualmente geniale.
4 marzo 1943 (1971, Lucio Dalla, testo micidiale di Paola Pallottino)
Dice ch'era un bell'uomo. Non c'è niente da fare, ogni volta che controllo mi accorgo che non vinse Sanremo, poi me ne dimentico. È una nozione che mi rifiuto di registrare. 4 marzo arrivò terza: non male per una canzone che per strada aveva perso qualche pezzo di testo ("bestemmio", "puttane") e addirittura il titolo ("Gesù Bambino"). Anche 4 marzo riprende molto alla lontana una melodia popolare - lo stornello - barattando il ritornello con un elementare fraseggio di violino che ti si conficca nel cuore. Non c'è niente di più banale del passaggio dal do al la minore, non c'è nulla di più potente. Se poi dal la minore, invece di proseguire per il solito giro, ritorni subito al do, è come se dicessi alle lacrime: statevene pure lì dove siete, questa storia squallida e triste la racconterò come una favola a lieto fine. Quattro marzo è un romanzo in tre minuti, un piccolo congegno micidiale, scritto da una signora che poi nella vita fece tutt'altro. Chi la cantava invece in seguito sarebbe diventato uno dei più grandi cantautori italiani, ma non aveva quasi ancora messo un verso su un foglio. Non stupisce che abbia vinto a Sanremo - ah, non ha vinto? E chi vinse quell'anno? Boh.
Lei verrà (1986, Mango).
Amore che non dà più sogni. Io nel 1986 ormai c'ero, nel senso che non scambiavo più Toto Cutugno per un cantautore impegnato o Vasco per un barbone. Da quel che ho capito la persistenza di personaggi come Albano e Romina sta alimentando una specie di mito del Sanremo anni Ottanta come un oggetto monolitico: non era così, era qualcosa in costante evoluzione. Nell'86 Albano e Romina non venivano da due anni e sembrava che nessuno li rimpiangesse, come se ce li fossimo già lasciati alle spalle. Il presente era Eros Ramazzotti, era Zucchero, ed era persino Mango, che a metà Ottanta si stava ritagliando un'imprevedibile egemonia. In quell'edizione firmava la sigla della Goggi, il pezzo della Bertè (che nella finale si mise un pancione finto), un pezzo per le Nuove proposte e ovviamente Lei verrà, che nell'86 non assomigliava a nulla, o meglio: assomigliava solo a Mango, originale e riconoscibile a un tempo. Credo che tutti i musicisti abbiano diritto a scrivere almeno una progressione Pachelbel nella loro carriera: credo che pochi negli ultimi quarant'anni se la siano cavati con la levità di Pino Mango, sospeso miracolosamente sulla cresta di cose che non ci piacevano più (il falsetto) o che stavano per stancarci definitivamente. Con Lei verrà Mango sembrava entrato a pieni diritto nell'olimpo della musica italiana: non so poi come andò a finire, forse ne uscì poco dopo per qualche scelta sbagliata; forse entrò un sacco di gente e smettemmo di considerarlo un olimpo.
(Lo so, ce ne sono tantissime altre, non mancheranno occasioni).
giovedì 12 febbraio 2015
mercoledì 11 febbraio 2015
La mia amica Timeline (non me la canta giusta)
Senza i tuoi capricci che farei?
Ci sono stati giorni d'odio, ci sono state mezz'ore d'amore. Mesi, soprattutto, di reciproca indifferenza. Poi siamo invecchiati assieme e ormai se penso a lei penso soprattutto a un'amica, talvolta bizzarra ma tutto sommato affidabile. A volte ho il sospetto che parli male di me alle mie spalle, ma non potrei evitarlo - e poi forse a volte me lo merito. Perciò sì, in linea di massima le voglio bene, alla mia amica Timeline.
