(In questi giorni Blogger sta facendo casini. In particolare, si è messo a cancellare o nascondere commenti con delle logiche tutte sue. Se vi capita di non trovare più un vostro commento, prima di gridare alla congiura dei poteri forti forse è meglio che mi scriviate, l'indirizzo è qui di fianco).
L'educazione religiosa, 1
Ognuno ha gli hobby che si merita, e se guarda indietro agli ultimi anni, Saul si rende conto che ha passato una parte cospicua del suo tempo libero ad accapigliarsi con sconosciuti su argomenti religiosi. Tutto questo – badate bene – senza provare un briciolo di ansia religiosa dentro di sé. Cioè, al di là di tutti i discorsoni sul crocefisso, o l'ora di religione, o la santità dell'embrione, ma Saul in Dio ci crede o no? Non sa, non risponde, la domanda lo annoia. È una domanda da personaggio di Dostoevskij, Saul vive nel 2010 e ha meglio da fare: del resto, davvero, il mondo si surriscalda e sovrappopola che Dio esista o no. Ma questo non è in fondo eludere il problema? Persino Stephen Hawking ha un'opinione in merito, perché non dovrebbe averla un tipo come Saul? Tanto più che il suo passatempo è scrivere opinioni, e qualcuno gliele legge, addirittura gliele premiano.
C'è una foto in giro da quest'estate, un collages di puntini che potresti scambiare per un quadro informale o la neve della tv con l'antenna staccata – salvo che ognuno di quei puntini è una galassia. Ogni galassia è un miliardo di possibili mondi, eccetera. A questo punto il problema non è neanche più se esistano forme di vita extraterrestri – è lecito supporre che esistano forme di cose che non immaginiamo e non definiremmo nemmeno vita (altrove si chiederanno se esistano forme di t$%£) Saul vive in un periodo storico in cui ogni tanto ti mettono davanti delle foto così, e poi come fai a continuare a credere al tuo Dio? Ma la domanda è viziata: qualcun altro con la stessa foto in mano potrebbe chiederti: come fai di fronte a tanta complessità, tanta immensità, a non credere proprio al tuo Dio? Saul ha perso molto tempo a cercare di spiegare che il sentimento religioso è qualcosa che non ha nulla a che fare con la scienza. Ma allora con che cosa? Forse la paura. Saul non sa se Dio ci sia o no, ma sa che l'idea di un Dio non gli fa nessuna paura. Non se lo immagina come un Occhio Spietato che lo osserva da lontano: altri sì, e ne sono terrorizzati e infuriati, sia che ci credano, sia che non ci credano: e in questo secondo caso, il loro non-crederci, la loro non-fede, è abbastanza scomoda e spigolosa da somigliare alla fede in un dio qualunque. Si tratta insomma di una variante esistenziale: alcuni (credenti e non credenti) hanno un'angoscia, altri (non credenti e credenti) non ce l'hanno. Saul è tra questi ultimi, ma ricorda distintamente degli anni vissuti tra i primi: questo è il suo unico vantaggio.
Negli anni ha formulato varie ipotesi, (che è un po' quello che fa nella vita: l'ape il miele, l'anguilla il muco, Saul le ipotesi). Alla fine si è affezionato alla più banale, e cioè: potrebbe essere una questione di genitori. Saul ha avuto genitori buoni e modesti, molto difficili da descrivere e raccontare, perché in tv e sui libri ci mostrano sempre solo genitori violenti e pazzi: la famiglia va in scena solo quando è in decomposizione, altrimenti non è un soggetto interessante. È così da cento anni, ed è destinato a continuare per parecchio: ci sono secoli di sacre famiglie da dissacrare. Nel frattempo però quelli che sono cresciuti nelle famiglie *normali* si sentono un po' disadattati: è il paradosso della, boh, postmodernità. Per tutti gli anni della sua infanzia Saul non ha veramente avuto motivo di dubitare dell'esistenza di Dio, ed esattamente di quel Dio che stava appeso alla parete, semplicemente perché chi gliene parlava era una persona buona e modesta, che non raccontava bugie, che metteva per primo in pratica, senza fatica apparente, ogni comandamento di cui chiedeva il rispetto. Gli ordini che gli venivano impartiti gli apparivano, sin dal sorgere della coscienza, assolutamente necessari: non attraversare la strada. È un tabù, certo, ma è anche la Strada Nazionale 12 dell'Abetone e del Brennero, ci passano i camion ai cento all'ora, non si fa molta fatica a credere in un Dio-Padre che ti dà un comandamento del genere. Non quel genere di Dio-Padre che ti vieta il prosciutto o i gamberi, per intenderci. Ancora oggi Saul ha per il Dio che forse esiste la stessa naturale deferenza che prova senza difficoltà per qualsiasi autorità: il Preside, il Vigile, il Capo dello Stato. Con un po' di sforzo, naturalmente, Saul può nutrire sentimenti avversi: detestare qualche poliziotto violento, dileggiare i ministri. Ma gli costa un po' fatica, e le sue velleità rivoluzionarie non arrivano mai alle estreme conseguenze di invocare l'abolizione dei ministeri, o delle polizie. Saul detesta i ministri che non sanno fare i ministri e i poliziotti che picchiano le persone invece di difenderle: non l'autorità, ma chi la incarna in modo indegno. Un borghese, gratta gratta? Saul si risponde di no, non è esattamente questione di borghesia: ci sono borghesi ansiosi, cresciuti in famiglie difficili, che per l'autorità non hanno alcun rispetto. No, davvero, è una questione di famiglia. Saul ha avuto genitori buoni, modesti e cattolici. Li avesse avuti buoni modesti e non credenti, sarebbe oggi più o meno la stessa persona, e scriverebbe le stesse cose.
Allo stesso tempo, Saul sa di avere trascorso anni difficili, in cui forse ha bordeggiato varie psico-patologie senza che nessuno se ne accorgesse. Per fortuna nemmeno lui (continua, forse diventa più interessante).
