Questa non è un'esercitazione, ripeto: questa non è un'esercitazione. Il fatto è che, sentiti tutti gli argomenti, provati e riprovati tutti i calcoli, mi sento di poter dire con serena cognizione di causa che, se si votasse domani, il Movimento 5 Stelle sarebbe la prima scelta e Beppe Grillo, se proprio non si riesce a trovare di meglio, il mio leader. La cosa può lasciarvi perplessi - io stesso all'inizio non ci volevo credere - ma se avrete la pazienza di seguire il ragionamento credo che alla fine tutto diventerà abbastanza chiaro.
1. L'italicum fa schifo
Magari non è lo schifo assoluto della prima volta che ce lo presentarono, però continua a essere una legge balorda che introduce il presidenzialismo senza nemmeno avere il fegato di avvertirci: continueremo a eleggere un parlamento nominalmente sovrano ma del tutto pleonastico, controllato da un capo del governo eletto dal popolo. L'italicum è migliorato, ma non è ulteriormente migliorabile: a Renzi il presidenzialismo preme, e peraltro ha una certa fretta (non è detto che il 40% degli elettori lo segua ancora a lungo). A questo punto, a chi mi posso affidare? Chi è che farà l'opposizione più netta al provvedimento, e una volta passato lo osteggerà con più energie durante la campagna referendaria? La sinistra pd brontolerà, qualcuno si asterrà, ma alla fine lo lascerà passare. Berlusconi in questo periodo nicchia, ma in fondo l'obiettivo di Renzi è lo stesso suo. Salvini può fare fuoco e fiamme, ma l'italicum attualmente gli regala il ruolo di leader della destra: quando gli ricapita? Il Movimento 5 Stelle è l'ultimo baluardo del proporzionale, così congeniale a una forza che ha deciso di stare all'opposizione nei secoli dei secoli. Posso averli disprezzati e sbeffeggiati per tanti motivi, ma se hanno l'unico salvagente anti-italicum, non ho imbarazzo ad aggrapparmi: grazie ragazzi, e a buon rendere.
2. Non voglio uscire dall'euro, io
E quindi voto il Movimento che vuole promuovere un referendum per uscire? Sono impazzito? Sì, ma c'è un metodo nella mia pazzia. Riguardo all'euro, vi sono due approcci, che per comodità chiameremo MORDERE e ABBAIARE. Chi abbaia da mesi, da anni, che uscirà dall'euro, non ha evidentemente nessuna convenienza a farlo: non solo perché sarebbe additato come il responsabile del caos immediato che ne deriverebbe, ma perché a quel punto non saprebbe più cosa chiedere, che obiettivo additare al proprio elettorato di riferimento. È esattamente la situazione di Beppe Grillo, che non ha mai voluto uscire veramente dall'euro, ma ha sempre voluto consultare il popolo sull'argomento: una bella differenza. Chi ha studiato seriamente gli scenari di fuoriuscita dall'euro sa che si tratta di un'azione disperata da commettere con precisione militare: un venerdì sera, a sportelli chiusi, con l'esercito a pattugliare i bancomat. Un governo che si decida a un passo del genere, dovrebbe tacerlo ad alleati e cittadini fino all'ultimo minuto - magari raccontando in giro che ormai ci siamo, che la crescita è dietro l'angolo e che la disoccupazione sta per smettere di aumentare - e poi, nel silenzio del venerdì sera, mordere.
E quindi.
Di chi avere paura, a questo punto? Di un Renzi che si ostina a vedere riprese che non ci sono, o di un Grillo che abbaia da anni e che raccoglie firme per referendum senza valore? Io per ora sto con chi abbaia.
3. Viva il sud!
Di Battista, Di Maio, Fico, Ruocco e Sibilia. Nel direttorio grillino il più settentrionale è il non imprescindibile Di Battista, nato a Roma. Non si tratta senz'altro di intellettuali della Magna Grecia, ma dopo vent'anni di berlusconismo in salsa leghista si può anche provare a cambiare versante e vedere come va. Magari diventano bravi, tempo di sicuro ne hanno. E comunque nessuno rischia di ritrovarsi solo al comando di un parlamento di nominati.
(Continua...)
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
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martedì 31 marzo 2015
È lunga la strada per Selma
Selma (Ava DuVernay, 2014)
Il tuo maestro e modello ti fa salire nella sua macchina. Mentre guida a velocità di crociera ti spiega che non ne può più; che non è sicuro di quello che sta facendo; che per colpa sua anche stavolta qualche brava persona si farà male o verrà uccisa; che malgrado questo anche stavolta probabilmente non cambierà niente; e che quindi forse bisognerebbe ripensare tutta la strategia; ma ci vorrebbe del tempo; e quel tempo lui non l'ha, è troppo stanco.
E ti chiede come la pensi. Te lo ricordi immenso, quando eri un ragazzino nella folla che stava ad ascoltarlo: adesso è lì in macchina con te, ti apre il suo cuore e ti mostra che è marcio. Cosa facciamo adesso? Ti avanza un po' della fede che distribuiva ai vecchi tempi? Selma è stato salutato come un "film necessario". Purtroppo i film necessari non sono necessariamente buoni film. D'altro canto prima o poi qualcuno doveva spezzare l'incantesimo per cui la figura più importante della comunità afroamericana, l'uomo per cui si chiudono scuole e uffici ogni terzo lunedì di gennaio, non era ancora stato celebrato nelle sale cinematografiche. Ancora negli anni Novanta era paradossalmente più facile realizzare film su personaggi controversi come Malcolm X o le Pantere nere, piuttosto che mettere a fuoco l'uomo-immagine del movimento per i diritti civili. Evitare il taglio agiografico era impossibile, e forse lo è ancora.
A quasi sessant'anni di distanza Martin Luther King, jr continua a essere un simbolo più che un uomo. Anche in sede storiografica non si nota una grande esigenza di sottoporre il mito a una revisione; il peggio che si osa dire su di lui è che gli piacevano più donne di quante un reverendo sposato avrebbe dovuto permettersi, ma il biografo che ha osato definirlo un "donnaiolo" si è poi pentito, è stato frainteso, ecc.. E siccome il pubblico non sembra pronto (né negli USA né altrove) per un leader sessualmente esuberante, anche stavolta non lo vedremo rialzarsi in mutande da un letto non suo. È vero che telefonava a tarda notte a donne sposate (l'FBI aveva accesso ai tabulati), ma solo perché aveva bisogno di sentire un gospel dal vivo. L'adulterio è ammesso, ma non esibito - d'altronde è così importante? In un certo senso sì, uno degli aspetti della grandezza di MLK è proprio il fatto che sopravvisse ai ricatti dell'FBI di Hoover che credeva di poterlo inchiodare alle sue scappatelle sessuali. Il reverendo impersonato da Daniel Oyelowo di fronte alla moglie non nega e non si difende: assume la sua smorfia contrita d'ordinanza e va avanti. Lo stato disastrato del suo matrimonio non è che una tra tante ragioni di frustrazione. È un MLK perennemente imbronciato, insicuro, disilluso, ed è probabilmente l'unico MLK umano che Ava DuVernay poteva permettersi di mettere su pellicola. Di un MLK più machiavellico, che di concerto con Lyndon Johnson manda freddamente bambini e anziane signore in prima linea contro i peggiori sceriffi dell'Alabama - e nel frattempo combina anche qualche festicciola in albergo - per ora nessuno sente l'esigenza.
È un film necessario, si diceva; una certa gravitas era indispensabile, ancorché un po' soporifera; più che al botteghino Oprah Winfrey, Brad Pitt e gli altri produttori guardavano alle scuole che lo proietteranno intensamente nella seconda settimana di gennaio. Ma è proprio qui che Selma delude, ed è un peccato... (continua su +eventi!) perché tutto sommato offre un buon ragguaglio sulle tecniche di non-violenza, e sui sacrifici che comportano (non a caso gran parte dei leader sono ministri di culto: del resto se il tuo metodo di lotta implica la possibilità di ritrovarti inerme davanti a poliziotti armati e fanatici razzisti, la fede in una trascendenza non è obbligatoria ma può aiutare). Il guaio è che Selma regge la prova ferro-da-stiro, ovvero è un film che si può tranquillamente guardare mentre si è in tutt’altro affaccendati, senza perdersi nessuno snodo fondamentale. Al massimo qualche primo piano di Oyelowo corrucciato, o di Carmen Ejogo corrucciata, o Tom Wilkinson perplesso (fa il presidente Johnson, e il film a quanto pare non gli rende onore) o Tim Roth governatore cattivo.
Il film ha il torto di dare per scontata l’attenzione del pubblico, dopo un paio di scene madri iniziali di fronte alle quali commuoversi è obbligatorio. Parlo da insegnante: un film del genere non lo proietterei in un’aula magna: se passa la prova ferro-da-stiro, passa anche la prova smartphone. Per parlare degli stessi argomenti ricorrerò a Mississippi Burning, che ormai ha trent’anni ma almeno offre una chiave per decifrare l’odio di quei razzisti che in Selma sono raffigurati più o meno come orchetti di Tolkien, senza storia né psicologia; oppure li fregherò con Alì, che col pretesto dell’epica sportiva racconta di Emmett Till e dei musulmani neri; e integrerò con qualche scena di Amistade da calcio nello stomaco – quel tipo di calci che i ragazzini sanno apprezzare. Niente di personale: ma se Selma mi ha un po’ annoiato, figuratevi i miei studenti.
Il tuo maestro e modello ti fa salire nella sua macchina. Mentre guida a velocità di crociera ti spiega che non ne può più; che non è sicuro di quello che sta facendo; che per colpa sua anche stavolta qualche brava persona si farà male o verrà uccisa; che malgrado questo anche stavolta probabilmente non cambierà niente; e che quindi forse bisognerebbe ripensare tutta la strategia; ma ci vorrebbe del tempo; e quel tempo lui non l'ha, è troppo stanco.
E ti chiede come la pensi. Te lo ricordi immenso, quando eri un ragazzino nella folla che stava ad ascoltarlo: adesso è lì in macchina con te, ti apre il suo cuore e ti mostra che è marcio. Cosa facciamo adesso? Ti avanza un po' della fede che distribuiva ai vecchi tempi? Selma è stato salutato come un "film necessario". Purtroppo i film necessari non sono necessariamente buoni film. D'altro canto prima o poi qualcuno doveva spezzare l'incantesimo per cui la figura più importante della comunità afroamericana, l'uomo per cui si chiudono scuole e uffici ogni terzo lunedì di gennaio, non era ancora stato celebrato nelle sale cinematografiche. Ancora negli anni Novanta era paradossalmente più facile realizzare film su personaggi controversi come Malcolm X o le Pantere nere, piuttosto che mettere a fuoco l'uomo-immagine del movimento per i diritti civili. Evitare il taglio agiografico era impossibile, e forse lo è ancora.
A quasi sessant'anni di distanza Martin Luther King, jr continua a essere un simbolo più che un uomo. Anche in sede storiografica non si nota una grande esigenza di sottoporre il mito a una revisione; il peggio che si osa dire su di lui è che gli piacevano più donne di quante un reverendo sposato avrebbe dovuto permettersi, ma il biografo che ha osato definirlo un "donnaiolo" si è poi pentito, è stato frainteso, ecc.. E siccome il pubblico non sembra pronto (né negli USA né altrove) per un leader sessualmente esuberante, anche stavolta non lo vedremo rialzarsi in mutande da un letto non suo. È vero che telefonava a tarda notte a donne sposate (l'FBI aveva accesso ai tabulati), ma solo perché aveva bisogno di sentire un gospel dal vivo. L'adulterio è ammesso, ma non esibito - d'altronde è così importante? In un certo senso sì, uno degli aspetti della grandezza di MLK è proprio il fatto che sopravvisse ai ricatti dell'FBI di Hoover che credeva di poterlo inchiodare alle sue scappatelle sessuali. Il reverendo impersonato da Daniel Oyelowo di fronte alla moglie non nega e non si difende: assume la sua smorfia contrita d'ordinanza e va avanti. Lo stato disastrato del suo matrimonio non è che una tra tante ragioni di frustrazione. È un MLK perennemente imbronciato, insicuro, disilluso, ed è probabilmente l'unico MLK umano che Ava DuVernay poteva permettersi di mettere su pellicola. Di un MLK più machiavellico, che di concerto con Lyndon Johnson manda freddamente bambini e anziane signore in prima linea contro i peggiori sceriffi dell'Alabama - e nel frattempo combina anche qualche festicciola in albergo - per ora nessuno sente l'esigenza.
È un film necessario, si diceva; una certa gravitas era indispensabile, ancorché un po' soporifera; più che al botteghino Oprah Winfrey, Brad Pitt e gli altri produttori guardavano alle scuole che lo proietteranno intensamente nella seconda settimana di gennaio. Ma è proprio qui che Selma delude, ed è un peccato... (continua su +eventi!) perché tutto sommato offre un buon ragguaglio sulle tecniche di non-violenza, e sui sacrifici che comportano (non a caso gran parte dei leader sono ministri di culto: del resto se il tuo metodo di lotta implica la possibilità di ritrovarti inerme davanti a poliziotti armati e fanatici razzisti, la fede in una trascendenza non è obbligatoria ma può aiutare). Il guaio è che Selma regge la prova ferro-da-stiro, ovvero è un film che si può tranquillamente guardare mentre si è in tutt’altro affaccendati, senza perdersi nessuno snodo fondamentale. Al massimo qualche primo piano di Oyelowo corrucciato, o di Carmen Ejogo corrucciata, o Tom Wilkinson perplesso (fa il presidente Johnson, e il film a quanto pare non gli rende onore) o Tim Roth governatore cattivo.
Il film ha il torto di dare per scontata l’attenzione del pubblico, dopo un paio di scene madri iniziali di fronte alle quali commuoversi è obbligatorio. Parlo da insegnante: un film del genere non lo proietterei in un’aula magna: se passa la prova ferro-da-stiro, passa anche la prova smartphone. Per parlare degli stessi argomenti ricorrerò a Mississippi Burning, che ormai ha trent’anni ma almeno offre una chiave per decifrare l’odio di quei razzisti che in Selma sono raffigurati più o meno come orchetti di Tolkien, senza storia né psicologia; oppure li fregherò con Alì, che col pretesto dell’epica sportiva racconta di Emmett Till e dei musulmani neri; e integrerò con qualche scena di Amistade da calcio nello stomaco – quel tipo di calci che i ragazzini sanno apprezzare. Niente di personale: ma se Selma mi ha un po’ annoiato, figuratevi i miei studenti.
lunedì 30 marzo 2015
A cosa serve l'intellettuale, per esempio Francesco Piccolo
Un anno fa Francesco Piccolo ha ottenuto un buon successo di pubblico e di critica descrivendo l'Uomo di Sinistra così come se lo immaginano, da sempre, gli editorialisti del Corriere e i loro lettori: un bravo ragazzo che poteva e doveva diventare un tranquillo borghese ma a un certo punto - verso i dieci anni - ha deciso di fare un dispetto a suo papà e tifare la squadra simpatica ma sbagliata. Col tempo però ha capito e adesso sta ammonendo tutti i ragazzi a non fare come lui: non perdete tempo a tifare i perdenti, diventate adulti. Le idee di Landini - qualsiasi idee lui abbia, non è che Piccolo perda tempo a esaminarle - vanno rispettate, per carità; sono anche nobili, sicuramente, addirittura "condivisibili"; ma sono perdenti: e quindi Landini non dovrebbe averle. "Landini si iscrive in una storia, la storia della sinistra dalle idee inermi". Prima di lui c'era Tsipras, prima ancora Bertinotti - e Bertinotti, ricordiamolo, fece cadere Prodi nel '98, trauma da cui qualcuno non si è mai ripreso.
