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venerdì 7 novembre 2025

Il volto di Prosdocimo

7 novembre: San Prosdocimo, fondatore della Chiesa padovana


In fondo al corridoio detto dei martiri, nella basilica di Santa Giustina a Padova, c'è un ritratto di San Prosdocimo che non sappiamo bene come classificare. La leggenda dice che mori in tarda età, ma il volto che ci guarda è quello di un giovane. E ci guarda come non ci aspettiamo ci guardi un bassorilievo tardoantico: con attenzione, forse anche con un certo sdegno, ma è possibile che io lo stia proiettando. Appartengo a una civiltà completamente diversa, ed essendo abituato sin da piccolo lettore di fumetti a riconoscere emozioni ed espressioni dalle millimetriche variazioni delle chine di Charles M. Schultz, di fronte al volto fisso, regolare ma asimmetrico del giovane Prosdocimo mi sento interpellato: oh, ma che ti guardi? Cosa pensi che io abbia combinato? In effetti, di cose ne ho combinate. Ma è possibile che Prosdocimo guardi davvero me?

Si tratta probabilmente della parte centrale di una più lunga lastra di un sarcofago andato perso; dovrebbe risalire al V o VI secolo, ed è decorato con le palme che indicano il martirio e sono tipiche di quel periodo: quello in cui il patrizio Opilione avrebbe fatto costruire il sacello di San Prosdocimo e la prima basilica dedicata a Santa Giustina. Anche l'iscrizione ("Prosdocimo episcopo e confessore") sembra coerente con la datazione, e però qualcosa in quel volto non torna. Non esistono altri volti tanto espressivi, nei bassorilievi di quel periodo. Si capisce che chi lo ha scolpito conosceva gli stilemi tipici dell'arte del periodo, la stilizzazione ieratica dei mosaici bizantini; li conosceva, ma forse non li accettava del tutto. Oppure è un semplice caso: anche a chi scolpisce più o meno gli stessi volti tutti i giorni può capitare un giorno di dare un colpo di scalpello di troppo, e di ottenere in modo imprevisto qualcosa di diverso da ogni altro. Poi i secoli passano, la maggior parte dei bassorilievi ordinari viene raschiata perché il marmo è prezioso e assai richiesto nei cantieri, ma quel volto così espressivo finisce nelle mani di qualcuno che non se la sente di buttarlo via. Magari per salvarlo qualcuno decide di iscriverci sopra "Prosdocimo episcopo e confessore", e pazienza se il Prosdocimo tradizionale era un vecchio con la barba. O magari nel VI secolo a Padova tutti i bassorilievi clipeati erano così, salvo che sono andati tutti persi, tranne il ritratto di Prosdocimo, unico superstite di una imprevista corrente realistica tardoantica che ha fatto perdere ogni altra traccia. Non lo sappiamo. E in generale, sappiamo veramente poco di Prosdocimo. 

Padova è una città dalla storia antichissima (i primi insediamenti potrebbero risalire a un millennio avanti Cristo) segnata da un trauma che non sarà mai del tutto chiarito: a un certo punto ha smesso di esistere, per qualche anno o per più di una generazione, negli anni tragici tra la calata degli Unni (450) e quella dei longobardi, che intorno al 600 la rasero al suolo – ma non è detto che ci fosse ancora molto da radere. Nel mezzo, alluvioni, assedi, epidemie, e migrazioni verso la vicina laguna. Altre città non si ripresero più, come Aquileia. Altre, come Venezia, nacquero poco dopo, raccogliendo i profughi. Padova in un qualche modo ce l'ha fatta, ma forse ha dovuto rifondarsi da capo. Questo spiega in parte come mai la storia del fondatore della sua Chiesa sia tanto confusa: scritta probabilmente da un monaco dell'abbazia di Santa Giustina, tra il Mille e il Millecento; e già debunkata come fake dai domenicani nel Trecento. Prosdocimo non è nemmeno il protagonista, bensì un personaggio secondario; uno dei primissimi missionari cristiani in Italia (addirittura discepolo di Pietro, o di Marco Evangelista), proveniente da Antiochia (Prosdocimo in greco significa "atteso"), evangelizzatore di Rieti e poi del Veneto centrale (oltre a Padova Asolo, Este, Feltre, Treviso, Vicenza). Purtroppo chi ha scritto la leggenda aveva un'idea molto vaga della situazione politica nel I secolo, per cui il suo Prosdocimo si ritrova in veneto ospite di un vero e proprio "re", Vitaliano, e di sua moglie Prepedigna: li converte, e in seguito ne battezzerà la figlia Giustina. Di quest'ultima avrebbe poi documentato il martirio ad opera dei Romani, che nel frattempo si erano evidentemente accorti di controllare anche il Veneto. Forse l'autore sentiva la necessità di giustificare il fatto che in molte raffigurazioni, Giustina cinga una corona (o la porti in mano, come nel mosaico di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna): è un tipico attributo del martirio, salvo che l'agiografo non lo sapeva, oppure non ne era sicuro, e quindi aveva preferito definire Giustina come figlia di un re e di una regina. C'è da dire che il culto di Giustina (e di Prosdocimo) risulta molto più antico di questa leggenda. È raffigurata, appunto, nei mosaici di Sant'Apollinare; è menzionata più volte da Venanzio Fortunato, nel VI secolo; e anche l'autore della leggenda farlocca non sembra sentire l'esigenza di infiorettarla di particolari ridondanti, come talvolta capita a chi si deve inventare una storia di martiri da zero. Giustina invece fa parte dello stesso insieme a cui appartiene Giusto di Trieste: martiri verosimiglianti, che vengono uccisi rapidamente senza immaginose torture o miracoli clamorosi. Il nome (proprio come quello di Giusto) induce a pensare che già nel VI secolo fosse una martire così antica che se n'era perso il nome: Giusto e Giustina sono i classici nomi che adopererei per nominare santi sconosciuti di cui comunque si conservano reliquie.  

