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martedì 16 settembre 2025

Lo scherzo telefonico di Valditara

[Questo pezzo è apparso alla vigilia del primo giorno di scuola (15/9//2025) sul Manifesto: il titolo non è mio ma è divertente].

Se ci ricorderemo del ministro Valditara, più che di tanti altri suoi predecessori, sarà forse perché meglio di loro ha capito come le riforme che fanno discutere siano le più superficiali. La scuola è un insieme complesso di fenomeni, difficile da riorganizzare: ad alcuni che pure ne avevano la volontà è mancato il tempo. Valditara, che un po’ di tempo l’avrebbe avuto, preferisce fare grandi annunci, e non si può negare che la cosa abbia un senso, almeno dal punto di vista giornalistico. 

In particolare la stretta sugli smartphone è stata ribadita pubblicamente così spesso, che il pubblico a questo punto la dà per scontata: ogni volta che un giornalista glielo chiede, Valditara è ben felice di ribadire che con gli smartphone a scuola è finita, non se ne parlerà più. Fin qui è mancata evidentemente l’occasione di incalzarlo sull’argomento; di chiedergli con che strumenti verrà applicata questa proibizione così netta nei confronti di un dispositivo che la maggior parte di noi ormai tratta come una protesi del proprio corpo. Gli studenti dovrebbero separarsene all’ingresso della scuola, va bene: e se non lo faranno? Molto spesso, infatti, gli adolescenti non fanno quello che loro si comanda. Siccome le scuole non sono state provviste di costosi device-detector, né non sono previste perquisizioni all’ingresso, come si dovrebbe impedire agli studenti di tenerselo in tasca? La risposta del ministro a questa domanda (che nessuno riesce a porgli pubblicamente) se ne sta nascosta in una circolare, per quanto sia la più prevedibile che insegnanti, genitori e studenti potevano aspettarsi: arrangiatevi. Che in burocratese suona così: “È rimessa all’autonomia scolastica l’individuazione delle misure organizzative atte ad assicurare il rispetto del divieto in questione”. E siccome dirigenti e insegnanti, il problema degli smartphone, se lo ponevano ben prima della nomina di Valditara, e le “misure organizzative” le avevano prese anni fa (recipienti dove conservare gli smartphone, note disciplinari da minacciare a chi lascia la suoneria accesa), ci si potrebbe chiedere cosa è cambiato esattamente rispetto al passato: niente? Non proprio: è cambiata la reputazione di Valditara, ormai assurto alla statura di eroico salvatore della scuola dalla barbarie digitale.

Si potrebbe quanto meno pensare che, negando agli smartphone anche una funzione didattica, Valditara stia togliendo a insegnanti e studenti una scusa per tollerarne l’uso: peccato che anche questo divieto assoluto – più volte ribadito sui titoli di giornali – nella stessa circolare si stemperi di molto. Anzi, nel giro di poche righe “il divieto di utilizzo dello smartphone durante l'orario scolastico anche a fini didattici” viene prima ribadito, poi smentito per tutta una serie di eccezioni: lo smartphone intatti si continuerà a usare “nell’ambito degli specifici indirizzi del settore tecnologico dell’istruzione tecnica dedicati all’informatica e alle telecomunicazioni”. Uno potrebbe anche chiedersi perché nei tecnici sì e nei licei dove si fa informatica e telecomunicazione no: forse il riformatore sospetta che a questo punto almeno i licei siano abbastanza provvisti di dispositivi digitali, al punto che non sia più necessario lavorare con quelli che i ragazzi si portano da casa. La circolare prevede inoltre eccezioni per gli “alunni con disabilità o con disturbi specifici di apprendimento” che in certe classi, e Valditara lo sa bene, possono diventare la maggioranza; e per chi invocherà semplicemente “motivate necessità personali” – traduco: chiunque riesca a convincere i genitori a firmare un’autorizzazione e consegnarla in segreteria. Questa in sostanza è la ‘stretta’ imposta da Valditara sugli smartphone: in estate se ne è parlato molto, il ministro è riuscito ad accreditarsi presso il suo pubblico come un riformatore capace di scelte coraggiose e dolorose; lunedì si riparte un po’ in tutta Italia e i ragazzi continueranno a portarsi il telefono in tasca (spesso ne portano due: uno vecchio e rotto, da consegnare a inizio lezione, l’altro per chattare in bagno). Quando da qui in poi qualche studente combinerà un guaio con uno smartphone, la gente certo non se la prenderà col ministro: lui li aveva proibiti, maledetti dirigenti e insegnanti che non fanno rispettare le circolari. Se uno per caso fosse ancora curioso di capire il senso dell’autonomia scolastica, che in effetti può servire a tante cose, ma soprattutto a scaricare le responsabilità in modo rapido ed efficiente.

domenica 14 settembre 2025

Sette spade nel cuore

15 settembre: Beata Vergine Maria addolorata. 

Palermo

Oh madonnina dei dolori,
quanti dolori avete voi...
Oh madonnina dei dolori,
adesso vi racconto i miei.

Siamo alla fine del Cinquecento, quasi Millesei, in un bosco di lecci in Abruzzo. Un pastore si volta e scopre, su una pietra, una raffigurazione della Madonna trafitta da sette spade. Il fatto che fino a quel momento nessuno ci avesse fatto caso fa già pensare al miracolo: comunque la pietra viene trasportata nella chiesa più vicina. Il mattino dopo, però, i pastori la trovano di nuovo lì. All'inizio pensano a uno scherzo, ma siccome la cosa continua a ripetersi, presto le autorità si arrendono al volere della Madonna, che evidentemente chiede che un santuario sia costruito proprio nel bosco. Questo tipo di miracoli non è affatto infrequente, e di solito viene elaborato per spiegare l'esistenza di un luogo di culto, in questo caso il santuario di Colli. Anche l'iconografia della Madonna trafitta non può più di tanto sorprendere: era già da  tempo una delle patrone di Pescara. Però mi sembra una storia che meglio di altre illustra la devozione per la Madonna dei dolori: una cosa che appare all'improvviso anche se sembra esserci sempre stata, senza che nessuno sappia esattamente da dove viene. Una donna trafitta da sette spade non è un'immagine così usuale: qualcuno deve essersela inventata, in un certo momento e in un certo luogo: ma quando, e chi? Non si capisce. Alcune celebrazioni mariane sono il risultato di lunghi dibattiti dottrinali che coinvolgono scuole di intellettuali, finché la gerarchia non decide di pronunciarsi ufficialmente: è il caso dell'Immacolata, o dell'Assunzione, o della Madre di Dio. In altri casi potremmo dire che succede quasi il contrario: ci sono celebrazioni che restano in sordina per secoli, confinate in ambiti locali, che piano piano prendono piede senza che i teologi sappiano cosa pensare al riguardo: finché non arriviamo ai giorni nostri e nessuno veramente sa chi ha cominciato a venerare la Beata Vergine Maria Addolorata. 

