Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

lunedì 4 agosto 2025

La riconosci? È la Palestina

https://www.ilpost.it/flashes/foto-aeree-striscia-gaza-wp/

– A un certo punto ho quasi smesso di scrivere qua sopra. Questo ha, credo, molto a che fare con Gaza. Questo sito somiglia sempre più a un enorme messaggio nella bottiglia, un'agenda che qualche alieno tra qualche secolo troverà interessante decifrare – ecco, non vorrei offrire agli alieni lo spettacolo di uno che si faceva i fatti suoi durante una catastrofe umanitaria di cui il mio governo era complice. Anche se nei fatti è così; Gaza mi deprime, ma non ha cambiato nessun'altra mia abitudine: continuo ad ascoltare musica, guardare film e serie, seguire la politica interna, persino a lavorare; ma appena mi capita di formulare un pensierino su un film o su una riforma ministeriale, lo trovo ridicolo e fuori luogo, come Luigi XVI che mentre scoppiava la rivoluzione annotava sul suo quaderno le prede di caccia. Solo di Gaza si dovrebbe parlare: ma anche a proposito di Gaza, da un certo punto in poi, qualsiasi parola mi è sembrata oscena. Non farei peraltro che ripetere pensieri che ho già scritto (alcuni vent'anni fa!), ovvero darmi ragione mentre il mondo brucia. Come se ci fosse gloria nell'aver visto una catastrofe e nel non aver potuto farci niente. Nessuna gloria, anzi frustrazione e vergogna. 

– L'ho presa come una pausa, ma Gaza non è una pausa. Non è uno spiacevole episodio di barbarie, dopodiché la civiltà riprenderà come prima – magari un po' più pensosa di prima, con qualche anniversario in più sul calendario, e ricominceremo a fare le classifiche dei film. Non credo possa finire così, e se finirà così sarà orribile. Continuo a vedere due sole possibilità: o (1) l'opinione pubblica mondiale prende atto che quel che è successo è osceno, imponendosi sulle autorità nazionali e sovranazionali affinché siano puniti non solo i responsabili, ma i sostenitori economici e i fiancheggiatori mediatici; o (2) da qui in poi qualsiasi massacro sarà concesso, in nome di un bene più grande che coinciderà di volta in volta con le priorità di uno di quei partiti nazionalisti e razzisti che stanno prendendo il potere un po' dappertutto tra USA, Europa e Israele. Lo scenario (1) prevede la fine del sionismo; il (2) la fine della democrazia occidentale. Ora io non so voi, ma la democrazia occidentale mi sembra molto più in crisi del sionismo. Si direbbe che molti uomini ricchi e potenti, alla vigilia di una crisi ambientale che sconvolgerà gli assetti sociali, abbiano già fatto la loro scelta su cosa tenere e cosa scartare. Ovviamente non sono d'accordo, ma la mia opinione ha mai contato qualcosa? La mia opinione, comunque, è che Gaza abbia messo l'Occidente al bivio: o il sionismo, o l'umanità. Gaza ci insegna che le due cose non sono conciliabili: in futuro avremo l'una o l'altra. 

– Come sempre, quando l'aut-aut è più netto, c'è sempre chi a tentoni cerca una via di mezzo, un algoritmo che salvi capre e cavoli, un compromesso che prevede, di solito, garanzie per chi sperava di salvarsi sbilanciandosi il meno possibile (i moderati sono sempre convinti di avere maggiori chance di sopravvivere, e rimangono sbalorditi quando la Storia dà loro torto, il che avviene spesso). Stavolta però non si tratta di mediare tra mercato e Stato, o tra libertà individuale e responsabilità collettiva, o tra fede o ragione. È una scelta un po' più secca, insomma da una parte c'è un genocidio, dall'altra l'umanità: la via mediana risulta più impervia del solito. Chi sta provando a costruirla si trova davanti una situazione impossibile: non ha i mezzi né forse la volontà di fermare il massacro, ma vorrebbe in un qualche modo prendere le distanze, far notare che tutto quel che succede, per quanto magari inevitabile, non è comunque successo col suo consenso: Not In His Name. Così per esempio Macron, Starmer e altri capi di governo hanno deciso di riconoscere lo Stato palestinese (che ha un seggio all'ONU dal 1998...) Significa che lo difenderanno? No. Che almeno sospenderanno i flussi di armi che dai loro Paesi giungono all'esercito che lo sta radendo al suolo? Nemmeno. Che alla fine di questa crisi si impegneranno a ripulire la Striscia dalle macerie e dalle bombe inesplose, affinché sia restituito sicuro ai legittimi e riconosciuti abitanti? Non sta scritto da nessuna parte, quindi molto probabilmente no. Maestà, il popolo ha fame. D'accord, ne riconosciamo l'esistenza. (È curioso che in questo frangente nessuno tiri fuori come al solito lo Spirito di Monaco, che in tutti gli altri casi sembra un precedente obbligato: Netanyahu può fare quello che vuole e invadere i Paesi che vuole, è un diritto che nessuno gli contesta).

– Anche in Israele c'è chi cerca questa impossibile via mediana, e lì almeno bisogna riconoscere che la situazione è lacerante: riconoscere che il sionismo si è mostrificato, che ha trasformato Israele nel Faraone, significa rinnegare la stessa acqua in cui si è nati e cresciuti. Se si potesse in un qualche modo dividere, separare, trovare un termine ad quem dopo il quale il sionismo è diventato altro da sé, mentre prima era buono e giusto... nell'intervista a Repubblica, David Grossman propone il 1967. Prima il sionismo era una speranza, dopo è diventato oppressione. Ora, non è che la cosa non possa avere un senso: ma non si può notare come prima del '67 David Grossman (classe 1954) fosse un bambino: dopo il '67, un giovane adulto in grado di guardarsi attorno con più attenzione. Magari è una coincidenza, ma se osservate la media umana che vi trovate intorno, noterete come l'Età dell'Oro a cui vogliono tornare è quasi sempre quella in cui i genitori ancora gli compravano il gelato. 

– L'intervista è considerata importante perché Grossman usa il termine "genocidio", che prima a quanto pare era appannaggio di qualche povero estremista (tra cui una corte di giustizia internazionale): adesso la usa Grossman, e questo significa che (a) è lecito usarla e (b) il sionismo è salvo, perché malgrado tutto esprime intellettuali in grado di dissentire così fortemente nei confronti del loro governo. L'intervista rappresenta in sé stessa un tentativo di compromesso, una bozza di contratto dove si propone un do ut des neanche tanto sottile: da qui in poi usare il termine "genocidio" non sarà più necessariamente antisemita; in compenso dovete riconoscere che il sionismo non ne è del tutto colpevole, perché persino durante il genocidio esprimeva comunque forti segni di dissenso interno, espressi da pensosi intellettuali. Grossman è così attento a mantenersi entro i confini del sionismo che non si preoccupa nemmeno di esprimere un minimo di empatia nei confronti dei palestinesi, quel minimo che anche i politici più scafati e disumani sanno di dover simulare in questi casi. Ha il "cuore spezzato", sì, prova un "immenso dolore", ma per una tragedia che riguarda il suo popolo e lui stesso. "Voglio parlare come una persona che ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi."