Prosdocimo invece non viene martirizzato, ma rimane vescovo fino alla tarda età, il che potrebbe significare che è davvero uno dei primissimi cristiani ad arrivare in Veneto – così presto che ancora non esistono le persecuzioni sistematiche – oppure il contrario: che il martirio di Giustina è davvero uno degli ultimi, inflitto durante l'impero di Massimiano, pochi anni prima che Costantino legalizzi il cristianesimo.

mercoledì 5 novembre 2025

L'urna venuta dal mare

L'idea è ancora quella di trovare un santo interessante al giorno, ma il calendario non sempre si presta. Ci sono periodi in cui è più dura, ed è interessante cercare di capire il perché. Spesso ha a che vedere con una festa importante, che è come se per qualche giorno assorbisse tutta la santità circostante: la novena di Natale, o di Pentecoste (che ogni anno cade in una domenica diversa, ma sempre a cavallo tra maggio e giugno). La quaresima meriterebbe un discorso a parte, proprio perché per lungo tempo è stato un periodo in cui non si celebravano le feste dei santi – ma anche per questo motivo, è un periodo dell'anno che ha trattenuto soltanto santi stravaganti, irregolari, e quindi un po' più interessanti di altri. All'inizio di novembre succede forse l'opposto: la festa di Tutti i Santi attira a sé, per qualche giorno, una pletora di santi quasi anonimi, ormai dimenticati: quel tipo di santi di cui nei martirologi più completi resiste appena una riga. Sono i santi che si festeggiano il primo novembre perché, semplicemente, non ci ricordiamo più quando siano morti, ovvero quando siano nati in cielo (dei santi si festeggia la data più luttuosa, che per loro è il compleanno). Oppure si festeggiano il cinque novembre, che in molte diocesi era la festa delle reliquie; vale a dire il momento in cui venivano tirati fuori dagli scaffali della sacrestia certi reperti polverosi, ossa o brandelli di saio di persone di cui non resisteva nient'altro, a volte nemmeno un nome. Questa dimenticanza a volte sembrava intollerabile, per cui capitava che un canonico si inventasse, oltre al nome, almeno una rapida storia per spiegare come mai quelle reliquie erano arrivate lì; ma senza esagerare. Per esempio:


5 novembre: San Celestino a Pontremoli.

Questo San Celestino non si chiamava senz'altro così: il nome gli fu assegnato da papa Clemente XI quando il corpo fu ritrovato nelle catacombe romane, accanto a un vaso che probabilmente ne aveva conservato il sangue e che consentiva di identificarlo come un martire dei primi secoli. Essendo un martire era in cielo, e quindi in mancanza di altri nomi lo si poteva chiamare Celestino. Qualche anno più tardi (1731) arrivò in Lunigiana sotto forma di dono della curia romana per la nuova chiesa che si stava erigendo (Santa Maria del Popolo) che nel 1797 sarebbe diventata la sede della nuova diocesi di Pontremoli. Quest'ultima in seguito è stata fusa con la diocesi di Massa e Carrara, che il 5 novembre festeggia tutti i suoi santi, compreso Celestino, forse il più misterioso di tutti.


5 novembre: Santa Comasia vergine e martire, patrona della pioggia

Di lei non sappiamo nemmeno il nome: “Comasia” deriverebbe da “come che sia” o da un termine greco per “traslazione solenne”. L’unica cosa chiara è che ogni volta che provavano a tirarne fuori i sacri resti – li avevano trovati sulla Nomentana, ma per qualche motivo avevano deciso di portarli a Martina Franca (TA) – scendeva una gran pioggia; tant’è che da quelle parti quando piove si dice a' ssòt u curpe de Santa Cumasie, “è uscito il corpo di Santa Comasia”. Dal tardo Seicento le reliquie vengono effettivamente estratte in situazioni di siccità: l’ultima volta nell’anno 2000. 


5 novembre: Santa Trofimena di Patti, vergine e martire


Nella storia di Santa Trofimena ci sono tanti dettagli che non tornano, ma non si può negare che lo spunto iniziale sia suggestivo: un'urna che affiora dal mare, davanti a Minori, nella costiera Amalfitana. È il 5 novembre del 640: una lavandaia che è andata a lavare alla foce fiume Reginna si mette all'improvviso a strillare: non riesce più a muovere le braccia, è paralizzata. I compaesani accorrono ma non riescono a capire, finché i sacerdoti non si rendono conto che la pietra di marmo su cui batteva i panni è una lastra di marmo, e non una lastra qualsiasi; è parte di un intero sarcofago, e reca persino una profetica iscrizione in latino (che trascrivo in una versione italiana)

“Tu che brami saper chi l'urna honori,
Giace Trofima qui, ha in fronte e al pari
di Martire e di Vergine gl'allori:
Mentr'ella i fieri editti, e gli'empij altari
sfugge, e'l sicanio lido, e i genitori,
Si suena in mezzo al mar da crudi acciari;
a Reginna le membra, a Dio die' l'alma
Gode hor con Christo in Cielo eterna calma. 

[Tu che cerchi di conoscere i motivi dell’arrivo di quest’urna sappi che qui riposano le membra pie e intatte del corpo di Trofimena Martire e Vergine, Ella, fin quando durarono i costumi di un tempo scellerato, evitò i falsi idoli del mondo sfuggendo, come devota fanciulla, ai genitori siciliani. Riposò in mezzo al mare, offrì le membra ai Minoresi e l’anima a Dio. Di qui è andata a godere tra i profumati spazi di Cristo].