Piccolo, all'intervistatore dell'Huffington Post, dice anche altre cose: che ha per esempio apprezzato i libri di Houellebecq e Carrère, che però sembrano tradire una concezione apocalittica che a lui non piace. L'apocalisse infatti semplifica, "rende tutto elementare", mentre Francesco Piccolo ritiene che uno scrittore debba fare lo sforzo della complessità. Quest'ultima cosa ha veramente fatto bene a dirla nell'intervista perché qualcuno agli sforzi della complessità di Francesco Piccolo potrebbe anche non aver fatto molto caso. Infine Piccolo ci spiega quali sono i compiti dell'intellettuale, un po' come faceva Jean-Paul Sartre in quel suo agile volumetto del 1972. Io non so fino a che punto i francesi degli anni Settanta si meritassero Sartre, né quanto noi nel 2015 ci meritiamo Francesco Piccolo; in ogni caso per quest'ultimo l'intellettuale non deve partecipare alle manifestazioni o farsi "portabandiera delle idee"; bensì "osservatori dei portabandiera delle idee". A questo punto non so se sia Giovenale o Corrado Guzzanti a sussurrare dentro me: e chi osserverà gli osservatori?
Tutto molto in linea con l'idea che da sempre si fanno al Corriere: scrittori di sinistra scapestrati in gioventù - gli anni dorati in cui l'intransigenza sbandierata in corteo, se non paga, perlomeno ti garantisce qualche pomiciata - che poi mettono giudizio e scrivono il loro piccolo autodafè settimanale. Nel frattempo però sul Corriere c'è Angelo Panebianco, un professore che ha passato il ventennio berlusconiano a spiegare alla sinistra che Berlusconi vinceva per colpa della sinistra che invece di non essere di sinistra si ostinava caparbiamente a essere di sinistra, Angelo Panebianco dicevo, che di fronte a Renzi potrebbe continuare a scrivere più o meno gli stessi temini - basterebbe sbianchettare "Berlusconi" e scrivere il nuovo nome che per fortuna è più corto - e ne uscirebbe più o meno la stessa broda che produce Piccolo - e invece no: persino Panebianco prova a scrivere qualcosa di più complesso, perfino ambiguo.
In tanti anni non ho mai letto qualcosa di suo così interessante. Renzi, spiega Panebianco, non è Berlusconi, però... proprio per questo le sue riforme non stanno destando gli stessi allarmi, e sono riforme, per carità, non paragonabili a quelle fasciste, e però... una riforma quasi presidenziale qua, una cessione della Rai al governo là, insomma Renzi sta accentrando parecchio, e gli intellettuali dove sono? Non hanno proprio niente da dire?
...non c’è contraddizione fra volere un rafforzamento del governo (e dunque un accrescimento delle capacità d’azione di chi momentaneamente lo controlla) ed essere pronti a criticarne le singole decisioni e azioni. Proprio se si auspica, perché serve alla democrazia, un più forte potere esecutivo, occorre essere pronti a fargli le bucce ad ogni passo falso. Le democrazie hanno bisogno di governi forti (e chi scambia ciò per «autoritarismo» prende lucciole per lanterne). Non hanno invece bisogno di stuoli di cortigiani sdraiati ai piedi del suddetto governo forte. E il premier ne ha tanti.Qui, per quel poco che conta, si continuerà a osservare i portabandiera dell'opposizione, come vuole Piccolo, ma anche i manovratori, come consiglia Panebianco. Insomma continueremo a roteare a 360° impicciandoci un po' di tutto, come raccomandava quell'altro scrittore più sopra. Ovviamente ciò non basta per fregiarsi del titolo di intellettuale, ma ehi, ognuno fa quel che può nelle circostanze in cui si trova a vivere.
domenica 29 marzo 2015
Insomma i buoni scuola fanno risparmiare o no?
Ma alla fine si è poi capito se i buoni scuola fanno risparmiare i contribuenti o no? Sembra che nessuno voglia più parlarne. Chi qualche settimana fa sbandierava i dati si è dileguato. E io rimango qui con la mia domanda: ma possibile che le scuole private debbano chiedere soldi allo Stato per far risparmiare lo Stato? Mi sembra un controsenso. Anche Butta, l'unico che aveva almeno provato a imbastire un ragionamento, non replica più, forse non vuole darmi visibilità.
Io invece gli devo ancora un supplemento di risposta, visto che almeno su un punto ha ragione: non si possono prendere i soldi che lo Stato butta dentro il carrozzone delle paritarie (470 milioni l'anno, secondo i 44 parlamentari), dividerlo per il numero di iscritti alle paritarie e dedurre che ogni studente costa 450 euro l'anno. È veramente il pollo di Trilussa, una media senza senso. Butta ha tutte le ragioni del mondo di prendersela con chi usa la statistica in questo modo truce. Ma perché se la prende con me?
Non sono mica io che ho raccolto i dati e fatto la divisione. In realtà non saprei neanche dire chi l'ha fatta. Io l'ho presa pari pari dalla lettera dei 44 parlamentari del Pd (e limitrofi). Siccome è a loro che spetta dimostrare una tesi (le scuole private fanno risparmiare), ed è a loro che spetta reperire i dati. Sono un gruppo di pressione parlamentare che cerca di mantenere il finanziamento alle scuole private. Figurati se non hanno i numeri giusti. Figurati se non hanno le competenze, non dico per truccarli (rischierebbero di essere sgamati), ma per renderli il più sexy possibile. È gente che avrà fatto buone scuole, si presume. E quindi se tutto quello che riescono a produrre, per dimostrare che le scuole paritarie fanno risparmiare, è il conteggio risibile di 450 euro a studente, temo proprio che numeri migliori di così non ci siano.
In realtà, come è ovvio, lo Stato non spende 450 euro per studente. Nel caso di molti studenti non spende proprio nulla. Quanti? I 44 parlamentari non ce lo dicono. Scelgono di ignorare il dato. Forse perché è un po' troppo alto? Poi, come ricorda Butta, ci sono le famiglie con reddito tra i 16000 e i 28000 euro (ISEE), che di soldi ne prendono ben più di 450: anche il doppio. Ecco, per loro (da qui in poi "Giovannini") la riduzione dei buoni scuola comporterebbe probabilmente l'abbandono della scuola privata.
Ma sono tanti i Giovannini?
Io invece gli devo ancora un supplemento di risposta, visto che almeno su un punto ha ragione: non si possono prendere i soldi che lo Stato butta dentro il carrozzone delle paritarie (470 milioni l'anno, secondo i 44 parlamentari), dividerlo per il numero di iscritti alle paritarie e dedurre che ogni studente costa 450 euro l'anno. È veramente il pollo di Trilussa, una media senza senso. Butta ha tutte le ragioni del mondo di prendersela con chi usa la statistica in questo modo truce. Ma perché se la prende con me?
Non sono mica io che ho raccolto i dati e fatto la divisione. In realtà non saprei neanche dire chi l'ha fatta. Io l'ho presa pari pari dalla lettera dei 44 parlamentari del Pd (e limitrofi). Siccome è a loro che spetta dimostrare una tesi (le scuole private fanno risparmiare), ed è a loro che spetta reperire i dati. Sono un gruppo di pressione parlamentare che cerca di mantenere il finanziamento alle scuole private. Figurati se non hanno i numeri giusti. Figurati se non hanno le competenze, non dico per truccarli (rischierebbero di essere sgamati), ma per renderli il più sexy possibile. È gente che avrà fatto buone scuole, si presume. E quindi se tutto quello che riescono a produrre, per dimostrare che le scuole paritarie fanno risparmiare, è il conteggio risibile di 450 euro a studente, temo proprio che numeri migliori di così non ci siano.
In realtà, come è ovvio, lo Stato non spende 450 euro per studente. Nel caso di molti studenti non spende proprio nulla. Quanti? I 44 parlamentari non ce lo dicono. Scelgono di ignorare il dato. Forse perché è un po' troppo alto? Poi, come ricorda Butta, ci sono le famiglie con reddito tra i 16000 e i 28000 euro (ISEE), che di soldi ne prendono ben più di 450: anche il doppio. Ecco, per loro (da qui in poi "Giovannini") la riduzione dei buoni scuola comporterebbe probabilmente l'abbandono della scuola privata.
Ma sono tanti i Giovannini?
venerdì 27 marzo 2015
Bisogna essere idioti (sull'internet)
"Toscana. O sei solo contento di vedermi?" |
Ma se la Santanché, dicendo una cosa razzista e vagamente complottara, scrive "autobus" al posto di "aeroplano", i clic diventano milioni. C'è insomma intorno al bacino della Santanché un oceano di gente potenzialmente interessata alle cazzate che scrive la Santanché, ma che le noterà soltanto se la Santanché scrivendole commette un lapsus qualunque. Quindi il lapsus a un certo punto può fare la differenza. Se un fascista che scivola su una buccia di banana fa più clic del fascista che parla al balcone, non risulta così strano che i fascisti si mettano a cascare apposta sulle bucce di banana. Purtroppo non funziona così solo coi fascisti - la tentazione dello Sbaglio consapevole ci riguarda tutti, in un mondo in cui le bucce di banana fanno mille volte più accessi di un contenuto bello o interessante.
Un altro esempio freschissimo è il logo Expo della regione Toscana. I loghi, come è noto, fanno notizia soltanto quando sono brutti. Quelli belli diventano parte del paesaggio; dopo un po' smettiamo di notarli, al punto che a volte le compagnie per attirare l'attenzione cedono alla tentazione di peggiorarli con qualche restyling. Stavolta però all'opera c'è un brutto talmente efficace, talmente due-punto-zero, da generare in me che lo guardo il sospetto di avere davanti uno Sbaglio consapevole: possibile che il grafico che ha messo assieme il rebus sia l'unica persona al mondo che non vede l'erezione di Pinocchio? Questa non è una buccia di banana, questa è un'immagine che sembra creata apposta per diventare virale sui social network. La gente riderà della trombetta pinocchiesca, la condividerà con gli amici, e il prodotto si guadagnerà tutta la visibilità che un bel logo non avrebbe mai ottenuto. Ecco.
La lotta per la sopravvivenza virale è appena iniziata. Cosa sarà di noi, di qui a qualche anno? Passerà la moda dei titoli trucidi o evasivi? Io già da qualche anno ho aumentato gli errori di battitura per indurre al clic almeno i grammarnazi. La gente in realtà legge di tutto, ma solo dopo aver cliccato; e clicca solo se intravede qualcosa di pazzesco o ridicolo. Bisogna essere pazzeschi o ridicoli. E il guaio è che non lo puoi programmare, perché la gente se ne accorge se lo fai apposta: dev'essere una cosa spontanea. Devi essere te stesso e te stesso dev'essere un imbecille. Io magari partivo avvantaggiato ma è stato una vita fa. È dura, sempre più dura; e io temo davvero di non essere imbecille abbastanza.
mercoledì 25 marzo 2015
A Tom Hardy non gli tocchi il cane
Chi è senza colpa (Michaël Roskam, 2014)
Un cane è una grossa responsabilità, Bob Saginowski non è sicuro di volerne uno. Ha già i suoi casini con il cugino ex gangster che non riesce a tirare i remi in barca, la mafia cecena che gli ha rilevato il bar e lo usa come copertura, un detective che non ha niente di meglio che stargli addosso, e il diavolo che ogni mattina gli ricorda che nessuno è senza colpa, e lui in particolare. Se a tutto questo aggiungi un cane a cui insegnare dove fare i bisogni, un cane da sfamare tutti i giorni, un cane da difendere dallo psicopatico che lo ha ficcato in un bidone della spazzatura e ora vuole riprenderselo, insomma Bob Saginowski non è sicuro di essere pronto. È un passo importante.
La locandina di The drop si gioca la carta di Dennis Lehane, caso esemplare di autore noir conosciuto meno per i suoi libri che per le versioni cinematografiche che hanno ispirato. Mystic River, Gone Baby Gone; persino Shutter Island lasciava intravedere tra gli sbraghi di sceneggiatura la consistenza dell'intreccio originale. The drop conferma la qualità del narratore, ma ha il respiro più corto: non è tratto da un romanzo ma da un racconto, e si nota. È una piccola storia che Roskam sposta da Boston a Brooklyn ma che avrebbe funzionato anche a Scampia, Marsiglia, o in qualsiasi quartiere difficile in cui le grandi catene di distribuzione del narcotraffico hanno soppiantato le buone vecchie piccole gang radicate nel territorio (continua su +eventi!)
Senza preoccuparsi di muoversi tra i più frequentati luoghi comuni del genere, il regista belga Roskam (Bullhead) manda avanti il film con una certa scioltezza, inciampando due o tre volte in scelte discutibili ma mantenendo la tensione alta fino alla risoluzione finale, prevedibile ma godibilissima. Gran parte del merito va ovviamente agli attori, ma chi entra in sala per dare l'ultimo saluto al grande Gandolfini dovrà rassegnarsi a vederlo relegato in un ruolo da comprimario, reso con la sicurezza di un caratterista di eccezione. Più a fuoco è un Tom Hardy imbambolato, che si aggira bofonchiando per i set con un'andatura da soggetto borderline. È bravissimo, anche se un po' troppo bello e giovane per essere davvero in parte (tra lui e il "cugino" Gandolfini ci sono quasi vent'anni). Noomi Rapace porta anche stavolta sulla pelle i segni di un passato difficile, anche se qui è inverosimilmente retrocessa a damigella in pericolo. Matthias Schoenaerts, connazionale del regista, si ritrova un po' a caso nella parte dello stalker psicopatico e almeno decide di non calcare i toni. Chi è senza colpa è una bella storia che scivola via molto rapida, lasciando agli spettatori almeno una scena memorabile. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:45.
Un cane è una grossa responsabilità, Bob Saginowski non è sicuro di volerne uno. Ha già i suoi casini con il cugino ex gangster che non riesce a tirare i remi in barca, la mafia cecena che gli ha rilevato il bar e lo usa come copertura, un detective che non ha niente di meglio che stargli addosso, e il diavolo che ogni mattina gli ricorda che nessuno è senza colpa, e lui in particolare. Se a tutto questo aggiungi un cane a cui insegnare dove fare i bisogni, un cane da sfamare tutti i giorni, un cane da difendere dallo psicopatico che lo ha ficcato in un bidone della spazzatura e ora vuole riprenderselo, insomma Bob Saginowski non è sicuro di essere pronto. È un passo importante.