Le sette spade rappresentano sette momenti in cui Maria deve avere sperimentato un forte dolore. Sono tutte ferite morali, oggi diremmo psicologiche: del resto la questione del dolore della Madonna era teologicamente spinosa. Se consideriamo il dolore fisico come una conseguenza del peccato originale (Adamo ed Eva nell'Eden non lo provavano?), restava da stabilire se la Madonne fosse stata concepita col peccato originale o senza – una questione che si sarebbe trascinata fino al 1870. Ma mentre i teologi dibattevano, e le autorità esitavano a prendere una posizione, i pastori adoravano una Madonna trafitta già da secoli. Dei sette dolori si comincia in effetti a parlare a un certo punto del Basso Medioevo; all'inizio la spada è una sola, quella prevista dall'anziano profeta Simeone durante la presentazione di Gesù al Tempio. "Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori", avverte Simeone prendendo in braccio il bambino: e rivolgendosi a Maria soggiunge: "Anche a te una spada trafiggerà l'anima". Dunque almeno di una spada si parla nel Vangelo, dei quattro, più attento alle vicende interiori di Maria. Le spade però diventano presto cinque nell'elaborazione dei misteri del Rosario (contrapposti a cinque "Gaudi", ovvero momenti in cui Maria era stata felice). Non è un caso che a diffondere questa preghiera siano soprattutto i domenicani, da sempre militanti nella fazione 'maculista', ovvero contrari al concetto di Immacolata Concezione, devoti a una Maria un po' più umana e sofferente di quella venerata ad esempio dai francescani. A investire maggiormente sull'icona di Maria sofferente sarà però il terzo grande ordine religioso nato nel XIII secolo, ovvero i Servi di Maria. Questi ultimi sarebbero stati fondati da un gruppo di devoti benestanti fiorentini, ritiratisi sul Monte Senario, che avrebbero ricevuto istruzioni in merito da un'apparizione della Madonna in lacrime (all'inizio si chiamavano  Compagnia di Maria Addolorata). Nel loro stemma compaiono sette gigli che somigliano già a sette else di sette spade. Questa iconografia potrebbe avere ispirato qualcuno ad aumentare i misteri da cinque a sette, ma potrebbe essere stato il contrario: ovvero l'insistenza sui Sette Dolori potrebbe aver portato i cronisti a modellare la storia dell'Ordine affinché i primi fondatori risultassero esattamente sette – di loro non è che si sappia un granché: la diffusione dei Servi deve molto all'attività di un predicatore che proveniva dai domenicani, Pietro da Verona

CC BY-SA 4
Ma insomma, questi sette dolori, in cosa consistono? Il primo, già citato, è il dolore per la profezia di Simeone – immaginatevi la scena, un vecchio vi prende in braccio il bambino, gli fa un sacco di complimenti ma spiega anche che porterà caos e divisioni e che anche voi sarete trafitti da una spada. Poi c'è il dolore sperimentato durante la fuga in Egitto: sì, Maria di Nazareth è una profuga, ogni tanto vale la pena di ricordarlo. Il terzo dolore è quello sperimentato quando a dodici anni Gesù viene smarrito a Gerusalemme, e ritrovato soltanto dopo tre giorni, nel Tempio, in mezzo ai Dottori; se avete perso vostro figlio anche solo per cinque minuti al parco sapete bene che ci sono spade che bruciano meno. Seguono quattro momenti collegati alla Passione di Gesù, ma desunti dalle stesse tradizioni medievali da cui nasce la Via Crucis; poiché i vangeli dicono che Maria era presente alla Crocifissione, si dava per scontato che lo avesse visto sulla via del Calvario (quarto dolore), ai piedi della croce (quinto dolore), durante la deposizione (sesto) e la sepoltura (settimo). Anche qui, è impossibile capire se al numero di sette ci sia arrivati perché, contandoli accuratamente, i momenti in cui Maria sembrava soffrire erano proprio questi e non uno di meno, o se la sua vicenda sia stata stiracchiata perché la raffigurazione delle sette spade esisteva già e andava giustificata. Di solito, quando troviamo un'immagine diffusa e venerata in Paesi diversi, abbiamo la sensazione che sia molto antica, spesso più antica del cristianesimo. L'Addolorata, pure molto popolare, non dà la stessa sensazione. Ovvero: mentre molti altri avatar della Madonna sono evidenti rielaborazioni di miti pagani, da Iside ad Artemide, l'Addolorata è qualcosa di nuovo, secondo me; qualcosa che prima del cristianesimo non risultava (o forse era stato cancellato quasi del tutto, per rispuntare più tardi). 

L'idea di venerare una donna in quanto sofferente; di venerare la stessa sofferenza in forma di donna; se è esistito un culto del dolore nel mondo precristiano, è qualcosa che ha fatto perdere le sue tracce. Così questa festa un po' sottotraccia, che ai teologi secondo me non piace perché nasce dalla devozione popolare e confligge con dibattiti più importanti, è forse la festa mariana più originale, quella che ci spiega cos'è stato il cristianesimo per centinaia di generazioni di uomini e soprattutto di donne; una religione che metteva in primo piano il dolore, sia quello dell'uomo che quello della donna, su un piano quasi egualitario: a ogni ferita di Cristo ne corrisponde una nel cuore di Maria. È anche la celebrazione meno attuale, in un mondo dove il dolore è visto sempre di più come un errore da correggere – mentre alcune subculture che lo esaltano sono spesso portate avanti da donne


16 settembre: San Ninian (IV-V secolo), apostolo dei Pitti

A Whithorn, nel Galloway, insomma nella Scozia meridionale, c'è un rudere scoperchiato che potrebbe essere il primo edificio in muratura di tutta la Scozia. È quel che resta della Candida casa (in latino: "Bianca capanna"), un monastero sorto intorno alla prima chiesa scozzese, fatta costruire intorno al 397 dal protovescovo Ninian. Di lui ci parla Beda il Venerabile, vissuto quattro secoli dopo ma non era un contafrottole, prova ne è che non riferisce particolari miracoli: già solo avere eretto una chiesa in pietra in mezzo al Paese dei Pitti (chiamati così dai Romani per l'abitudine a dipingersi il volto e il corpo) era cosa encomiabile. Secondo Beda, Ninian era un britanno che aveva evangelizzato i Pitti, intitolando la prima diocesi scozzese al quasi coevo Martino di Tours; da questo asciutto resoconto gli agiografi successivi partiranno per ricamare una storia più elaborata in cui Ninian è figlio di un re cristiano che converte un re pagano, nonché discepolo di Martino che gli manda i suoi muratori di fiducia: si dà per scontato che i Pitti non sapessero mettere pietra su pietra. Gli storici però hanno la sensazione che questa primissima missione cristiana nelle terre oltre i valli romani abbia avuto un successo effimero; pesa sui Pitti la definizione che qualche decennio dopo affibbia loro San Patrizio d'Irlanda, ovvero "apostati". Il termine lascia intendere che qualcuno li avesse a un certo punto battezzati, ma che questa evangelizzazione fosse stata di breve durata. In ogni caso Ninian è riconosciuto e venerato come il primo vescovo scozzese; il monastero sorto intorno alla candida casa restò un importante centro culturale per tutto il medioevo e fu abbandonato soltanto dopo la riforma protestante.