– Sì, i palestinesi muoiono, ma non è questa l'emergenza. L'emergenza è "trovare il modo per uscire da questa associazione fra Israele e il genocidio". "Prima di tutto, non dobbiamo permettere che chi ha sentimenti antisemiti usi e manipoli la parola genocidio". Quando si arriva alle proposte operative, il discorso crolla miseramente: Grossman non riesce neanche a dire le parole "cessate il fuoco" (forse le dà per scontate), o a suggerire timidamente che il suo governo, dopo quasi tre anni di bombardamenti, potrebbe semplicemente accettare uno scambio di prigionieri e far tornare gli ostaggi a casa. Grossman resta "disperatamente fedele all’idea dei due Stati", ammettendo di non riuscire nemmeno a immaginare alternative; anche lui, come Macron, non sembra considerare rilevante l'evidenza che uno dei due Stati sia ormai un cumulo di macerie. La Palestina che immagina dovrà essere "uno Stato vero, con obblighi reali, non con un’entità ambigua come l’Autorità palestinese". Ovvero? 
"È chiaro che dovranno esserci condizioni ben precise: niente armi". Cioè insomma un San Marino, un Liechtenstein (però ridotto a un cratere di cemento)? E quando in Cisgiordania entra un colono e si mette a sparare a pecore ed esseri umani, i palestinesi cosa faranno? Per quale motivo non dovrebbero pensare di armarsi per difendersi da un aggressione armata, chi glielo dovrebbe impedire? 
In questo Stato dovrebbero disputarsi "elezioni trasparenti da cui sia bandito chiunque pensa di usare la violenza contro Israele". Elezioni trasparenti che devono essere trasparentemente vinte da palestinesi filoisraeliani. Grossman immagina una situazione in cui i palestinesi siano contemporaneamente liberi, indipendenti, ma disarmati (nel bel mezzo del Medio Oriente), ed evidentemente controllati da un'autorità che decide chi è che può presentarsi alle elezioni. L'ONU? Quindi ci mettiamo i caschi blu? O più semplicemente le forze d'occupazione israeliane, per cui si tratta semplicemente di cancellare i documenti con scritto "ANP" e metterci un'altra sigla?
Grossman sembra non accorgersi che quello che descrive non è un progetto, ma la realtà. Un'entità statale dei palestinesi, praticamente disarmata, che ormai non convoca più elezioni perché probabilmente le vincerebbe chi sta facendo la guerra ai coloni e agli israeliani esiste già, ha persino un seggio all'ONU, e si chiama appunto ANP. Ovvero l'unica soluzione che viene in mente a Grossman è quella che è stata adottata fin qui, e che ci ha portato a quello che lui stesso considera un genocidio. 

– Il giorno dopo, sempre su Repubblica, Liliana Segre risponde a Grossman: e per quanto ci si sia affannati a vendere le due interviste in un dibattito tra due posizioni diverse, la Segre alla fine conferma sostanzialmente il compromesso grossmaniano: quel che sta succedendo è terribile, il termine "genocidio" è ammissibile ma antipatico perché verrebbe immediatamente strumentalizzato dagli antisemiti, che a volte nemmeno se ne accorgono, in quanto sono antisemiti inconsci, forse a causa di troppe giornate della memoria (!!!) Vale la pena replicare?
Liliana Segre è un personaggio pubblico, giustamente stimato e riverito, in quanto testimone diretta della Shoah. Quello è il suo ruolo pubblico e il suo campo di competenza. Quando parla della Shoah, parla della sua esperienza personale ed è il caso di fare silenzio e ascoltarla. Quando parla della Shoah. 
Quando parla della questione israelopalestinese, ne parla perché qualcuno la mette in mezzo. Non è un'esperta di diritto internazionale, né che io sappia della storia del conflitto israelopalestinese. La sua opinione è parziale come quella di chiunque altro. Può essere in effetti curioso domandare alla Segre cosa pensa del massacro a Gaza, ma non si vede perché debba essere considerata un'autorità in materia, né perché intorno al suo parere si debba giocare questa assurda partita a rubabandiera tra due supposte squadre: quelli che si sentono costretti a convincere la Segre che si può usare la parola "Genocidio" (e fino a quel momento la insulteranno, raffinata strategia che chissà quante partite ha fatto vincere) e quelli che dovrebbero puntare tutto sulla riluttanza della Segre a usare la parola "Genocidio", perché finché lei non la vorrà usare, tutto ok, non è genocidio, sia messo a verbale, qualora poi si scopra che invece era genocidio noi non avevamo gli strumenti, ci fidavamo della Senatrice a Vita.  È il fabiofazismo definitivo, questa necessità quotidiana di Venerabili Anziani da cui dobbiamo aspettare che chiamino le cose coi loro nomi, perché finché non lo fanno loro noi non ci sentiamo autorizzati. Da gente con un'età in cui non ti rinnovano la patente pretendiamo l'opinioni dirimente su ciò che sta succedendo oggi davanti ai nostri occhi. Liliana Segre ha 95 anni, non dovrebbe più essere la portavoce di nessuno, né l'obiettivo polemico di nessun altro. Andrebbe lasciata in pace.

mercoledì 30 luglio 2025

Un femminicidio nel secolo XI

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30 luglio: Santa Godeleva, vergine e martire (1040-1070)

In francese è nota (poco) come Sainte Godelein de Gistel; ma siccome è nata in quello che oggi è il dipartimento francese del Pas-De-Calais, vicino a Dunkerque, dove si parla già fiammingo, è anche chiamata Godelieve. Oggi non la conoscono in molti, ma nel medioevo deve avere avuto un momento di notorietà locale rilevante, se papa Urbano II decise di canonizzarla appena diciassette anni dopo la sua morte violenta. La causa di tanta popolarità era l'acqua di un pozzo che a quanto pare aveva sviluppato miracolose proprietà curative, da quando vi avevano scoperto il cadavere della povera Godeleva. Lo stesso pontefice ne aveva accettato lo status di martire, benché tecnicamente si dovrebbe definire tale solo chi muore per difendere la fede cristiana (come i crociati che Urbano avrebbe più tardi mandato allo sbaraglio in Terrasanta). Godeleva invece era stata fatta uccidere più prosaicamente da un marito che non la sopportava: un ulteriore esempio di come i femminicidi potessero generare fiammate d'indignazione popolare anche mille anni fa – fiammate che prendevano la forma della devozione religiosa, e se la forma non era proprio quella adatta la deformavano a piacere: la gente la venerava come martire, il papa si adeguò. 

Godeleva è figlia di un barone piccardo che ritiene conveniente prometterla sposa a un nobile di origine danese, Bertholf di Gistel, nipote di Baldovino IV conte delle Fiandre. La ragazza avrebbe invece preferito fare voto di verginità ed entrare in un monastero, o almeno così scrive il primo biografo della santa. Quest'ultimo, il monaco Drogon de Bergues-Saint-Winoc, non è il solito compilatore di leggende al chilo: vive nell'abbazia di Gistel, sorta attorno al pozzo miracoloso, e scrive appena dieci anni dopo l'omicidio, quando i fatti sono ancora impressi nella memoria collettiva. Il fatto che il matrimonio sia stato celebrato relativamente tardi (Godeleva aveva già 25 anni) ci fa supporre che Drogon stia scrivendo qualcosa di vero: finché poté preservare la propria verginità senza disobbedire ai genitori, Godeleva non avrebbe manifestato il desiderio di mettere famiglia. E però nemmeno Drogon si azzarda a dire che Godeleva si sia sottratta al matrimonio, ribellandosi al volere del padre o alle avances del fidanzato. Questo renderebbe il suo martirio un po' più simile a quelli delle antiche leggende, ma Drogon non sembra interessato a intessere paragoni del genere; evidentemente in quel periodo e in quella zona l'obbedienza ai genitori e ai mariti era più apprezzata del rispetto di un voto di verginità. 