L'iscrizione spiega provvidenzialmente tutto quello che serve sapere: Trofimena è stata martirizzata in Sicilia (a Patti, oggi provincia di Messina, dove però di lei nessuno aveva sentito parlare) ed era stata sepolta in mare in un... sarcofago. Ecco, tra le cose che non tornano c'è questa idea del sarcofago di marmo che avrebbe galleggiato per secoli tra la Sicilia e la costiera amalfitana, dove l'iscrizione prevedeva già che sarebbe arrivato. È pur vero che si tratta di una leggenda di santi, dove tutto per definizione è possibile, ma un altro dettaglio dissonante è che il sarcofago è più volte definito "urna". Le urne però in epoca antica non erano sarcofagi, ma vasi cinerari: molto più trasportabili, e perfino in grado di galleggiare. Non si può escludere che a Minori ne abbiano trovato uno, magari trascinato dalla corrente in seguito a un naufragio. Avete presente quelli che chiedono di disperdere le proprie ceneri su una bella spiaggia – magari già in epoca antica la Costiera era un luogo dei luoghi preferiti per questa specifica forma di turismo funerario. Dopodiché l'urna cade in mare, ma siccome dentro c'è un po' d'aria non rimane sul fondo, e qualche decennio o secolo dopo viene rinvenuta dai pescatori di Minori, o magari proprio da una lavandaia: come ogni ritrovamento ha qualcosa di meraviglioso, anche se in sé l'oggetto non sembra particolarmente prezioso. Succedesse oggi, si invierebbe a un museo; ma nell'Alto Medioevo la cosa più logica è portarla nel luogo in cui tutti possono entrare e vederla, ovvero la chiesa. Una volta portato l'oggetto in chiesa, è fatale che diventi un oggetto di culto, salvo un piccolo problema che pescatori e lavandaie non si erano subito posti, ma i sacerdoti sì: ovvero, se si tratta di un'urna cineraria, non può essere un oggetto di venerazione, perché i cristiani non adorano le ceneri; anzi, poiché credono nella resurrezione dei corpi, hanno smesso di bruciare i cadaveri e ci tengono viceversa a conservarli il più possibile. Dunque sì, le reliquie di una santa potrebbero essere affiorate dal mare: ma non in un'urna, o meglio l'"urna" nel racconto deve diventare un sarcofago di marmo: e tanto peggio per la verosimiglianza. Del resto l'unica fonte è una Historia Inventionis ac Traslationi et Miracula Sanctae Trofimenis composta da un autore anonimo all'inizio del secolo X. Per qualche secolo il manoscritto rimane al sicuro nell'archivio vescovile di Minori (sì, Minori per secoli fu una diocesi con un suo vescovo). Nel 1658 fu inviato all'abate Ferdinando Ughelli, che a Roma stava compilando l'Italia sacra, quel monumento di erudizione grazie al quale conosciamo migliaia di storie come quella di Santa Trofimena; motivo per cui Ughelli è stimato e riverito da ogni storico e storiografo, e tuttavia bisogna ammettere che dopo il 1658 del manoscritto si è persa ogni traccia, insomma l'abate ha avuto il grosso merito di trascriverlo, ma si è perso l'originale. Chi non fa non falla, e Ughelli ha fatto tantissimo. 

Tutto comunque lascia intendere che già sul manoscritto per "urna" si intendesse una tomba entro la quale il corpo della vergine e martire doveva essersi conservato perfettamente. Anzi l'agiografo sembra tenere particolarmente a questa cosa, e prosegue spiegando che l'unico modo per trasportare un sarcofago piccolo, ma pesante, fu farlo trascinare da due giovenche bianche che non erano mai state soggiogate, ovvero sottoposte al giogo: il che è senz'altro un modo di alludere alla purezza virginale della santa, ma anche di insistere sul fatto che non si trattava di una semplice urna cineraria, ma di una tomba intera, contenente una santa conservata il più perfettamente possibile: e dal carattere poco incline ai compromessi. Due secoli più tardi (838), in effetti, quando un altro vescovo decide di spostare la reliquia ad Amalfi per evitare che cada nelle grinfie dei longobardi di Benevento, Trofimena gli appare in sogno vestita in un mantello rosso, rimproverandolo per la profanazione e predicendo non solo la sua morte violenta, ma che il cadavere del vescovo sarà dato in pasto ai cani; dal che viene spontaneo concludere che l'Historia sia stata redatta da un longobardo, o comunque da un agiografo che li stimava parecchio, e che approvava la successiva traslazione della tomba a Benevento. L'anno successivo comunque il vescovo decise di rendere ai minoresi almeno metà delle reliquie; la santa nel frattempo era apparsa al sacerdote Costantino, custode della chiesa di Santa Trofimena a Minori, salvo che dopo il furto delle reliquie non gli sembrava che ci fosse più nulla da custodire e aveva smesso persino di dire messa. Non importa (gli avrebbe detto Trofimena alle prime luci dell'alba): anche se non sono più qui col mio corpo, sono qui col mio spirito, e nel mare "rosseggia il mio sangue, ch'io sparsi largamente dalle mie vene in mezzo al mare per amore del mio sposo Giesù". Ma il miracolo più interessante, almeno da un punto di vista storico, è la guarigione di una certa Teodonanda. Prima di ottenere la grazia dalla santa, proprio alla foce del fiume Reginna, Teodonanda in effetti era stata condotta dai genitori e dal promesso sposo a Salerno, dove i medici avevano consultato "immensa volumina", senza però trovare un rimedio alla malattia. È una delle più antiche testimonianze della presenza a Salerno di un corso di studi di medicina.

sabato 1 novembre 2025

Di giusti uno ce n'era

La cattedrale
2 novembre – San Giusto di Trieste (III secolo)

I martiri si possono, tra l'altro, dividere in due categorie: nella prima inseriamo quelli che non muoiono al primo tentativo, grazie a un miracolo che dimostra l'onnipotenza di Dio, e che quindi devono essere torturati in due o più modi (mutilazioni, roghi, bestie feroci), prima che Dio, potendo tutto, li possa chiamare a sé. Questa tendenza ad aumentare le torture, oltre ad assecondare un certo gusto per l'orrido che nel Medioevo trovava sfogo quasi soltanto nelle leggende dei santi, serviva a conciliare leggende diverse, senza smentirne nessuna: se il tal santo risultava decapitato in una città o lapidato in un'altra, l'agiografo piuttosto di scegliere montava entrambi i supplizi nello stesso racconto, e tanto peggio per la verosimiglianza. 