17 settembre: Santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), badessa, scrittrice, compositrice, mistica, teologa, botanica, diagnosta, naturopata, crittografa, mi sarò anche dimenticato qualcosa

Questo in realtà più che un pezzo su Santa Ildegarda è un appunto, lasciato qui perché è uno dei pochi posti dove non lo perderò, in pubblico affinché io mi senta più vincolato: prima o poi devo scrivere un pezzo vero su Santa Ildegarda. Devo rimediare a questa cosa piuttosto imbarazzante per cui avevo già un libro sui Santi a mio nome in libreria, quando una lettrice molto gentile mi chiese: ma non hai scritto niente su Santa Ildegarda, e io risposi eh? Santa Chi? Una monaca, del medioevo, molto apprezzata, ah no scusa, mai sentita nominare, sarà la classica visionaria dimenticata in qualche convento sperduto, aspetta che do un'occhiata e... sbraaang, è come se mi fosse piovuto in testa il Riesenkodex. 

Il Riesenkodex è un manoscritto in cui Santa Ildegarda, prima di morire all'augusta età di 81 anni, volle raccogliere tutto quello che aveva scritto: visioni, corali monofoniche, altre visioni, codici segreti, angelologie, senza risparmiare sulle miniature (non incluse però i trattati di erboristeria). Ne risultò un tomo di cm.45x30x15, dal peso di 15 kg, Santa Ildegarda non si risparmiava. In un certo senso è la Leonardo da Vinci del secolo XII: come Leonardo, non aveva fatto studi regolari (era entrata a 8 o 10 anni in un monastero benedettino femminile che non prevedeva l'istruzione accademica); come Leonardo, un po' se ne crucciava ma la cosa non le impediva di incuriosirsi e immischiarsi in ogni branca dello scibile umano. Rispetto a Leonardo non sapeva dipingere (in compenso era una compositrice di musica sacra notevolissima e innovatrice), per cui il rispetto del pubblico dovette guadagnarselo con le visioni mistiche. "Visione" è un termine che forse a lei non sarebbe piaciuto; perlomeno in una lettera molto tarda afferma di non essere mai caduta "in preda all'estasi", ma di aver sperimentato sin da bambina nella sua anima la visione del riflesso divino in tutte le anime del mondo: una specie di sesto senso con cui contemplava lucidamente ogni fenomeno dell'universo. La lucidità era indispensabile perché a mettere per iscritto le visioni si poteva anche rischiare processi per eresia, ma Ildegarda seppe muoversi bene, ottenendo abbastanza presto il favore di un papa al quale mandò il suo primo libro, nel quale non si riuscì a trovare nulla che contraddicesse le scritture: da lì in poi nessuno osò contrastarne gli interventi, e Ildegarda ne approfittò per fare a modo suo. Sin da giovane aveva dimostrato un carattere abbastanza caparbio; quando decise che doveva trasferire le sue monache in un altro monastero, e il vescovo non lo permetteva, si mise a letto e sfidò il vescovo a spostarla da lì. L'episodio è descritto come un miracolo, ma in controluce possiamo vederci un episodio di resistenza passiva: il vescovo poteva senz'altro ordinare a un paio di guardie di pigliarla per le gambe o i capelli, ma che figura ci avrebbe fatto con i fedeli che ormai la veneravano come santa? Un'altra volta riuscì a ottenere che un eretico restasse sepolto in terra consacrata, sostenendo che prima di morire si era riconciliato con Dio, e nessuno osò contraddirla. Ildegarda studiava, insegnava, addirittura predicava in giro per la Renania: non fece tantissimi tour, ma per una donna del XII secolo si trattava comunque di una situazione straordinaria. Dovunque la precedeva anche la fama di guaritrice, che si era guadagnata non invocando lo Spirito Santo a vanvera, ma studiando tutti i trattati di botanica e farmacopea che aveva potuto trovare, aggiungendoci l'esperienza maturata col tempo. Ildegarda, che a qualche femminista dà un po' fastidio perché nei suoi trattati accenna spesso all'inferiorità della sua condizione di donna non letterata (ma lo fa per dimostrare che lo Spirito parla anche attraverso gli umili), è invece diventata un personaggio di culto nell'area della medicina olistica e dell'erboristeria new age – un'area dalla quale cerco di tenermi il più lontano possibile, e questo spiega ma non scusa la mia ignoranza. È una cosa che mi dà un po' fastidio perché certo, senz'altro Ildegarda ragionava in termini di micro e macrocosmo, cercando nella natura i riflessi del corpo umano, praticando salassi e prescrivendo impacchi di pietre preziose che oggi sappiamo essere inutili se non dannosi. Lo faceva perché quella era la medicina più avanzata del tempo, ma se vivesse oggi sarebbe esperta di diagnostica e fisica delle particelle, non perderebbe tempo con i quattro stati delle materie – sì, mi rendo conto, è una proiezione che non ha senso. Ma prima o poi scriverò qualcosa di più sensato su Santa Ildegarda di Bingen, lo prometto. Se nel frattempo volesse pregare per me, ho un dolorino al ventre che non si spiega.

mercoledì 10 settembre 2025

La fine delle competenze


Uno dei problemi coi riformatori – non nel senso di "carceri minorili", ma nel senso di quelle persone che vorrebbero riformare le cose – è che sono convinti che il mondo li giudicherà per la dimensione delle loro riforme. Non che abbiano quasi mai torto, ma questo li spinge inevitabilmente verso la superficie dei problemi, dove si possono fare gli interventi  più appariscenti. Invece di trascorrere anni frustranti a cercare di capire cosa non funziona dietro le quinte, e infine suggerire alcune variazioni efficaci che farebbero funzionare tutto meglio, con grande soddisfazione di chi lavora, col rischio che il pubblico nemmeno se ne accorga – ecco, no, meglio di no. Molto più consigliabile impiegare il tempo scandendo slogan roboanti, cambiando i nomi a questo o quel reparto (cambiare i nomi è il modo più efficace di dare l'impressione che si sta davvero cambiando qualcosa). Così si ricorderanno di te. 