La locandina di The drop si gioca la carta di Dennis Lehane, caso esemplare di autore noir conosciuto meno per i suoi libri che per le versioni cinematografiche che hanno ispirato. Mystic River, Gone Baby Gone; persino Shutter Island lasciava intravedere tra gli sbraghi di sceneggiatura la consistenza dell'intreccio originale. The drop conferma la qualità del narratore, ma ha il respiro più corto: non è tratto da un romanzo ma da un racconto, e si nota. È una piccola storia che Roskam sposta da Boston a Brooklyn ma che avrebbe funzionato anche a Scampia, Marsiglia, o in qualsiasi quartiere difficile in cui le grandi catene di distribuzione del narcotraffico hanno soppiantato le buone vecchie piccole gang radicate nel territorio (continua su +eventi!)
Senza preoccuparsi di muoversi tra i più frequentati luoghi comuni del genere, il regista belga Roskam (Bullhead) manda avanti il film con una certa scioltezza, inciampando due o tre volte in scelte discutibili ma mantenendo la tensione alta fino alla risoluzione finale, prevedibile ma godibilissima. Gran parte del merito va ovviamente agli attori, ma chi entra in sala per dare l'ultimo saluto al grande Gandolfini dovrà rassegnarsi a vederlo relegato in un ruolo da comprimario, reso con la sicurezza di un caratterista di eccezione. Più a fuoco è un Tom Hardy imbambolato, che si aggira bofonchiando per i set con un'andatura da soggetto borderline. È bravissimo, anche se un po' troppo bello e giovane per essere davvero in parte (tra lui e il "cugino" Gandolfini ci sono quasi vent'anni). Noomi Rapace porta anche stavolta sulla pelle i segni di un passato difficile, anche se qui è inverosimilmente retrocessa a damigella in pericolo. Matthias Schoenaerts, connazionale del regista, si ritrova un po' a caso nella parte dello stalker psicopatico e almeno decide di non calcare i toni. Chi è senza colpa è una bella storia che scivola via molto rapida, lasciando agli spettatori almeno una scena memorabile. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:45.
martedì 24 marzo 2015
L'estate rovente del ministro Poletti
Se la prendono tutti col ministro Poletti, eppure che ha detto di male? Tre mesi di vacanze estive sono davvero tanti. Se solo il clima fosse più clemente, se si potesse prolungare un po' l'anno a giugno e chiudere due settimane in primavera, come in Francia o in altri Paesi meno succubi del calendario cattolico... Tanto più che per la maggior parte di questo tempo le scuole - contrariamente a quanto molti pensano - non sono affatto chiuse. Le segreterie restano aperte al pubblico fino ad agosto, e i genitori che vengono a informarsi o iscrivere i figli possono persino incrociare qualche docente: ebbene sì, anche loro lavorano - anche se è un lavoro a bassa intensità. Insomma, le strutture ci sono, il personale che le tiene aperte e le pulisce è già assunto e pagato; tante aule vuote si potrebbero riempire in qualche modo. Se solo si trovasse un'idea.
Poletti però quell'idea non ce l'ha. Parla di formazione ma rimane sul vago, ricorda i bei tempi di quando i suoi figli scaricavano cassette di frutta (nota: non ricorda le sue cassette di frutta, ma quelle dei figli), sembra avere in mente più il classico lavoretto estivo che un vero e proprio progetto di avviamento professionale. Non si può non sottoscrivere le parole del vicepresidente dell'Associazione Nazionale Presidi, quando fa notare che "Poletti è l’ennesimo ministro che si pronuncia sulla questione, ma mai, finora, alle parole hanno fatto seguito prassi organizzative coerenti". Le sue boutade buttate lì ai giornalisti ormai rientrano in un vero e proprio genere letterario-giornalistico: la sparata da convegno. Quella classica situazione in cui non sai cosa dire e ne lanci un paio, e nemmeno tu l'attimo dopo sai se hai aperto la bocca per ansia di visibilità o semplice noia.
Adesso è su tutti i giornali, Poletti, senza nemmeno sapere cosa vuole. Gli insegnanti sono già sul chi vive, gli studenti allarmatissimi: quella cosa delle cassette di frutta in effetti ha un suono sinistro quando a proportela non è un genitore a integrazione della paghetta, ma un ministro della Repubblica. In fondo che ha detto di grave? Niente, ma abbiamo ancora negli orecchi il boato delle sparate precedenti. L'anno scorso fu il sottosegretario all'istruzione Reggi a parlare di scuole aperte fino alle dieci di sera, e fino al trenta luglio. Gestite da chi? Ma dagli insegnanti, ovviamente, che avrebbero potuto raddoppiare il loro monte ore di lezioni settimanali, da 18 a 36. Trentasei furono anche le ore che ci mise a smentire di aver proposto una cosa del genere. Ma l'anno prima era stato l'indimenticato ministro Profumo a buttar lì un aumento da 18 a 24, che in fondo non sarebbe nemmeno una brutta idea - se a quel 33% di lavoro in più Profumo avesse voluto far corrispondere un adeguamento salariale. Invece no, Profumo non aveva intenzione di cacciare un euro in più, visto che non ne aveva. Ma non intendeva neanche mettersi a contrattare. Era stata solo una cosa buttata lì a un convegno - come quella volta che propose en passant di abolire l'insegnamento di religione, immagino che capiti anche voi al bar di suggerire il superamento del concordato tra Stato e Chiesa, senza che nessun noioso giornalista pretenda di farci i titoli il giorno dopo.
Ma prima ancora di Reggi e di Profumo c'è stato Renzi. Credo davvero che nessuno darebbe tanto peso alle nostalgiche cassette della frutta di Poletti se a monte di tutto non ci fosse quell'antico pallino del premier per il Servizio Volontario Però Obbligatorio. Quella stramba idea del lavoro giovanile gratis che sentimmo più volte durante le campagne per le primarie, e poi ci dimenticammo, come di tante altre cose. Ecco, i ragazzi forse no, i ragazzi a queste cose ci fanno più caso. Poi per carità, da noi continuerebbero volentieri a scaricare cassette di frutta in luglio. Un po' perché è un'esperienza che ti fa crescere, un po' perché il luglio in Valpadana è veramente noioso, ma soprattutto per quel po' di euro che puoi metterti in tasca. Non per l'anima del volontariato, no.
Poletti però quell'idea non ce l'ha. Parla di formazione ma rimane sul vago, ricorda i bei tempi di quando i suoi figli scaricavano cassette di frutta (nota: non ricorda le sue cassette di frutta, ma quelle dei figli), sembra avere in mente più il classico lavoretto estivo che un vero e proprio progetto di avviamento professionale. Non si può non sottoscrivere le parole del vicepresidente dell'Associazione Nazionale Presidi, quando fa notare che "Poletti è l’ennesimo ministro che si pronuncia sulla questione, ma mai, finora, alle parole hanno fatto seguito prassi organizzative coerenti". Le sue boutade buttate lì ai giornalisti ormai rientrano in un vero e proprio genere letterario-giornalistico: la sparata da convegno. Quella classica situazione in cui non sai cosa dire e ne lanci un paio, e nemmeno tu l'attimo dopo sai se hai aperto la bocca per ansia di visibilità o semplice noia.
Adesso è su tutti i giornali, Poletti, senza nemmeno sapere cosa vuole. Gli insegnanti sono già sul chi vive, gli studenti allarmatissimi: quella cosa delle cassette di frutta in effetti ha un suono sinistro quando a proportela non è un genitore a integrazione della paghetta, ma un ministro della Repubblica. In fondo che ha detto di grave? Niente, ma abbiamo ancora negli orecchi il boato delle sparate precedenti. L'anno scorso fu il sottosegretario all'istruzione Reggi a parlare di scuole aperte fino alle dieci di sera, e fino al trenta luglio. Gestite da chi? Ma dagli insegnanti, ovviamente, che avrebbero potuto raddoppiare il loro monte ore di lezioni settimanali, da 18 a 36. Trentasei furono anche le ore che ci mise a smentire di aver proposto una cosa del genere. Ma l'anno prima era stato l'indimenticato ministro Profumo a buttar lì un aumento da 18 a 24, che in fondo non sarebbe nemmeno una brutta idea - se a quel 33% di lavoro in più Profumo avesse voluto far corrispondere un adeguamento salariale. Invece no, Profumo non aveva intenzione di cacciare un euro in più, visto che non ne aveva. Ma non intendeva neanche mettersi a contrattare. Era stata solo una cosa buttata lì a un convegno - come quella volta che propose en passant di abolire l'insegnamento di religione, immagino che capiti anche voi al bar di suggerire il superamento del concordato tra Stato e Chiesa, senza che nessun noioso giornalista pretenda di farci i titoli il giorno dopo.
Ma prima ancora di Reggi e di Profumo c'è stato Renzi. Credo davvero che nessuno darebbe tanto peso alle nostalgiche cassette della frutta di Poletti se a monte di tutto non ci fosse quell'antico pallino del premier per il Servizio Volontario Però Obbligatorio. Quella stramba idea del lavoro giovanile gratis che sentimmo più volte durante le campagne per le primarie, e poi ci dimenticammo, come di tante altre cose. Ecco, i ragazzi forse no, i ragazzi a queste cose ci fanno più caso. Poi per carità, da noi continuerebbero volentieri a scaricare cassette di frutta in luglio. Un po' perché è un'esperienza che ti fa crescere, un po' perché il luglio in Valpadana è veramente noioso, ma soprattutto per quel po' di euro che puoi metterti in tasca. Non per l'anima del volontariato, no.
lunedì 23 marzo 2015
Il partito passivo (e aggressivo)
Da quel poco che ne ho letto, l'altro giorno la Minoranza del PD si è adunata in assemblea e ha protestato contro Renzi, non tanto per il Jobs Act (del resto lo ha votato); non per la ridicola riforma elettorale (votata); non per l'inquietante riforma costituzionale (idem); non per il Ddl sulla scuola; non per questo e non per quello; ma per l'arroganza. Cioè noi ti votiamo tutto, a volta senza neanche lamentarci troppo: ti votiamo tutto quello che i nostri elettori ci rinfacceranno a vita; tu non potresti almeno usarci un po' di garbo? È molto difficile proseguire questo capoverso senza indulgere in qualche stereotipo di genere: mariti violenti, mogli rassegnate, ecc. Meglio andare subito a capo.
Se c'è una costante nella traiettoria politica di Bersani, da quando ha lasciato la sua tranquilla carriera nell'amministrazione locale, è il trovarsi sempre nel posto più scomodo e nel momento più difficile. Cosa altro dovrebbe fare, se non portare pazienza e mandar giù anche stavolta? Troppo concreto per immaginar scissioni, troppo franco per fingere che il renzismo gli piaccia, Bersani ormai si lancia in acrobazie mirabili ma un po' tristi. Una volta l'ho sentito dire che la riforma costituzionale (da lui votata) andrebbe bene, ma combinata con la riforma elettorale (votata pur'essa) allora no, allora si rischia il totalitarismo o qualcosa del genere. Insomma il renzismo si può accettare un pezzo alla volta, ma tutto insieme fa male. Oppure ci si può lamentare dei modi: Renzi ha i numeri per costringerci a fare di tutto, ma potrebbe farlo più piano.
Tutto questo è imbarazzante? Un po' sì. È evitabile? Non saprei. Ormai mi sono abituato all'idea di un Pd a doppio colore, come le pedine dell'Othello: a seconda della contingenza, del leader e degli avversari, può decidere di essere socialdemocratico o neoliberale, antiberlusconiano o postberlusconiano, salvare la costituzione o farla a coriandoli. Non sono nemmeno sicuro che sia un problema, anzi probabilmente è una delle forze del PD, come della sua grande madre bianca.
Non è una questione di persone diverse, perché il D'Alema che ieri lamentava l'arroganza ai suoi tempi fu il più arrogante di tutti, e ai tempi del correntone i veltroniani gli sfilavano a sinistra. A essere pedine bicolori sono le stesse persone che parlano, discutono, si dividono, si riuniscono. Su Leftwing il presidente Orfini ha fatto sapere che la minoranza ha ragione su un sacco di cose che Orfini ha già detto e scritto, su libri che per adesso restano in alto sulle mensole ma che si potrebbero ripubblicare in qualsiasi momento in cui il renzismo non valesse più il 40% e molte pedine bianche si riscoprissero nere. A questo punto, come chi ha giocato a Othello sa, conviene stare ai bordi e aspettare. La partita si decide in poche mosse e non ha importanza chi ha avuto la maggioranza tutto il tempo: controllare gli angoli, piuttosto.
Se c'è una costante nella traiettoria politica di Bersani, da quando ha lasciato la sua tranquilla carriera nell'amministrazione locale, è il trovarsi sempre nel posto più scomodo e nel momento più difficile. Cosa altro dovrebbe fare, se non portare pazienza e mandar giù anche stavolta? Troppo concreto per immaginar scissioni, troppo franco per fingere che il renzismo gli piaccia, Bersani ormai si lancia in acrobazie mirabili ma un po' tristi. Una volta l'ho sentito dire che la riforma costituzionale (da lui votata) andrebbe bene, ma combinata con la riforma elettorale (votata pur'essa) allora no, allora si rischia il totalitarismo o qualcosa del genere. Insomma il renzismo si può accettare un pezzo alla volta, ma tutto insieme fa male. Oppure ci si può lamentare dei modi: Renzi ha i numeri per costringerci a fare di tutto, ma potrebbe farlo più piano.
Tutto questo è imbarazzante? Un po' sì. È evitabile? Non saprei. Ormai mi sono abituato all'idea di un Pd a doppio colore, come le pedine dell'Othello: a seconda della contingenza, del leader e degli avversari, può decidere di essere socialdemocratico o neoliberale, antiberlusconiano o postberlusconiano, salvare la costituzione o farla a coriandoli. Non sono nemmeno sicuro che sia un problema, anzi probabilmente è una delle forze del PD, come della sua grande madre bianca.
Non è una questione di persone diverse, perché il D'Alema che ieri lamentava l'arroganza ai suoi tempi fu il più arrogante di tutti, e ai tempi del correntone i veltroniani gli sfilavano a sinistra. A essere pedine bicolori sono le stesse persone che parlano, discutono, si dividono, si riuniscono. Su Leftwing il presidente Orfini ha fatto sapere che la minoranza ha ragione su un sacco di cose che Orfini ha già detto e scritto, su libri che per adesso restano in alto sulle mensole ma che si potrebbero ripubblicare in qualsiasi momento in cui il renzismo non valesse più il 40% e molte pedine bianche si riscoprissero nere. A questo punto, come chi ha giocato a Othello sa, conviene stare ai bordi e aspettare. La partita si decide in poche mosse e non ha importanza chi ha avuto la maggioranza tutto il tempo: controllare gli angoli, piuttosto.
domenica 22 marzo 2015
No, non mi hai dimostrato che la scuola privata mi fa risparmiare
Su un blog può capitare di essere più superficiali del necessario, per fretta o per stanchezza o per tattica. In un pezzo di qualche giorno fa mi chiedevo se davvero la scuola privata facesse risparmiare lo Stato e quindi i contribuenti; domandavo ai sostenitori di questa tesi dove avessero preso i loro numeri, e nel frattempo, prendendoli per buoni, rovesciavo completamente le loro argomentazioni: se davvero i buoni scuola costano così poco e fanno risparmiare così tanto, eliminarli del tutto farebbe risparmiare allo Stato ancor di più. Dunque - se i numeri sono quelli - aboliamoli! Si trattava di una tesi paradossale, buttata lì per far uscire allo scoperto i fan dei buoni scuola. Siccome il tutto parte da una loro affermazione (i buoni scuola fanno risparmiare), spetterebbe a loro dimostrarla. In precedenza li avevo visti bellicosi e mi aspettavo di ritrovarmeli a tiro in breve tempo.