Se non ci fosse lei, certe cose le imparerei per ultimo. Non ci fosse lei, certe risate proprio non me le farei. A volte penso che sia un po' troppo sofisticata per me. Altre volte troppo frivola, ma è anche colpa mia se me la sono cresciuta così, e poi se passa qualcosa di interessante in tv lei mi avverte in tempo reale. Davvero preferirei che mi disturbasse con gli ultimi sviluppi della politica internazionale?
A volte le invidio la vitalità, la voglia di scherzarci sopra sempre e comunque. Altre volte la stessa vitalità mi infastidisce - voglio dire, non è che devi sempre fare la battuta su qualunque cosa. A volte se non ci fosse mi mancherebbe. Altre volte è Sanremo. Una cosa che se chiedo in giro a scuola, o tra i coetanei boh, sembra non interessi più a nessuno. E questo un po' mi dispiace, non so perché; al punto da trovare consolante il fatto che se ne preoccupi la mia amica Timeline. Perché a lei miracolosamente Sanremo interessa ancora.
Non dirò che le piace, anzi - non le va mai bene. Se lo fa la Clerici è troppo trucido, se lo fa Fazio troppo intellettuale, se lo fa Conti era meglio Fazio, eccetera. Ma almeno lo guarda, non se lo perde mai. E a me importa che qualcuno lo guardi. Possibilmente in un'altra stanza rispetto a quella dove sto io, com'è sempre stato credo dall'Ottantacinque. Alla fine è una vecchia zia, la mia amica Timeline.
Lo si capisce dopo un paio d'ore di battute sagacissime, dopo che ha demolito il presentatore e le vallette e com'erano vestite loro e com'era abbronzato lui. Lo si capisce quando arrivano Albano e Romina, e lei senza vergogna si mette a cantare come fosse l'Ottantacinque, la mia amica raffinata e incontentabile, la mia cara Timeline.
Ci sono stati giorni d'odio, ci sono state mezz'ore d'amore. Mesi, soprattutto, di reciproca indifferenza. Poi siamo invecchiati assieme e ormai se penso a lei penso soprattutto a un'amica, talvolta bizzarra ma tutto sommato affidabile. A volte ho il sospetto che parli male di me alle mie spalle, ma non potrei evitarlo - e poi forse a volte me lo merito. Perciò sì, in linea di massima le voglio bene, alla mia amica Timeline.
Se non ci fosse lei, certe cose le imparerei per ultimo. Non ci fosse lei, certe risate proprio non me le farei. A volte penso che sia un po' troppo sofisticata per me. Altre volte troppo frivola, ma è anche colpa mia se me la sono cresciuta così, e poi se passa qualcosa di interessante in tv lei mi avverte in tempo reale. Davvero preferirei che mi disturbasse con gli ultimi sviluppi della politica internazionale?
A volte le invidio la vitalità, la voglia di scherzarci sopra sempre e comunque. Altre volte la stessa vitalità mi infastidisce - voglio dire, non è che devi sempre fare la battuta su qualunque cosa. A volte se non ci fosse mi mancherebbe. Altre volte è Sanremo. Una cosa che se chiedo in giro a scuola, o tra i coetanei boh, sembra non interessi più a nessuno. E questo un po' mi dispiace, non so perché; al punto da trovare consolante il fatto che se ne preoccupi la mia amica Timeline. Perché a lei miracolosamente Sanremo interessa ancora.
Non dirò che le piace, anzi - non le va mai bene. Se lo fa la Clerici è troppo trucido, se lo fa Fazio troppo intellettuale, se lo fa Conti era meglio Fazio, eccetera. Ma almeno lo guarda, non se lo perde mai. E a me importa che qualcuno lo guardi. Possibilmente in un'altra stanza rispetto a quella dove sto io, com'è sempre stato credo dall'Ottantacinque. Alla fine è una vecchia zia, la mia amica Timeline.