Di Valditara ad esempio ci ricorderemo perché ha ripristinato la "maturità" (non si chiamava più così) e vietato gli smartphone a scuola: quest'ultima è una cosa a cui tiene molto. Nel senso che i ragazzi non li possono più portare? Beh, no, non esistono smartphone detector da piazzare all'ingresso degli istituti (e se esistessero, costerebbero; quindi non li compreremmo). Forse che Valditara ha approfittato di una qualche emergenza-smartphone per emanare una circolare che autorizza il personale scolastico a perquisire gli studenti tutte le mattine? No, vi rassicuro in tal senso, non potevamo prima e non cominceremo a perquisirli adesso, i vostri mostriciattoli, chi ve li tocca. E quindi ok, continueranno a portare il telefono in tasca, auspicabilmente spento o silenziato; ma se a un certo punto una sveglia suonasse, e un insegnante decidesse di sequestrare un dispositivo chiassoso, colpirne uno per educarne ventisei... forse che Valditara ha imposto agli istituti di comprare casseforti dove rinchiudere il corpo del delitto, in attesa che i genitori vengano a prelevarlo, dato che da Valditara in poi lo smartphone è teoricamente vietato? No, niente casseforti. Va bene, ma almeno si è capito che i ragazzi non potranno tirarlo fuori impunemente durante una lezione, neanche con la scusa della didattica, perché non si farà più didattica col telefono, vero? Valditara l'ha proibito recisamente, vero? Beh, no, nelle ultime comunicazioni ha ammesso che lo smarphone si possa usare a scopi didattici. Quindi, insomma, cos'è cambiato esattamente? Nulla, direte voi: sbagliato, è cambiata la reputazione di Valditara, ormai assurto alla statura di eroico salvatore della scuola grazie al quale, la prossima volta che qualche studente combinerà un casino con uno smartphone, la gente penserà che lui non c'entra, lui li aveva vietati, maledetti insegnanti che non fanno rispettare le circolari.

Se dalla facciata ci spostiamo un po' verso l'interno, notiamo come Valditara sia guidato, nella sua opera (contro)riformatrice, da un principio fondamentale: la centralità di Ernesto Galli Della Loggia, non in quanto pedagogo (non lo è), ma in quanto essere umano perfetto. Questa perfezione – che ritroviamo sottesa nell'incessante produzione saggistica dello stesso Ernesto Galli Della Loggia – non lo configura tanto come fine ultimo della Storia e/o della dialettica, alla Hegel insomma, quanto come obiettivo ideale a cui tendere, oserei dire idea platonica di italiano, formatosi a una scuola che non esiste più a causa dei malvagi sessantottini, finalmente sgominati. Se Galli Della Loggia è perfetto, il sistema scolastico che lo ha prodotto non può che essere il migliore di tutti i tempi; mentre le riforme che lo hanno modificato, impedendoci di assistere alla gemmazione di ulteriori Ernesti Galli Della Loggia, nient'altro che perniciose degenerazioni da abolire, nel tentativo forse impossibile ma comunque encomiabile di ritornare all'età dell'oro, dove "oro" – materiale senz'altro prezioso ma per certi versi ancora corruttibile – indica ovviamente e approssimativamente Ernesto Galli Della Loggia, lui sì forma perfetta e incorruttibile. Ora, per quanto tutto questo possa sembrarvi parecchio ridicolo, temo che possa fare breccia nella coscienza di molti miei colleghi. Alcuni sono della generazione di Galli Della Loggia, e quindi praticamente perfetti anche loro; e però a un passo dalla pensione, quindi a questo punto non vale la pena di preoccuparsene. Ma la maggior parte è venuta dopo, e per quanto tutta questa scuola sessantottina non l'abbiano mai vista (forse perché non è mai esistita), hanno più che una ragione di sentirsi delusi dalle riforme berlingueriane e post. Come chi a metà di un lavoro si rendesse conto di avere combinato un pasticcio tale che piuttosto di risolverlo converrebbe buttar tutto e ricominciare da capo, ovvero nel nostro caso da Gentile, o anche più su.


Vedi l'esame di "maturità". Io non ne capisco molto, non è mai stato il mio campo (mentre tra breve lo diventerà), ma quello che ho percepito negli anni è la grande stanchezza dei colleghi, mobilitati per un'esperienza più rituale che didattica. Vengono al pettine in questo caso certe parole d'ordine male introiettate: ad esempio, dopo aver parlato per tanto tempo di competenze, dopo averle introdotte nella didattica, a un certo punto si arriva all'esame e ci si dovrebbe arrendere a un'evidenza fisica: si tratta di un intervallo di tempo in cui uno studente si troverà davanti a insegnanti che gli faranno delle domande, e lui dovrebbe rispondere. Come mille e più anni fa: l'esame orale è tutto qua, potremmo anche decidere di farne a meno ma il pubblico ci tiene, i giornalisti ci tengono, e quindi rieccoci qui a fare delle domande e aspettarci delle risposte – sì, ma le competenze in tutto questo? Come le accerti, come le valuti, insomma dove sono queste sacrosante competenze nel momento in cui un candidato si siede, come mille anni fa, e dei professori gli fanno delle domande?

"Ma vedo che hai fatto un percorso di alternanza scuola/lavoro che prevedeva l'assistenza dei clienti nel..."

"Sì, ho servito a un bar-tabaccheria".

"E cosa hai imparato?"

"Bisogna premere un tasto IVA diverso per le brioches e i giornali".

Competenza! 

Oppure forse no, ma non mi pare che nessuno abbia le idee più chiare. Il grande equivoco, che si trascina da anni, è che "competenza" sia, tra le tante cose, una specie di euforia interdisciplinare che consentirebbe al candidato di collegare gli argomenti di materie diverse. Questa illusione – che conosco meglio, perché ha contagiato subito anche l'esame di licenza media – imparentata con l'idea che studiare sia sostanzialmente ridurre qualsiasi cosa a una "mappa" con cerchi e freccine, con gli anni si è trasformata in un incubo, gli argomenti essendo un numero finito e i collegamenti un numero ancora più limitato. È nato un vero e proprio mercato delle tesine interdisciplinari, su internet ne trovi tantissime e hai un bel da dire allo studente di non cercarle o addirittura comprarle, ben presto te li trovi davanti a collegare cose di cui in classe non hanno mai sentito parlare, oppure tutti con gli stessi quattro argomenti, la Grande Guerra, la Bomba Atomica, salvo che ad esplodere al temine di alcuni pomeriggi sono le mie colleghe e dopo otto ore posso capirle. 