Non si è più fatto vivo nessuno.
In realtà no, qualcuno ha voluto commentare, da Praga addirittura. L'intervento di Butta.org è molto interessante, ma purtroppo muove da un equivoco. Butta se l'è presa perché ho usato la parola "dimostrare", che in ambito scientifico ha un significato molto rigoroso, mentre la mia dimostrazione di rigoroso non aveva nulla. È vero, era una cosa molto cialtrona. Il mio pezzo, mi fa sapere, non reggerebbe la peer review di una rivista di economia. Credo anch'io. Mi sembra però che Butta non abbia colto l'aspetto paradossale e polemico della questione: ovviamente non sono un economista, ma anche se ne fossi capace io non potrei dimostrare che i buoni scuola fanno risparmiare, perché non ho i dati e non voglio cercarli: non spetta a me. Io sono quello scettico che deve essere convinto.
Butta, per esempio, se ci crede, potrebbe cercare i dati e offrire una dimostrazione.
E infatti ci prova.
Ma la peer review se la sogna. Anche il suo paper è eccezionalmente povero di dati: dovendo pur partire da qualche numero, anche solo per stabilire quanto può costare una scuola privata in Italia, decide di andare su un sito a caso e prendere una retta a caso. È un po' come se per stabilire quanti polli mangia un italiano alla settimana, Butta decidesse di prendere un italiano a caso e chiederglielo: sospetto che esistano sistemi più affidabili di rilevazione statistica, più o meno da Trilussa in poi, ma lo scienziato è lui, saprà pure quel che fa. Nel frattempo però ha perso completamente di vista la mia argomentazione: io non mi preoccupavo di sapere quanto costi effettivamente una scuola privata in Italia (non spetta a me l'onere della prova!), ma mi domandavo quanto dovrebbe costare. E siccome ho il dato MIUR delle scuole pubbliche - 5000€ ca. - e ho buoni motivi per ritenere che la scuola pubblica costi molto poco, parto dall'assunto che una scuola privata di scarsa qualità, per non essere una truffa ai danni dell'utente, dovrebbe costare più o meno cinquemila euro.
"Sì, ciao", risponde Butta.
Lui lo sa che le scuole private costano meno (ne ha presa una a caso).
Ma temo che non abbia capito. Sono anch'io abbastanza sicuro che mediamente costano meno. Ma mi domando il perché. Già le pubbliche costano pochino. Come fanno le private a essere così convenienti?
Lui sa anche il perché: ad esempio, pagano meno gli insegnanti.
Grazie, Butta, non è che non ci fossimo arrivati. Il problema è che gli insegnanti statali sono già pagati poco rispetto a una media europea. Quindi se gli insegnanti delle scuole private sono pagati ancora meno, si può tranquillamente dire che sono sottopagati: il che è ingiusto non solo nei loro confronti, ma anche rispetto ai clienti della scuola - gli studenti - che infatti in media hanno risultati inferiori ai loro compagni che frequentano le pubbliche. Tanto più che le dimensioni massicce e capillari della rete pubblica le consentono di distribuire le risorse con un'efficienza che piccoli enti privati non possono permettersi (ad esempio: se in due scuole pubbliche avanza una mezza cattedra, la scuola pubblica può spalmare un docente su due sedi; due scuole private pagherebbero di più. Per tacere delle forniture). Come possono le scuole private costare in medie mille o duemila euro in meno (prendendo per buono il dato che Butta ha estrapolato da una scuola a caso su tutto il territorio nazionale) e offrire lo stesso servizio di una scuola pubblica? O il servizio è inferiore - e i dati sembrano dirci questo - o... c'è qualche altra possibilità?
Certo che c'è. È lì che vanno a parare tutti i difensori della scuola privata, invariabilmente. Gli sprechi.
La scuola pubblica sarebbe piena di sprechi.
Fonte?
Quando ero a scuola io c'era un bidello che non faceva un cazzo.
Grazie per la testimonianza. Ma pensavo che avessi delle cifre, non so, statistiche sull'assenteismo... no, il metodo è sempre lo stesso. Si prende un campione molto ristretto (Butta) e gli si chiede come gli è andata.
Non gli è andata tanto bene. C'era questo bidello (ma quanti bidelli lavoravano nelle scuole in cui è passato Butta? Decine, centinaia, lui conosce un caso solo?) e inoltre ha conosciuto un insegnante che non sapeva insegnare.
Uh, sapessi io.
Ma vedi, è un po' il problema di tutti quelli che parlano di scuola.
Non si è più fatto vivo nessuno.
In realtà no, qualcuno ha voluto commentare, da Praga addirittura. L'intervento di Butta.org è molto interessante, ma purtroppo muove da un equivoco. Butta se l'è presa perché ho usato la parola "dimostrare", che in ambito scientifico ha un significato molto rigoroso, mentre la mia dimostrazione di rigoroso non aveva nulla. È vero, era una cosa molto cialtrona. Il mio pezzo, mi fa sapere, non reggerebbe la peer review di una rivista di economia. Credo anch'io. Mi sembra però che Butta non abbia colto l'aspetto paradossale e polemico della questione: ovviamente non sono un economista, ma anche se ne fossi capace io non potrei dimostrare che i buoni scuola fanno risparmiare, perché non ho i dati e non voglio cercarli: non spetta a me. Io sono quello scettico che deve essere convinto.
Butta, per esempio, se ci crede, potrebbe cercare i dati e offrire una dimostrazione.
E infatti ci prova.
Ma la peer review se la sogna. Anche il suo paper è eccezionalmente povero di dati: dovendo pur partire da qualche numero, anche solo per stabilire quanto può costare una scuola privata in Italia, decide di andare su un sito a caso e prendere una retta a caso. È un po' come se per stabilire quanti polli mangia un italiano alla settimana, Butta decidesse di prendere un italiano a caso e chiederglielo: sospetto che esistano sistemi più affidabili di rilevazione statistica, più o meno da Trilussa in poi, ma lo scienziato è lui, saprà pure quel che fa. Nel frattempo però ha perso completamente di vista la mia argomentazione: io non mi preoccupavo di sapere quanto costi effettivamente una scuola privata in Italia (non spetta a me l'onere della prova!), ma mi domandavo quanto dovrebbe costare. E siccome ho il dato MIUR delle scuole pubbliche - 5000€ ca. - e ho buoni motivi per ritenere che la scuola pubblica costi molto poco, parto dall'assunto che una scuola privata di scarsa qualità, per non essere una truffa ai danni dell'utente, dovrebbe costare più o meno cinquemila euro.
"Sì, ciao", risponde Butta.
Lui lo sa che le scuole private costano meno (ne ha presa una a caso).
Ma temo che non abbia capito. Sono anch'io abbastanza sicuro che mediamente costano meno. Ma mi domando il perché. Già le pubbliche costano pochino. Come fanno le private a essere così convenienti?
Lui sa anche il perché: ad esempio, pagano meno gli insegnanti.
Grazie, Butta, non è che non ci fossimo arrivati. Il problema è che gli insegnanti statali sono già pagati poco rispetto a una media europea. Quindi se gli insegnanti delle scuole private sono pagati ancora meno, si può tranquillamente dire che sono sottopagati: il che è ingiusto non solo nei loro confronti, ma anche rispetto ai clienti della scuola - gli studenti - che infatti in media hanno risultati inferiori ai loro compagni che frequentano le pubbliche. Tanto più che le dimensioni massicce e capillari della rete pubblica le consentono di distribuire le risorse con un'efficienza che piccoli enti privati non possono permettersi (ad esempio: se in due scuole pubbliche avanza una mezza cattedra, la scuola pubblica può spalmare un docente su due sedi; due scuole private pagherebbero di più. Per tacere delle forniture). Come possono le scuole private costare in medie mille o duemila euro in meno (prendendo per buono il dato che Butta ha estrapolato da una scuola a caso su tutto il territorio nazionale) e offrire lo stesso servizio di una scuola pubblica? O il servizio è inferiore - e i dati sembrano dirci questo - o... c'è qualche altra possibilità?
Certo che c'è. È lì che vanno a parare tutti i difensori della scuola privata, invariabilmente. Gli sprechi.
La scuola pubblica sarebbe piena di sprechi.
Fonte?
Quando ero a scuola io c'era un bidello che non faceva un cazzo.
Grazie per la testimonianza. Ma pensavo che avessi delle cifre, non so, statistiche sull'assenteismo... no, il metodo è sempre lo stesso. Si prende un campione molto ristretto (Butta) e gli si chiede come gli è andata.
Non gli è andata tanto bene. C'era questo bidello (ma quanti bidelli lavoravano nelle scuole in cui è passato Butta? Decine, centinaia, lui conosce un caso solo?) e inoltre ha conosciuto un insegnante che non sapeva insegnare.
Uh, sapessi io.
Ma vedi, è un po' il problema di tutti quelli che parlano di scuola.
venerdì 20 marzo 2015
I grillini e il "baronetto"
Stefano Dolce e Domenico Gabbana investono abbastanza denaro in inserzioni da poter dare per scontata la compiacenza dei gruppi editoriali italiani più importanti; tanto più interessante risulta l'appoggio totalmente gratuito e disinteressato dei parlamentari m5s, che per voce di Tiziana Ciprini accusano il "baronetto" Elton John di ricattare non solo D&G, ma l'Italia intera. (Elton John peraltro non è un baronetto, ma mica si può pretendere che i parlamentari controllino su google: e poi alla fine è tutta un'opinione, e chi siamo noi per non rispettare un'opinione?)
Se qualcuno avesse ancora voglia di spiegare quanto sia cambiato il Movimento 5 Stelle dal grillismo degli esordi, il discorsino della Ciprini potrebbe risultare utile: basti pensare a quanto si usava la parola "boicottaggio" tra i membri dei primi MeetUp. Si boicottava la Nestlè per un buon motivo, McDonald per un altro buon motivo, eccetera. Il Movimento nacque in quel brodo primordiale pre-www, di quando le informazioni sui boicottaggi viaggiavano ancora negli allegati mail. A quel tempo nessuno sarebbe morto per difendere le opinioni di D&G. Costoro a dire il vero fino all'anno scorso comparivano nelle liste grilline degli imprenditori che tradivano l'Italia, trasferendo sedi fiscali in "paesi a fiscalità privilegiata". Oggi tutto è perdonato - anche perché nel frattempo la Cassazione li ha assolti - e chi minaccia di boicottarli è un nemico della patria, più o meno. Il finale dell'intervento è un piccolo capolavoro di strapaese involontario, perfino divertente per chi ancora ha lo stomaco di ridere dell'inadeguatezza di chi ha vinto a tombola un seggio in parlamento. C'è anche la proposta per un plurale di "fatwa", e un "colonizzato" abbreviato in "colono" (sempre meglio di colon, dopotutto).
Anche al M5S insomma hanno deciso che devono essere gli altri a morire per le nostre opinioni. Noi no, noi abbiamo il diritto di manifestarle senza che nessuno osi offendersene. Chi si offende è un fascist, e se si attenta a non comprare più le nostre merci è un ricattatore e uno schiavista. Va bene, basta saperlo.
Ci mancava solo un multimilionario angloamericano annoiato a lanciare fatwe contro le nostre aziende.L'illustre baronetto è insomma il complice di un enorme complotto ai danno dell'Italia, ordito dagli americani coadiuvati dai tedeschi o viceversa. Deve pertanto chiedere scusa ai lavoratori, purché italiani, perché è l'Italia che si offende qui. Dove si capisce che alla fine D e G possono aver reagito un po' istericamente, ma hanno toccato corde sensibili, non solo in zona Forza Nuova. Forse tutto questo è davvero il frutto di un riposizionamento: da brand globale a epitome di un certo tipo di italianità retrograda, che poi magari piacerà a livello globale proprio perché puzza un po' di capra e di patriarcato. I nostri maschi in canottiera, le nostre donne col pancione, i nostri ragazzini discinti e disponibili, tutto molto pitoresco. Non giudicateci, amateci per quello che siamo, lasciateci mance cospicue e poi tornate a casa a fare le vostre cose moderne.
Ricordo all'inglesino che 9 milioni di italiani di tutte le età sono in sofferenza lavorativa secondo gli ultimi dati Eurostat e che siamo sempre più un Paese colono dei poteri finanziari centrali del Nord Europa e statunitenzi che ci stanno riducendo in un popolo di schiavi. Pertanto chiedo all'illustre baronetto di chiedere scusa in primis ai lavoratori italiani del gruppo D&G, grazie.
Anche al M5S insomma hanno deciso che devono essere gli altri a morire per le nostre opinioni. Noi no, noi abbiamo il diritto di manifestarle senza che nessuno osi offendersene. Chi si offende è un fascist, e se si attenta a non comprare più le nostre merci è un ricattatore e uno schiavista. Va bene, basta saperlo.
L'eclissi del '99 (vuoi mettere con)
http://www.eclipse-maps.com |
Un'eclissi non dovrebbe cogliere alla sprovvista nessuno, dal tempo dei Caldei. E invece anche stavolta le ferramenta hanno esaurito gli occhialini da saldatore. Ma vuoi mettere col Novantanove?
Non ne faccio una questione di nostalgia - ho peraltro qualche conto in sospeso con gli anni Novanta - ma nel '99 se ne parlava da mesi, e ovunque cartine con indicata la fascia in cui l'oscuramento sarebbe stato totale, e l'Unione Europea non era ancora un'arcigna battitrice di moneta, ma una zia simpatica che elargiva occhialini (un anno dopo sarebbero arrivati gli Euroconvertitori). Anche gli occhialini però finirono subito - sembrava una mania - qualcuno da qualche parte ne faceva evidentemente incetta pensando a tutte le eclissi future; e poi ricordo che c'erano gli occhialini seri e quelli meno seri, questi ultimi molto rischiosi perché la gente si sarebbe fidata di essi e avrebbe fissato l'eclissi fino ad accecarsene - e ricordo bene anche il curioso fenomeno per cui tutti gli ammonimenti elargiti in tv dagli esperti ("Non fissate a lungo il sole! Usate protezioni!") avevano immediatamente creato la leggenda metropolitana per cui era l'Eclissi, e non il Sole, ad accecare la gente. Ricordo abbastanza bene tutte queste cose.
Più che l'eclissi in sé.
Ero in Francia e, a un certo punto, in bicicletta. Uno schermo protettivo alla fine non lo avevo, il mio Centro sociale li aveva finiti e io mi ero detto boh, qualcuno me lo presterà. Stavo andando verso la piazza, dove probabilmente qualcuno me lo prestò. Capii in quell'occasione che un'eclissi o è totale o una mezza delusione. Oggi preparavo appunto i ragazzi a questa sensazione: non si vedranno le stelle. Se non sarà già nuvolo di suo sarà come in estate quando una nuvola molto spessa si para davanti al sole all'improvviso, la stessa sensazione di scivolare nell'ombra all'improvviso, e forse i cani nemmeno abbaieranno. Mio padre mi ha procurato una vecchia maschera da officina, roba seria, così alla fine stavolta risulterò meno impreparato che nel Novantanove. Ma vuoi mettere.