Le nozze comunque sono un disastro: il monaco ci tiene a farci sapere che Bertholf si comportò male con Godeleva sin dalla prima notte. Il matrimonio non viene consumato, ma di nuovo: la responsabilità non è fatta cadere su Godeleva (che accettando il matrimonio non poteva più opporre resistenza al coniuge), bensì al "disinteresse" di Bertholf, che la tratta subito con freddezza. Al lettore medievale, abituato a matrimoni combinati, la situazione non doveva sembrare così originale: capitava spesso che gli sposi non si piacessero: perlomeno non subito. Ci vuole tempo, si usava dire. Bertholf invece sembra avere fretta di sbarazzarsi della moglie: non solo si rifiuta di consumare il matrimonio (il che rendeva legalmente più semplice la procedura di annullamento), ma comincia a mettere in giro voci calunnianti su di lei. Nel frattempo Godeleva è di fatto prigioniera nel castello del marito, maltrattata da una suocera proterva che malsopporta i suoi atti di carità nei confronti dei poveri: finché non riesce a scappare e tornare dai genitori. E se vi state chiedendo: ma come faceva una ragazza di vent'anni a scappare da sola da un castello fiammingo e tornare a casa in Piccardia?, ebbene, riflettete sulla situazione. 

Abbazia di Gistel
Una fuga del genere rendeva ancora più semplice per Bertholf ripudiarla legalmente: l'avrà fatta scappare lui stesso, o la suocera proterva. E bisogna ammettere che se tutto fosse finito così, secondo i piani del marito insoddisfatto, Godeleva non sarebbe morta strangolata e gettata in un pozzo. A mettersi di traverso è il padre, che forse teme che Bertholf non restituisca la dote, e insiste con le autorità affinché il genero si riprenda in casa la moglie, onorando i suoi doveri coniugali. Per Bertholf è una figuraccia: deve chiedere perdono pubblicamente al vescovo di Tournai e promettere che da lì in poi sarà un buon marito. Non ne ha ovviamente la minima intenzione, ma a questo punto che opzioni gli restano? Ha provato ad annullare il matrimonio spargendo pettegolezzi su di lei e non ha funzionato. L'ha fatta scappare dal padre, e il padre gliel'ha riconsegnata. Ripudiarla ormai è impossibile – tanto più che si è messo in mezzo pure l'arcivescovo. Non resta che il divorzio alla fiamminga, l'uxoricidio. Non lo sto giustificando, eh?, sto solo cercando di immaginare come possa aver ragionato un marito insoddisfatto di mille anni fa – e vi vedo, sapete, vi vedo che state pensando "ma che te ne frega di come ragionava un marito insoddisfatto, ma provati a mettere piuttosto nella testa della poverina" – ehi lo so, ma la poverina è diventata santa, e ai dannati chi ci pensa? E invece è la psicologia dei dannati che dovrebbe interessarci, no? Non per giustificarli, ma per capirli, prevenirli, seh vabbe', ma insomma  Bertholf si mette a premeditare un omicidio. 

Ci mette della creatività. Per prima cosa convince la moglie di aver conosciuto una "signora" che è in grado di rinsaldare un matrimonio. La cosa puzza un po' di stregoneria, ma la povera Godeleva ci casca e viene convinta a incontrare questa "signora" nel cuore della notte tra il 6 e il 7 luglio 1070. Due servitori sono incaricati di prelevarla dalla sua camera (in abito da notte) e portarla al rendez-vous con la signora. Godeleva non lo sa, ma i servitori sono incaricati anche di strangolarla con un laccio che in certe raffigurazioni diventa una specie di asciugamano (più facile da dipingere) e gettarla in un pozzo, con lo scopo di far sembrare la morte accidentale: si era svegliata con una gran sete, si è affacciata al pozzo, son cose che capitano. La gente mormorerà, ma senza prove o testimoni nessuno si darà la pena di indagare sul nipote del conte, il quale tra l'altro non è nemmeno nei pressi, è a Bruges in viaggio d'affari. Quando torna, già listato a lutto, la fa estrarre dal pozzo e seppellire immediatamente, prima che qualcuno si dia troppa pena di osservare il cadavere. Questa non è una leggenda di santi, è ancora un fatto di cronaca. Durante il matrimonio vengono distribuite pagnotte ai presenti; dopo un po' dovrebbe essere finito, ma i fedeli continuano ad accorrere e il pane non finisce mai, ecco: questa invece è la leggenda di santi che comincia. La maggior parte dei miracoli non vengono messi per iscritto da Drogon, ma sono aggiunti in seguito, in appendice. 

Non è molto chiaro come l'omicidio sia stato scoperto: la leggenda più intrigante racconta che Bertholf si sia risposato e abbia avuto una figlia cieca, Edith, che avrebbe guarito la propria menomazione proprio bevendo dal pozzo ormai considerato miracoloso. A quel punto sarebbe stato Bertholf a confessare il crimine. Per espiarlo sarebbe partito per la Terrasanta, in un momento in cui i turchi non avevano ancora chiuso gli accessi ai pellegrini, e quindi non era nemmeno necessario vestirsi da crociato e combattere. Se la sarebbe cavata con poco, insomma. Quel che è chiaro è che dieci anni dopo il pozzo era già un luogo che attirava malati da tutta la regione – il che probabilmente portava altri soldi nelle casse del signore uxoricida di Gistel. Forse anche per attenuare questa sgradevole evidenza, Edith avrebbe fatto ereggere intorno al pozzo un monastero che esiste ancora, e di cui fu la prima badessa. Godeleva potrebbe essere la patrona di tutte le mogli e fidanzate che scappano dall'uomo violento, per tornare a una famiglia che poi dice, dai, ma stai esagerando, in fondo è una persona sensibile, dai, riprovaci, cosa può andare storto. 


30 luglio: San Leopoldo da Castelnuovo di Cattaro, frate e confessore (1866-1942). 

Il confessionale
Bogdan Ivan Mandić non è nato, come si legge talvolta, a Castelnuovo d'Istria (oggi Podgrad, Croazia), ma a Castelnuovo di Cattaro (oggi Herceg Novi, Montenegro). Qui a otto anni, per aver commesso una marachella, fu trascinato dalla sorella davanti al parroco, che lo costrinse a inginocchiarsi al centro della Chiesa. "Ne fui profondamente rattristato. Perché trattare tanto duramente un bambino per una colpa così lieve? Quando sarò grande, voglio farmi frate, diventare confessore e trattare le anime dei peccatori con molta bontà e misericordia". Alla fine andò così. Non fu un percorso del tutto lineare: in mezzo ci si mise il proposito, maturato a vent'anni nel seminario di Udine, di tornare nei Balcani e convertire gli ortodossi; un progetto che ai suoi superiori non interessava – l'equilibrio delicato dell'Impero Austro-ungarico si basava anche sul reciproco rispetto delle fedi religiose – per cui dopo un paio d'anni a Zara lo trasferiscono a Thiene e poi a Padova. Bogdan, che entrando nei Cappuccini ha preso il nome di Leopoldo, fa buon viso a cattivo gioco e riscopre la vocazione dell'infanzia: perdonare i peccatori. Diventa un confessore seriale, come padre Pio nell'altro cantone dell'Adriatico. Da bambino un prete lo aveva trattato male; invece di maturare odio per quel prete o tutta la categoria, Leopoldo decise di prenderne il posto ed essere un prete migliore. L'esigua statura (135 cm) gli rende forse meno scomoda la piccola cella in cui passa più di dieci ore al giorno ascolta chiunque e perdonando tutti – la confessione in questo consiste, ascoltare e perdonare. Non sempre è quello che serve, ma evidentemente può aiutare. Col tempo abbiamo forse scoperto terapie che funzionano meglio, ma costano di più. Un giorno arriva un peccatore poco pratico, di quelli che si confessano una volta in vent'anni. Leopoldo non è ancora in postazione, ma gli dice di accomodarsi. Il peccatore non sa bene come funziona il sacramento, per cui entra nel piccolo confessionale, si siede al posto di Leopoldo e si mette a parlare. Leopoldo non fa una piega, si inginocchia al suo posto e lo ascolta. Quando si rende conto dell'equivoco, Leopoldo lo congeda con un sorriso.
La cella di Leopoldo esiste ancora: il fatto che si sia salvata dal bombardamento del 14 maggio 1944 viene collegato a un desiderio profetico che avrebbe espresso ai suoi confratelli, di preservarla affinché "rimanesse un monumento della divina misericordia".