I riformatori sono corsi ai ripari con soluzioni sempre più barocche, ad esempio i "materiali", una serie di oggetti (fotografie o altri manufatti) che fino a quest'anno venivano esibiti al candidato, il quale doveva trarne ispirazione per imbastire un colloquio interdisciplinare. Un'idea teatrale, che proposta a lezione potrebbe anche essere divertente (tu hai studiato Pirandello, io ti metto in mano un sasso, collegami il sasso a Pirandello), che trasformava il colloquio orale in un'improvvisazione in cui il tizio che si è preparato, legittimamente, sulla clorofilla e il colonialismo si trova in mano una foto di piazza Tienammen e deve in tot secondi imbastire un discorso che lo porti da quella foto alla clorofilla passando per il colonialismo – questa sarebbe la competenza, una competenza in chiacchiere che forse se vendi al mercato è davvero importante, e per carità c'è ancora bisogno di validi venditori al mercato (li saluto, so che ci seguono). Tutto pur di non ammettere nemmeno a sé stessi che quello che stai facendo (domande agli studenti) è la stessa cosa che si faceva mille più anni fa – certo ora non li interroghi più sugli scoliasti o le glosse, adesso vanno di moda cerchietti e freccine, ma sono sempre gli stessi cerchietti e le stesse freccine, non è che lo studente possa più di tanto inventarsene di diverse, col rischio che poi a te insegnante-giudice non piacciano. Forse a un certo punto qualcuno ha pensato che la scuola avrebbe dovuto essere più stimolante, più creativa, e in tanti ambiti lo è diventata: ma un esame orale è un esame orale; puoi truccarlo finché ti pare, ma in sostanza si tratta sempre di fare al candidato tot domande e aspettarsi tot risposte. Forse a un certo punto speravamo di avere trovato qualche idea rivoluzionaria, ma nella pratica fin qui si sono rivelate per lo più espedienti buffi. 

A questo punto arriva Galli Della Loggia, convinto di dover emendare a decenni di sessantottismo spinto, sei politici e altri abomini: e suggerisce di ripartire non già da zero – che sarebbe un bel po' in là, ma da Galli Della Loggia: e la cosa in un qualche modo non dispiace neanche a chi lo detesta. Meno insegnanti in giro a giugno e luglio, caccia via – e se andasse male, sapremmo anche a chi dare la colpa, ha un nome e un cognome.

martedì 9 settembre 2025

Lo schiavo degli schiavi

9 settembre: San Pedro Claver, schiavo degli schiavi (1581-1654)

Quando arrivavano a Cartagena, il primo mercato degli schiavi della Colombia, i prigionieri stivati nelle navi credevano spesso che sarebbero stati uccisi e mangiati dagli uomini bianchi. Incontravano invece questo signore vestito di nero che gesticolando cercava di capire da dove venissero, finché non riusciva a metterli in contatto con degli interpreti. Portava con sé un mantello che regalava al primo che ne avesse bisogno, il che se volete è ridicolo: un mantello solo da offrire a migliaia di persone sopravvissute a traversate disumane. Portava cibo e medicine, con cui tentava di medicare le ferite; a volte veniva cacciato dai padroni della nave o degli schiavi, perché aveva il vizio di considerare questi ultimi come esseri umani. Si chiamava Pedro Claver, era nato in una cittadina della Catalogna, e mentre frequentava l'università gesuitica a Maiorca era stato convinto dal portinaio, Alfonso Rodriguez, di essere chiamato ad assistere e convertire gli schiavi – purtroppo non a liberarli, ma se ci avesse provato la sua missione sulla terra si sarebbe conclusa molto più rapidamente. Per quanto svolgesse le mansioni più umili, Alfonso era considerato dai suoi confratelli una specie di profeta, e almeno il destino di Pedro lo azzeccò. 

Pedro Claver non è una figura universalmente amata e non è difficile capire perché: in una società schiavista non c'è spazio per le anime belle. Chiunque accetti di viverci, anche per migliorare le condizioni di vita dei più umili, non può che compromettersi con lo schiavismo. Claver si proclamava "schiavo perpetuo degli africani"(æthiopum semper servus"), ma alcuni suoi collaboratori erano di fatto suoi schiavi e non sarebbe potuto essere diversamente: non doveva essere facile per un africano ottenere la libertà a Cartagena. Non disdegnava nemmeno le punizioni corporali, come un qualsiasi gesuita del XVI secolo. Non fu il pioniere dell'evangelizzazione degli schiavi, anzi deve molto al maestro che lo accolse a Cartagena, Alonso de Sandoval. Non ha lottato contro la schiavitù, ma ha fatto quel che poteva per migliorare le condizioni di migliaia di schiavi; non poteva liberarli, ma battezzandoli poneva le premesse perché fossero riconosciuti come esseri umani, e si calcola che ne abbia battezzati circa trecentomila. Rodriguez morì a Cartagena nel 1864: negli ultimi anni dovette patire gli abusi di uno schiavo che gli era stato affidato dai gesuiti come badante e che a quanto pare lo trattava malissimo, né Pedro se ne lamentava: in fondo il suo dolore non era che una frazione di quello che gli africani subivano per mano dei suoi connazionali. Fu canonizzato da Leone XIII nel 1888, quando la schiavitù era ormai stata abolita in tutte le Americhe, assieme al portinaio che lo aveva ispirato, San Alfonso Rodriguez.


10 settembre: San Nicola da Tolentino (1245-1305)

Per vivacizzare un po' la vita del santo marchigiano, senz'altro santa ma non esattamente avventurosa, (entrò negli eremitani di Sant'Agostino a 14 anni, pregò e donò ai poveri ogni giorno finché non morì, sessantenne a Tolentino) gli vengono attribuiti diversi miracoli per così dire standard, quel tipo di miracoli che ritorna nella vita di tantissimi altri santi, ad esempio quando Nicola regalava pane o farina ai poveri (innervosendo i confratelli, che pure loro dovevano mangiare), questo o pane o questa farina gli ricrescevano nel sacco, oppure se lo beccavano letteralmente col sacco in mano mentre cercava di passarlo a un povero, lui "No, macché son fiori" e nel sacco spuntavano i fiori. Poi una volta era in ritardo e ha fermato il sole, e che altro? Ha fregato un diavolo che aveva costruito un ponte, indovinate, in cambio della prima anima che ci sarebbe passata sopra; ha fatto portare un cane da un lato del ponte e ha fatto rotolare una forma di formaggio dall'altro lato. Il cane è stato il primo essere vivente a passare dal Ponte del diavolo di Tolentino; il diavolo, stizzito, avrebbe lasciato il segno di un suo corno sul fianco del ponte. La sua frustrazione è comprensibile, se si pensa che era già probabilmente la centesima volta che un santo lo fregava, e sempre nello stesso modo, ovvero quella dei "ponti del diavolo" è una vera e propria categoria, sia dal punto di vista architettonico che folkloristico, soltanto in Francia ce n'è una cinquantina e anche in Italia almeno uno per regione. Questo fa sospettare che dietro la leggenda ci sia qualcosa di più antico, anche perché parliamo perlopiù di ponti medievali con arcate molto alte che probabilmente ai tempi della costruzione venivano percepiti dalla popolazione locale come qualcosa di straordinario, che non poteva essere spiegato semplicemente con l'arrivo di maestranze molto esperte, no: doveva averci messo lo zampino almeno un demonio, il che richiedeva anche l'evocazione di un santo per consentire alle persone normali di transitare senza perdere l'anima. Può darsi che questa cosa di far passare prima un animale fosse un rito apotropaico, quel che resta di un sacrificio pagano a eventuali dei dell'ingegneria? magari le maestranze avevano le loro tradizioni, non del tutto cristianizzate. Oppure era un modo per collaudare il ponte, di fronte a un pubblico di pastori un po' impauriti: si prendeva un animale, lo si faceva passare e si diceva: vedete, non sta crollando, funziona.