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
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giovedì 30 settembre 2010
lunedì 27 settembre 2010
Big in Riva del Garda
Il pupo è già al lavoro (e voi siete un pubblico meraviglioso, e vi amo).
Potere riamarmi sui commenti dell'Unità.
Non potrei fare come Fini, dieci minuti di monologo e poi addio?
"No, devi rispondere alle domande".
Uff.
"Ciao, per prima cosa spiegaci cosa ci facevano ieri i blogger a Riva del Garda, mentre Grillo era da tutt’altra parte".
Ah, già, Grillo, è vero che ha un blog anche lui.
Ci fai o ci sei? Quello di Grillo è ancora il più importante blog italiano, o sbaglio?
Probabilmente non sbagli. Vedi, ho questa teoria: Grillo è sempre stato troppo importante per essere soltanto un ‘blog italiano’. Gli altri sono troppo piccoli e lui è troppo grande, non c’è possibilità di comunicazione. Lui gioca in un altro campionato, che è poi quello delle testate giornalistiche. Magari per centinaia di migliaia di italiani quello è "il blog": l’unico che hanno mai visitato. Ma si tratta comunque di un prodotto professionale. Grillo ha usato lo strumento blog in modo tradizionale, per arrivare a un pubblico che non poteva più raggiungere con la televisione. Ma io quando penso ai ‘blog italiani’ penso ancora ai siti personali fai-da-te.
I diari in rete? Ancora?
Ecco, magari lasciamo perdere la parola "diario". Direi che la discriminante sta nell’interazione coi lettori: io per capire se un sito è un blog mi pongo la domanda: l’autore litiga coi suoi lettori? Se la distanza tra autore e lettore è tanto breve da consentire lo scazzo, quello è un blog. Grillo non può litigare con uno dei suoi commentatori, non so neanche se intervenga mai nelle discussioni che provoca. È naturale, del resto: gli scrivono in duemila, lui ha altro da fare che rispondere a tutti quanti.
Quindi il blogger ‘vero’ è una persona che non ha niente di meglio da fare…
No, quasi sempre è un hobbysta che avrebbe tantissime cose da fare, ma nel tempo libero si diletta a interagire con, diciamo in media una cinquantina di lettori affezionati. Un’altra discriminante è l’aspetto comunitario: i blog tendono a formare gruppetti e autopromuoversi. Grillo non ne ha mai avuto bisogno, è un enorme astro solitario nel cielo della cosiddetta blogosfera italiana. E’ importantissimo, non dico di no, ma tutto il resto della vita è altrove.
Raccontaci qualcosa di più della costellazione che ogni anno si autopromuove a Riva del Garda.
Potremmo definirli (ma è riduttivo) la vecchia guardia. Molti di loro gestivano siti personali quando ancora Grillo a teatro spaccava i computer. Si linkano tra loro compulsivamente da un decennio, ormai. Alcuni si sono sposati e cominciano a portare i figli a Riva (quest’anno infatti c’era l’angolo kindergarden).
Quindi anche nella blogosfera italiana comandano i vecchi.
Ma no, non comanda nessuno, è un gruppo di persone che si scrive e si legge tutto l’anno e ogni tanto ha voglia di ritrovarsi, e quindi viene alla Blogfest. Se nel tempo libero cacciassimo farfalle col retino faremmo, boh, un farfalloraduno. Immagino che da qualche parte ci sia. Magari c’è anche qualcuno che non ci va e si lamenta della cricca di cacciatori di farfalle dove contano i soliti cacciatori di farfalle. Esistono più cose in cielo in terra, Orazio, che…
Sì, però vi votate e vi premiate da soli. Non è un po’ imbarazzante?
In parte sì, ma devi capire che è tutto cominciato per scherzo. All’inizio era solo una lista fatta da Gianluca Neri di Macchianera: ‘vi dico chi premierei se ci fosse una specie di notte degli oscar dei blog italiani’, un invito neanche tanto implicito a far cagnara nei commenti: e perché lui sì e io no, è il solito magnamagna, eccetera. Fu così divertente che l’anno dopo fece votare tutti i suoi lettori. Ma era ancora un gioco tra amici, i premi erano solo virtuali. Hanno cominciato a consegnarli sul serio solo tre anni fa. In realtà è una semplice scusa per passare un fine settimana in un bel posto, conoscere di persona gente che magari leggi tutti i giorni, e berci insieme un bicchiere… e poi ci sono i camp, i miniconvegni, che sono molto interessanti… quest’anno per esempio l’argomento era l’editoria digitale e…
Ronf.
Va bene, parliamo dei premi. Però vedi come funziona? Per andare sui giornali bisogna consegnare i premi. Anche se sono dei pezzi di plastica, fanno notizia lo stesso
È vero che vanno ai soliti noti? Che alla fine il vecchio blog bolso ha dieci probabilità di aggiudicarsi una statuetta in più del giovane blog di qualità?
Senz’altro i più anziani partono avvantaggiati nell’accaparramento di pezzetti di plastica. C’è stato un periodo in cui la comunità era ristretta ed era relativamente più facile farsi notare: chi c’è passato oggi può vivere, in una certa misura, di rendita. Ma il pubblico della blogfest è meno tradizionalista di quanto sembri. In realtà se vai a vedere il palmares di quest’anno di blog veramente vecchi (antecedenti al 2004) ce n’è solo uno, che, ehm, è il mio.
Addirittura hanno dato il premio "Rivelazione" a Metilparaben.
Grande Metilparaben!
Scusa, ma ti pare una "rivelazione"? Capriccioli ha i capelli bianchi! Allora diamo Sanremo Giovani a Bobby Solo.
Grande Bobby Solo! No, sul serio, il successo di Metilparaben dimostra che il pubblico della Blogfest è apertissimo alle novità. I blog che hanno fatto incetta di premi nelle ultime edizioni, come Piovono Rane o Spinoza, tre anni fa erano ancora sconosciuti ai più. Addirittura alcuni blog non esistevano ancora: prendi I400calci, favoloso blog che parla di cinema scemo in modo estremamente intelligente, e quest’anno ha stracciato i senatori. A Riva viene gente che legge e scrive blog da tanti da anni: magari fa un po’ fatica a trovare le novità, ma poi le abbraccia con tutto il cuore.