giovedì 24 luglio 2025

Cristina e i suoi piedini

www.angolohermes.com |
24 luglio: Santa Cristina di Bolsena, vergine e martire. 

In principio forse c'erano le orme di due piedini in una lastra di basalto lavico. La trovate ancora oggi a Bolsena, nella grotta di Santa Cristina: vi si accede dall'omonima basilica. Si tratta di un reperto singolare, ma non così eccezionale: anche solo in Italia di tracce umane nella pietra lavica ne abbiamo trovate diverse, al punto da farci pensare che forse non siano tutte orme di malcapitati che sfuggono da un'eruzione imprevista. Attorno a un paleovulcano casertano sono state rinvenute addirittura impronte in salita: ovvero, chi le ha lasciate stava andando verso l'eruzione. Doveva evidentemente avere degli ottimi motivi (che ci sfuggono) ed essere munito di qualche specie di zoccolo – e infatti le orme sono prive delle fessure tra le dita. Anche i piedini di Bolsena sembrano essere calzati. Le impronte sono un po' troppo profonde per essere state lasciate da un viandante frettoloso, ma probabilmente la pietra è stata in seguito levigata per evidenziare tracce che in origine erano più leggere. Siccome il basalto grigio è tipico della zona, chi ha lasciato le orme dovrebbe essere passato nei pressi quando almeno uno dei sette crateri vulcanici era ancora attivo: minimo trecentomila anni fa. Troppo presto per gli homo sapiens e anche per i Neanderthal; potrebbero essere orme di altre creature viventi, poi ritoccate dall'uomo in un secondo momento: oppure tracce di un più antico nostro progenitore, un homo heidelbergensis già molto curioso dei fenomeni vulcanici, e in grado di confezionare calzature già discretamente efficaci. O una progenitrice: per secoli in effetti la taglia ha fatto pensare che si trattasse di piedi femminili. Con l'avvento del cristianesimo, almeno a partire dal IV secolo, diventeranno i piedi di Santa Cristina, impressi sulla pietra a cui era legata e che, nell'intenzione del padre, avrebbe dovuto portarla col suo peso nel fondo del lago. Ma Dio aveva altri piani: la pietra diventò un galleggiante di una consistenza abbastanza morbida, su cui Cristina avrebbe lasciato le sue impronte. Il nucleo primario della sua leggenda potrebbe essere questo: c'erano due orme nella pietra, nessun vulcano attivo da centinaia di migliaia di anni, qualcuno sentiva la necessità di spiegare la cosa.  

Cristina morta, scultura di Benedetto Buglioni, Basilica di Santa Cristina, Bolsena.

Ma non possiamo esserne sicuri: la leggenda ci è arrivata in versioni molto tarde e stratificate, in cui il tentato annegamento è solo uno dei tanti supplizi messi assieme da un agiografo che sembrava voler condensare in una sola figura tutte le torture subite dalle martiri tardoantiche. Forse aveva già in mente le cinque piazze di Bolsena, dove la sera del 23 luglio si devono mettere in scena cinque tableau vivant  diversi: dunque un solo supplizio non sarebbe bastato. Cristina non poteva essere stata soltanto annegata: andava flagellata, stirata sulla ruota, bruciacchiata, mutilata di lingua e seni, e infine trafitta da frecce. Tutte procedure abbastanza note ai lettori di agiografie: l'annegamento sembra l'episodio più originale, nonché il solo ispirato alla geografia del luogo. Ma potrebbe anche essere stato aggiunto a posteriori, magari dopo il ritrovamento della lastra di basalto. Se invece ipotizziamo che la lastra fosse già conosciuta nel IV secolo, e abbia ispirato la parte più antica della leggenda di Cristina, dobbiamo porci un'altra domanda: che cosa rappresentava quella pietra, prima che i cristiani se ne impossessassero? Non lo sappiamo, ma è la stessa leggenda di Cristina a offrirci qualche indizio suggestivo. 

Rivediamola. Il fatto che alcuni martirologi greci ne collochino il martirio a Tiro, in Libano, potrebbe essere il risultato di un malinteso dovuto a un'abbreviazione ("Tyr"), che in un manoscritto perduto avrebbe alluso alla Tyrrhenia, la regione degli Etruschi. Sin da bambina, Cristina è consacrata dal padre agli dei pagani e reclusa come vergine vestale, in una torre, come Santa Barbara. Ma essendo segretamente cristiana, Cristina gli dei pagani non li sopporta e anzi ne distrugge le statue, come Santa Marciana. Il padre – ufficiale dell'esercito – si arrabbia molto contro questa undicenne impertinente, e ne diventa il più violento persecutore: la fa flagellare e la condanna al supplizio della ruota, come Santa Caterina: niente da fare, tre angeli scendono dal cielo e la guariscono. È a quel punto che il padre propone di legarla alla pietra (nei quadri di solito è una mola) e buttarla nel lago: ma Cristina si salva anche stavolta. Il fatto che il padre muoia a questo punto dalla rabbia (mentre la figlia se la ride) è un altro indizio a favore dell'ipotesi che in un primo momento la leggenda finisse qui, e che l'episodio del tentato annegamento ne fosse il punto cruciale. Ma non bastava: anche gli agiografi devono dare alla gente quello che la gente vuole, e la gente a quanto pare vuole più supplizi. E anche più miracoli, certo. Ma soprattutto più supplizi. 

Giovan Francesco
d'Avanzarano (1459)
Al padre malvagio subentra dunque un altro magistrato, Dione, che di nuovo la fa flagellare, senza costrutto; quindi la fa gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, ma Cristina ne esce incolume. Ordina quindi che le siano tagliati i capelli, e che sia trascinata nuda per le strade del borgo fino al tempio di Apollo, che Cristina polverizza con un solo sguardo. È troppo anche per Dione, che muore dalla stizza. Gli subentra un tale Giuliano, che la fa chiudere in una fornace come i tre compagni del profeta Daniele: e come loro, Cristina ne esce senza un capello strinato. Bisogna inventarsi qualche nuova tortura, e Giuliano si rivolge pertanto a un allevatore di serpi marsicano. Le vipere fornite da quest'ultimo però rifiutano di morderla, anzi ne leccano il sudore. Quando anche il serparo comincia a stizzirsi, i serpenti mordono lui a morte, senonché Cristina impietosita decide di resuscitarlo e convertirlo. Questa parte della leggenda, che secondo alcuni sarebbe la "meno realistica" (sic) è invece la più interessante, in quanto propone che Cristina abbia cristianizzato un serparo marsicano, ovvero un adoratore di Angizia, antica dea dei serpenti molto cara ai Marsi (anche loro originari del bacino di un lago, il Fucino). Il culto per Angizia si era diffuso in tutta l'Italia centrale già in epoca preromana: il che ci suggerisce che le due orme nel basalto, prima di ispirare la figura di Cristina, potrebbero essere state esposte in un tempio dedicato ad Angizia (o la Bona Dea, che ne è la versione latinizzata). Ad Angizia ci si rivolgeva per salvarsi dalle punture velenose, un dettaglio quest'ultimo che avrebbe potuto facilitare la cristianizzazione del culto. La lotta tra una donna e il serpente in effetti è un'immagine che ricorre all'inizio e alla fine della Bibbia: nella Genesi Dio se la prende con entrambi per aver toccato il frutto del bene e del male (3,15): "Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno"; nell'Apocalisse è di nuovo una donna alata a sconfiggere "il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra" (12,9). Di solito la donna è identificata con Maria di Nazareth, ma non nei primi secoli: e a Bolsena, abbiamo visto, il culto per Cristina è molto antico.