"Ma perché quando era giovane lei distribuivano gli occhialini, e adesso no?"
"Bella domanda".
"È la crisi, vero?"
Ci sono abituati. Quest'anno sono i ragazzi del 2002, l'Unione Sovietica è un antico impero su vecchie cartine muffe, le Twin Towers una storia pazzesca che sta sui libri e nei film, la lira un mistero indecifrabile come per noi le cifre in rubli o ghinee nei romanzi dell'Ottocento. Per quanto si possono ricordare Obama è sempre stato presidente, e la crisi è sempre stata la risposta a tutte le domande. Li invito all'ottimismo: prima o poi deve finire, e immaginatevi se finisce proprio quando vi diplomate voi! Non ci credono. È come se al me stesso tredicenne qualcuno avesse raccontato dell'imminente caduta del Muro di Berlino.
"Tutta questa informazione ha ucciso l'incanto, sapete. Se nessuno di voi avesse sentito parlare dell'eclissi, sapete cosa potrei fare stamattina? Minacciarvi di oscurare il sole se non cominciate a fare i compiti seriamente. La conoscenza è..."
"Prof ma lei non può oscurare il sole".
"...potere".
1999. Ricordo molta musica francese, un po' perché stavo là e un po' perché gli Air avevano appena fatto il botto. Non c'era ancora il blog ma alla mediatheque passavo una mezz'ora al giorno a scrivere mail ai contatti italiani. Si litigava sul Kossovo. Al cinema Eyes Wide Shut, Rosetta, Tutto su mia madre. La lista Bonino Presidente prese un fracco di voti a quelle elezioni europee a cui non riuscii a votare, proprio mentre stavo facendo un servizio volontario europeo. D'Alema perse qualche punto e reagì con un rimpasto di governo. Il direttore del centro sociale aveva pietà di me e mi aveva prestato le chiavi di un enorme furgone, se ci ripenso non credo di aver mai meritato in vita mia tanta fiducia. Un giorno diedi un passaggio a una ragazza che mi presentò i suoi amici, erano tipi a posto ma facevano davvero quella cosa di mangiare la pasta scondita e senza sale. Le lettere che m'interessavano davvero arrivavano ancora nella cassetta della posta, ma ci mettevano troppo. Da qualche parte probabilmente lessi che la prossima eclissi importante sarebbe stata nel 2015, e me ne dimenticai subito. Facevamo ancora fatica a credere che ci sarebbe stato di lì a poco un 2001, come potevamo credere all'esistenza fisica di un 2015?
Cercherò su wikipedia, troverò la data della prossima eclissi parziale. Mi farò un appunto, scriverò una mail a me stesso, comprerò un paio di occhialini e li nasconderò in un posto dove non me li dimenticherò. Non mi farò più trovare impreparato. Le guerre capitano, i terremoti non li puoi prevedere, le crisi hanno i loro cicli misteriosi. Ma le eclissi no, le eclissi le conosciamo. E la conoscenza è potere.
giovedì 19 marzo 2015
Cosa pretendiamo da Israele
Banksy? |
Il pezzo di Levy sembra pensato per lenire la delusione degli osservatori esterni, che continuano a non capire dove Netanyahu voglia portare la sue gente. Niente Stato palestinese, nessuna trattativa con l'Iran finché c'è Obama alla Casa Bianca, nessuna concessione, nessuna novità. Tutto questo a Levy e a tanti suoi lettori sembra fuori dalla realtà, eppure fin qui bisognerebbe riconoscere che ha funzionato. È vero, ogni tanto scoppia una guerra a bassa intensità; è vero, molte risorse si spendono in sicurezza, e il costo della vita ne risente. È vero, visti da una certa distanza gli israeliani (e i palestinesi) sembrano bloccati in uno stallo senza uscita. Ma che altro dovrebbero fare a questo punto? Cosa pretendiamo da loro?
Magari li avremmo voluti anche noi più ragionevoli. Ci sarebbe piaciuto che la formazione di sinistra vincesse le elezioni - come se il film non l'avessimo già visto. Abbiamo letto che Herzog era a favore di un processo di pace e tanto ci bastava. Due popoli e due Stati? Ma certo. Un negoziato a tre con Abu Mazen e Obama? anche subito.
E gli insediamenti in Cisgiordania? Ehm, vediamo.
Herzog: My settlement policy first and foremost is based on the famous [Clinton] parameters. I believe in the blocs. I definitely believe in Gush Etzion [a major settlement bloc just outside Jerusalem] being part of Israel. It's essential for its security.
Goldberg: When the U.S. administration tells you to stop building in Gush Etzion—
Herzog: Wait, wait, I haven't finished.
Goldberg: No, no, no, I want to get this in. When the U.S. administration tells you, no building in Gush Etzion, and you're prime minister, what do you say?
Herzog: It will be a mistake that you go in with all these - (continua qui)
http://www.mideastweb.org/palestineisraeloslo.htm |
Lui non ci prova nemmeno più, a far la pace: di Palestina non vuol più sentir parlare. Non è più onesto, almeno? Si può nel 2015 continuare a parlare di Due Stati ma senza toccare gli insediamenti? Si può immaginare un processo di pace come se dall'altra parte ci fosse sempre una leadership palestinese ancora in grado di farla, questa pace? Come se Hamas non si fosse ulteriormente radicalizzata, come se Abu Mazen non avesse smesso di convocare elezioni, come se il treno dei Due Popoli Due Stati non fosse ripartito da un pezzo?
Sono italiano, non faccio testo. A molti miei compatrioti basta un attentato o l'arresto di due marò per perdere la brocca. Non posso permettermi di giudicare la tenuta psicologica di un popolo che vota a qualche centinaio di chilometri dal caos siriano e iracheno. Mi sembrava improbabile che la maggioranza degli israeliani in questa situazione fosse disponibile a ritirarsi da un territorio di vitale importanza strategica - a meno che non si fosse trattato del solito ritiro per finta che è stato offerto ai palestinesi fin qui.
Un errore che facciamo quasi tutti, quando parliamo di Israele e di Palestina, è isolarli in un piccolo mondo a parte - un mondo tutto sbagliato i cui abitanti dovrebbero finalmente trovare un modo per andare d'amore e d'accordo. Ma Israele non è un'isola; non prospera sotto una cupola di vetro o di acciaio. Lo chiamiamo conflitto israelo-palestinese come se da una parte ci fossero soltanto israeliani, e dall'altra soltanto palestinesi. Non è così, non è mai stato così - conflitti del genere di solito si risolvono in molto meno di sessant'anni. C'è una guerra molto più grande intorno, e se per adesso Israele non è la prima linea, non è nemmeno una retrovia. C'è chi dall'altra parte del mondo finanzia i coloni e i partiti; c'è chi da qualche parte nel Golfo ha ancora interesse a nutrire Hamas e altre formazioni che credono nel piccolo e frammentato Stato di Palestina ancora meno di quanto ci creda Herzog. Il torto più grande che facciamo agli israeliani (e ai palestinesi), è pensare che possano fare la pace da soli. Che possano anche soltanto desiderarla, bloccati come sono nell'occhio del ciclone di un conflitto mondiale a intensità nemmeno così bassa. Un giorno finirà - finisce tutto col tempo. Ma non saranno gli israeliani (e i palestinesi) a farla finire: non da soli, almeno. Da loro non possiamo pretenderlo.
mercoledì 18 marzo 2015
L'uomo che comprò la lotta libera
Foxcatcher (Bennett Miller, 2014)
Tutto quello che puoi vedere fino all'orizzonte è del signor Du Pont. Filantropo, filatelista, ornitologo. Al tempo in cui nostri antenati morivano per la loro libertà, i suoi antenati facevano affari coi cannoni, e ora tutto questa terra è sua, ed è suo tutto ciò che ci cammina sopra e che ci vola. Gli uccelli da catalogare, i cavalli della madre da detestare, i trenini giocattolo, i fucili automatici, i lottatori da allenare e le medaglie che vinceranno. Nessuno può dire di no al signor Du Pont. Finanzia la polizia di stato e il comitato olimpico. Ma quel che desidera davvero, nessuno lo ha ancora capito.
Foxcatcher arriva nelle sale qualche settimana dopo Whiplash. È difficile immaginare due film più diversi sugli stessi argomenti: eppure il Mark Schultz intepretato da Channing Tatum sembra animato dalla stessa ambizione divorante e fine a sé stessa del batterista di Chazelle. Anche sulla sua strada c'è il maestro sbagliato. Ma gli allievi e i maestri di Whiplash sono musicisti iperattivi e sopra le righe; i lottatori di Miller lottano per prima cosa contro un muro di impassibilità che li isola dal mondo. Mark guarda in basso, prende tempo, cerca la risposta giusta, ha sempre paura di sbagliare. Il suo sport consiste nell'afferrare a mani nude un altro uomo e tenerlo a terra finché un arbitro non fischia, eppure anche quegli avversari è come se Mark non li toccasse davvero. Non sono che un'estensione di sé stesso, la conseguenza tangibile dei suoi sforzi: se si è ben allenato vanno giù a comando, se ha sbagliato tutto lo afferrano e lo portano via con sé. Come il protagonista di Whipash, Mark non ha amici. Ha però un fratello lottatore e allenatore (Mark Ruffalo) dalla cui stretta non riesce a liberarsi, un mentore inquietante che pagherà la sua amicizia a peso d'oro, e un unico vero nemico, che prende a pugni allo specchio fino a infrangerlo.
Tra i ritmi sincopati di Chazelle e quelli rallentati di Miller ognuno sceglierà secondo il suo gusto... (continua su +eventi) Se il primo film mi ha tenuto, come si dice, inchiodato per un'ora e mezza, il secondo è stato una delle esperienze più angosciose degli ultimi anni, al punto da farmi desiderare più volte di alzarmi e prendere qualche minuto di pausa, non perché non fosse un bel film - ma per stemperare il senso di tragedia ineluttabile che grava sui personaggi senza abbandonarli per 120 minuti. Capote in confronto era una commedia: in quel caso l'istrionismo di Philip Seymour Hoffman ti faceva tirare il fiato. Stavolta non c'è requie: il lottatore frustrato e il milionario paranoico che cerca di adottarlo sono due corde tese che potrebbero spezzarsi in qualsiasi momento. Ci si sente a disagio come quando ti invitava a casa il compagno di classe ricco ma senza amici, vorresti trovarlo simpatico - ti converrebbe anche - ma c'è qualcosa che suona terribilmente stonato e tapparsi le orecchie non serve a niente.
Ai tre attori della sua tragedia, Miller chiede qualcosa di molto particolare: devono recitare male, o meglio interpretare personaggi che non riescono a reggere la parte. L'irriconoscibile Steve Carell è un milionario che non riesce a indossare gli abiti eroici che si è fabbricato. Ciondola per il set con l'aria di un'aquila smarrita, ti aspetti che si tolga la maschera da un momento all'altro. Channing Tatum sa di essere di fronte all'occasione della vita: film drammatici su atleti dal collo taurino non è che se ne producano tutti gli anni. E però il suo ruolo è proprio quello di un atleta che di fronte all'occasione della vita è terrorizzato dalla possibilità di fallire. Entrambi, per quanto notevoli, vengono surclassati da Mark Ruffalo. Il suo Dave Schultz, fratello e allenatore di Mark, è l'unico soffio d'aria fresca che tira per tutto il film. Qualsiasi cosa che fa tradisce dolcezza, compreso afferrarti da dietro la schiena e mandarti al tappeto. Ma anche a Dave tocca recitare una parte, a un certo punto - e proprio davanti alla cinepresa Dave si blocca, non ce la fa.
Come tutti i biopic degli ultimi anni, Foxcatcher pretende di raccontare una storia vera ma non riesce a raccontarla giusta. Tra le varie forzature, degna di nota è quella scena semibuia in cui si lascia intendere qualcosa di più di una tensione omoerotica tra Mark e il milionario suo ospite. Al Mark vero quella scena non è andata giù, tanto da ispirargli una serie di tweet molto ingiuriosi nei confronti del regista - poi cancellati. È in effetti una scena che sembra congegnata più per far discutere che per farci capire cosa sta succedendo tra i due.
Foxcatcher è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:45. Portatevi qualcosa di caldo.
Tutto quello che puoi vedere fino all'orizzonte è del signor Du Pont. Filantropo, filatelista, ornitologo. Al tempo in cui nostri antenati morivano per la loro libertà, i suoi antenati facevano affari coi cannoni, e ora tutto questa terra è sua, ed è suo tutto ciò che ci cammina sopra e che ci vola. Gli uccelli da catalogare, i cavalli della madre da detestare, i trenini giocattolo, i fucili automatici, i lottatori da allenare e le medaglie che vinceranno. Nessuno può dire di no al signor Du Pont. Finanzia la polizia di stato e il comitato olimpico. Ma quel che desidera davvero, nessuno lo ha ancora capito.
Foxcatcher arriva nelle sale qualche settimana dopo Whiplash. È difficile immaginare due film più diversi sugli stessi argomenti: eppure il Mark Schultz intepretato da Channing Tatum sembra animato dalla stessa ambizione divorante e fine a sé stessa del batterista di Chazelle. Anche sulla sua strada c'è il maestro sbagliato. Ma gli allievi e i maestri di Whiplash sono musicisti iperattivi e sopra le righe; i lottatori di Miller lottano per prima cosa contro un muro di impassibilità che li isola dal mondo. Mark guarda in basso, prende tempo, cerca la risposta giusta, ha sempre paura di sbagliare. Il suo sport consiste nell'afferrare a mani nude un altro uomo e tenerlo a terra finché un arbitro non fischia, eppure anche quegli avversari è come se Mark non li toccasse davvero. Non sono che un'estensione di sé stesso, la conseguenza tangibile dei suoi sforzi: se si è ben allenato vanno giù a comando, se ha sbagliato tutto lo afferrano e lo portano via con sé. Come il protagonista di Whipash, Mark non ha amici. Ha però un fratello lottatore e allenatore (Mark Ruffalo) dalla cui stretta non riesce a liberarsi, un mentore inquietante che pagherà la sua amicizia a peso d'oro, e un unico vero nemico, che prende a pugni allo specchio fino a infrangerlo.
Tra i ritmi sincopati di Chazelle e quelli rallentati di Miller ognuno sceglierà secondo il suo gusto... (continua su +eventi) Se il primo film mi ha tenuto, come si dice, inchiodato per un'ora e mezza, il secondo è stato una delle esperienze più angosciose degli ultimi anni, al punto da farmi desiderare più volte di alzarmi e prendere qualche minuto di pausa, non perché non fosse un bel film - ma per stemperare il senso di tragedia ineluttabile che grava sui personaggi senza abbandonarli per 120 minuti. Capote in confronto era una commedia: in quel caso l'istrionismo di Philip Seymour Hoffman ti faceva tirare il fiato. Stavolta non c'è requie: il lottatore frustrato e il milionario paranoico che cerca di adottarlo sono due corde tese che potrebbero spezzarsi in qualsiasi momento. Ci si sente a disagio come quando ti invitava a casa il compagno di classe ricco ma senza amici, vorresti trovarlo simpatico - ti converrebbe anche - ma c'è qualcosa che suona terribilmente stonato e tapparsi le orecchie non serve a niente.