11 settembre: san Jean-Gabriel Perboyre (1802-1840), martire in Cina

Jean-Gabriel Perboyre, non il primo martire cristiano in Cina, ma il primo a essere canonizzato (nel 1996), ha le carte in regola per diventare il protettore dei malati di covid. La proposta è stata avanzata da un sinologo, Anthony Clark, e si basa su due argomenti: non solo Perboyre è stato torturato e martirizzato a Wuhan, che del Covid è il "ground zero", ma sperimentò, prima della cattura e della morte, mesi di angoscioso isolamento, testimoniati nelle sue lettere; e  per quanto nelle immagini venga raffigurato legato a un palo di tortura a forma di piccola croce, l'effettiva causa della sua morte sarebbe stata lo strangolamento. Anche lui, come i malati di covid, si sarebbe trovato nell'impossibilità di respirare. Missionario vincenziano, nato in Francia, Jean-Gabriel era arrivato in Cina prima che iniziassero le persecuzioni anticristiane, ma sapeva che il rischio era alto: del resto, scriveva, cosa possiamo aspettarci da una religione che adora il crocefisso. E la croce fu il suo destino, durante la guerra dei boxer. I suoi resti, recuperati dai missionari, furono traslati in Francia, ma i cristiani clandestini di Wuhan continuarono a conservare la sua pietra tombale, nascondendola nel periodo della Rivoluzione Culturale. 

sabato 6 settembre 2025

Mazzucconi e Zaccaria

6 settembre: Santo Zaccaria, profeta (VI secolo avanti cristo)

"Ecco, io farò di Gerusalemme come una coppa che dà le vertigini a tutti i popoli vicini, e anche Giuda sarà in angoscia nell'assedio contro Gerusalemme. In quel giorno io farò di Gerusalemme come una pietra pesante per tutti i popoli: quanti vorranno sollevarla ne resteranno graffiati; contro di essa si raduneranno tutte le nazioni della terra. In quel giorno – oracolo del Signore – colpirò tutti i cavalli di terrore, e i loro cavalieri di pazzia; mentre sulla casa di Giuda terrò aperti i miei occhi, colpirò di cecità tutti i cavalli dei popoli. Allora i capi di Giuda penseranno: "La forza dei cittadini di Gerusalemme sta nel Signore degli eserciti, loro Dio". (Zaccaria 12,1-5)".

I primi due profeti di cui ho imparato il nome erano Ezechiele e Zaccaria. La Z impreziosisce ogni parola, la rende più rara e ricordabile, ma in effetti Ezechiele era il Lupo che voleva mangiarsi i Tre Porcellini nelle storie di Topolino (quelle brevi che stavano in mezzo), mentre Zaccaria era un gelato confezionato, un cornetto con una palla di gelato pralinata, insomma la versione Eldorado del Blob Toseroni. O era il Blob Toseroni una copia dello Zaccaria, non si è mai capito e non ha più importanza, perché Unilever (credo) a un certo punto si comprò i due marchi e ora in ogni bar trovi solo Algida, Algida, Algida, vabbe' dai ti compro un Magnum (si chiama ancora così anche se si mangia in tre morsi)? No, se è Algida no, sì vabbe' boicottiamo Israele, ma non di sola Sammontana vive l'uomo, sto tergiversando. La confezione del gelato Zaccaria, ho letto, è "introvabile su internet", quindi in sostanza è smarrita per sempre, qualcuno ritiene di ricordare un motociclista, ma quante cose false ricorda la gente. Pensare ai tabelloni dei gelati che non esistono più mi dà una tristezza che è difficile da razionalizzare, insomma non è che fossero questi gran gelati, eppure non ci sono più. Le canzoni restano, i libri a volte migliorano col tempo, ma io nella mia infanzia mica leggevo tutti questi libri, e non ascoltavo nemmeno tutte queste canzoni. I tabelloni dell'Eldorado invece li sapevo a memoria e questo sapere mi si agita nel cervello a vuoto. Qua fuori c'è fior di gelaterie artigianali, giusto oggi il gusto del giorno prevedeva mascarpone alla zucca e crumble di cioccolato, squisito, ma il Dalek non posso più assaggiarlo, né il Piedone. Oh vabbe'. 

"In quel giorno io mi impegnerò a distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme. Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo". (12,9-11) 

A volte mi domando: ma perché "San" Zaccaria? Non sarebbe più sensato "Santo Zaccaria"? E Santo Zeno, Santo Zaccheo, Santo Zefirino? In effetti l'aggettivo "santo" fa parte di un ristrettissimo gruppo di aggettivi qualificativi (con "bello", "buono" e "grande") che richiedono il troncamento dell'ultima sillaba (santo diventa san), ma solo al maschile, e solo davanti a un nome che cominci per consonante (altrimenti si elide solo l'ultima vocale: sant'Antonio); e anche in caso di consonante, vi sono delle eccezioni. Queste eccezioni le conosciamo bene, perché sono le stesse in presenza delle quali l'articolo indeterminativo "uno" non diventa "un": ovvero davanti a gruppi consonantici che i toscani avevano paura a pronunziare assieme, probabilmente questa paura ce l'hanno tuttora: ad esempio, la S+consonante, detta anche maliziosamente S impura: e infatti si dice Santo Stefano (ma il manuale che ho aperto qui davanti ci tiene a far presente che esiste un'eccezione all'eccezione: San Stanislao non si potrebbe assolutamente chiamare Santo Stanislao, non ho idea di chi si offenda ma lo scrive due volte, sembra abbastanza importante). Poi ci sono altri nessi consonantici che almeno ai palati dei toscani risultavano complicati, ovvero X, Gn, Ps e Pn: per cui se Saverio volessimo chiamarlo Xaverio, dovremmo chiamarlo Santo Xaverio, e altrettanto dovremmo fare nel caso un papa santificasse uno Gnomo, o uno Pseusolo, o un Pneumatico, anche se alla fine chi è che dice "uno pneumatico"? Nessuno, però le grammatiche scolastiche non si arrendono. C'è il caso un po' più particolare della i semivocalica, cioè quella che sta davanti a un'altra vocale e quindi non è del tutto una vocale, è già quasi una consonante, al punto che fino a tutto Pirandello veniva quasi sempre scritta con la J: e quindi diciamo Santo Iacopo, o Jacopo. 