Cristina, insomma, prima di diventare una santa potrebbe essere stata una dea e questo spiegherebbe il nome – un anacronismo enorme, se davvero l'avesse scelto un padre fieramente pagano. Ma se Cristina era la dea Angizia, è possibile che nel momento di trasformarla in una santa, i fedeli non si siano rassegnati subito all'idea di venerare una vergine tra tante. A Sepino, in provincia di Campobasso, l'anniversario dell'ingresso delle reliquie nella chiesa del Salvatore è festeggiata come una seconda epifania: alla santa viene offerto su un vassoio oro, incenso e mirra. Sono i doni dei Magi a Gesù Cristo; Cristina significa ovviamente "di Cristo", ma è anche il nome femminile più prossimo a Cristo stesso: non una martire qualsiasi, ma una semidivinità che racchiude tutte le martiri, ne patisce tutti i supplizi e come Cristo resuscita ed è resuscitata. 

Tornando alla leggenda, Cristina deve patire ancora la mutilazione delle mammelle (come Sant'Agata) e della lingua: quest'ultima viene scagliata dalla santa contro il boia, accecandolo. Infine viene trafitta nella gola dagli arcieri (come San Sebastiano). In questo modo i bolsenesi riunivano in una sola figura la protettrice dai morsi di serpente, dalle infezioni del cavo orale, nonché la patrona dei mugnai (perché era stata legata a una macina), dei marinai e degli arcieri. Con tutto questo, sarebbero riusciti a farsi sottrarre le reliquie nell'XI secolo da due pellegrini che le avrebbero portate, appunto, a Sepino; da lì poi i resti (fatta eccezione per un braccio, rimasto a Sepino) sarebbero giunti a Palermo, dove Cristina conobbe un momento di grande popolarità a Palermo, prima della riscoperta di Santa Rosalia. Ai bolsenesi restava la lastra, che per secoli fu usata come pietra di altare; ma era già stata sostituita nel 1263, quando davanti agli occhi di Pietro di Praga (che segretamente dubitava del sacramento dell'Eucarestia) un'ostia avrebbe gocciolato sangue sulla lastra marmorea dell'altare, che è tuttora custodita nella stessa cappella e che ha un po' eclissato il più antico culto per le orme della santa. Segno che le antiche tradizioni locali cominciavano a essere meno comprese, e che il borgo sentiva la necessità di collegarsi alla religiosità ufficiale, e alla gerarchia romana.  

sabato 19 luglio 2025

Elia: profeta o angelo?

Catacombe di Anagni. 
20 luglio: Sant'Elia, profeta sterminatore (IX secolo aC) 

Elia è il protagonista di una delle pagine più poetiche della Bibbia – per lo meno oggi a noi suona poetica; chissà come suonava quand'è stata scritta, ma insomma nel capitolo 19 del primo libro dei Re, Elia è così preoccupato per la situazione che decide di andare a trovare il Signore direttamente sull'Oreb/Sinai, dove Egli aveva già parlato a Mosè. È il primo dopo Mosè a salire sul monte. Dopo 40 giorni e 40 notti di cammino e una breve anticamera in una grotta, una voce gli dice di uscire e fermarsi alla presenza del Signore. "Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna".

Questo Dio, che dopo aver promesso fuochi e fulmini si manifesta con una brezza leggera, è molto poetico, ma ciò che reputiamo 'poetico' molto spesso non è che il fraintendimento di una frase o di un segno che hanno perso il loro significato originario: come se la poesia fosse quel che resta di una preghiera quando non credi più nel dio a cui era indirizzata. Forse l'autore pativa il caldo come noi e voleva semplicemente farci notare come non ci sia nulla di più divino di un filo di vento fresco; forse era un monoteista duro e puro e ci teneva a distinguere la Divinità dagli elementi della natura (Dio manda il fuoco, ma non è il fuoco; manda il terremoto, ma non è il terremoto, ecc); distinzione quanto mai necessaria nelle storie di Elia, profeta associato al fuoco e alla folgore, il quale più di una volta dà la sensazione di non essere esattamente un uomo, o almeno di esserlo diventato solo a un certo punto della tradizione. Un bel paradosso, dal momento che di questa tradizione Elia è arcigno difensore. 

Il suo nome non può non ricordarci quello del Dio-Sole dei Greci, Helios: costui porta la luce sulla terra guidando un carro infuocato nel cielo, un'immagine tipica del folklore indeuropeo con cui gli ebrei avrebbero potuto venire in contatto durante la dominazione persiana. Elia invece salirà in cielo, primo tra i mortali, su un "carro infuocato". Ma forse è solo una coincidenza: in ebraico il suo nome non ha niente a che vedere col sole, bensì contiene in poche lettere due volte il nome di Dio. È un manifesto preciso: El è Yah, ovvero Elohim e JHVH, i due nomi che nella Torah sono usati per indicare la divinità, sono lo stesso Dio, il quale essendo il punto di partenza di tutti i significati non può che essere definito in modo ricorsivo: Dio è dio, l'Ente è colui che è, e a Mosè lo aveva pur detto: io sono colui che sono.