Lo si capisce dopo un paio d'ore di battute sagacissime, dopo che ha demolito il presentatore e le vallette e com'erano vestite loro e com'era abbronzato lui. Lo si capisce quando arrivano Albano e Romina, e lei senza vergogna si mette a cantare come fosse l'Ottantacinque, la mia amica raffinata e incontentabile, la mia cara Timeline.
venerdì 6 febbraio 2015
Il lungo e folle volo di Iñárritu
Questa per esempio non si sarebbe potuta mai fare, perché è troppo scura - non c'erano luci se non quelle su Broadway |
Ma guarda che cesso di posto. Chissà se qualcuno viene mai a spolverare questo buco di merda. Come siamo arrivati fin qui, Alejandro?
Noi non apparteniamo a questo posto. Perché non siamo a LA a bere ginger ale su un terrazzo mentre leggiamo copioni drammatici sui destini incrociati di persone qualsiasi? Cristo Alejandro, c'era una sola cosa al mondo che sapevi fare bene, e te la stai fottendo, lo sai vero? Ti stai fottendo la carriera, sapresti dirmi per cosa esattamente?
"Mr Iñárritu quando vuole uscire siamo pronti a girare".
Non ascoltarli. Lo sai che mentono. Non sono pronti e lo sai benissimo. Non saranno mai pronti per questo film, perché questo film è impossibile da girare e tu lo sai, come lo so io. Chi ti credi di essere, alla fine?
Non è che non apprezzi, è che la cosa meritava secondo me un maggiore approfondimento, magari uno spin off, una serie tv in due o tre stagioni. |
Ma cosa c’è che non va, Alejandro? Con Biutiful hai incassato un quinto di Babel, sarà questo? Non ha nessuna importanza finché hai ancora un piede a Hollywood. Ma quel piede devi tenercelo sul serio. Devi fare le cose che sai fare, le cose che la gente si aspetta. Destini incrociati, montaggi serrati, la gente vuole il dramma ma soprattutto vuole saltare di scena in scena senza troppe menate. Sono bambini iperattivi, anche se si danno arie d’adulti. Si stancano subito, non lo vedi che a metà proiezione si mettono a twittare? Cosa pretendi da loro, un piano sequenza di due ore? chi cazzo ti credi di essere, Sokurov?
Perché non ti rassegni a mettere la maschera che ti sei fatto? La gente vuole quella. La gente ha bisogno di maschere, sono comode. Si riconoscono da lontano. Perché vuoi provare a fare cose che nessuno sa ancora come fare? Cosa ti porta verso il disastro esattamente? Non puoi accettare di essere Iñárritu, il regista messicano dallo stile abbastanza riconoscibile? Stai girando un film per chi, esattamente, qualche milione di palati raffinati in tutto il mondo la cui sola preoccupazione è dove andranno a mangiare dopo la proiezione? Credi che a qualcuno di loro gliene fotta realmente qualcosa di te? E diciamocelo in faccia, Alejandro, non lo fai per amore dell’arte. Lo fai perché vorresti essere nei manuali di Storia del cinema, vorresti essere davvero Qualcuno. Come se non ci fosse là fuori un mondo pieno di gente che lotta all’ultimo sangue per essere Qualcuno – ma per te nemmeno esistono. Accadono cose continuamente, in luoghi che tu sei fiero di ignorare, e in quei luoghi tu sei già stato completamente dimenticato. Stai facendo tutto questo perché l’idea di non importare più a nessuno ti spaventa a morte, come chiunque altro, e sai cosa? Hai ragione. Non importi più a nessuno. Non sei nemmeno qui. Non sei che un puntino minuscolo sull’ultimo foglio di carta igienica su cui è tratteggiata la storia dell’umanità. Se pensi che il tuo suicidio professionale sia uno spettacolo artisticamente rilevante, perché non vai davanti al tuo pubblico di figuranti e non ti spari direttamente un colpo in testa?
“Mr Iñárritu, mi ha sentito?”.
“Arrivo, arrivo”.
(Birdman era un film impossibile da fare, finché Iñárritu e tutti gli altri non lo ha fatto e adesso è uno dei più bei film degli ultimi anni, che vale assolutamente la pena di andare a guardare, stasera, al cinema Fiamma di Cuneo alle 21:10).
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