Ai tre attori della sua tragedia, Miller chiede qualcosa di molto particolare: devono recitare male, o meglio interpretare personaggi che non riescono a reggere la parte. L'irriconoscibile Steve Carell è un milionario che non riesce a indossare gli abiti eroici che si è fabbricato. Ciondola per il set con l'aria di un'aquila smarrita, ti aspetti che si tolga la maschera da un momento all'altro. Channing Tatum sa di essere di fronte all'occasione della vita: film drammatici su atleti dal collo taurino non è che se ne producano tutti gli anni. E però il suo ruolo è proprio quello di un atleta che di fronte all'occasione della vita è terrorizzato dalla possibilità di fallire. Entrambi, per quanto notevoli, vengono surclassati da Mark Ruffalo. Il suo Dave Schultz, fratello e allenatore di Mark, è l'unico soffio d'aria fresca che tira per tutto il film. Qualsiasi cosa che fa tradisce dolcezza, compreso afferrarti da dietro la schiena e mandarti al tappeto. Ma anche a Dave tocca recitare una parte, a un certo punto - e proprio davanti alla cinepresa Dave si blocca, non ce la fa.
Come tutti i biopic degli ultimi anni, Foxcatcher pretende di raccontare una storia vera ma non riesce a raccontarla giusta. Tra le varie forzature, degna di nota è quella scena semibuia in cui si lascia intendere qualcosa di più di una tensione omoerotica tra Mark e il milionario suo ospite. Al Mark vero quella scena non è andata giù, tanto da ispirargli una serie di tweet molto ingiuriosi nei confronti del regista - poi cancellati. È in effetti una scena che sembra congegnata più per far discutere che per farci capire cosa sta succedendo tra i due.
Foxcatcher è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:45. Portatevi qualcosa di caldo.
lunedì 16 marzo 2015
Voltaire per D&G non muoverebbe un dito
Quest'anno il manuale di Storia adottato dai colleghi non mi convince tantissimo. Ogni tanto prende delle topiche inquietanti. Nella verifica sull'Illuminismo ho cancellato una "frase celebre" che doveva essere attribuita a un filosofo: indovinate quale.
Poi ho dovuto di nuovo spiegare ai ragazzi che quella frase Voltaire non l'ha mai scritta, e anzi, chiunque un po' lo conosca davvero sa che nel Trattato sulla tolleranza si lanciava contro i suoi avversari al grido "Schiacciate l'infame". Non proprio il tipo che avrebbe combattuto fino alla morte affinché gli infami potessero manifestare le loro opinioni.
Tre ore dopo, mentre esco da scuola, getto l'occhio nell'atrio su un bel cartellone prodotto da un'altra classe: c'è la stessa frase, attribuita a Voltaire. Come spalare l'acqua col forcone.
Perché insisto tanto su questa storia, sempre la solita? Perché ho la sensazione che la frasetta pseudovoltairiana ci abbia un po' fregato tutti quanti. Prendi uno a caso...
...Stefano Gabbana. Magari anche lui da qualche parte (a scuola?) ha appreso erroneamente che Voltaire avrebbe difeso fino alla morte i gesuiti che non la pensavano come lui. È un'ipotesi come un'altra. Oppure pesca parole a caso dal dizionario inglese-italiano. Elton John se l'è presa perché Gabbana ha definito suo figlio "sintetico" e ha deciso che lo boicotterà. Scelta che puoi discutere finché vuoi, ma in che senso uno che ha deciso di boicottarti per le tue opinioni è "fascista"? Che ragionamento c'è dietro, se proprio ce ne deve essere uno?
Una pista ce la offre Giorgio Mulè, direttore di Panorama, che qualche ora dopo sente la necessità di intervenire per richiamare Elton John, ci credereste?, alle più elementari norme di tolleranza: ma come, Gabbana ha definito tuo figlio "sintetico" e tu ti sei offeso? Si vede proprio che non riesci a "accettare le idee" altrui. Per fortuna non lo scrive in una lingua che Elton John possa comprendere.
Anche qui: di cosa parla Mulè quando parla di "democrazia"? Se Elton John smette di comprare prodotti Dolce & Gabbana diventa in qualche modo antidemocratico? In un'intervista Dolce e Gabbana hanno detto una stronzata, Elton John si è arrabbiato e ha annunciato che non comprerà più i loro prodotti. D&G hanno il diritto di scrivere stronzate (anche se il fatto di rappresentare un marchio che dà lavoro a così tante persone potrebbe suggerire maggiore prudenza), EJ ha diritto di boicottarli. Nessuna democrazia è stata violata fin qui. Nessuno sta impedendo a Elton John di avere figli, fuorché la legislazione italiana vigente. Nessuno sta impedendo a Gabbana di vendere vestiti, accessori, ecc.. Sembra così chiaro, eppure c'è qualcosa che non passa. Uno potrebbe anche pensare che Mulè in fin dei conti non si è ancora fatto le ossa nel mondo dell'opinionismo: che deve ancora farsi; che uno più esperto di lui non commetterebbe lo stesso errore.
"Freedom of expression", dice. Cioè per Severgnini se ti arrabbi con Gabbana; se annunci che non comprerai più i loro prodotti, tu non stai rispettando la "libertà di espressione" di Gabbana. Per dire, io è da anni che non compro più il Corriere: trovo che scriva veramente troppe sciocchezze. Ebbene, pare proprio che mi stia sbagliando. Sto minando la libertà di espressione di Panebianco, di Ostellino, di Sartori, e chissà di quanti altri produttori di opinioni. Dovrei morire per la loro libertà di esprimerle! E invece non gliele compro, è o non è oscurantismo il mio? Che direbbe di me coso, Voltaire?
[Alla fine di tutto sorge il sospetto che Gabbana e il suo socio abbiano capito il mondo meglio di chiunque altro, e che l'immagine di un'Italia intollerante e culturalmente sottosviluppata, incapace di elaborare una discussione decente (e di elaborarla in inglese corretto) sia proprio quella su cui hanno imbastito anni di campagne. Un bel posto del Terzo Mondo dove passare le vacanze].
Poi ho dovuto di nuovo spiegare ai ragazzi che quella frase Voltaire non l'ha mai scritta, e anzi, chiunque un po' lo conosca davvero sa che nel Trattato sulla tolleranza si lanciava contro i suoi avversari al grido "Schiacciate l'infame". Non proprio il tipo che avrebbe combattuto fino alla morte affinché gli infami potessero manifestare le loro opinioni.
Tre ore dopo, mentre esco da scuola, getto l'occhio nell'atrio su un bel cartellone prodotto da un'altra classe: c'è la stessa frase, attribuita a Voltaire. Come spalare l'acqua col forcone.
Perché insisto tanto su questa storia, sempre la solita? Perché ho la sensazione che la frasetta pseudovoltairiana ci abbia un po' fregato tutti quanti. Prendi uno a caso...
...Stefano Gabbana. Magari anche lui da qualche parte (a scuola?) ha appreso erroneamente che Voltaire avrebbe difeso fino alla morte i gesuiti che non la pensavano come lui. È un'ipotesi come un'altra. Oppure pesca parole a caso dal dizionario inglese-italiano. Elton John se l'è presa perché Gabbana ha definito suo figlio "sintetico" e ha deciso che lo boicotterà. Scelta che puoi discutere finché vuoi, ma in che senso uno che ha deciso di boicottarti per le tue opinioni è "fascista"? Che ragionamento c'è dietro, se proprio ce ne deve essere uno?
Una pista ce la offre Giorgio Mulè, direttore di Panorama, che qualche ora dopo sente la necessità di intervenire per richiamare Elton John, ci credereste?, alle più elementari norme di tolleranza: ma come, Gabbana ha definito tuo figlio "sintetico" e tu ti sei offeso? Si vede proprio che non riesci a "accettare le idee" altrui. Per fortuna non lo scrive in una lingua che Elton John possa comprendere.
Le immagini sono prese da http://twitter.com/lasoncini, che magari non la pensa come me (nel qual caso son pronto a morire, va da sé). |
Anche qui: di cosa parla Mulè quando parla di "democrazia"? Se Elton John smette di comprare prodotti Dolce & Gabbana diventa in qualche modo antidemocratico? In un'intervista Dolce e Gabbana hanno detto una stronzata, Elton John si è arrabbiato e ha annunciato che non comprerà più i loro prodotti. D&G hanno il diritto di scrivere stronzate (anche se il fatto di rappresentare un marchio che dà lavoro a così tante persone potrebbe suggerire maggiore prudenza), EJ ha diritto di boicottarli. Nessuna democrazia è stata violata fin qui. Nessuno sta impedendo a Elton John di avere figli, fuorché la legislazione italiana vigente. Nessuno sta impedendo a Gabbana di vendere vestiti, accessori, ecc.. Sembra così chiaro, eppure c'è qualcosa che non passa. Uno potrebbe anche pensare che Mulè in fin dei conti non si è ancora fatto le ossa nel mondo dell'opinionismo: che deve ancora farsi; che uno più esperto di lui non commetterebbe lo stesso errore.
#BoycottDolceGabbana is wrong. Ok, they have a different opinion So what? Freedom of expression just a candle in the wind, @eltonjohndotcom?
— beppe severgnini (@beppesevergnini) March 16, 2015
"Freedom of expression", dice. Cioè per Severgnini se ti arrabbi con Gabbana; se annunci che non comprerai più i loro prodotti, tu non stai rispettando la "libertà di espressione" di Gabbana. Per dire, io è da anni che non compro più il Corriere: trovo che scriva veramente troppe sciocchezze. Ebbene, pare proprio che mi stia sbagliando. Sto minando la libertà di espressione di Panebianco, di Ostellino, di Sartori, e chissà di quanti altri produttori di opinioni. Dovrei morire per la loro libertà di esprimerle! E invece non gliele compro, è o non è oscurantismo il mio? Che direbbe di me coso, Voltaire?
[Alla fine di tutto sorge il sospetto che Gabbana e il suo socio abbiano capito il mondo meglio di chiunque altro, e che l'immagine di un'Italia intollerante e culturalmente sottosviluppata, incapace di elaborare una discussione decente (e di elaborarla in inglese corretto) sia proprio quella su cui hanno imbastito anni di campagne. Un bel posto del Terzo Mondo dove passare le vacanze].
sabato 14 marzo 2015
Unfuckable
"Ma quindi insomma non lo hai detto?"
"Eh?"
"Non hai mai dato della culona alla Merkel".
"Ah no?"
"Non risulta da nessuna parte. Lo scrive Facci, guarda".
"Ma cosa vuoi che ne sappia Facci, eddai".
"Si è letto tutti i testi delle intercettazioni del processo di Bari e non c'è nessuna Merkel culona".
"Eeeeh, ma chissà se li è letti davvero e non ha fatto... come dite voi giovani... controleffe".
"E che importa? Non risulta".
"Ma magari invece di culona l'ho chiamata chiappona, lui cerca *culona* col controleffe e non la trova".
"Ma *Merkel* l'avrà cercato, no?"
"Ma magari ho detto *cancelliera chiappona*, che ne sa lui".
"Ma scusa perché tu?"
"Io cosa?"
"Tu lo saprai bene cosa hai detto della Merkel, no?"
"Io?"
"Cioè tu non sai se hai detto o no culona inchiavabile?"
"Tesoro, ma come cribbio faccio a saperlo".
"?"
"Va bene, lascia che ti spieghi".
"Non cominciare con quel tono".
"È che voi giovani non vi rendete conto... state tutto il tempo a pigiare su quei smarfon... vi scrivete chilometri di cazzate e resta tutto, compresa una stronzata che hai detto otto anni fa a una compagna antipatica. Fai controleffe e la trovi, vero?"
"Al massimo melaeffe".
"Quel che vuoi, Tesoro, non me ne frega un c - ma devi capire che ai miei tempi era diverso. Si stava ore al telefono con questo e con quello, e sai quante cazzate toccava sparare per tirarsi su il morale? Ora se a un certo punto in una telefonata di cento anni fa ho detto che la Merkel era inchiavabile, ma secondo te me lo posso ricordare in un qualche modo? Non mi ricordo nemmeno con chi ero al telefono e perché".
"Comunque non risulta".
"...poi a un certo punto sento che parlano tutti di questa cosa che avrei detto alla Merkel... addirittura i giornali inglesi, e chi sono io per smentire i giornali inglesi? Cioè se lo hanno scritto loro io mi fido".
"Invece se lo sono inventati al Fatto".
"Quelli sono fortissimi. E pensa che non li pago nemmeno".
"Li potresti denunciare".
"Tesoro, mi hanno fatto vincere le elezioni".
"Ma almeno convocare una conferenza stampa, per avvertire tutto il mondo che..."
"Che è davvero una culona! Ottima idea. Così leviamo il dubbio a tutti quanti".
"..."
"Non fare quella faccia, se non lo dico io ci pensa Grillo... o Salvini. Io ho un personaggio da difendere, capisci?"
"Eh?"
"Non hai mai dato della culona alla Merkel".
"Ah no?"
"Non risulta da nessuna parte. Lo scrive Facci, guarda".
"Ma cosa vuoi che ne sappia Facci, eddai".
"Si è letto tutti i testi delle intercettazioni del processo di Bari e non c'è nessuna Merkel culona".
"Eeeeh, ma chissà se li è letti davvero e non ha fatto... come dite voi giovani... controleffe".
"E che importa? Non risulta".
"Ma magari invece di culona l'ho chiamata chiappona, lui cerca *culona* col controleffe e non la trova".
"Ma *Merkel* l'avrà cercato, no?"
"Ma magari ho detto *cancelliera chiappona*, che ne sa lui".
"Ma scusa perché tu?"
"Io cosa?"
"Tu lo saprai bene cosa hai detto della Merkel, no?"
"Io?"
"Cioè tu non sai se hai detto o no culona inchiavabile?"
"Tesoro, ma come cribbio faccio a saperlo".
"?"
"Va bene, lascia che ti spieghi".
"Non cominciare con quel tono".
"È che voi giovani non vi rendete conto... state tutto il tempo a pigiare su quei smarfon... vi scrivete chilometri di cazzate e resta tutto, compresa una stronzata che hai detto otto anni fa a una compagna antipatica. Fai controleffe e la trovi, vero?"
"Al massimo melaeffe".
"Quel che vuoi, Tesoro, non me ne frega un c - ma devi capire che ai miei tempi era diverso. Si stava ore al telefono con questo e con quello, e sai quante cazzate toccava sparare per tirarsi su il morale? Ora se a un certo punto in una telefonata di cento anni fa ho detto che la Merkel era inchiavabile, ma secondo te me lo posso ricordare in un qualche modo? Non mi ricordo nemmeno con chi ero al telefono e perché".
"Comunque non risulta".
"...poi a un certo punto sento che parlano tutti di questa cosa che avrei detto alla Merkel... addirittura i giornali inglesi, e chi sono io per smentire i giornali inglesi? Cioè se lo hanno scritto loro io mi fido".
"Invece se lo sono inventati al Fatto".
"Quelli sono fortissimi. E pensa che non li pago nemmeno".
"Li potresti denunciare".
"Tesoro, mi hanno fatto vincere le elezioni".
