Si chiamano sardine, vabbe’, e da dove vengono? Un po’ da ovunque. Alcune affiorano per la prima volta nello specchio della politica, altre hanno perso la voglia di votare tanti anni fa, altre ancora si sono appena disamorati del movimento che fu di Beppe Grillo (e non hanno nessuna intenzione di ammetterlo). Che cosa vogliono? Tante cose vagamente “di sinistra”: ecologia, solidarietà, antirazzismo, tanti temi difficili da sintetizzare in uno slogan o un programma. Anzi no, non è così difficile: non ne possono più di Salvini e del suo sovranismo razzista e cialtrone. Visto: alla fine serve poco per mettersi d’accordo. Basta individuare un nemico, e Salvini sembra non chiedere di meglio.
Va bene, ma per chi voteranno? Ecco. Senz’altro non Salvini, e molto difficilmente le altre formazioni di centrodestra ormai satellitari alla Lega. Ma da qui a mettere tutti una croce sullo stemma del PD ce ne passa: soprattutto in Emilia-Romagna, dove il PD è considerato il partito dello status quo, e in alcune città governa senza soluzioni di continuità dalla fine della seconda guerra mondiale (pur con nomi diversi, e una classe dirigente ormai completamente diversa per mentalità e cultura). No, non è possibile pretendere che tutte le sardine votino per il PD di Bonaccini – finché c’è ancora un sistema ragionevolmente proporzionale...
...Ma con un buon maggioritario, ecco, alle sardine e agli altri pesci non resterebbe altra scelta: o padella o brace.
La strategia di Zingaretti a questo punto si lascia facilmente decifrare: che bisogno c’è di rifondare un partito di centrosinistra che sappia farsi interprete delle necessità e delle attese della popolazione, quando basta presentarsi come l’unica alternativa valida a Salvini? In fondo basta essere un po’ meno brutti e cattivi di Salvini: non ci vuole molto. Certo, c’è sempre la possibilità di perdere le elezioni. Più che una possibilità, coi sondaggi attuali, è una certezza: gli alfieri democratici del maggioritario sembrano davvero determinati a concedere una vittoria elettorale anche a personaggi inquietanti come Salvini, pur di far piazza pulita dei nemici ‘interni’ del centrosinistra. E in effetti, con un buon sistema maggioritario che polverizzasse i piccoli partiti, il PD resterebbe in parlamento l’unico punto di riferimento credibile dell’opposizione. Questo forse non salverebbe l’Italia dalla deriva sovranista e xenofoba di Salvini e dei suoi alleati, e proprio in un momento in cui l’emergenza climatica richiederebbe misure sempre più drastiche e impopolari.
Ma anche in caso di completa catastrofe politica e ambientale dirigenti del PD potrebbero consolarsi di essere almeno sopravvissuti a Renzi, a Calenda, a Rizzo, ecc.: di aver finalmente estirpato quei perniciosi partitini che ai tempi di Prodi venivano chiamati “cespugli”. Col napalm, e distruggendo l’intera foresta: ma pazienza.
Se da lontano può sembrare una strategia suicida, è perché lo è davvero. Possiamo dirlo senza timore di esprimere un pregiudizio, visto che tutto questo è già successo almeno una volta. In fondo Zingaretti non fa che applicare uno schema che è antico quanto il PD (2007), anzi è in un qualche modo scritto nel codice sorgente del PD, al punto che viene da domandarsi se non sia il destino del PD: diserbare il centrosinistra e regalare le elezioni al centrodestra.
È uno schema tutt’altro che segreto, di cui anzi si parlò per anni prima di metterlo finalmente alla prova. Si tratta della cosiddetta “vocazione maggioritaria”... (continua su TheVision), il tratto che nel 2007 doveva distinguere il nuovo partito dai vecchi che lo avevano tenuto a battesimo, DS e Margherita. L’insofferenza nei confronti dei piccoli partiti nasceva dalla situazione contingente: nel 2006 l’Unione di Prodi aveva ottenuto una risicatissima vittoria elettorale contro il centrodestra di Berlusconi. Ne era nato un governo, il Prodi II, che navigava a vista, sostenuto da una litigiosa coalizione che includeva dieci partiti, alcuni molto pittoreschi e in perenne competizione tra loro (memorabili le risse tra Di Pietro e Mastella, entrambi segretari di mini-partiti personali). Nel fondare il nuovo partito, Veltroni spiegò chiaramente che avrebbe messo fine a quel caos. Il suo obiettivo era “conquistare la maggioranza degli italiani”: e dal momento che la maggioranza degli italiani non sembrava già allora così ansiosa di lasciarsi conquistare da una proposta di centrosinistra (seppure molto annacquata), Veltroni prevedeva già al tempo qualche correzione della legge elettorale “in senso maggioritario”.