Nella seconda categoria troviamo quelli che muoiono subito – senza neanche un miracolo che intervenga a salvarli – e che quindi più probabilmente sono martiri autentici, non incrostazioni leggendarie. È il caso per esempio di Giusto di Trieste: il magistrato lo convocò, spiegò che alcuni concittadini (forse invidiosi della popolarità che aveva acquisito presso il popolo con le sue elemosine) lo accusavano di sacrilegium, lo invitò a confutare queste accuse offrendo pubblicamente un sacrificio a Diocleziano, imperatore-Dio. Siccome Giusto rifiutava, gli propose di passare una notte in cella per schiarirsi le idee, e poiché il giorno seguente Giusto persisteva nel rifiuto, lo fece fustigare a sangue, ma niente da fare: Giusto non intendeva sacrificare. La pena prevista era la morte e il giudice la inflisse mediante annegamento. Giusto fu buttato nel golfo di Trieste legato ad alcuni pesi, e qui morì, al primo tentativo. 

La leggenda prevede almeno una tortura, un solo supplizio mortale e nessun salvataggio miracoloso: è uno dei resoconti più verosimili della persecuzione dioclezianea (che ci fu davvero, e fu una delle più sanguinose, anche se le agiografie ne hanno esagerato le dimensioni e l'orrore). 

I miracoli arrivano dopo: ad esempio è grazie a un sogno rivelatore che le spoglie di Giusto vengono ritrovate da un presbitero, presso il promontorio che da lui prende il nome: qui sarebbero rimaste sepolte per qualche secolo, prima che la paura delle incursioni dei pirati dal mare non suggerisse ai fedeli di spostarle nel medioevo in uno dei punti più alti della città, nella chiesa di San Giusto. A quest'ultima nel XIV secolo capita qualcosa di davvero bizzarro: i triestini, che vogliono un duomo monumentale degno della città, invece di costruirlo ex novo scelgono di ingrandire quella di San Giusto, unendola con quella dell'Assunta che sorgeva a fianco. La natura composita dell'edificio è ancora evidente nella facciata. In città si dice ancora: de giusto ghe ne iera un solo e i lo ga negà ("di giusto ce n'era uno solo, e lo hanno annegato").


2 novembre – San Vittorino di Petovio (seconda metà del III secolo), millenarista

L'ho presa da un sito di propaganda sionista

Se di San Vittorino c'è rimasto poco più del nome lo dobbiamo soprattutto a San Girolamo, che ne citava volentieri le opere di cui non ci sono rimaste, appunto, che le sue citazioni, in un latino che Girolamo definiva "mediocre" – e se si parla di latino, non c'è motivo per non fidarci di Girolamo. Non siamo nemmeno sicuri di dove sia Petavium; per qualche secolo si è ipotizzato che fosse addirittura Poitiers (Francia), ma probabilmente è l'odierna Ptuj, oggi in Slovenia, al tempo Alta Pannonia; quella zona grigia tra Occidente e Oriente che permetteva a Girolamo di ipotizzare un'origine greca che avrebbe scusato la mediocrità dello stile. Un'altra cosa che Girolamo non perdonava a Vittorino era il millenarismo, anche se più che un'accusa di eresia si trattava ancora di una disparità di vedute. I millenaristi credevano che Gesù non sarebbe tornato una volta per tutte, ma per instaurare un regno di mille anni, al termine del quale "Satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti della terra", prima della battaglia finale in cui verrà definitivamente sconfitto; una visione abbastanza ridondante, che prevede che tra la Gerusalemme terrena e quella terrena questo millennio intermedio, che ai padri della Chiesa doveva ispirare la diffidenza tipica degli studiosi, degli amanti della logica, nei confronti delle complicazioni inutili; che bisogno c'è di combattere due battaglie contro Satana se sappiamo già che le perderà entrambe? E tuttavia leggendo Apocalisse 20 bisogna ammettere che il millenarismo è già tutto lì; i millenaristi successivi non faranno che prendere alla lettera un passaggio estremamente esplicito. Magari Vittorino era uno di quegli esegeti che alla logica preferisce la lettera del testo. Tra i brandelli dei suoi scritti che resistono, c'è un paio di versi suggestivi che sono stati messi in musica anche di recente: "Il Messia, leone per vincere, si fece agnello per soffrire". Purtroppo la musica l'ha scritta un neocatecumenale, e io i neocatecumenali non  li sopporto, così non la linco; cercatela voi. Però una religione che propone ai leoni di farsi agnelli secondo me non è del tutto da buttare via.


mercoledì 29 ottobre 2025

Un Angelo a Napoli (ha i suoi problemi)

30 ottobre: Sant'Angelo d'Acri (1669-1734), apostolo della Calabria

Nessuno è profeta in patria, ma anche a Napoli è dura. È una città esigente, mettiamola così: specie se vieni da fuori, che in altre città è quasi inevitabile, ma a Napoli da un certo punto in poi no: fatevi venire in mente qualcuno che nascendo in altre regioni è diventato grande a Napoli.

La butto lì: Liberato. 

Dite: ma Liberato è di Napoli.

Rispondo: è senz'altro quel che vuole che pensiamo: ma se invece fosse, boh, di Forlimpopoli? O Cividale?

Eh, probabilmente lo terrebbe segreto a tutti, perché se qualcuno a Napoli se ne accorgess... ah.

In altre città non è così, dai. Ve lo immaginate uno che fa finta di essere milanese ma non lo è? Sì che ve lo immaginate, senza nemmeno molta fatica. Tutti i milanesi fanno finta di esserlo. Non solo gli artisti, i comici, proprio tutti. A Napoli è diverso, e sarebbe interessante cercare di capire il perché. Tra l'altro è un fenomeno recente, perché per secoli Napoli è pur stata la capitale di un regno popoloso, e in quanto tale un po' di gente da fuori doveva assorbirla, non sappiamo quanto volentieri. Vedi il caso di frate Angelo d'Acri. 