E poi c'è il caso della Z. Che essendo una doppia consonante (ʦ e ʣ nell'alfabeto fonetico internazionale) farebbe assolutamente parte dell'insieme dei consonantici complicati, davanti ai quali non diciamo "un", ma "uno" ("uno zaino"), non diciamo "gran", ma "grande" (un grande zaino), non diciamo, "buono" e non "buon", "bello" e non "bel". Però, invece di dire "Santo", diciamo "San". Perché? Non c'è un perché. È un'altra eccezione dell'eccezione, e io francamente non le sopporto. Mi rendo conto che la grammatica fa quel che può, nessuna lingua nasce perfetta. Però che fastidio. È davvero così faticoso dire "Santo" invece che "San" Zaccaria? ma sto ancora tergiversando.

"Se qualcuno oserà ancora fare il profeta, il padre e la madre che l'hanno generato, gli diranno: "Non devi vivere, perché proferisci menzogne nel nome del Signore!", e il padre e la madre che l'hanno generato lo trafiggeranno perché fa il profeta. In quel giorno ogni profeta si vergognerà della visione ricevuta facendo il profeta, e non indosserà più il mantello di pelo per raccontare bugie. Ma ognuno dirà: "Non sono un profeta: sono un lavoratore della terra, ad essa mi sono dedicato fin dalla mia giovinezza". (13,3-5).

Sto tergiversando probabilmente perché di profeti di sventura non ne posso più. Del fardello di Israele, del destino di Gerusalemme, ne ho già piena la vita, mi sembra di non leggere altro. Una volta la Bibbia non assomigliava così tanto né alle pagine degli esteri sui quotidiani, né alle voci fuori campo dei film catastrofici. Adesso sembra tutto coincidere, come un terribile allineamento planetario, se capitasse all'improvviso mi verrebbe una gran paura, ma ci sta mettendo parecchi mesi e anni e quindi ho un po' di nausea. Un sentimento che, sospetto, i profeti conoscevano. Probabilmente nel percorso succederà qualcosa di orribile, ma nel mio cuore non vedo l'ora che si avveri Zaccaria 13,3-5, la vittoria finale del Signore, dopodiché i profeti diventeranno inutili e saranno malmenati dai loro stessi famigliari: e mandati a lavorare la terra. Zaccaria è uno dei maggiori tra i dodici profeti minori, nel senso che il suo libro consta di ben 14 capitoletti, composti dopo il ritorno degli israeliti da Babilonia, ma probabilmente in momenti diversi e anche da autori diversi: il che spiega l'apparente incostanza di un Signore che nel giro di una pagina promette al suo popolo la felicità e poi lo minaccia per le sue incostanze. (Provate a leggere il secondo pezzo che ho citato: c'è Israele contro tutti, e non si capisce se vinca o se perda. Qualcuno potrebbe aver rimaneggiato l'originale fino a invertirne il senso).

Anche lo stile delle profezie cambia sensibilmente lungo il corso del libro. All'inizio sono visioni, il che pone Zaccaria sul percorso che da Ezechiele porta verso la letteratura apocalittica. Anche in Zaccaria a ogni immagine segue una spiegazione, fornita da un angelo, perché il profeta sennò non ce la farebbe a interpretare: in particolare Zaccaria più volte ammette di non potercela fare. 

Dopo sette visioni, dal capitolo 8 si passa agli oracoli, ovvero discorsi che il Signore ispira al profeta, sul solco dei più tradizionali Isaia e Geremia. Ogni tanto spunta un terzo tipo di stile, la profezia mimata, che compare talvolta anche in altri profeti: in questi casi Dio non parla con parole o visioni, ma obbliga il profeta a comportarsi in un modo strano che il pubblico dovrebbe interpretare in senso profetico. A Zaccaria non vengono chieste cose ripugnanti come mangiare escrementi né imbarazzanti come sposare una prostituta, ma se non fossero comportamenti assurdi la gente non li noterebbe, e quindi nel capitolo 11 Zaccaria deve portare al pascolo un gregge di pecore destinate al macello, munito di due bastoni chiamati "benevolenza" e "unione". Poi, dopo avere licenziato tre pastori (tre re? tre sommi sacerdoti?), deve irritarsi con le pecore, perché si sono stancate di lui, spezzare i bastoni e mandare il gregge in malora ("Chi vuol morire, muoia: quelle che rimangono si divorino pure fra di loro"). In un qualche modo i suoi giorni di lavoro gli vengono comunque pagati, ma anche questo fa parte della profezia e comunque Zaccaria non può tenersi i soldi, deve gettarli nel tesoro del tempio. Questo dettaglio è forse il più conosciuto di tutto il libro, almeno tra i cristiani, perché i pezzi d'argento che Zaccaria getta nel tempio dopo aver disperso un gregge sono esattamente trenta, trenta denari.  


7 settembre: beato Giovanni Mazzucconi (1826-1855), sacerdote e martire

Che la storia la scrivano i vincitori è tanto banale quanto vero: quasi tutto quello che sappiamo, l'hanno raccontato dei superstiti. Magari non erano vincitori, ma sono comunque saltati su quel carro. È anche una semplice questione di economia – se dobbiamo ricordare il nome di un esploratore, sarà quello che ha scoperto qualcosa, non quello che si è perso nell'oceano qualche anno prima e magari seguiva la stessa rotta. L'astronauta che è tornato a casa, non quello che è esploso pochi minuti dopo la partenza. Qualche sconfitto ogni tanto riesce a restare nel cono di luce, ma solo perché la sua sconfitta è servita a rendere più avventurosa la successiva impresa del vincitore. È sempre stato così quasi ovunque, ma non nel calendario dei santi. Qui vincere o perdere sembra un dettaglio, un sacco di gente muore inutilmente, ma per i cattolici nessun sacrificio è inutile, neanche il più assurdo: prendi Giovanni Mazzucconi da Lecco. A vent'anni decide di fare il missionario, qualcuno ai piani alti decide di inviarlo in Oceania, un luogo nel 1850 tanto remoto quanto oggi la Luna. Giovanni ci arriva nel 1852, dopo un lungo viaggio in nave e un soggiorno di qualche mese in Australia per studiare gli usi e i costumi degli indigeni. L'obiettivo della missione però è l'isola di Woodlark, al largo della Nuova Guinea, che dall'Australia non dista neanche troppo, ma è già un altro continente, con lingue e culture completamente diverse: per qualche imperscrutabile motivo il Pontificio Istituto Missioni Estere aveva stabilito che l'evangelizzazione dell'Oceania sarebbe potuta partire da un'isola di duemila abitanti. Magari era una politica dei piccoli passi, chi lo sa, in ogni caso è abbastanza chiaro che Mazzucconi e gli altri furono mandati allo sbaraglio, senza nemmeno un tetto sotto il quale accamparsi, alla mercé di indigeni se non ostili certamente diffidenti coi quali comunicare risulta quasi impossibile. Mazzucconi si ammala quasi subito di malaria, il che avrebbe paradossalmente potuto salvargli la vita perché dopo due anni è ridotto così male che deve tornare in Australia, e quando gli indigeni cominciano a manifestare un'oggettiva ostilità, è ancora convalescente a Sidney. Ma è la metà dell'Ottocento, comunicare non è così facile, e uno non accetterebbe di fare il missionario in Oceania se non fosse particolarmente testardo, insomma nell'estate del 1855 Mazzucconi si considera guarito e riparte per Woodlark, proprio mentre i confratelli su un'altra nave stanno scappando. L'oceano è grande, le due navi non si incrociano, il 7 settembre quella di Mazzucconi si ritrova circondata da canoe che sembrano formare un comitato di ricevimento. Un indigeno salta a bordo, si chiama Avicoar: sembra un capo, può darsi che Mazzucconi lo conoscesse: gli si fa avanti per salutarlo, Avicoar gli sfonda la testa con la scure. Una morte assurda in una terra lontana e incomprensibile, un sacrificio senza senso, senonché per i cattolici il senso è proprio il sacrificio. Giovanni Mazzucconi è stato beatificato da Giovanni Paolo II nel 1984. 