Va bene, tutti bravi e tutti buoni e tu sei il loro nonnetto. Ma non ti vergogni un po’ a farti votare tutti gli anni?
Beh, se vincessi tutti gli anni sarebbe davvero uno spettacolo triste. Meglio un anno sì e un anno no, c’è più suspense.
La Juve di Trapattoni.
Io tifavo Torino per dispetto, ma in sostanza sì. No, comunque credo che in molti continuino a votarmi perché mi trovano rassicurante.
La Democrazia Cristiana.
Dieci anni fa ero uno sfigato che apriva un sito personale, oggi chi sono?
Uno sfigato che litiga con sconosciuti su un sito personale.
Le risposte le devo dare io, tu sei l’intervistatore.
Scusa, non so cosa sia successo, mi è venuta spontanea. Comunque non sei così tanto sfigato, dai. Scrivi anche su un giornale importante.
Guarda, non farmici pensare. Devo ancora mandare il pezzo per lunedì.
Scrivi qualcosa sulla blogfest, no?
Sì, pensavo di intervistare uno dei vincitori, ma poi ci siamo messi a ballare, è venuto tardi, adesso è ora di tornare a casa e non ho niente.
Intervista te stesso, fai prima.
Mi vergogno.
Non ti devi vergognare.
Perché?
Perché sei un blogger. I blogger non conoscono la vergogna. Non sanno proprio cos’è, com’è fatta.
Forse hai ragione. Grazie
Figurati, quando vuoi.
(Grazie a tutti quelli che sono venuti o sarebbero voluti venire a Riva. Siete un pubblico fantastico).http://leonardo.blogspot.com
giovedì 23 settembre 2010
Gli aborti non sporcano
Venite a Riva? Io ci sarò tra sabato e domenica. Sono quello basso con la barba vicino a Enzo. Vi siete ricordati di votare (per me)?
Neologismi da salvare (4): Benaltrismo
Neologismo fino a un certo punto – gli Annali del Lessico Contemporaneo lo attestano nel 1995 (se qualcuno conosce il coniatore, l'autore insomma, per favore, segnalatemelo). Uno di quei figli appena nati di amici che ti volti un attimo e vanno già al liceo. “Benaltrismo” ha anche una buona pagina di wiki, sui vocabolari più recenti di sicuro c'è, ed è una delle migliori prove della vitalità della lingua italiana. Perché a fraintendere gli anglismi (“quoto”) son buoni tutti, e a ripiegare sulle trivialità dialettali (“bimbominchia”) pure. Ma benaltrismo è un'invenzione tutta italiana, oltre che un contributo del lessico giornalistico italiano al mondo: posso sbagliarmi, ma direi che a quindici anni suonati resta ancora un termine intraducibile. Non so se vi rendete conto, ma per esprimere lo stesso concetto gli anglofoni sono costretti a laboriosi giri di parole, ah ah ah! Il petto mi si gonfia come quando un personaggio di Underworld dice a un altro: Ehi, lo sai che gli italiani hanno una parola per questa roba? (in quel caso era dietrologia). Sì, non produciamo più divine Commedie e nemmeno Gattopardi, ma riusciamo ancora a inventare qualche buona parola ogni tanto.
Benaltrismo è, tra le altre cose, di facile comprensione. È un benaltrista colui che, di fronte a un determinato problema, afferma che non vale la pena risolverlo e nemmeno parlarne, perché... i problemi sono “ben altri”. Ciò che rende stuzzicante la cosa è che in fondo siamo stati tutti benaltristi qualche volta: e magari quella volta avevamo pure ragione. In quella matassa di complicazioni che è la vita, saper riconoscere quali nodi vanno districati per primi è una dote tutt'altro che secondaria. Tutto questo mentre la sfera dell'informazione prende a girare sempre più vorticosamente intorno a un calendario di emergenze che non si sa bene chi stia dettando: c'è il periodo delle violenze sulle donne e diventiamo tutti esperti di violenza sulle donne, poi comincia la settimana degli zingari ed eccoci tutti zingarologi, e sembra proprio che non si possa procedere finché non avremo trovato una soluzione per il problema degli zingari. Poi cominciano le sfilate. A volte il benaltrista è semplicemente qualcuno che insiste a difendere le proprie priorità, la propria visione del mondo, quei due o tre problemi che considera davvero emergenze.
Ma a volte, naturalmente, è solo un trombone che del mondo si è abbondantemente stancato; ma siccome lo pagano ancora ha individuato 2-3 argomenti inossidabili (es. “Berlusconi ladro”) sui quali ripiegare quando, sempre più spesso, si ritrova senza nulla da dire (“sì vabbè che Fini ha i suoi scheletri nei suoi armadi, però Berlusconi ladro”). Non potrei trovare un esempio migliore di questo atteggiamento dell'ultimo detto memorabile di Giuliano Ferrara, che nella settimana in cui eravamo appunto tutti zingarologi, ha voluto ribadire che i problemi sono ben altri, e che lui resta un convinto abortologo, scrivendo:
Si può abortire un bambino al mattino e piangere sul destino degli zingari la sera?