Nel frattempo la nascita del nuovo soggetto politico perturbava i fragilissimi equilibri del governo Prodi II, causando una crisi di governo e un’elezione anticipata a cui il PD veltroniano decise di presentarsi senza alleati a sinistra. Il risultato non fu una semplice sconfitta, ma un doppio disastro: il centrodestra di Berlusconi vinse con una larghissima maggioranza, malgrado i tredici milioni di voti raccolti dal PD (un record mai più eguagliato: ma l’Unione di Prodi nel 2006 ne aveva raccolti ben diciannove). I dirigenti del PD potevano però festeggiare di aver fatto scomparire dal parlamento i piccoli partiti d’ispirazione comunista e ambientalista. Una consolazione che già allora appariva piuttosto magra, ma il peggio doveva ancora venire.
Di lì a poco ci saremmo accorti che non bastava eliminare la sinistra antagonista dal parlamento per convincere tutti i suoi elettori a convergere sul PD. Nel 2007 Beppe Grillo aveva già dimostrato di poter riempire le piazze con un programma politico che per il momento si riassumeva in Vaffanculo (anche in quel caso, come per Sardine di 12 anni dopo, Bologna fu l’incubatrice). Il 2008 fu invece l’anno dell’Onda, forse il movimento studentesco più partecipato degli ultimi vent’anni. Mentre nel 2009 ad autoradunarsi nelle piazze fu il Popolo Viola, oggi dimenticato ma concettualmente non troppo distante dai toni e dalle posizioni delle Sardine di oggi, benché al tempo il nemico pubblico numero uno fosse Silvio Berlusconi. In questi e in altri casi, le piazze reali e virtuali hanno reagito a quello che percepivano come un vuoto di rappresentanza politica. Senz’altro il Pd non era il partito adatto a colmare quel vuoto, preso com’era dall’inseguimento di un fantomatico elettorato moderato. Ma era proprio così necessario lottare pervicacemente affinché quel vuoto non venisse riempito da nessun altro?
La parabola del PD tra Veltroni e Bersani dovrebbe essere un esempio di scuola: una volta cacciata Rifondazione Comunista dal parlamento (una Rifondazione peraltro nella sua fase più ragionevole, disposta a votare persino il rifinanziamento delle missioni militari) il PD vi ritrovò un ben più agguerrito Movimento Cinque Stelle che di dialogo non ne voleva sapere. Oggi che il M5S è in crisi, Zingaretti sembra convinto che sia stato soltanto un incidente di percorso, un inciampo lungo il percorso che dovrebbe fatalmente portare la politica italiana verso il suo destino bipolare e bipartitico. E questo malgrado in tutta l’Europa il bipolarismo novecentesco appaia in crisi: persino nel Regno Unito, dove la Brexit ha sparigliato le carte creando un fronte trasversale che divide i partiti principali (il Labour più che i Tories).