martedì 2 settembre 2025

I settembrizzati

2 settembre: 191 martiri dei massacri del settembre 1792

Nel primo pomeriggio del due settembre 1792, una folla si raduna sul piazzale di un piccolo carcere del Quartiere Latino. Alcune carrozze stanno trasportando dei prigionieri; sono per lo più sacerdoti che non hanno voluto sottoscrivere le costituzioni civili del clero, imposte dal governo rivoluzionario. La folla inveisce, forse un sacerdote urta un coscritto della Guardia Nazionale, un altro si inginocchia chiedendo pietà, ma non ne trova. Chi ha una baionetta comincia a usarla sui prigionieri. Nel parapiglia riesce a farsi strada un capitano della Guardia, Stanislas-Marie Maillard. Ormai in città è una faccia conosciuta: era alla Bastiglia il 14 luglio '89, ha guidato la marcia delle donne a Versailles, è ancora una testa relativamente calda ma ora sta cercando di mettere ordine in un macello. Viene istituito in breve tempo un tribunale rivoluzionario: Maillard si siede a un tavolino, si fa condurre un sacerdote alla volta, e gli dà l'ultima chance di giurare fedeltà alla Rivoluzione. Ventidue su ventiquattro rifiutano; vengono lanciati verso l'ingresso della prigione e martoriati dalle baionette. Esaurita la pratica, la folla si sposta in un altro luogo di detenzione, un ex convento di carmelitani scalzi. Qui la situazione è più difficile da gestire: nel giro di qualche ora vengono uccisi altri 150 sacerdoti. La mattanza si prolunga fino alle prime ore del mattino; altri massacri avverranno a Parigi e in tutta la Francia, fino al 4 settembre. Cosa stava succedendo.

In breve, la Rivoluzione era sotto assedio. Nello stesso 2 settembre l'esercito del Re veniva sconfitto dagli austriaci e dai prussiani a Verdun. Dalla Vandea arrivavano le prime notizie di una sollevazione antirivoluzionaria. Nelle strade di Parigi si leggeva un proclama del principe di Brunswick, che minacciava di sterminare i parigini se alle Altezze Reali fosse stato torto un capello. Il re e la regina erano infatti agli arresti dal 10 d'agosto, accusati di avere tramato per trascinare la Francia in guerra; in Assemblea i girondini – che quella guerra l'avevano votata – proponevano già di smobilitare Parigi e ritirare le forze rivoluzionarie a sud della Loira. I montagnardi non intendevano cedere la capitale, ma temevano che una grande mobilitazione rivoluzionaria l'avrebbe lasciata sguarnita e in preda ai controrivoluzionari. Dai loro giornali, Marat e altri soffiavano sul fuoco, fomentando un'isteria nei confronti dei nemici della rivoluzione. L'idea che i preti "refrattari" (quelli che avevano rifiutato le costituzioni civili) fossero la quinta colonna degli austriaci trovava apparente conferma nelle notizie dalla Vandea, dove la nascente rivolta antirivoluzionaria aveva subito assunto un'identità cattolica. Detto questo, nessuna autorità suggerì alla folla di sterminare i preti; i funzionari coinvolti nella vicenda, come Maillard, non stavano ricevendo ordini da nessuno e più che incitare i cittadini alla violenza sembrano spinti dalla necessità di regolarla, di dare alla situazione una parvenza di legalità. Anche accusare 'la folla' di un linciaggio sembra impreciso: dalle testimonianze sappiamo che la maggior parte della folla era lì per guardare, e in molti casi chiedeva pietà per le vittime. Sulla scena non era presente nessun leader rivoluzionario; qualche membro delle istituzioni (l'Assemblea Legislativa e la Comune Insurrezionale) tentò di dissuadere i massacratori, ma non fu ascoltato. Negli anni successivi, mentre "settembrizzare" diventava un sinonimo di "massacrare", le responsabilità degli eccidi venne più di una volta attribuita alla fazione politica che a turno cadeva in disgrazia; i giacobini la consideravano una conseguenza della retorica allarmista dei girondini, ma una volta al potere non avevano nessun interesse a perseguire i colpevoli, e dopo la caduta di Robespierre vennero considerati i mandanti morali. Un'inchiesta, negli anni del Direttorio, porterà alla sbarra appena una trentina di esecutori materiali, per lo più piccolo-borghesi, artigiani e membri della Guardia Nazionale; nessun sottoproletario, età media 36 anni. Maillard era già morto per tubercolosi in carcere durante il Terrore giacobino (di cui era stato, coi fatti di settembre, uno dei precursori): non era stato condannato per il massacro, ma per estremismo. 

I sacerdoti massacrati nei primi giorni di settembre sono stati beatificati da Pio XI nel 1926. A tutt'oggi non è chiaro chi è che abbia deciso di cominciare a ucciderli. Non è stata la folla, non è stato il potere, nessuna fazione aveva interesse a dare il via alla mattanza. Tutto sembra iniziare per caso, ma appena il primo sangue comincia a sgorgare, la strage appare una conseguenza inevitabile. È come se a volte gli uomini uccidessero per dimostrare che non è così grave – all'inizio era grave, ma se continuiamo, diventa una routine, diventa un fatto storico inevitabile, senza più veri colpevoli, al massimo esecutori. 

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