"Dio è il Signore": sembra una tautologia, ma nel IX secolo avanti Cristo, nel regno settentrionale di Israele (separato dal regno di Giuda, da Gerusalemme in giù), il monoteismo non se la sta passando così bene: il re Acab ha sposato una principessa-sacerdotessa fenicia, Gezabele, e sta promuovendo il culto fenicio di Baal, dio del tono e della folgore: ed ecco che il passo riportato sopra assume un significato diverso. Anche Elia ha la facoltà di scagliare folgori; questo non fa di lui ovviamente un Dio (solo El è Yah!), ma forse gli va stretta anche la definizione di profeta. I profeti per lo più si lamentano; indirizzano ai potenti della terra lunghe tirate grevi di minacce; Dio parla loro attraverso illuminazioni o visioni. Anche Elia qualche volte si lamenta e minaccia re Acab e consorte, ma in linea di massima è un uomo d'azione, che mostra il potere dell'unico Dio compiendo straordinari prodigi. Anche il suo rapporto con Dio non sembra indiretto e sfuggente come quello dei suoi colleghi: Elia non ha visioni, se vuole sapere cosa Dio vuole da lui deve andarlo a trovare (sull'Oreb). Sul monte Elia non riceve illuminazioni, non sperimenta visioni; Dio gli parla come un boss a un sottoposto, impartendo ordini secchi e chiari. Più che coi Profeti, Dio tende a comportarsi così con gli angeli. Esseri soprannaturali, non necessariamente alati, ma di certo esecutori materiali della volontà di Dio, che molto spesso prevede stragi e distruzione. Condividono tutti la radice "El" nel nome (Michele, Gabriele, Raffaele); in particolare Elia sembra la risposta alla domanda contenuta nel nome dell'arcangelo Michele, "chi è come Dio"? JHVH è Dio: gli altri non sono nemmeno Dei, bensì falsi idoli. È un'idea rivoluzionaria, che Elia propone in un momento in cui si dà per scontato che ogni popolo abbia i suoi Dei, e che gli incontri/scontri tra due culture contemplino l'ampliamento sincretico dei rispettivi pantheon. No, obietta Elia: esiste un solo Dio (il suo), e non si difende con le parole, ma coi fatti: sfidando i sacerdoti di Baal a incenerire, con la sola forza delle preghiere, una vittima sacrificale. I sacerdoti provano ogni espediente (incluse non meglio specificate automutilazioni), ma non ottengono nulla. Elia invece ci riesce al primo colpo: è il passo della Bibbia che più somiglia a un moderno esperimento scientifico, anche se purtroppo non replicabile. Elia punisce i sacerdoti di Baal  "scannandoli" tutti e 450, il che ci fa di nuovo sospettare che più che di un profeta si tratti di una creatura angelica, magari equipaggiata con una spada fiammeggiante o qualche altra arma molto efficiente. Anche perché, una volta compiuta la sua missione, Elia è rapito al cielo da un carro di fuoco: destino unico per un profeta dell'Antico Testamento. Questa miracolosa assunzione in cielo – la prima della Bibbia – è la radice di tutta l'ipotesi messianica (se Elia non è morto, forse un giorno tornerà) nonché della leggenda dell'ebreo errante (se Elia non è morto, dov'è? forse sta vagando su questa terra). Il testimone diretto del prodigio, il discepolo Eliseo, ne proseguirà l'opera, compiendo anche lui miracoli spettacolari che però spesso sembrano coppie sospette  dei prodigi del vecchio maestro

lunedì 14 luglio 2025

Il primo infermiere, o al massimo il secondo

14 luglio: San Camillo de Lellis (1550-1614), infermiere.

San Camillo salva gli ammalati dell'Ospedale di San Spirito
durante l'inondazione del Tevere del 1598. (Pierre Hubert Subleyras).


Camillo de Lellis nasce a Bucchianico (oggi provincia di Chieti) nel maggio 1550, due mesi dopo la morte di Giovanni di Dio a Granada. I due patroni degli infermieri non condividono soltanto il secolo: entrambi hanno avuto vite avventurose che lasciano sospettare un disturbo del comportamento; entrambi hanno lasciato pochi scritti, dai quali si deduce uno scarsissimo apprendistato letterario; entrambi erano uomini soprattutto pratici, abituati a risolvere le crisi in prima persona: ad entrambi capitò di entrare in ospedali in fiamme per caricarsi i degenti sulle spalle. Entrambi hanno fondato ordini religiosi che nelle loro intenzioni erano soprattutto ordini assistenziali (salvo che le gerarchie ecclesiastiche non capivano ancora la differenza). Digiuni di lettere, digiuni di teologia, entrambi non risultano nemmeno esperti di medicina, per cui, insomma, com'è che hanno inventato la categoria degli infermieri? Entrambi avevano passato diversi anni sotto le armi, in quel Cinquecento tumultuoso in cui la guerra era ormai un mestiere: pericolosissimo, ma che consentiva di girare il mondo e imparare tante cose sul campo. Non è scritto da nessuna parte, ma si può presumere che sia Camillo che Giovanni abbiano passato un po' di tempo negli ospedali militari, e che vi abbiano scoperto pratiche e innovazioni che in seguito applicheranno negli ospedali civili: ad esempio, l'idea rivoluzionaria di separare i malati per patologia. 

Figlio di una signora di età molto avanzata (sessant'anni secondo le agiografie), Camillo ne resta orfano appena tredicenne. Al preadolescente non restava che seguire il padre, soldato professionista e giocatore incallito. Nel 1570 i due De Lellis, giunti ad Ancona con l'intenzione di arruolarsi nell'esercito veneziano in guerra contro i turchi, contraggono probabilmente un virus. Il padre muore di febbre; il figlio ne guarisce ma in quell'occasione compare per la prima volta la famosa ferita che non lo abbandonerà più. Non fosse stato per quella piaga ulcerosa alla caviglia, Camillo forse sarebbe morto su qualche campo di battaglia, o in una rissa di strada dopo una partita a dadi finita male; o persino in un convento di cappuccini, perché no? La ferita che lo tenne lontano dai combattimenti, lo fece anche espellere due volte dal convento nel quale era riuscito a farsi ammettere. I cappuccini non erano equipaggiati per la cura dei malati: gli dissero di tornare quando sarebbe guarito, ma Camillo non guariva mai. Il suo unico posto era l'ospedale, dove una volta pagava le spese lavorando come infermiere. La prima volta che gli successe (al San Giacomo degli Incurabili, a Roma) non dette una buona prova di sé: litigava coi colleghi e coi malati, scappava per andare a giocare coi barcaioli del Tevere, insomma nulla lasciava presagire in lui il fondatore di un ordine di sacerdoti-infermieri.
 
Espulso dal San Giacomo dopo un anno per cattiva condotta, si considera abbastanza sano da riarruolarsi, prima per i veneziani e poi per gli spagnoli. Combatte in Dalmazia, Tunisia e Sicilia; sperimenta fame e miseria, nelle sue memorie farà riferimento a episodi di cannibalismo. Non riesce a mettere a parte un soldo: si gioca tutto, ritrovandosi sul marciapiede. In Puglia trova lavoro come manovale in un convento di cappuccini; riesce finalmente a convincerli della propria vocazione, ma durante il noviziato la piaga si riapre e viene rimandato al San Giacomo. Anche stavolta, dopo la guarigione, rimane come inserviente, ma nel frattempo è riuscito a guarire anche dalla compulsione al gioco, al punto che viene nominato guardarobiere. Frequenta Filippo Neri, che diventa il suo confessore. Quando decide di tornare dai cappuccini in Puglia, Filippo gli dice che si sarebbero rivisti molto presto: quattro mesi dopo in effetti Camillo entra di nuovo al San Giacomo come paziente. Oltre alla solita caviglia, ora soffre di un'ernia inguinale che non lo abbandonerà più. Ma all'ospedale sono contenti di rivederlo e addirittura lo nominano amministratore. 