Ma è proprio guardando all’Europa che ci accorgiamo quanto sia simile il Pd ai vecchi partiti socialdemocratici che in Spagna, Francia e Germania cercano di contrastare un declino che appare inevitabile (la cosiddetta “pasokizzazione”, da Pasok, il nome del vecchio partito socialista greco divenuto capro espiatorio della crisi ellenica). Alla fine la diffidenza dei democratici nei confronti del movimentismo odierno è più comprensibile dell’ossessione di Veltroni e soci per i “cespugli”. Non si tratta più di ripristinare una governabilità messa in pericolo da partitini litigiosi: i movimenti di oggi sono meno radicati ma possono espandersi all’improvviso come funghi, e altrettanto all’improvviso implodere: poco inclini al compromesso, non si accontentano di qualche fettina di potere ma si fanno portatori di istanze contraddittorie e spesso impraticabili. Tutto questo almeno vale per il Movimento Cinque Stelle, ma anche per chi presto o tardi ne prenderà il posto: probabilmente non saranno le Sardine, ma qualcuno comunque quel posto lo prenderà. Visto che lo spazio c’è, che il PD non lo reclama e la Lega più di tanto non riesce a penetrarlo. Succederà alla faccia di qualsiasi legge elettorale nel frattempo Lega e PD avranno congegnato per impedirlo: succederà perché semplicemente c’è gente che a una logica bipolare non si rassegna. E la storia del M5S si ripeterà di nuovo – non necessariamente in farsa. Anche perché sembra improbabile, più farsesca di così.
La strategia di Zingaretti a questo punto si lascia facilmente decifrare: che bisogno c’è di rifondare un partito di centrosinistra che sappia farsi interprete delle necessità e delle attese della popolazione, quando basta presentarsi come l’unica alternativa valida a Salvini? In fondo basta essere un po’ meno brutti e cattivi di Salvini: non ci vuole molto. Certo, c’è sempre la possibilità di perdere le elezioni. Più che una possibilità, coi sondaggi attuali, è una certezza: gli alfieri democratici del maggioritario sembrano davvero determinati a concedere una vittoria elettorale anche a personaggi inquietanti come Salvini, pur di far piazza pulita dei nemici ‘interni’ del centrosinistra. E in effetti, con un buon sistema maggioritario che polverizzasse i piccoli partiti, il PD resterebbe in parlamento l’unico punto di riferimento credibile dell’opposizione. Questo forse non salverebbe l’Italia dalla deriva sovranista e xenofoba di Salvini e dei suoi alleati, e proprio in un momento in cui l’emergenza climatica richiederebbe misure sempre più drastiche e impopolari.
Ma anche in caso di completa catastrofe politica e ambientale dirigenti del PD potrebbero consolarsi di essere almeno sopravvissuti a Renzi, a Calenda, a Rizzo, ecc.: di aver finalmente estirpato quei perniciosi partitini che ai tempi di Prodi venivano chiamati “cespugli”. Col napalm, e distruggendo l’intera foresta: ma pazienza.
Se da lontano può sembrare una strategia suicida, è perché lo è davvero. Possiamo dirlo senza timore di esprimere un pregiudizio, visto che tutto questo è già successo almeno una volta. In fondo Zingaretti non fa che applicare uno schema che è antico quanto il PD (2007), anzi è in un qualche modo scritto nel codice sorgente del PD, al punto che viene da domandarsi se non sia il destino del PD: diserbare il centrosinistra e regalare le elezioni al centrodestra.
È uno schema tutt’altro che segreto, di cui anzi si parlò per anni prima di metterlo finalmente alla prova. Si tratta della cosiddetta “vocazione maggioritaria”... (continua su TheVision), il tratto che nel 2007 doveva distinguere il nuovo partito dai vecchi che lo avevano tenuto a battesimo, DS e Margherita. L’insofferenza nei confronti dei piccoli partiti nasceva dalla situazione contingente: nel 2006 l’Unione di Prodi aveva ottenuto una risicatissima vittoria elettorale contro il centrodestra di Berlusconi. Ne era nato un governo, il Prodi II, che navigava a vista, sostenuto da una litigiosa coalizione che includeva dieci partiti, alcuni molto pittoreschi e in perenne competizione tra loro (memorabili le risse tra Di Pietro e Mastella, entrambi segretari di mini-partiti personali). Nel fondare il nuovo partito, Veltroni spiegò chiaramente che avrebbe messo fine a quel caos. Il suo obiettivo era “conquistare la maggioranza degli italiani”: e dal momento che la maggioranza degli italiani non sembrava già allora così ansiosa di lasciarsi conquistare da una proposta di centrosinistra (seppure molto annacquata), Veltroni prevedeva già al tempo qualche correzione della legge elettorale “in senso maggioritario”.