Questo esempio funziona anche perché illustra molto bene, a mio parere, come mai l'argomento “aborto” sia diventato così gettonato negli ultimi, diciamo, cinquant'anni: prima non è che se lo filassero in molti. Abortire era un triste affare di soldi e ferri da calza, e i Papi avevano di meglio da pensare: se leggete vecchie encicliche ci trovate transustanziazioni, immacolate concezioni, misteri trinitari, ma che fine facessero gli embrioni non era chiaro. Per qualche periodo si parlò di limbo, ma era più un'indiscrezione che un dogma di fede. Tutta questa enfasi sul diritto alla vita è, se la misuriamo coi ritmi di una comunità millenaria, una relativa novità. A un certo punto preti e similpreti si sono accorti che c'era un genocidio, milioni e miliardi di bambini uccisi negli uteri, e vi si sono tuffati con tutto il loro zelo. Che cos'ha di così affascinante la causa degli aborti? Ci sono secondo me tre aspetti che rendono l'aborto l'arma finale del benaltrismo:
1) L'atto di fede è relativamente leggero. Credere nella trinità è complicato e faticoso, credere nell'immacolata concezione e nella sua beata assunzione ti potrebbe anche esporre al ridicolo in società. Viceversa, credere che un embrione sia vivo nell'attimo del concepimento non è né complicato né ridicolo. Non è neanche necessario offendere la scienza: il confine tra “vita” e “non ancora vita” è un problema linguistico, quindi speculativo, quindi siamo liberi di discuterne, quindi non avremo difficoltà a trovare qualcuno che ci dia ragione. Uno come Giuliano Ferrara, alla sua età, non è che può mettersi immediatamente a credere nella transustanziazione come se fosse la cosa più plausibile del mondo: ma all'embrione sì, non è mai troppo tardi per ravvedersi e vedere la vita nell'embrione.
2) Una volta che hai abbracciato la non troppo scandalosa verità (l'embrione è vita!), sei in possesso dell'ordigno benaltrista di fine-di-mondo. Improvvisamente ti svegli e, dove la sera prima c'erano banalissimi consultori e ospedali, tu vedi un genocidio. Legalizzato! E tu non puoi più fare finta di niente. Di conseguenza, non hai più bisogno di preoccuparti di nient'altro. Cioè, stiamo scherzando? Riscaldamento globale? Crisi energetica? Zingari? Politici corrotti? Imprenditori concussi? Mafia e camorre? Ma sono le normali asperità della vita, il problema è che ci sono milioni di individui a cui la Vita stessa viene negata! Ogni giorno! Quando abbracci la causa degli aborti, non hai più bisogno di preoccuparti di nessun'altra causa al mondo. Tanto più che...
3) Gli aborti non sporcano. Questo è determinante. Non c'è causa che, una volta abbracciata, non lasci brutte tracce sulle mani e altrove. Molte, oggettivamente, puzzano. Prendi gli zingari. È difficile stare dalla loro parte. È difficile sposare le cause degli stranieri, dei poveri, dei malati, dei drogati, dei giovinastri. È tutta gente che poi ti tocca andare a trovare, gente che si sentirà tradita se dopo un po' li trascuri, gente che più di solidarietà chiede monetine, gente che ha usanze e odori che non riuscirai mai a condividere. Ma gli aborti, gli aborti sono fantastici. Non fai in tempo a credere in loro, che essi non esistono già più. La cosa che li rende meravigliosi è che proprio in quanto aborti, essi non ci sono. Non puzzano. Non hanno abitudini imbarazzanti. Non fanno chiassose feste in piazza a cui t'invitano mentre tu vorresti stare a casa a leggere Novalis. Uno zingaro potrà lamentarsi della tua solidarietà pelosa. Un nero prima o poi cercherà di sposarsi tua figlia. Ma gli aborti non disturberanno mai chi li difende. Nessun aborto si alzerà mai per dire che preferisce essere abortito piuttosto di evolversi in Joseph Ratzinger o Giuliano Ferrara.
Insomma, capite la bella invenzione? Un piccolo atto di fede e improvvisamente nel tuo mondo esistono milioni, miliardi di individui che tu puoi difendere gratis. Neanche due spicci per levarteli di torno al semaforo: gratis. Gli aborti, se non esistessero, bisognerebbe inventarli. E in fondo è andata proprio così: a un certo punto ce li siamo inventati.
Neologismo fino a un certo punto – gli Annali del Lessico Contemporaneo lo attestano nel 1995 (se qualcuno conosce il coniatore, l'autore insomma, per favore, segnalatemelo). Uno di quei figli appena nati di amici che ti volti un attimo e vanno già al liceo. “Benaltrismo” ha anche una buona pagina di wiki, sui vocabolari più recenti di sicuro c'è, ed è una delle migliori prove della vitalità della lingua italiana. Perché a fraintendere gli anglismi (“quoto”) son buoni tutti, e a ripiegare sulle trivialità dialettali (“bimbominchia”) pure. Ma benaltrismo è un'invenzione tutta italiana, oltre che un contributo del lessico giornalistico italiano al mondo: posso sbagliarmi, ma direi che a quindici anni suonati resta ancora un termine intraducibile. Non so se vi rendete conto, ma per esprimere lo stesso concetto gli anglofoni sono costretti a laboriosi giri di parole, ah ah ah! Il petto mi si gonfia come quando un personaggio di Underworld dice a un altro: Ehi, lo sai che gli italiani hanno una parola per questa roba? (in quel caso era dietrologia). Sì, non produciamo più divine Commedie e nemmeno Gattopardi, ma riusciamo ancora a inventare qualche buona parola ogni tanto.
Benaltrismo è, tra le altre cose, di facile comprensione. È un benaltrista colui che, di fronte a un determinato problema, afferma che non vale la pena risolverlo e nemmeno parlarne, perché... i problemi sono “ben altri”. Ciò che rende stuzzicante la cosa è che in fondo siamo stati tutti benaltristi qualche volta: e magari quella volta avevamo pure ragione. In quella matassa di complicazioni che è la vita, saper riconoscere quali nodi vanno districati per primi è una dote tutt'altro che secondaria. Tutto questo mentre la sfera dell'informazione prende a girare sempre più vorticosamente intorno a un calendario di emergenze che non si sa bene chi stia dettando: c'è il periodo delle violenze sulle donne e diventiamo tutti esperti di violenza sulle donne, poi comincia la settimana degli zingari ed eccoci tutti zingarologi, e sembra proprio che non si possa procedere finché non avremo trovato una soluzione per il problema degli zingari. Poi cominciano le sfilate. A volte il benaltrista è semplicemente qualcuno che insiste a difendere le proprie priorità, la propria visione del mondo, quei due o tre problemi che considera davvero emergenze.