A questo punto Camillo ha passato i trent'anni: ha una vasta esperienza della vita, soprattutto della miseria e del dolore. Quando decide di fondare un nuovo corpo di "servi degli infermi", li chiama lui, nessuno capisce bene cosa abbia in mente. Lo stesso Filippo Neri prova a dissuaderlo. In effetti la sua è un'idea abbastanza rivoluzionaria e non così in linea con lo spirito della Controriforma; dopo aver vissuto l'esperienza ospedaliera come inserviente e amministratore (oltre che come paziente), Camillo ha maturato l'opinione che i ruoli non vadano confusi: gli inservienti devono rifiutare i "maneggi delle cose temporali" e mettere al di sopra di qualsiasi preoccupazione la cura del paziente. Camillo, che vive questa missione in modo ascetico e propone ai suoi confratelli di vivere negli ospedali per poter essere più vicini agli infermi, tuttavia non sembra particolarmente preoccupato da quella che fino a quel momento era stata la priorità del personale di assistenza, ovvero che i malati patissero (e morissero) santamente. Lui stesso dà la sensazione di aver preso gli ordini sacerdotali perché solo in questo modo la sua confraternita sarebbe stata presa sul serio; nei suoi scritti (molto faticosi) ribadisce più volte che i malati non devono essere forzati a confessarsi e che la funzione dei Servi degli Infermi è tenerli puliti e medicati, non amministrare i sacramenti. Se De Lellis da una parte aveva già un'idea laica, moderna, della figura del paramedico, dall'altra tendeva a viverla con un'intensità religiosa che lo rendeva un modello, ma anche un esempio molto difficile da seguire: finché nel 1607 non fu costretto a lasciare la direzione dell'ordine che aveva fondato, proprio come Francesco, e che già cominciava a chiamarsi col suo nome: i camilliani, i primi infermieri a fregiarsi di una croce rossa sulla tunica nera.  

giovedì 10 luglio 2025

Capire le martiri (e Lucia Mondella)

10 luglio: Sante Rufina e Seconda, martiri (III secolo)

Cianfanelli: Lucia e l'Innominato. 
È ovvio che il Martirologio ricordi ogni giorno qualche martire, ma questo periodo dell'anno è particolarmente intasato. Luglio sembra il mese più indicato per far fuori dei cristiani, come se la canicola in un qualche modo facesse scattare qualche molla nei carnefici. Martiri di ogni periodo e ogni zona del mondo: re danesi che sottovalutavano l'attaccamento dei sudditi al paganesimo, frati appena arrivati in Cina dove era tutto tranquillo da decenni, ma proprio in quel momento scoppia la rivolta dei Boxer e tocca morire linciati; preti vietnamiti, suore francesi che alle costituzioni civili del clero preferirono la ghigliottina, cattolici olandesi nel bel mezzo della guerra di religione, cattolici inglesi al tempo di Elisabetta, benché a quel punto si rischiasse di essere impiccati, eviscerati e squartati (in sequenza), e così via. Alla fine è meno impegnativo ricordare due martiri del terzo secolo, nella speranza che almeno loro siano solo una leggenda: che non siano morte davvero. Purtroppo la storia di Rufina e Seconda è molto più realistica di altre, anche solo per il fatto che non includa miracoli spettacolari o conversioni di massa. Si tratta di due sorelle che perdono i loro fidanzati durante una persecuzione (forse quella dell'imperatore Valeriano): non perché i due ragazzi vengano martirizzati, ma al contrario, perché decidono invece di rinnegare Cristo e sacrificare agli dei falsi e bugiardi. Rufina e Seconda (il tipico nome latino delle secondogenite, il che aggiunge un tocco di realismo) reagiscono facendo voto di castità: se non possono sposare cristianamente i fidanzati, non sposeranno più nessuno. I due ex non sono d'accordo e cercano di convincerle a seguirli nell'apostasia; siccome né Rufina né Seconda mostrano un solo cenno di cedimento, alla fine le denunciano all'autorità costituita. Vengono trovate, giacché cercavano di scappare, al quindicesimo miglio della via Flaminia, e vengono martirizzate al decimo miglio della Cornelia; Rufina viene decapitata, Seconda bastonata a morte. Tutto qui: nessuna guarigione miracolosa, anzi nessun miracolo proprio. Due maschi deboli tradiscono la fede; due femmine la testimoniano con il martirio. Non si dà mai, che io sappia, il caso contrario, ovvero che un martirio faccia scappare la femmina mentre il maschio rimane saldo. Se ne potrebbe concludere che il cristianesimo abbia funzionato meglio di altre cose perché sin da subito ha deciso di investire su una qualità fino a quel momento molto sottovalutata, ovvero il coraggio femminile. Ma è un'ipotesi che andrebbe sostenuta da chissà quanti studi, studi che non avrei intenzione di fare nemmeno se ne avessi il tempo e le competenze, e allora perché ne parlo? E in generale, perché insisto a parlare di martiri, come se ne fossi esperto o appassionato? 

Oltre a non essere né esperto né appassionato, sono proprio scettico sul concetto di martirio: e se un imperatore dopodomani mi costringesse a bruciare incenso agli dei per non perdere il posto di lavoro, credo che apostaterei senza molto sforzo. Magari canticchiando quel vecchio De Andrè che poi è Brassens: Moriamo per delle idee, sì, ma di morte lenta. E quindi perché mi metto a parlare di gente che per le idee si fa bastonare a morte? Beh insomma, lo sapete com'è andata. O no? Forse no, dopotutto è una storia che ormai va avanti da anni. Un giorno ho avuto la bella idea di mettermi a scrivere dei santi del giorno: non ero un esperto ma non intendevo nemmeno scriverne in modo così professionale. Volevo trovare una nicchia, una scusa per avere qualcosa da scrivere quasi tutti i giorni, e l'oroscopo era già preso. Poi certo, venivo da una serie di discussioni (anche su questo blog) che mi avevano dato la sensazione di possedere un punto di vista sulla religione cristiana abbastanza originale; per tanti motivi potevo ritenermene fortemente critico, ma a differenza di tanti critici, la conoscevo. Capivo il significato di certi discorsi che molti miei coetanei ostentavano di ignorare; il che mi permetteva di argomentare in modo più sottile, forse più penetrante (con gli anni ho poi scoperto che non è che ne sapessi granché, ma è così che funziona. Qualcosa nel frattempo l'ho imparato).

Questo avveniva negli anni Dieci, quando il concetto di martirio in Occidente aveva già perso ogni aura di eroismo: i "martiri" sui giornali erano i jihadisti, gente che dirottava aerei o saliva sui mezzi con pettorine esplosive. Tuttora l'idea di morire per le proprie idee riscuote poca simpatia: centinaia di giornalisti possono venire eliminati a Gaza senza che il loro sacrificio passi per eroismo. L'unico reparto mediatico che riconosce ancora una certa nobiltà al martirio è la cronaca nera: lo si vede a ogni femminicidio. Alla fine Rufina e Seconda sono sante più attuali di tante altre, eppure per qualche motivo non ce ne accorgiamo. Soffriamo, credo, di una certa difficoltà a decifrare un passato anche molto più recente. Più ripetiamo di appartenere a una Grande Tradizione Culturale Occidentale, meno ci accorgiamo di quanto ce ne stiamo allontanando. 

È una cosa che mi sono messo a pensare mentre leggevo il libretto di Francesco Piccolo sui "personaggi maschili nella letteratura italiana". È un testo che mi lascia fortemente perplesso, se non altro per la superficialità intenzionale dell'autore, che di fronte ad alcune delle pagine più lette e più studiate del nostro canone, decide (sottolineo: decide) di leggerle in un modo che definirei riduzionista, come esempi di maschilismo violento e irredimibile.  "È per questo motivo che il titolo di questo libro è una frase tra quelle indimenticabili della letteratura italiana, ed è pronunciata da una donna, Lucia, nel punto più estremo dello sfinimento e dell'arrendevolezza". Piccolo – che presumo abbia conosciuto i Promessi Sposi per la prima volta nella famosa scuola gentiliana di cui si racconta che gli insegnanti ammorbassero gli studenti con infiniti temi sulla "spiritualità nel Manzoni" è convinto di questa cosa: che Lucia dica "Son qui: mi ammazzi" perché non ne può più e vuole arrendersi. Lo scrive nel titolo, nella prefazione, e poi nel capitolo specifico. "Lucia è sfinita, indifesa; la sua è una resa totale". "Dopo essersi difesa dalle molestie di don Rodrigo, qui Lucia riconosce una forza, una potenza che lei non può combattere, e si abbandona"... "è consapevole di essere giunta davanti al punto più alto del potere che le è consentito di conoscere, e allo stesso tempo sa di essere caduta nel punto più basso, perché alla fine non ha più la forza e la possibilità di ribellarsi. È completamente nelle mani dell'innominato". Piccolo scrive così. 