Le vedi le isoglosse?
È dove cambia il colore
Acri oggi è in provincia di Cosenza, e Angelo laggiù era già un predicatore di un certo successo – un cappuccino dalla barba folta e il miracolo facile, sulla linea diretta che va da Francesco da Paola a Pio di Pietrelcina, una linea decisamente meridionale che però, fateci caso, da Napoli non passa. Anche Angelo ci soggiornò solo per un breve periodo, chiamato da un vescovo  che gli affidò la predicazione quaresimale nella chiesa di Sant'Eligio – credo sia proprio quella in Piazza del Mercato. Angelo obbedì, ma è facile immaginare che in città fosse un pesce fuor d'acqua. Nato da una famiglia di umile estrazione, Angelo qualche studio l'aveva pur fatto, altrimenti i confratelli non l'avrebbero destinato alla predicazione; ma dopo qualche disastroso tentativo di memorizzare i discorsi a memoria, aveva iniziato a improvvisare, adoperando linguaggio e stile dei suoi concittadini, nonché contenuti concreti, alla loro portata. Questo stile oratorio lo aveva reso popolare in tutte le Calabrie, ma a Napoli la parlata è ben diversa – avete presente che isoglossa ci passa in mezzo? – avete presente le isoglosse? – e a parte la parlata, il pubblico in generale era molto più esigente, si sedeva sulle panche e si aspettava di ascoltare un bel discorso preparato con cura; magari poi uscendo lo commentava con gli amici, sottolineando i punti forti e soprattutto quelli deboli; molti altri passatempi in quaresima non essendo consentiti.

E dunque Frate Angelo avrebbe dovuto trascinare il suo pubblico con elaborate costruzioni retoriche che facessero temere l'inferno e sognare il paradiso, ma era un pubblico raffinato e lui veniva da lontano. È facile immaginare quanto la situazione risultasse troppo stressante per lui, che non poteva fare a meno di notare come le panche della chiesa fossero ogni giorno più vuote. A un certo punto l'autorità parrocchiale chiese al sagrestano di cacciarlo dalla chiesa, operazione che quest'ultimo effettuò, dice il biografo, "con soverchio zelo". Angelo si era già messo sulla strada per la Calabria quando ricevette dal vescovo l'ordine di fare dietrofront: alla parrocchia di Sant'Eligio era stato chiamato e alla parrocchia di Sant'Eligio doveva restare. A questo punto non aveva scelta: ma la prima volta che gli capito di tornare sul pulpito fece una cosa che contraddice un poco gli agiografi che gli riconoscono un carattere bonario e paziente. 

Al termine della predica, pervaso da uno spirito profetico, avrebbe infatti affermato: "Compiacetevi, Predilettissimi , di recitare divoti un Pater, ed un'Ave Maria per 1'Anima di colui, che all'uscire da questo Tempio dovrà morire; qual sebbene si tenga per sano, e salvo; pure, ciò non ostante, un'ora sola gli rimane". A chi si riferiva sarebbe stato chiaro un'ora dopo, quando gli abitanti del quartiere furono testimoni della morte improvvisa di Gennaro Sarto, "Scrivano Fiscale di Vicaria". "Era quelli un di quei, che dilegiavan la predica, e screditavano l'Oratore; e non ad altr'oggetto erasi trasferito in Chiesa, che per aver campo poi di ritagliarlo ne' Circoli, e nelle Radunanze degl'Oziosi", insomma siccome le prediche di Frate Angelo non gli piacevano, non se ne perdeva una. Avete presente i lettori che su un giornale per prima cosa vanno a leggere i pezzi scritti dagli autori che non sopportano? Certo che li avete presente. Magari mi state leggendo per questo esatto motivo.  

Allo stesso modo, Gennaro Sarto amava assistere alle prediche di Angelo per il gusto di recensirle male e riderne con gli amici... finché Angelo non lo maledisse, uccidendolo al primo colpo, anche se questa cosa nessuno osa scriverla; gli agiografi preferiscono che uniamo i puntini e traiamo le conseguenze; senza dimenticarsi di accennare al fatto che da quel giorno, le panche di Sant'Eligio furono sempre piene di gente, e nessuno più criticò lo stile del predicatore. Anche solo per questo, Angelo d'Acri dovrebbe essere il patrono di tutti gli artisti che vorrebbero aspettare i critici sotto casa col randello. Per ora tuttavia non ha ancora un patronato: del resto è diventato santo soltanto di recente (nel 2018), dopo aver guarito miracolosamente un ragazzo che aveva fatto un incidente con un quad.

domenica 26 ottobre 2025

Il vescovo di due padroni

26 ottobre: San Folco Scotti (1165-1229), vescovo di Pavia, non di Piacenza!

Non c'entra quasi niente, ma volevo annotare che all'altezza dell'autunno 2025, Gerry Scotti si è ritrovato di nuovo re del preserale televisivo, quindi della televisione tout court e... fino a qualche anno fa non sarebbe stato esagerato aggiungere "dell'Italia intera", ma la tv in chiaro non conta più così tanto, chi la guarda? Forse giusto le famiglie a cena la lasciano in sottofondo; così che ogni tanto qualcuno prova ad azzeccare la frase della Ruota della Fortuna. Riprendendosi in estate un vecchio programma che tutti conoscevano ma nessuno sembrava particolarmente rimpiangere, Scotti ha piazzato un incredibile doppio knock out, togliendo dai palinsesti quasi quarant'anni Striscia la Notizia, e superando regolarmente il programma dei pacchi su Rai1. Persino da un punto di vista culturale non gli si può che essere riconoscenti: in tanti anni, Striscia ha fatto tutto quello che ha potuto per abbassare il livello delle nostre discussioni e del nostro umorismo, mentre i Pacchi sono un gradevole invito al gioco d'azzardo, ogni giorno a ora di cena sulla prima rete nazionale. Viva la Ruota, viva Gerry Scotti, rendetevi conto di cosa mi tocca festeggiare all'altezza dell'autunno 2025. 