Ma a volte, naturalmente, è solo un trombone che del mondo si è abbondantemente stancato; ma siccome lo pagano ancora ha individuato 2-3 argomenti inossidabili (es. “Berlusconi ladro”) sui quali ripiegare quando, sempre più spesso, si ritrova senza nulla da dire (“sì vabbè che Fini ha i suoi scheletri nei suoi armadi, però Berlusconi ladro”). Non potrei trovare un esempio migliore di questo atteggiamento dell'ultimo detto memorabile di Giuliano Ferrara, che nella settimana in cui eravamo appunto tutti zingarologi, ha voluto ribadire che i problemi sono ben altri, e che lui resta un convinto abortologo, scrivendo:
Si può abortire un bambino al mattino e piangere sul destino degli zingari la sera?
Questo esempio funziona anche perché illustra molto bene, a mio parere, come mai l'argomento “aborto” sia diventato così gettonato negli ultimi, diciamo, cinquant'anni: prima non è che se lo filassero in molti. Abortire era un triste affare di soldi e ferri da calza, e i Papi avevano di meglio da pensare: se leggete vecchie encicliche ci trovate transustanziazioni, immacolate concezioni, misteri trinitari, ma che fine facessero gli embrioni non era chiaro. Per qualche periodo si parlò di limbo, ma era più un'indiscrezione che un dogma di fede. Tutta questa enfasi sul diritto alla vita è, se la misuriamo coi ritmi di una comunità millenaria, una relativa novità. A un certo punto preti e similpreti si sono accorti che c'era un genocidio, milioni e miliardi di bambini uccisi negli uteri, e vi si sono tuffati con tutto il loro zelo. Che cos'ha di così affascinante la causa degli aborti? Ci sono secondo me tre aspetti che rendono l'aborto l'arma finale del benaltrismo:
1) L'atto di fede è relativamente leggero. Credere nella trinità è complicato e faticoso, credere nell'immacolata concezione e nella sua beata assunzione ti potrebbe anche esporre al ridicolo in società. Viceversa, credere che un embrione sia vivo nell'attimo del concepimento non è né complicato né ridicolo. Non è neanche necessario offendere la scienza: il confine tra “vita” e “non ancora vita” è un problema linguistico, quindi speculativo, quindi siamo liberi di discuterne, quindi non avremo difficoltà a trovare qualcuno che ci dia ragione. Uno come Giuliano Ferrara, alla sua età, non è che può mettersi immediatamente a credere nella transustanziazione come se fosse la cosa più plausibile del mondo: ma all'embrione sì, non è mai troppo tardi per ravvedersi e vedere la vita nell'embrione.
2) Una volta che hai abbracciato la non troppo scandalosa verità (l'embrione è vita!), sei in possesso dell'ordigno benaltrista di fine-di-mondo. Improvvisamente ti svegli e, dove la sera prima c'erano banalissimi consultori e ospedali, tu vedi un genocidio. Legalizzato! E tu non puoi più fare finta di niente. Di conseguenza, non hai più bisogno di preoccuparti di nient'altro. Cioè, stiamo scherzando? Riscaldamento globale? Crisi energetica? Zingari? Politici corrotti? Imprenditori concussi? Mafia e camorre? Ma sono le normali asperità della vita, il problema è che ci sono milioni di individui a cui la Vita stessa viene negata! Ogni giorno! Quando abbracci la causa degli aborti, non hai più bisogno di preoccuparti di nessun'altra causa al mondo. Tanto più che...
3) Gli aborti non sporcano. Questo è determinante. Non c'è causa che, una volta abbracciata, non lasci brutte tracce sulle mani e altrove. Molte, oggettivamente, puzzano. Prendi gli zingari. È difficile stare dalla loro parte. È difficile sposare le cause degli stranieri, dei poveri, dei malati, dei drogati, dei giovinastri. È tutta gente che poi ti tocca andare a trovare, gente che si sentirà tradita se dopo un po' li trascuri, gente che più di solidarietà chiede monetine, gente che ha usanze e odori che non riuscirai mai a condividere. Ma gli aborti, gli aborti sono fantastici. Non fai in tempo a credere in loro, che essi non esistono già più. La cosa che li rende meravigliosi è che proprio in quanto aborti, essi non ci sono. Non puzzano. Non hanno abitudini imbarazzanti. Non fanno chiassose feste in piazza a cui t'invitano mentre tu vorresti stare a casa a leggere Novalis. Uno zingaro potrà lamentarsi della tua solidarietà pelosa. Un nero prima o poi cercherà di sposarsi tua figlia. Ma gli aborti non disturberanno mai chi li difende. Nessun aborto si alzerà mai per dire che preferisce essere abortito piuttosto di evolversi in Joseph Ratzinger o Giuliano Ferrara.
Insomma, capite la bella invenzione? Un piccolo atto di fede e improvvisamente nel tuo mondo esistono milioni, miliardi di individui che tu puoi difendere gratis. Neanche due spicci per levarteli di torno al semaforo: gratis. Gli aborti, se non esistessero, bisognerebbe inventarli. E in fondo è andata proprio così: a un certo punto ce li siamo inventati.
martedì 21 settembre 2010
Supernova S.C.
[Proprio quando credevate di essere usciti dal tunnel delle recensioni di Somewhere, indovinate un po' chi arriva fuori tempo massimo:]
Francis Ford Coppola è stato uno degli ultimi titani del cinema americano. Muoveva i suoi set tra tifoni e tossicodipendenze. Spappolava budget, indebitava produttori, occasionalmente sbancava botteghini. Lui poi ai figli ha raccomandato di non fare così: di girare film piccoli, personali, come dire, europei. Sofia Coppola ha recepito il messaggio e ha affittato Versailles per girare un film in costume su Maria Antonietta. Però con le All Star ai piedi. E in fondo, se tutto quel film fosse stato un enorme “Marie Antoniette c'est moi”, sarebbe stato persino divertente. Ma il problema è che con la Coppola non si sa mai esattamente: in certi punti sembrava un film iperrealista; poi ogni tanto sotto le parrucche partiva l'Ipod, ma il tutto restava irrisolto, non lucido; insomma alla fine non si capiva, Maria Antonietta eri tu o no? Cosa volevi dirci? Che hai avuto un'adolescenza di lusso ma a tratti assai scomoda? Ok, quindi?