Nel frattempo la nascita del nuovo soggetto politico perturbava i fragilissimi equilibri del governo Prodi II, causando una crisi di governo e un’elezione anticipata a cui il PD veltroniano decise di presentarsi senza alleati a sinistra. Il risultato non fu una semplice sconfitta, ma un doppio disastro: il centrodestra di Berlusconi vinse con una larghissima maggioranza, malgrado i tredici milioni di voti raccolti dal PD (un record mai più eguagliato: ma l’Unione di Prodi nel 2006 ne aveva raccolti ben diciannove). I dirigenti del PD potevano però festeggiare di aver fatto scomparire dal parlamento i piccoli partiti d’ispirazione comunista e ambientalista. Una consolazione che già allora appariva piuttosto magra, ma il peggio doveva ancora venire.
Di lì a poco ci saremmo accorti che non bastava eliminare la sinistra antagonista dal parlamento per convincere tutti i suoi elettori a convergere sul PD. Nel 2007 Beppe Grillo aveva già dimostrato di poter riempire le piazze con un programma politico che per il momento si riassumeva in Vaffanculo (anche in quel caso, come per Sardine di 12 anni dopo, Bologna fu l’incubatrice). Il 2008 fu invece l’anno dell’Onda, forse il movimento studentesco più partecipato degli ultimi vent’anni. Mentre nel 2009 ad autoradunarsi nelle piazze fu il Popolo Viola, oggi dimenticato ma concettualmente non troppo distante dai toni e dalle posizioni delle Sardine di oggi, benché al tempo il nemico pubblico numero uno fosse Silvio Berlusconi. In questi e in altri casi, le piazze reali e virtuali hanno reagito a quello che percepivano come un vuoto di rappresentanza politica. Senz’altro il Pd non era il partito adatto a colmare quel vuoto, preso com’era dall’inseguimento di un fantomatico elettorato moderato. Ma era proprio così necessario lottare pervicacemente affinché quel vuoto non venisse riempito da nessun altro?
La parabola del PD tra Veltroni e Bersani dovrebbe essere un esempio di scuola: una volta cacciata Rifondazione Comunista dal parlamento (una Rifondazione peraltro nella sua fase più ragionevole, disposta a votare persino il rifinanziamento delle missioni militari) il PD vi ritrovò un ben più agguerrito Movimento Cinque Stelle che di dialogo non ne voleva sapere. Oggi che il M5S è in crisi, Zingaretti sembra convinto che sia stato soltanto un incidente di percorso, un inciampo lungo il percorso che dovrebbe fatalmente portare la politica italiana verso il suo destino bipolare e bipartitico. E questo malgrado in tutta l’Europa il bipolarismo novecentesco appaia in crisi: persino nel Regno Unito, dove la Brexit ha sparigliato le carte creando un fronte trasversale che divide i partiti principali (il Labour più che i Tories).
Ma è proprio guardando all’Europa che ci accorgiamo quanto sia simile il Pd ai vecchi partiti socialdemocratici che in Spagna, Francia e Germania cercano di contrastare un declino che appare inevitabile (la cosiddetta “pasokizzazione”, da Pasok, il nome del vecchio partito socialista greco divenuto capro espiatorio della crisi ellenica). Alla fine la diffidenza dei democratici nei confronti del movimentismo odierno è più comprensibile dell’ossessione di Veltroni e soci per i “cespugli”. Non si tratta più di ripristinare una governabilità messa in pericolo da partitini litigiosi: i movimenti di oggi sono meno radicati ma possono espandersi all’improvviso come funghi, e altrettanto all’improvviso implodere: poco inclini al compromesso, non si accontentano di qualche fettina di potere ma si fanno portatori di istanze contraddittorie e spesso impraticabili. Tutto questo almeno vale per il Movimento Cinque Stelle, ma anche per chi presto o tardi ne prenderà il posto: probabilmente non saranno le Sardine, ma qualcuno comunque quel posto lo prenderà. Visto che lo spazio c’è, che il PD non lo reclama e la Lega più di tanto non riesce a penetrarlo. Succederà alla faccia di qualsiasi legge elettorale nel frattempo Lega e PD avranno congegnato per impedirlo: succederà perché semplicemente c’è gente che a una logica bipolare non si rassegna. E la storia del M5S si ripeterà di nuovo – non necessariamente in farsa. Anche perché sembra improbabile, più farsesca di così.