Manzoni invece scrive: "Son qui: m'ammazzi". Che considerato il contesto, e considerata la cultura di Manzoni e dei suoi lettori, non si può davvero definire una frase arrendevole. Tutto il contrario: è una frase eroica, che potrebbe stare sulle labbra di una martire del calendario. Hic sum tibi necanda, qualcosa del genere, qualche agiografo una frase del genere l'avrà scritta (e qualche martire l'avrà detta). Centinaia di esempi che Manzoni aveva in mente, perché per lui il cristianesimo era una cosa seria, una scelta di vita, una cultura da riscoprire e da rivivificare. Per Piccolo no. Piccolo sembra non intenzionato a capire che per Lucia scegliere di essere ammazzati è un'opzione; Lucia ne aveva altre a disposizione, ma non le sceglie, perché non è la tipica ragazza incauta che si fida del ganzo sbagliato e finisce in prima pagina, bensì l'eroina di un romanzo cattolico che sta per salvare un criminale dalla dannazione eterna. Basterebbe anche solo dare un'occhiata più attenta alla pagina in cui Lucia pronuncia le famose parole, in risposta a un Innominato che nasconde il suo turbamento sotto una sollecitudine orribilmente maliziosa: "Alzatevi, chè non voglio farvi del male... e posso farvi del bene". Che razza di bene potrebbe fare, l'Innominato, a Lucia che ha appena fatto rapire?

Di fronte a questa possibilità, che l'Innominato invece di farle del male voglia farle "del bene", Lucia non si alza (sdegnando l'Innominato che si trova costretto a ripetere l'invito: non ci è abituato; nessuno osa comportarsi così in sua presenza). Lucia si drizza un po', ma rimane "inginocchioni", e pronuncia la fatidica frase "giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un'immagine": ma è essa stessa un'immagine. Diciamola tutta: è un santino. L'Innominato, di cui Lucia ignora i contorcimenti interiori, le ha proposto due pillole: una farebbe "male" (torture, violenze, morte), l'altra farebbe "bene": seduzione, atti impuri, compromissione. Lucia decide, in perfetta coerenza con la propria fede e la propria condotta: non voglio il tuo "bene" (ovvero: non voglio essere compromessa da te, non voglio essere la tua amante o l'amante di uno dei tuoi associati). Preferisco decisamente il tuo "male": ammazzami. 

È sfinita, Lucia? Sì. È senza difese? Apparentemente. Ma cosa succede subito dopo? Chi è che comincia subito a manipolare l'altro, a partire dall'altra frase famosa "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia"? Chi è che deve scappare trafelato e poi non riuscirà a dormire tutta la notte? Chi è che a un certo punto della notte ricorda le stesse parole e si rende conto che non suonano "con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno di autorità, e che insieme induceva una lontana speranza"? Chi è che vince, qui? Certe volte Manzoni ama l'ambiguità, ma qui davvero no, non poteva essere più smaccato: qui c'è una donna che salva l'anima a un uomo. Non è tecnicamente una santa, anzi proprio quella notte commetterà l'unico vero errore che Manzoni le concede in tutto il romanzo; ma non importa così tanto perché attraverso la sua figura imperfetta sta transitando la grazia, la verità, la via. Il romanzo perlomeno la mette così, dopodiché possiamo anche decidere che non ci interessa più, che preferiamo ritagliarne soltanto qualche situazione qua e là e dimenticare il quadro d'insieme. Piccolo lo sa benissimo, che Lucia è tutt'altro che una sciacquetta in completa balia di un boss, ma decide che non è importante, perché? Perché a lui interessano i personaggi maschili violenti: deve documentarli, deve raccontarli, deve spiegare che siamo tutti così, e questa necessità di autodafé non gli consente nemmeno di notare l'eroismo di una martire. Lo deve negare. Spostati, santa, che con la tua coerenza eroica non ci fai vedere la malvagità degli uomini. Di fronte a Lucia persino l'Innominato si è arreso; e invece Piccolo ci passa sopra.

"Noi possiamo arrestare il tempo a questa battuta e non andare oltre, perché è in quell'istante che l'uomo ha potere totale sulla donna inginocchiata a lui. L'innominato può decidere di fare di Lucia quello che vuole: ammazzarla, farla stuprare da don Rodrigo, stuprarla lui stesso se lo desidera; imprigionarla, baciarla, picchiarla, tormentarla [abbiamo capito, Piccolo: perché tanta ridondanza?]; e può anche decidere di cambiare le sorti della contadina e quindi, di conseguenza, del romanzo – come infatti farà. Ma è il potere incontrastato nelle mani dell'innominato (il fatto che sia senza nome lo rende ancora più assoluto come maschio) ciò che leggiamo da adolescenti".

Qui, se ho capito bene, e spero di no, Piccolo ci dice che da adolescenti la scena di Lucia "inginocchioni" disperata davanti all'Innominato ci ha eccitato, al punto che il seguito del capitolo resta in standby come certe videocassette che venivano visionate solo fino a un certo momento. Credo che a questo si debba l'insistenza con cui in un saggio brevissimo Piccolo si mette a spiegare quante e quali cose l'Innominato possa fare alla "poverina" invece di lasciarsi convertire come voleva l'autore: ammazzarla, stuprarla anzi no farla stuprare (cuck!), imprigionarla, baciarla, picchiarla, sembrano davvero le clip su una piattaforma per adulti proposte un po' alla rinfusa, prima lo stupro e poi i baci e poi di nuovo i tormenti. È l'allestimento di un piccolo set sadomaso che lo devo confessare, il mattino in cui affrontammo il capitolo XXI al liceo mi sfuggì: forse sonnecchiavo, o avevo fame. Ero adolescente e mi eccitavo per qualsiasi cosa, ma ogni maschio può solo portare la propria esperienza: con me la Lucia inginocchioni non funzionò. Magari non feci caso all'eroismo, ma nemmeno all'erotismo.  

C'è qualcosa di deprimente in tutto questo: duecento anni fa Manzoni ci ha mostrato una ragazza che con la forza della sua fede trasforma un uomo violento; duecento anni dopo Piccolo lo rilegge e riesce solo a trovare l'uomo violento, irredimibile. Gli interessa soltanto quello, né sa più trovare una strategia di redenzione. Qualcuno magari lo considererà un progresso. Certo, è molto più furbo delle scrittrici che un anno fa denunciavano nelle opere del canone letterario dei "modelli di comportamento" patriarcali; non affermerebbe nemmeno sotto tortura che Manzoni sia uno scrittore maschilista da cancellare dai manuali (magari non gli dispiace che chi la pensa così cerchi il suo pamphlet in libreria). Nel frattempo però lo fraintende completamente, e consapevolmente. Non vuole capire Lucia, che gli sembra "spenta, mediocre, passiva"; una che piuttosto di farsi toccare da un signore potente preferisce farsi ammazzare. Non gli interessa. Forse non ha veramente mai dovuto affrontare quel famoso tema sulla spiritualità in Manzoni – o forse ne ha scritti troppi, non lo so. Ma insomma, questo è l'Occidente. Appendiamo ancora al muro un calendario pieno di martiri, e non capiamo più che senso abbiano.

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