Ma è una domanda sciocca, contadina. Io temo che la Coppola non voglia dirci proprio niente, che non sia il motivo per cui gira dei film. Dobbiamo intenderci su cosa intendiamo per minimalismo, perché c'è viceversa del titanismo nel modo in cui certi autori si concentrano su sé stessi. Fino a un certo livello il narciso è una persona antipatica e supponente; però salendo sulla scala logaritmica si arriva a un livello di narcisismo tale che alla fine non puoi dirle niente, alla Coppola, per il semplice motivo che nel suo universo tu non esisti. Sei un grammo di inconsistenza a miliardi di anni luce dall'abbagliante supernova Sofia C., e se ti è capitato di vedere il suo film è stato per un accidente del destino; comunque non era rivolto a te. Non era rivolto a nessuno. Io comincio a pensare che Coppola i film se li giri per sé stessa, e chiedersi perché siano fatti in un certo modo equivalga a chiederti perché sulla smemoranda di tua nipote c'è una massima di Biagio Antonacci piuttosto di un verso di Tiziano Ferro. Saranno mica fatti miei? Se a lei piace Casablancas, e lascia che si ascolti Casablancas. Si esce da Somewhere con l'aria colpevole di chi è entrato nella cameretta di una preadolescente mentre lei non c'era. Credo. Non che io entri mai in camerette, eh, non credete alle voci.
Credo che capiti a tutti di voler rivivere un po' del nostro passato. Non di ricordarlo: riviverlo proprio: annusarlo, gustarlo, rivederlo. Mille sono gli espedienti. Zeno Cosini prova con la psicanalisi. Marcel assume pasticcini per via orale. Io con un caffè alla cannella se mi concentro ho visioni del Connecticut. E poi ci sono le canzoni, e le fotografie. Abbiamo tutti i nostri trucchi, ma Sofia Coppola ne ha uno tutto suo: gira i film. Certo, perché no? Suo padre per Apocalypse Now affittò mezze Filippine, ma voleva descrivere l'involuzione della società americana, e quindi, forse, chissà, ne valeva la pena. Sofia sembra che si accontenti di movimentare le maestranze italiane e rimontare un set del Telegatto, però non è che abbia niente da dire sulla società dello spettacolo o sulla volgarità dei paesi in via d'inviluppo, o anche solo su quanto sia noiosa la quotidianità nello showbiz; lo fa semplicemente perché vuole rivivere un ricordo. Come Marcel che puccia la madeleine nel tè, lei si gira una sequenza. Io lo trovo titanico, e un certo senso lo ammiro, ma come un contadino del Settecento che vede passare un cocchio dorato e non capisce più niente. Per mal che vada Somewhere sarà costato decine di milioni; alberghi, ferrari, elicotteri... ma alla fine ha funzionato, Mrs Coppola? Perché è da settimane che stiamo tutti chiedendoci se ci è piaciuto o no, ma alla fine la nostra opinione che valore ha? L'unica che possa dirci se questo film sia riuscito o no sei tu: ce l'hai fatta? Ti sei rivista undicenne magra amata ma trascurata, sballottata da una piscina all'altra? Se il film ha funzionato, complimenti. Io continuerò a spruzzar cannella nel caffè, mi sembra più comodo, ma capisco che al tuo livello è impossibile non pensare in grande. La cosa fantastica è che invece ti danno della minimalista, a te! Supernova Sofia!
Perdonami se ho sbadigliato al cinema – è una cosa che mi succedeva con le diapositive degli amici, figurati con quelle di gente che nemmeno conosco. Non è neanche una questione di ritmo, è una reazione molto più banale: nei tuoi film la gente non fa che addormentarsi e svegliarsi, ma più spesso addormentarsi. Capisco benissimo il motivo: è nei momenti liminari al sonno che tu cerchi di ripescare la sensazione del passato. È lo stesso motivo per cui insisti con le piscine (tuffarsi, riemergere), e vai matta per certi suoni sferraglianti e ipnotici che una volta si ascoltavano in cuffia sotto le lenzuola. È lo stesso motivo per cui il cantastorie del lounge ha la chitarra orrendamente scordata: uno strumento ben temperato suona come milioni di altri, ma se tiri le chiavette a casaccio il suono diventa unico, e si imprime nel ricordo mentre tu undicenne ti addormenti. Però gli spettatori dei film, insulse scimmie che secondo me non ha mai calcolato, hanno queste reazioni banali: vedono uno sbadiglio e sbadigliano. Vedono occhi chiudersi e cominciano a sbattere le ciglia. Sentono una chitarra scordata e stridono i denti. Ma cosa vogliono? Chi li ha invitati alla proiezione dei fatti tuoi? Che stiano in casa, guardino The Hills, mangino brioches.
[Un episodio di The Hills o The City girato da Sofia Coppola, per inciso, sarebbe la quadratura del quadrato].
Perdonami se ho cercato di capire un personaggio che non ha nessuna consistenza, così come non l'hanno spesso i nostri amori trasfigurati nel ricordo: questo è un divo del cinema che sembra in vacanza da una vita. Non legge i copioni, non studia, non fa palestra, niente. Ma nemmeno si butta veramente via: nien-te, non fa niente. Vive in uno strano limbo, come un drogato senza droga: uno che con due birrette si addormenta durante l'atto sessuale. Qualche ex incattivita lo tormenta via sms ma lui probabilmente nemmeno ricorda chi sia. Un tizio a una festa gli chiede come ha fatto a diventare un attore, e lui non ha niente da dire: non sa, non ricorda. Nel momento più lucido del film se ne accorge: “Non sono neanche una persona”. Esatto. Sei la sagoma di cartone di una stella di Hollywood, una di quelle che sistemano davanti al botteghino. Sei un fantasmino froidiano e porti scritto in fronte Non-Pensate-A-Me-Come-Francis-Ford-Coppola-Non-Ci-Assomiglio-Neanche. Purtroppo Freud aveva una stravagante ipotesi su certe frasi che cominciano per “Non”.