Gerry Scotti è in tv da quando io ero alle medie, e lo odiavo. Ho un ricordo molto preciso di lui che mi guarda mentre mando giù la pasta, non a cena ma a pranzo, quando resto solo in cucina e su un televisorino in bianco e nero mi presenta i video degli Arcadia, degli Erasure. Io sono un preadolescente già un po' splenetico che si porta dal pulmino delle medie dei pensieri in testa che neanche ti immagini, lui un bonaccione bassolombardo che vuole farmi il simpatico ad ogni costo; nel giro di pochi mesi avrei imparato a classificarlo come un socialista, ancora prima che effettivamente si candidasse. Nell'anno seguente la mia antipatia per Scotti mi porta a spegnere la tv nella striscia di 15 minuti che gli avevano ritagliato (presentava delle vecchie candid camera americane, l'antesignano di Paperissima), e riaccenderla immediatamente dopo. Una cosa curiosa è quello che mi metto a fare in quei 15 minuti tra il pranzo e Dj Television: ho deciso di leggere la Bibbia, un quarto d'ora al giorno, perché a dire le solite preghierine mi annoio. Così uno dei motivi per cui quando venite qui ci trovate divagazioni sui Profeti o sul Vangelo o sugli Atti, ebbene anche questa cosa la dovete a Gerry Scotti: pensate a quanto davvero può essere importante un presentatore italiano. 

Col tempo poi ho imparato ad apprezzare anche Gerry – no, non è vero, non ci ho messo del tempo, fu una conversione rapidissima, il tempo di vedere al suo posto quel ragazzino garrulo insopportabile, che il titolo in sovraimpressione battezzava assurdamente "Jovanotti". L'ho visto sorridere, credo di avergli sentito dire "Ciao Ragazzi" o come si diceva nel 1989 e ho immediatamente pensato: ridatemi Gerry. E alla fine è sempre stato così, il meno peggio della cumpa. Quello che non aveva bisogno di sembrare giovane, neanche quando lo era (ce li ha mai avuti, i capelli?), quello che ci stava provando con la politica prima di tutti ed era il più impolitico quando la sua ditta divenne un partito. Non un fenomeno, non un imbonitore, non un direttore artistico: un presentatore che fa il suo mestiere e stop. Il vero erede di Mike Bongiorno, sicuramente: ma perché stiamo parlando ancora di lui e non di San Folco?

Perché si tratta di San Folco Scotti, forse il primo santo in Italia ad essere designato con quello che oggi chiamiamo cognome. "Scotti" è molto diffuso tra Pavia e Piacenza, anche da prima che i cognomi si stabilizzassero nella forma che abbiamo oggi. Secondo la tradizione, gli "Scotti" di Pavia sarebbero discendenti di veri e propri Scoti – più probabilmente irlandesi – emigrati nella bassa Lombardia per sfuggire alle scorrerie vichinghe, intorno all'anno Mille: e ora che ve l'ho scritto, improvvisamente vi sembrerà di riconoscere nelle curve del suo volto gioviale qualche traccia celtica – non sembra il volto più adatto a spuntare dalla tonaca di un monaco di San Cipriano? Gerry Scotti (nato a Camporinaldo) potrebbe davvero essere un lontano parente del Pietro Scotti che a Marudo nel 1860 fondò il riso Scotti. Il clan ha dunque un suo santo nel calendario, di cui si racconta che fu vescovo sia di Piacenza sia di Pavia, il che gli permise di sanare le discordie tra le due città; salvo che, indovinate: non è esattamente vero. Non tanto per il fatto che pavesi e piacentini continuano a guardarsi in cagnesco, ma perché se uno dà un'occhiata alle date si rende conto che Folco non resse mai entrambe le diocesi contemporaneamente. 

Era nato intorno al 1165 a Piacenza, parente povero degli Scotti più prestigiosi della città: entrato nei canonici di Sant'Eufemia, riuscì in un qualche modo a completare i suoi studi a Parigi. Di ritorno in città, divenne il braccio destro del vescovo Grimerio e lo seguì in esilio quando i piacentini, con una mossa che ancora oggi ha dello scandaloso, pretesero di far pagare le tasse anche al clero. La crisi fu in un qualche modo risolta, e Grimerio e Folco poterono tornare in città, dove quest'ultimo cominciava a riscuotere un certo successo anche come predicatore. Alla morte di Grimerio, Folco appariva come il suo naturale successore, ma la nomina approvata dal clero cittadino non fu mai ratificata dal papa Innocenzo III. C'era un problema politico: Innocenzo III aveva appena rotto con l'imperatore Ottone IV, per passare dalla parte di quel ragazzino recentemente salito sul trono di Sicilia, Federico II di Svevia. I piacentini erano rimasti fedeli a Ottone e Innocenzo non vedeva la necessità di assecondarli, confermando la nomina del loro vescovo. Così per qualche anno Folco rimase sulla cattedra piacentina come un facente funzione: una posizione scomoda, se è vero che il successore si ritrovò con tutti i cittadini scomunicati. 