"Ma almeno convocare una conferenza stampa, per avvertire tutto il mondo che..."
"Che è davvero una culona! Ottima idea. Così leviamo il dubbio a tutti quanti".
"..."
"Non fare quella faccia, se non lo dico io ci pensa Grillo... o Salvini. Io ho un personaggio da difendere, capisci?"
giovedì 12 marzo 2015
Tutto il potere ai presidi... e per la meritocrazia non ci sono i soldi, spiacenti.
(Ma vi offriamo i biglietti dei concerti)
Io naturalmente non sono molto soddisfatto del Ddl sulla scuola che stasera è stato approvato dal Consiglio dei Ministri, ma questo non credo sia una novità per nessuno. Sono contento per i supplenti storici, che meritavano che fosse riconosciuto il loro impegno; sono sgomento per una concezione dell'autonomia scolastica che consiste nel concentrare tutto il potere sul preside. Sarà lui, improvvisamente investito di competenze didattiche e pedagogiche, a poter scegliere "i docenti più adatti" a realizzare piani dell'offerta formativa che sarà lui a stilare con un gruppo di collaboratori scelti da lui.
Sarà sempre lui a scegliere quel cinque per cento di docenti meritevoli a cui corrispondere un bonus per cui saranno stanziati tanti milioni - però non adesso, tra un po'. Insomma, in attesa del varo di un serio sistema di valutazione degli insegnanti, di cui tutti si riempiono la bocca da vent'anni senza venire al dunque mai, il governo ha deciso che ci pensano i presidi. Tutto il potere ai presidi. Perché? Non è ben chiaro. È un po' come la riforma del Senato: nessuno ha mai capito quale sia il senso di portare sindaci e delegati regionali a Roma qualche giorno al mese, tranne che forse Renzi e Delrio sono stati sindaci e continuano a vedere il mondo con occhi da sindaci: se solo l'Italia potessero farla i sindaci - sembrano pensare - vedreste che roba sarebbe, vedrete.
Con la scuola sembra proprio che sia successo qualcosa di analogo: hanno scambiato il Dirigente Scolastico per un sindaco della scuola e hanno deciso che è senz'altro lui la persona più adatta a scegliersi l'organico e a decidere come pagarlo. Non devono nemmeno essersi troppo preoccupati del fatto che a differenza del sindaco, il preside non lo vota nessuno: è un funzionario che ha vinto un concorso e che non può essere in nessun modo messo in minoranza né dal collegio docenti, né dai genitori, né dagli studenti. Da qui in poi decide tutto lui e ne risponde soltanto ai tribunali amministrativi (o ai penali appena qualche docente lo accuserà di mobbing). È una cosa che mi lascia perplesso - la totale confusione tra organismi democratici e burocratici - ma non credo che la mia perplessità sia una novità per nessuno.
Mi piacerebbe invece sentire qualche renziano, stasera e domani: uno qualsiasi tra tutti quelli che per un anno ci hanno decantato le virtù della meritocrazia, e della valutazione: mi piacerebbe chiedergli se non si sente preso in giro da un Ddl che la meritocrazia l'ha nascosta sotto il tappeto, e si presenta ai docenti di ogni grado e merito con un bel cesto di Natale fuori stagione: un voucher da 500€ per "spese culturali". Un rimborso spese "per andare a teatro, a sentire un concerto, a vedere l'opera... Anche questo è cultura", ha spiegato Renzi. Dunque per ora si va a teatro e ai concerti; nei prossimi mesi si cercherà di essere il più possibile carini coi presidi, che magari l'anno prossimo saranno tanto buoni da includerci in quel 5% di docenti meritevoli di bonus. Tutta qui la meritocrazia renziana? Per ora è davvero tutta qui.
Del resto non c'erano i soldi per fare diversamente. L'ultima volta che un sindacato ha provato a fare i conti, i famosi scatti triennali al merito si erano ridotti a una miseria: forse 16€ in più al mese, neanche la benzina per andare e tornare da un corso di aggiornamento. A quel punto il Ddl è rimasto congelato per qualche giorno, e adesso eccolo qua: niente più meritocrazia, se ne parla alle calende greche. La stessa scadenza prevista del resto dalla Moratti, dalla Gelmini, da Profumo. Sarebbe fantastico valutare i docenti, ma non si sa bene come fare, e soprattutto mancano i soldi.
Quelli per le scuole private però li hanno trovati. Ma non è una notizia nemmeno questa, dopotutto.
Io naturalmente non sono molto soddisfatto del Ddl sulla scuola che stasera è stato approvato dal Consiglio dei Ministri, ma questo non credo sia una novità per nessuno. Sono contento per i supplenti storici, che meritavano che fosse riconosciuto il loro impegno; sono sgomento per una concezione dell'autonomia scolastica che consiste nel concentrare tutto il potere sul preside. Sarà lui, improvvisamente investito di competenze didattiche e pedagogiche, a poter scegliere "i docenti più adatti" a realizzare piani dell'offerta formativa che sarà lui a stilare con un gruppo di collaboratori scelti da lui.
Sarà sempre lui a scegliere quel cinque per cento di docenti meritevoli a cui corrispondere un bonus per cui saranno stanziati tanti milioni - però non adesso, tra un po'. Insomma, in attesa del varo di un serio sistema di valutazione degli insegnanti, di cui tutti si riempiono la bocca da vent'anni senza venire al dunque mai, il governo ha deciso che ci pensano i presidi. Tutto il potere ai presidi. Perché? Non è ben chiaro. È un po' come la riforma del Senato: nessuno ha mai capito quale sia il senso di portare sindaci e delegati regionali a Roma qualche giorno al mese, tranne che forse Renzi e Delrio sono stati sindaci e continuano a vedere il mondo con occhi da sindaci: se solo l'Italia potessero farla i sindaci - sembrano pensare - vedreste che roba sarebbe, vedrete.
Con la scuola sembra proprio che sia successo qualcosa di analogo: hanno scambiato il Dirigente Scolastico per un sindaco della scuola e hanno deciso che è senz'altro lui la persona più adatta a scegliersi l'organico e a decidere come pagarlo. Non devono nemmeno essersi troppo preoccupati del fatto che a differenza del sindaco, il preside non lo vota nessuno: è un funzionario che ha vinto un concorso e che non può essere in nessun modo messo in minoranza né dal collegio docenti, né dai genitori, né dagli studenti. Da qui in poi decide tutto lui e ne risponde soltanto ai tribunali amministrativi (o ai penali appena qualche docente lo accuserà di mobbing). È una cosa che mi lascia perplesso - la totale confusione tra organismi democratici e burocratici - ma non credo che la mia perplessità sia una novità per nessuno.
Mi piacerebbe invece sentire qualche renziano, stasera e domani: uno qualsiasi tra tutti quelli che per un anno ci hanno decantato le virtù della meritocrazia, e della valutazione: mi piacerebbe chiedergli se non si sente preso in giro da un Ddl che la meritocrazia l'ha nascosta sotto il tappeto, e si presenta ai docenti di ogni grado e merito con un bel cesto di Natale fuori stagione: un voucher da 500€ per "spese culturali". Un rimborso spese "per andare a teatro, a sentire un concerto, a vedere l'opera... Anche questo è cultura", ha spiegato Renzi. Dunque per ora si va a teatro e ai concerti; nei prossimi mesi si cercherà di essere il più possibile carini coi presidi, che magari l'anno prossimo saranno tanto buoni da includerci in quel 5% di docenti meritevoli di bonus. Tutta qui la meritocrazia renziana? Per ora è davvero tutta qui.
Del resto non c'erano i soldi per fare diversamente. L'ultima volta che un sindacato ha provato a fare i conti, i famosi scatti triennali al merito si erano ridotti a una miseria: forse 16€ in più al mese, neanche la benzina per andare e tornare da un corso di aggiornamento. A quel punto il Ddl è rimasto congelato per qualche giorno, e adesso eccolo qua: niente più meritocrazia, se ne parla alle calende greche. La stessa scadenza prevista del resto dalla Moratti, dalla Gelmini, da Profumo. Sarebbe fantastico valutare i docenti, ma non si sa bene come fare, e soprattutto mancano i soldi.
Quelli per le scuole private però li hanno trovati. Ma non è una notizia nemmeno questa, dopotutto.
Temo i leghisti (anche quelli in felpa)
- Quelli che prendono in giro Salvini perché a Roma è arrivato con quattro gatti (compresi quelli neri reclutati in loco):
... si ricordano di tutte le volte che abbiamo irriso Berlusconi perché le sue piazze restavano semivuote - e poi le elezioni le vinceva lo stesso?
- Quelli che festeggiano per le lotte intestine in Veneto tra Salvini e Tosi:
... si ricordano di tutte le volte che Bossi cacciò a pedate qualche oppositore interno che in teoria valeva decine di migliaia di voti? Di Miglio, Pagliarini, Gnutti, e tanti altri? Di quante volte dagli anni Novanta in poi abbiamo letto di una Lega divisa per poi scoprire alle urne che la base seguiva Bossi comunque e dovunque?
- Quelli che parlano di una mutazione profonda della Lega, che avrebbe rinnegato il suo passato regionalista e federalista e blablabla:
...che film si stanno guardando da vent'anni? La Lega di Bossi era razzista e populista come la Lega di Salvini. Il federalismo serviva per darsi un tono, ma a guardarlo da vicino era di gommapiuma come le corna sugli elmi di Pontida. 12 anni fa Bossi già diceva che bisognava salutare i barconi a cannonate. Non è che la xenofobia leghista se la sia inventata Salvini. Non è che prima i Rom fossero i beniamini delle feste della Padania.
- Quelli che credono che Salvini - coi limiti strutturali del suo movimento - sia l'avversario più comodo per il PD:
...no, niente, spero tanto che abbiate ragione. Ma io temo i leghisti anche quando metton via gli elmi e indossano le felpe.
mercoledì 11 marzo 2015
Perché Aldo Busi scrive così cane?
È appena marzo, ma ho la sensazione di avere scovato il periodo sintattico più lungo del 2015. Lo ha scritto Aldo Busi su Dagospia, un sito che non ho abitudine di linkare, ma lo potrete trovare facilmente. Il pezzo è parte di una polemica con Travaglio cominciata sul Fatto a proposito di Lucio Dalla; in particolare del suo mancato coming out, che per Busi corrisponde a un tradimento della causa gay (causa che Dalla non ha mai dato la sensazione di voler difendere). Busi ne approfitta per spiegare che non trova tutto sommato molta differenza tra Lucio Dalla che convive con un ragazzo molto più giovane e Berlusconi che se la fa con Ruby.
Dice più o meno così.
Ma se la prende un po' più larga.
Aldo Busi è un grande scrittore italiano (stavo per scrivere "del secolo scorso", che orribile gaffe). Quando vuole, i periodi li sa tornire con indiscutibile abilità. Se qui gli capita di scrivere cane, è perché ha deciso di suonare cane. Credo che sia l'equivalente letterario di alzare la voce in un talk show: le virgole sono pause e Busi non se le può permettere. Sarebbe come offrire al regista l'occasione per staccare, e invece lui vuole che la camera continui a girargli attorno. Anche il senso della frase gira su sé stesso: il Fatto non rispettava la sessualità di Berlusconi. Però la sessualità di B. era "parimenti devastante". Sì, ma "infinitamente meno immorale di quella di Dalla", per via che non era nascosta a tutti (beh, beh, fino a un certo punto; e anche Dalla non è che si nascondesse così tanto). Cioè ce l'hai con Dalla e lo paragoni a Berlusconi, però si deve capire che ce l'hai anche con Berlusconi, però con Dalla di più, ecc.
Dunque la sessualità di B. è "oziosamente perseguita" "per una faccenda, massimamente, di un paio di mesi". Busi finge di non sapere che B. non è stato indagato (e assolto) per aver trescato con una minorenne, ma perché sospettato di aver fatto pressioni su pubblici ufficiali per farla liberare; di aver lasciato che la Minetti la consegnasse a una signora che forse si prostituiva; insomma Berlusconi era a processo perché accusato di aver favorito l'eventuale prostituzione di una minorenne; qualcosa di un tantino più grave di aver passato qualche lieta ora con lei. Busi finge di non saperlo ma lo sa benissimo: e allora alza ancora di più la voce, dice che tanto per strada le prostitute sono tutte 16enni (sul serio?) e che comunque ci sono un sacco di baby gang di 14enni che fanno di peggio (quante?) e tenetevi forte: queste baby gang sono organizzate da genitori "vampiri pedofili sfruttatori dei loro estimatori". Qui Busi forse si accorge di essersi spinto un po' troppo in là, perché ci sono cose che ancora non passano nemmeno tra i lettori di Dagospia, e tra queste probabilmente la compassione per i poveri estimatori di gangster 14enni che li ricattano. Quindi si corregge immediatamente: "ben gli sta" (a questi estimatori ricattati). Da lì in poi va avanti per inerzia, non si sa nemmeno più cosa stia scrivendo: "dovrebbe essere un reato da depenalizzare": il ricatto? lo sfruttamento della prostituzione minorile? boh. Tanto poi decidono i giudici ammanicati coi politici è tutto un magnamagna. Aldo Busi, 2015.
Triste però.
C'è una cosa che succede ogni anno ai primi di marzo, di cui non vado tantissimo fiero. Tutti si ricordano Dalla, ascoltano pezzi di Dalla, e si mettono a cercare on line post che parlino di Lucio Dalla. E trovano il mio, che piano piano sta diventando uno dei contenuti più letti di sempre. Non è che sia un post particolarmente ispirato; però funziona, e ogni anno mi porta qualche contatto in più. Non è una questione di soldi. Non mi ci rifaccio nemmeno del caffè alla macchinetta. Però funziona: la gente cerca Dalla e trova qualcosa che ho scritto io.
Quest'anno Busi ha un romanzo da vendere, e così ai primi di marzo si mette a litigare su Dalla. "Uno zero come tanti, non isolato, però di panza, panza molto capiente in fatto di mercato e quindi di ogni specie di santi in paradiso, a destra, a sinistra, dove più fa comodo a entrambe le parti una e trina e, se occorre, doppia, sdoppiata, rasente e anche in absentia per accordi tra collusi al business del consenso". Potrebbe anche avere qualche argomento, non scrivesse così cane. Lo scandalo di Busi è che Dalla - di cui si dà per scontata l'omosessualità - non abbia mai difeso i diritti dei gay. Gli sarebbe bastato fare un coming out al momento giusto, e se n'è guardato bene. D'altro canto, è giusto pretendere da una persona una condotta pubblica coerente con la propria sessualità privata? Non è l'ultima frontiera del perbenismo? Chi lo sa.
Io so solo che Busi scrive da cane, e lo fa apposta. Come se fosse il primo a crederci poco, e a coprire i dubbi coi guaiti.