In fondo è semplice: basta accettare che tutto il film sia una proiezione della povera undicenne trascurata. Quindi è vero che papà si porta in camera le lapdancine, però poi si addormenta e non ci fa niente, perché in fondo non è un porco papà. Anche Laura Chiatti: lui mica voleva, è lei-stronza-che-ha-insistito, stronza! Maledetta stronza! Rovinarmi la colazione italiana col papà! Il fatto che siano sempre le donnacce a provarci, a tenere le porte aperte, a sventolar tette in terrazzo, mi sembra un indizio interessante. Oddio, interessante. Interesserà il tuo analista. Ma visto che mi trovo qui davanti alla tua smemo, non posso impedirmi di psicanaleggiare alla carlona, perdonami. Questo film vuole ripristinare la verità storica, dell'unica storia che nell'universo di Sofia abbia qualche rilevanza: papà ha scopato in giro, sì, ma solo perché lo costringevano; gliela strofinavano praticamente in faccia, ma lui non è che ci tenesse più di tanto, lui, lui in realtà voleva bene solo a me. Mi ha portato a Milano, non mi avete visto tutti? E un'altra volta mi è bastato fare i capricci, venti secondi di capricci, perché lui accelerasse e mi portasse a Las Vegas. Io e lui: c'eravamo solo io e lui. Tutte le altre puttane non contano, è chiaro il messaggio?
No.
C'è sempre questo problema della lucidità. Per esempio: come facciamo ad assumere il punto di vista dell'undicenne se molto spesso non è in scena? D'altro canto, pretendere lucidità da qualcuno che vuole rivivere (non illustrare: rivivere) il suo passato non è una contraddizione in termini? C'è il problema che a volte non sa cosa fare e gira a vuoto (non il protagonista: il film). Si può anche fare un film tutto di sketch che non fanno ridere e nemmeno pensare, scenette zen in cui succede qualcosa di intenso, a volte, forse (siamo in macchina, la macchina si rompe, accostiamo: fine dello sketch). Però a un certo punto anche le scenette cominciano a ripetersi. Mi dispiace da spettatore ogni volta che un regista usa contro di me l'arma più facile del mondo: blocca la inquadratura e zooma lentamente su un'immagine fissa finché non mi fa venire l'ansia; in pratica è un sequestro, il fatto di aver pagato il biglietto mi costringe a provare ansia per qualsiasi sciocchezza rimanga inquadrata per più di un minuto e mezzo? ma così son tutti buoni. Non è cinema, è sparare ai pesci nel barile, e con dei mezzucci così ti danno il Leone D'Oro? A questo punto è finita, la prossima volta terrà la camera fissa per due ore, tanto agli europei queste cose piacciono. Aveva davvero ragione Woody Allen, se acciechi un regista americano ottieni un autore europeo?
Mi dispiace, infine, per questi finali coppoliani che vogliono sempre alludere alla fine di qualcosa ma in realtà non si decidono mai. La Scarlett molla il marito o no? Maria Antonietta, la ghigliottinano? E la sagoma del protagonista di questo film, che fine fa? Dove va? Perché deve dare l'impressione di andare da qualche parte, quando non è un personaggio, ma una sagoma di cartone senza nessuna destinazione plausibile? È come se in postproduzione qualcuno si fosse ricordato che i film hanno una trama, e quindi un finale. Quando semplicemente non è vero. Somewhere non è un film che possa finire: ci saranno altri alberghi, altre colazioni, altre piscine, e chi non è una persona non lo diventerà mai. Non è una di quelle cose che ti basta fare trenta secondi di capricci e papà ti accontenta.
Francis Ford Coppola è stato uno degli ultimi titani del cinema americano. Muoveva i suoi set tra tifoni e tossicodipendenze. Spappolava budget, indebitava produttori, occasionalmente sbancava botteghini. Lui poi ai figli ha raccomandato di non fare così: di girare film piccoli, personali, come dire, europei. Sofia Coppola ha recepito il messaggio e ha affittato Versailles per girare un film in costume su Maria Antonietta. Però con le All Star ai piedi. E in fondo, se tutto quel film fosse stato un enorme “Marie Antoniette c'est moi”, sarebbe stato persino divertente. Ma il problema è che con la Coppola non si sa mai esattamente: in certi punti sembrava un film iperrealista; poi ogni tanto sotto le parrucche partiva l'Ipod, ma il tutto restava irrisolto, non lucido; insomma alla fine non si capiva, Maria Antonietta eri tu o no? Cosa volevi dirci? Che hai avuto un'adolescenza di lusso ma a tratti assai scomoda? Ok, quindi?
Ma è una domanda sciocca, contadina. Io temo che la Coppola non voglia dirci proprio niente, che non sia il motivo per cui gira dei film. Dobbiamo intenderci su cosa intendiamo per minimalismo, perché c'è viceversa del titanismo nel modo in cui certi autori si concentrano su sé stessi. Fino a un certo livello il narciso è una persona antipatica e supponente; però salendo sulla scala logaritmica si arriva a un livello di narcisismo tale che alla fine non puoi dirle niente, alla Coppola, per il semplice motivo che nel suo universo tu non esisti. Sei un grammo di inconsistenza a miliardi di anni luce dall'abbagliante supernova Sofia C., e se ti è capitato di vedere il suo film è stato per un accidente del destino; comunque non era rivolto a te. Non era rivolto a nessuno. Io comincio a pensare che Coppola i film se li giri per sé stessa, e chiedersi perché siano fatti in un certo modo equivalga a chiederti perché sulla smemoranda di tua nipote c'è una massima di Biagio Antonacci piuttosto di un verso di Tiziano Ferro. Saranno mica fatti miei? Se a lei piace Casablancas, e lascia che si ascolti Casablancas. Si esce da Somewhere con l'aria colpevole di chi è entrato nella cameretta di una preadolescente mentre lei non c'era. Credo. Non che io entri mai in camerette, eh, non credete alle voci.