Finché durante i lavori del concilio Laterano IV non morì il vescovo di Pavia e papa Onorio III decise di trasferire Folco in quella sede, dove finalmente questi divenne un vescovo con tutti i crismi; a Piacenza però nel giro di pochi mesi gli subentrò Vicedomino Alberico, sicché questa immagine di Folco come doppio vescovo ed eroico pacificatore delle due città sembra francamente esagerata. Senz'altro partecipò a diverse missioni diplomatiche, dimostrando anche un certo talento come intermediario; ma forse l'unico riavvicinamento che ottenne tra piacentini e pavesi fu che anche questi ultimi, dopo qualche anno, tentarono di far pagare le tasse al clero e lo cacciarono. Nel frattempo però Federico II aveva imparato ad apprezzarlo, al punto che lo rimandò in città come legato imperiale. Dopo la tumultuosa epoca comunale, Folco fu quasi dimenticato; nel Cinquecento la traslazione del suo corpo nella nuova cattedrale di Pavia provocò un ritorno d'interesse; benché non fossero noti miracoli di sorta, Folco era pur sempre un santo e anche i piacentini lo vollero inserire tra i vescovi ufficiali della città – benché fosse vero solo fino a un certo punto. E siccome, appunto, miracoli non ce n'erano e anche la biografia in sé non risultava molto interessante, nacque questa leggenda del santo pacificatore. Nel frattempo, il clero continua a non pagare l'IMU – forse è questo il vero miracolo. 


Mettono tutti questa immagine,
ma non è necessariamente lei.

27 ottobre: Santa Balsamia, nutrice

Quello di Balsamia è il classico esempio di santa inventata per tenere un punto: in questo caso il punto è che se i francesi sono cattolici, lo devono comunque ai romani. Anche il culto di Santa Petronilla si sviluppa per lo stesso motivo, ma perde vigore col rapido tramontare della dinastia carolingia. Di Santa Balsamia invece si comincia a parlare verso il 1300, e non è un caso. Qualcuno, scartabellando tra vecchi martirologi (in particolare quello di Usuardo), scopre l'esistenza di un tale San Celsino di Reims, un santo talmente poco conosciuto che non ha nemmeno una scheda su santiebeati.it, un sito che ha schede persino sui cani (non sto scherzando), ma su San Celsino di Reims niente. Di questo Celsino, anche Usuardo sapeva pochissimo: ma gli scappa di scrivere che era fratello di latte di San Remigio. Apriti cielo: Remigio è il vescovo che ha battezzato Clodoveo, primo re franco a convertirsi dal cristianesimo ariano a quello ortodosso, e quindi considerato unanimemente come primo re di Francia. Ma se Remigio aveva un fratello di latte, lui e il fratello dovevano averlo succhiato dalla stessa donna; ecco dunque nascere il culto per una Santa Nutrice, madre di Celsino e balia di Remigio. Poi, essendo magari "Nutrice" un nome che rivela troppo la sua natura fittizia, a qualcuno viene in mente di chiamarla "Balsamia": il suo latte sarebbe un balsamo che avrebbe nutrito i due santi e portato il cristianesimo in Francia. Ora, San Remigio è una figura molto meno evanescente di Celsino. Su di lui le agiografie avevano già lavorato parecchio: tra le altre cose almeno un cronista aveva sentito la necessità di sottolineare che era stato allattato in casa, da sua madre (santa anch'essa). Dunque perché inventarsi questa nutrice balsamica? Nessun vero motivo, senonché verso il XIV secolo comincia a diffondersi l'idea che Balsamia fosse giunta direttamente da Roma. Siamo in presenza di una metafora incarnata: Balsamia non è una vera nutrice, ma è il latte della Fede e della Sapienza che da Roma viene inviato ai francesi. Potrebbe non trattarsi di un caso se che questa leggenda prende il volo in un periodo in cui i papi erano francesi e a Roma non si sognavano nemmeno di metter piede. 

venerdì 24 ottobre 2025

I santi compianti da Maometto

I resti della Ka'ba di Najrân, il mausoleo dedicato alle vittime.

Poiché in questi mesi si è parlato un po' di genocidio – e a un certo punto sembrava un dibattito più semantico che giuridico – vi propongo stamane un piccolo esperimento mentale. Immaginate che un dittatore attacchi uno Stato sovrano, espugnandone la capitale e costringendo gli abitanti a convertirsi alla sua religione. Immaginate quindi che ventimila abitanti che rifiutano di convertirsi/assimilarsi siano condotti in un fossato (forse appositamente scavato), dove viene appiccato un fuoco. Ora, secondo voi, questo si potrebbe già definire genocidio? C'è senz'altro il proposito di eliminare non soltanto un popolo, ma la sua memoria (anche i resti degli anziani sarebbero stati tolti dalle tombe e gettati alle fiamme). E c'è un numero di vittime fuori scala, che parole come "massacro" o "strage" non sembrano riuscire a contenere: ventimila morti. Quindi, diciamo che è un genocidio?

Aggiungiamo ora un dettaglio importante: non sarebbe successo negli ultimi anni, bensì nel VI secolo dopo Cristo. Questo cambia forse la situazione? Stragi di massa del genere erano eventi eccezionali anche allora: questo in particolare è menzionato con sdegno da testimonianze bizantine, siriache e arabe: non è poi così frequente trovare episodi tanto variamente documentati in un quel secolo che almeno in Europa era parecchio buio. La strage sarebbe avvenuta a Najrân, al tempo una grande città yemenita (oggi è un capoluogo dell'Arabia Saudita). La religione che ventimila cittadini non volevano rinnegare era il cristianesimo, quindi, che ne dite: è un genocidio? Potrebbe davvero sembrarvi un genocidio.

Ma aggiungiamo un ulteriore dettaglio: a dare disposizioni affinché il fossato fosse scavato, affinché i cristiani vi fossero calati, affinché il fuoco fosse appiccato, sarebbe stato un re di... religione ebraica. E forse erano ebrei anche quelli che ehm, obbedivano gli ordini.

Quindi a questo punto che ne dite.

È ancora un genocidio? 

Beh forse no. 

Ma perché no?