Il Dalla, abile facitore e propalatore di marcette populiste, omosessuale rinnegatore di se stesso non certo a letto ma dove conta affermarsi se si ha il talento della libertà da diffondere dando il buon esempio, cioè sulla pubblica piazza, e menefreghista doc, non ha fatto niente per i diritti civili, quindi remandovi scientemente contro, dei più deboli, tra cui quei cittadini cosiddetti gay e lesbiche che tuttora in Italia sono visti come degli appestati dalla clericalissima e corrottissima classe politica dominante che premia i “diversi” se si attengono al ruolo di macchietta o di “discreto” e “insospettabile”, che della macchietta è la ridicola esaltazione piccolo borghese ovunque, televisione, parlamento, spettacolo, Chiesa, imprenditoria, sport e, ovviamente, nel giornalismo anche più impegnato (anche se, per quanto a schiena dritta, si direbbe impegnato a raddrizzare le zampe ai cani tanta è la paura dell’omosessuale occulto di venire azzoppato lui: perché chi parla di politica e di etica civile senza esprimersi sul motore stesso dell’economia, cioè sulla propria inconfessabile sessualità e sui suoi fantasmi desideranti o rimossi o frustrati o vissuti di nascosto anche da se stesso, non ha ancora detto nulla in tema di politica e di riforme e di cambiamento che valga la pena di ascoltare, tesi centrale del mio ultimo e imminente romanzo). [...]
Spero almeno che tanta fatica sprecata serva a fare un bel po’ di pubblicità anche al mio romanzo: è proprio bello, divertente, sessuale, logico, compassionevole, avveniristico, anticlericale e di quella sana oscenità pagana di una volta, e non c’è niente di paragonabile in giro in libreria, figuriamoci sui giornali, uno si rifà proprio la bocca e i sensi tutti. Bella forza, m’ha detto uno che ha avuto il privilegio di leggerlo in anteprima, l’hai scritto tu.
Dice più o meno così.
Ma se la prende un po' più larga.
Questo diritto alla privacy sessuale però “il Fatto” non l’ha mai rispettato verso la sessualità di Silvio Berlusconi, seppure parimenti devastante su altri piani ma infinitamente meno immorale di quella di Dalla perché manifesta, esibita sia al pubblico ludibrio dei bacchettoni sia alla segreta invidia dei più italioti, e però oziosamente perseguita e perseguitata nei tribunali per una faccenda, massimamente, di un paio di mesi in meno rispetto a una età del consenso saltata ormai da almeno trent’anni nella vita sociale e civile e sessuale in ogni parte del mondo e che nelle prostitute schiavizzate sotto gli occhi di tutti ai cigli delle strade nostrane arriva a malapena ai sedici senza che nessuno muova istituzionalmente una falange (basti vedere di che cosa sono capaci le baby gang di quattordicenni organizzate probabilmente dai genitori stessi molto più vampiri pedofili sfruttatori dei loro eventuali estimatori da ricattare, anche se a costoro ben gli sta e malgrado dovrebbe essere un reato da depenalizzare almeno oltre i quattordici anni ovvero da aggiornare nei suoi ipocriti, obsoleti e patetici paletti anagrafici portatori di criminalità indotta poi soggetta alla discrezionalità di giudici più o meno ammanicati con la classe sociale o di potere degli accusati, che alla fine della sonata giuridica e mediatica mi sembra la facciano spudoratamente fin troppo franca).
Aldo Busi è un grande scrittore italiano (stavo per scrivere "del secolo scorso", che orribile gaffe). Quando vuole, i periodi li sa tornire con indiscutibile abilità. Se qui gli capita di scrivere cane, è perché ha deciso di suonare cane. Credo che sia l'equivalente letterario di alzare la voce in un talk show: le virgole sono pause e Busi non se le può permettere. Sarebbe come offrire al regista l'occasione per staccare, e invece lui vuole che la camera continui a girargli attorno. Anche il senso della frase gira su sé stesso: il Fatto non rispettava la sessualità di Berlusconi. Però la sessualità di B. era "parimenti devastante". Sì, ma "infinitamente meno immorale di quella di Dalla", per via che non era nascosta a tutti (beh, beh, fino a un certo punto; e anche Dalla non è che si nascondesse così tanto). Cioè ce l'hai con Dalla e lo paragoni a Berlusconi, però si deve capire che ce l'hai anche con Berlusconi, però con Dalla di più, ecc.
Dunque la sessualità di B. è "oziosamente perseguita" "per una faccenda, massimamente, di un paio di mesi". Busi finge di non sapere che B. non è stato indagato (e assolto) per aver trescato con una minorenne, ma perché sospettato di aver fatto pressioni su pubblici ufficiali per farla liberare; di aver lasciato che la Minetti la consegnasse a una signora che forse si prostituiva; insomma Berlusconi era a processo perché accusato di aver favorito l'eventuale prostituzione di una minorenne; qualcosa di un tantino più grave di aver passato qualche lieta ora con lei. Busi finge di non saperlo ma lo sa benissimo: e allora alza ancora di più la voce, dice che tanto per strada le prostitute sono tutte 16enni (sul serio?) e che comunque ci sono un sacco di baby gang di 14enni che fanno di peggio (quante?) e tenetevi forte: queste baby gang sono organizzate da genitori "vampiri pedofili sfruttatori dei loro estimatori". Qui Busi forse si accorge di essersi spinto un po' troppo in là, perché ci sono cose che ancora non passano nemmeno tra i lettori di Dagospia, e tra queste probabilmente la compassione per i poveri estimatori di gangster 14enni che li ricattano. Quindi si corregge immediatamente: "ben gli sta" (a questi estimatori ricattati). Da lì in poi va avanti per inerzia, non si sa nemmeno più cosa stia scrivendo: "dovrebbe essere un reato da depenalizzare": il ricatto? lo sfruttamento della prostituzione minorile? boh. Tanto poi decidono i giudici ammanicati coi politici è tutto un magnamagna. Aldo Busi, 2015.
Triste però.
C'è una cosa che succede ogni anno ai primi di marzo, di cui non vado tantissimo fiero. Tutti si ricordano Dalla, ascoltano pezzi di Dalla, e si mettono a cercare on line post che parlino di Lucio Dalla. E trovano il mio, che piano piano sta diventando uno dei contenuti più letti di sempre. Non è che sia un post particolarmente ispirato; però funziona, e ogni anno mi porta qualche contatto in più. Non è una questione di soldi. Non mi ci rifaccio nemmeno del caffè alla macchinetta. Però funziona: la gente cerca Dalla e trova qualcosa che ho scritto io.
Quest'anno Busi ha un romanzo da vendere, e così ai primi di marzo si mette a litigare su Dalla. "Uno zero come tanti, non isolato, però di panza, panza molto capiente in fatto di mercato e quindi di ogni specie di santi in paradiso, a destra, a sinistra, dove più fa comodo a entrambe le parti una e trina e, se occorre, doppia, sdoppiata, rasente e anche in absentia per accordi tra collusi al business del consenso". Potrebbe anche avere qualche argomento, non scrivesse così cane. Lo scandalo di Busi è che Dalla - di cui si dà per scontata l'omosessualità - non abbia mai difeso i diritti dei gay. Gli sarebbe bastato fare un coming out al momento giusto, e se n'è guardato bene. D'altro canto, è giusto pretendere da una persona una condotta pubblica coerente con la propria sessualità privata? Non è l'ultima frontiera del perbenismo? Chi lo sa.
Io so solo che Busi scrive da cane, e lo fa apposta. Come se fosse il primo a crederci poco, e a coprire i dubbi coi guaiti.
Il Dalla, abile facitore e propalatore di marcette populiste, omosessuale rinnegatore di se stesso non certo a letto ma dove conta affermarsi se si ha il talento della libertà da diffondere dando il buon esempio, cioè sulla pubblica piazza, e menefreghista doc, non ha fatto niente per i diritti civili, quindi remandovi scientemente contro, dei più deboli, tra cui quei cittadini cosiddetti gay e lesbiche che tuttora in Italia sono visti come degli appestati dalla clericalissima e corrottissima classe politica dominante che premia i “diversi” se si attengono al ruolo di macchietta o di “discreto” e “insospettabile”, che della macchietta è la ridicola esaltazione piccolo borghese ovunque, televisione, parlamento, spettacolo, Chiesa, imprenditoria, sport e, ovviamente, nel giornalismo anche più impegnato (anche se, per quanto a schiena dritta, si direbbe impegnato a raddrizzare le zampe ai cani tanta è la paura dell’omosessuale occulto di venire azzoppato lui: perché chi parla di politica e di etica civile senza esprimersi sul motore stesso dell’economia, cioè sulla propria inconfessabile sessualità e sui suoi fantasmi desideranti o rimossi o frustrati o vissuti di nascosto anche da se stesso, non ha ancora detto nulla in tema di politica e di riforme e di cambiamento che valga la pena di ascoltare, tesi centrale del mio ultimo e imminente romanzo). [...]
Spero almeno che tanta fatica sprecata serva a fare un bel po’ di pubblicità anche al mio romanzo: è proprio bello, divertente, sessuale, logico, compassionevole, avveniristico, anticlericale e di quella sana oscenità pagana di una volta, e non c’è niente di paragonabile in giro in libreria, figuriamoci sui giornali, uno si rifà proprio la bocca e i sensi tutti. Bella forza, m’ha detto uno che ha avuto il privilegio di leggerlo in anteprima, l’hai scritto tu.
lunedì 9 marzo 2015
No, la tua scuola privata non mi fa risparmiare
Ciao a tutti, mi chiamo Leonardo, ho un blog, e non mi va di pagare per la privata dei vostri figli. Chi mi conosce da un po' di tempo lo sa - è una cosa che scrivo a intervalli regolari, più o meno ogni volta che qualche lobbista o politico di area cattolica bussa al governo con la mano sul cuore e l'altra tesa.
Stavolta però mi hanno letto in tantissimi, non so neanche io perché. Scherzi di facebook. Tra i tantissimi era normale che ci fosse anche qualche lettore che non la pensa come me. Qualcuno convinto che finanziare le scuole private coi miei soldi di contribuente sia una cosa buona e giusta - se non altro perché, pensate un po', farebbe risparmiare allo Stato un sacco.
È in effetti una storia che ho sentito spesso. Siccome l'articolo 33 della Costituzione è chiarissimo ("Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato"), l'unico sistema per aggirarlo è sostenere che le scuole private facciano addirittura risparmiare. Anche la recentissima letterina pubblicata su Avvenire e controfirmata da 44 parlamentari di area Pd spiega che il "sistema [delle private paritarie] costa allo stato solo 470 milioni di euro/anno [fonte?], pari a circa 450 euro/anno/alunno per la scuola dell’infanzia e primaria [fonte?], mentre lo stanziamento per le secondarie di I e di II grado è praticamente inesistente". Siccome secondo il Ministero dell'Istruzione ogni studente costa allo stato 6000€ all'anno, il risparmio appare evidente.
Ma sarà vero?
Tanto per cominciare, mi piacerebbe sinceramente capire chi ha fatto il famoso conteggio dei 470 milioni di euro l'anno. Se è un dato vero, che problema c'è a citare la fonte? E invece nessuno la cita mai. Se la prendono con te che non sai l'aritmetica, ma non ti spiegano da dove loro hanno preso i dati. È curioso.
Ma anche volendo prendere per buono il dato dei 470 milioni di euro all'anno, qualcosa non mi torna - no, in generale non mi torna niente. È uno di quei problemi che sembrano appunto banalmente aritmetici e poi a guardarli bene non lo sono affatto. Un ente - non necessariamente una scuola - un qualsiasi ente che mi promette di farmi risparmiare se gli do dei soldi, mi lascia perplesso. Forse davvero non sono abbastanza intelligente da capire come funziona. Mi piacerebbe che qualcuno intervenisse qua sopra e me lo spiegasse. Finora non c'è riuscito nessuno, forse sono senza speranza.
Proviamo a capirci. Le scuole private esistono già. Se per assurdo scomparissero all'improvviso; se gli alunni fossero a causa di ciò costretti a iscriversi alle pubbliche, è chiaro che la spesa pubblica leviterebbe. Credo che sia appunto il caso che hanno in mente i 44 parlamentari quando parlano di un "risparmio evidente". Ma è un caso abbastanza assurdo, no? Le scuole private esistono già, e tanti genitori ci manderanno comunque i loro figli. Che lo Stato li aiuti o no. Quale convenienza ha lo Stato aiutandoli?
Gli studenti di queste scuole costano poco allo Stato - 5530€ in meno ad alunno, a dar retta ai vostri numeri. Sembra un bel risparmio, ma se aumentassimo il numero di posti, lo Stato risparmierebbe di più? Ne siete convinti? Io non ne sono del tutto convinto.
E se invece lo calassimo?
Stavolta però mi hanno letto in tantissimi, non so neanche io perché. Scherzi di facebook. Tra i tantissimi era normale che ci fosse anche qualche lettore che non la pensa come me. Qualcuno convinto che finanziare le scuole private coi miei soldi di contribuente sia una cosa buona e giusta - se non altro perché, pensate un po', farebbe risparmiare allo Stato un sacco.
È in effetti una storia che ho sentito spesso. Siccome l'articolo 33 della Costituzione è chiarissimo ("Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato"), l'unico sistema per aggirarlo è sostenere che le scuole private facciano addirittura risparmiare. Anche la recentissima letterina pubblicata su Avvenire e controfirmata da 44 parlamentari di area Pd spiega che il "sistema [delle private paritarie] costa allo stato solo 470 milioni di euro/anno [fonte?], pari a circa 450 euro/anno/alunno per la scuola dell’infanzia e primaria [fonte?], mentre lo stanziamento per le secondarie di I e di II grado è praticamente inesistente". Siccome secondo il Ministero dell'Istruzione ogni studente costa allo stato 6000€ all'anno, il risparmio appare evidente.
Ma sarà vero?
Tanto per cominciare, mi piacerebbe sinceramente capire chi ha fatto il famoso conteggio dei 470 milioni di euro l'anno. Se è un dato vero, che problema c'è a citare la fonte? E invece nessuno la cita mai. Se la prendono con te che non sai l'aritmetica, ma non ti spiegano da dove loro hanno preso i dati. È curioso.
Ma anche volendo prendere per buono il dato dei 470 milioni di euro all'anno, qualcosa non mi torna - no, in generale non mi torna niente. È uno di quei problemi che sembrano appunto banalmente aritmetici e poi a guardarli bene non lo sono affatto. Un ente - non necessariamente una scuola - un qualsiasi ente che mi promette di farmi risparmiare se gli do dei soldi, mi lascia perplesso. Forse davvero non sono abbastanza intelligente da capire come funziona. Mi piacerebbe che qualcuno intervenisse qua sopra e me lo spiegasse. Finora non c'è riuscito nessuno, forse sono senza speranza.
Proviamo a capirci. Le scuole private esistono già. Se per assurdo scomparissero all'improvviso; se gli alunni fossero a causa di ciò costretti a iscriversi alle pubbliche, è chiaro che la spesa pubblica leviterebbe. Credo che sia appunto il caso che hanno in mente i 44 parlamentari quando parlano di un "risparmio evidente". Ma è un caso abbastanza assurdo, no? Le scuole private esistono già, e tanti genitori ci manderanno comunque i loro figli. Che lo Stato li aiuti o no. Quale convenienza ha lo Stato aiutandoli?
Gli studenti di queste scuole costano poco allo Stato - 5530€ in meno ad alunno, a dar retta ai vostri numeri. Sembra un bel risparmio, ma se aumentassimo il numero di posti, lo Stato risparmierebbe di più? Ne siete convinti? Io non ne sono del tutto convinto.
E se invece lo calassimo?
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