Mi è venuto in mente questo esempio leggendo, l'altro giorno, un titolo del Post che recitava, testualmente: "il cessate il fuoco a Gaza regge, per ora, nonostante i bombardamenti israeliani". Che è insieme un titolo preciso (formalmente il cessate-il-fuoco regge) e paradossale: riuscireste a immaginare qualsiasi altra nazione che bombarda un nemico durante un cessate-il-fuoco senza destare sdegno e provocare l'immediato termine del cessate-il-fuoco? Senza neanche aggiungere che il nemico non ha di che difendersi, ed è perlopiù rappresentato da civili sfollati che non possono andare altrove. Lo facesse qualcun altro, staremmo veramente a spaccare il capello sulla definizione di genocidio? Ci sono molte vittime, c'è un deliberato proposito di spazzarne via cultura e memoria, e quali altre parole potremmo trovare per definirlo? Strage, massacro? Un massacro sistematico che va avanti da anni, e in particolare ha subito un'accelerazione sensibile negli ultimi due? E andiamo. Se sembra un genocidio, ha gli effetti di un genocidio, e viene perseguito con intenti manifestamente genocidi, io direi che è un genocidio. Poi magari si scoprirà che esageravo, ma non credo mi si rimprovererà la buona fede. Nulla è più perdonabile dell'allarmismo di chi sorveglia una situazione oggettivamente rischiosa: a chi sta camminando su una grondaia si può ben dire Occhio che stai per sfracellarti a terra. Io rischio l'esagerazione terminologica, ma lui rischia di sfracellarsi a terra.

D'altro canto.

Vogliamo davvero accusare lo Stato ebraico di genocidio?



Una cosa che spesso dicono i sionisti (i quali, fateci caso, dicono più o meno le stesse quattro o cinque cose con infinite e spossanti variazioni; la propaganda non seleziona gli intelletti più originali), una cosa che spesso dicono i sionisti è: vi piacciono gli ebrei soltanto quando sono perseguitati. Dietro a questo semplicismo c'è una premessa oscena, ovvero: non vi piacciono più quando sono loro che perseguitano gli altri. No, perdio, perché dovrebbero piacerci gli ebrei che bombardano?, cioè ripigliatevi, i prepotenti non piacciono a nessuno indipendentemente da cultura, religione o etnia. Ci piace Ester quando trema di paura perché rischia la morte per salvare il suo popolo; non ci piace più quando manipola il marito affinché le dia il permesso di uccidere altri popoli. Non ci piace e non siamo obbligati a farcela piacere, checché vi abbiano raccontato i protestanti.   


24 ottobre: Santi Areta e Ruma, martiri di Najrân (Yemen, VI secolo)

Ora invece citerò il Corano, e non è neanche la prima volta. Nella Sura 85, il Profeta maledice certa gente "del fossato", "dal fuoco incessantemente attizzato, quando se ne stavano seduti accanto, testimoni di quel che facevano ai credenti. E non li tormentavano che per aver creduto in Dio [Allah], il Potente, il Degno di lode, colui al Quale appartiene la sovranità dei cieli e della terra". Secondo la maggior parte dei glossatori, i "credenti" bruciati nel fossato sarebbero i cristiani di Najrân, città nel nord dello Yemen, massacrati intorno al 524 (quindi un secolo prima che Maometto cominciasse la sua predicazione) per ordine di Dhu Nuwas, sovrano di Himyar. È interessante notare come Maometto li consideri già adoratori del vero Dio, e quindi martiri della fede. La penetrazione del cristianesimo nella parte più meridionale della penisola araba era il risultato di un'invasione/migrazione di etiopi giunti attraverso il Mar Rosso a cavallo tra V e VI secolo. Dopo avere espugnato con l'inganno Najrân, roccaforte etiope, Dhu Nuwas avrebbe destinato a un rogo di massa tutti gli abitanti che non rinnegavano la fede cristiana e abbracciavano la sua, che a quanto pare era l'ebraismo. 

Non sappiamo esattamente cosa ci facesse un sovrano ebreo in Arabia – ci sono diverse teorie, alcune affascinanti – ma un ebreo malvagio che fa massacrare i cristiani non è poi così facile da trovare sui libri di Storia (meno facile, per fare un esempio, di cristiani malvagi che massacrano ebrei), e forse questo è il motivo per cui il rogo del fossato ci è stato tramandato da tante fonti: oltre al riferimento sdegnato del Corano, abbiamo testi arabi, etiopi e bizantini, nonché la testimonianza del vescovo siriaco Simone. Quest'ultimo sostiene di avere assistito direttamente alla lettura di una lettera di Dhu Nuwas ad Al-Mundir, re di tutti gli arabi, in cui il tiranno si vantava di aver bruciato una città di cristiani e lo esortava a imitarlo: la sua lettera per molto tempo fu considerata autentica, anche se oggi si tende a considerarla un falso scritto qualche anno dopo, sotto l'imperatore Giustiniano, allo scopo di giustificare una persecuzione antiebraica, insomma un Protocollo molto ante litteram. Quel che è più sicuro è che lo sdegno per la strage provocò una coalizione di volenterosi tra bizantini ed etiopi del regno di Axum, i quali avrebbero più tardi sconfitto Dhu Nuwas.

Areta (Al-Harit), era uno dei notabili cristiani più importanti della città, e in quanto tale uno dei primi a essere gettato nel fossato (secondo altre fonti arabe, una fornace) con la moglie Ruma e le cinque figlie. Più tardi gli agiografi sentirono la necessità di aggiungere che con la sua bellezza Ruma aveva fatto perdere la testa a Dhu Nuwas, che nel tentativo (abbastanza rozzo) di convertirla e sedurla, le avrebbe ucciso le figlie davanti agli occhi. Con Ruma e Areta sarebbero morti bruciati altri 340 martiri, una stima piuttosto prudente, visto che persino per la media di quel secolo oscuro, la mattanza di Najrân era considerata dagli osservatori coevi qualcosa di assolutamente fuori scala. Yemeniti di origine etiope, Areta e Ruma sono resistiti nel martirologio romano malgrado fossero quasi sicuramente di confessione monofisita o miafisita, e dunque in teoria piuttosto eretici. E d'altro canto ti capitano nel calendario due santi africani bruciati in Arabia da uno sceicco che voleva convertirli all'ebraismo, e te li fai sfuggire? Ne ha parlato persino Maometto.

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