Credo che capiti a tutti di voler rivivere un po' del nostro passato. Non di ricordarlo: riviverlo proprio: annusarlo, gustarlo, rivederlo. Mille sono gli espedienti. Zeno Cosini prova con la psicanalisi. Marcel assume pasticcini per via orale. Io con un caffè alla cannella se mi concentro ho visioni del Connecticut. E poi ci sono le canzoni, e le fotografie. Abbiamo tutti i nostri trucchi, ma Sofia Coppola ne ha uno tutto suo: gira i film. Certo, perché no? Suo padre per Apocalypse Now affittò mezze Filippine, ma voleva descrivere l'involuzione della società americana, e quindi, forse, chissà, ne valeva la pena. Sofia sembra che si accontenti di movimentare le maestranze italiane e rimontare un set del Telegatto, però non è che abbia niente da dire sulla società dello spettacolo o sulla volgarità dei paesi in via d'inviluppo, o anche solo su quanto sia noiosa la quotidianità nello showbiz; lo fa semplicemente perché vuole rivivere un ricordo. Come Marcel che puccia la madeleine nel tè, lei si gira una sequenza. Io lo trovo titanico, e un certo senso lo ammiro, ma come un contadino del Settecento che vede passare un cocchio dorato e non capisce più niente. Per mal che vada Somewhere sarà costato decine di milioni; alberghi, ferrari, elicotteri... ma alla fine ha funzionato, Mrs Coppola? Perché è da settimane che stiamo tutti chiedendoci se ci è piaciuto o no, ma alla fine la nostra opinione che valore ha? L'unica che possa dirci se questo film sia riuscito o no sei tu: ce l'hai fatta? Ti sei rivista undicenne magra amata ma trascurata, sballottata da una piscina all'altra? Se il film ha funzionato, complimenti. Io continuerò a spruzzar cannella nel caffè, mi sembra più comodo, ma capisco che al tuo livello è impossibile non pensare in grande. La cosa fantastica è che invece ti danno della minimalista, a te! Supernova Sofia!
Perdonami se ho sbadigliato al cinema – è una cosa che mi succedeva con le diapositive degli amici, figurati con quelle di gente che nemmeno conosco. Non è neanche una questione di ritmo, è una reazione molto più banale: nei tuoi film la gente non fa che addormentarsi e svegliarsi, ma più spesso addormentarsi. Capisco benissimo il motivo: è nei momenti liminari al sonno che tu cerchi di ripescare la sensazione del passato. È lo stesso motivo per cui insisti con le piscine (tuffarsi, riemergere), e vai matta per certi suoni sferraglianti e ipnotici che una volta si ascoltavano in cuffia sotto le lenzuola. È lo stesso motivo per cui il cantastorie del lounge ha la chitarra orrendamente scordata: uno strumento ben temperato suona come milioni di altri, ma se tiri le chiavette a casaccio il suono diventa unico, e si imprime nel ricordo mentre tu undicenne ti addormenti. Però gli spettatori dei film, insulse scimmie che secondo me non ha mai calcolato, hanno queste reazioni banali: vedono uno sbadiglio e sbadigliano. Vedono occhi chiudersi e cominciano a sbattere le ciglia. Sentono una chitarra scordata e stridono i denti. Ma cosa vogliono? Chi li ha invitati alla proiezione dei fatti tuoi? Che stiano in casa, guardino The Hills, mangino brioches.
[Un episodio di The Hills o The City girato da Sofia Coppola, per inciso, sarebbe la quadratura del quadrato].
Perdonami se ho cercato di capire un personaggio che non ha nessuna consistenza, così come non l'hanno spesso i nostri amori trasfigurati nel ricordo: questo è un divo del cinema che sembra in vacanza da una vita. Non legge i copioni, non studia, non fa palestra, niente. Ma nemmeno si butta veramente via: nien-te, non fa niente. Vive in uno strano limbo, come un drogato senza droga: uno che con due birrette si addormenta durante l'atto sessuale. Qualche ex incattivita lo tormenta via sms ma lui probabilmente nemmeno ricorda chi sia. Un tizio a una festa gli chiede come ha fatto a diventare un attore, e lui non ha niente da dire: non sa, non ricorda. Nel momento più lucido del film se ne accorge: “Non sono neanche una persona”. Esatto. Sei la sagoma di cartone di una stella di Hollywood, una di quelle che sistemano davanti al botteghino. Sei un fantasmino froidiano e porti scritto in fronte Non-Pensate-A-Me-Come-Francis-Ford-Coppola-Non-Ci-Assomiglio-Neanche. Purtroppo Freud aveva una stravagante ipotesi su certe frasi che cominciano per “Non”.
In fondo è semplice: basta accettare che tutto il film sia una proiezione della povera undicenne trascurata. Quindi è vero che papà si porta in camera le lapdancine, però poi si addormenta e non ci fa niente, perché in fondo non è un porco papà. Anche Laura Chiatti: lui mica voleva, è lei-stronza-che-ha-insistito, stronza! Maledetta stronza! Rovinarmi la colazione italiana col papà! Il fatto che siano sempre le donnacce a provarci, a tenere le porte aperte, a sventolar tette in terrazzo, mi sembra un indizio interessante. Oddio, interessante. Interesserà il tuo analista. Ma visto che mi trovo qui davanti alla tua smemo, non posso impedirmi di psicanaleggiare alla carlona, perdonami. Questo film vuole ripristinare la verità storica, dell'unica storia che nell'universo di Sofia abbia qualche rilevanza: papà ha scopato in giro, sì, ma solo perché lo costringevano; gliela strofinavano praticamente in faccia, ma lui non è che ci tenesse più di tanto, lui, lui in realtà voleva bene solo a me. Mi ha portato a Milano, non mi avete visto tutti? E un'altra volta mi è bastato fare i capricci, venti secondi di capricci, perché lui accelerasse e mi portasse a Las Vegas. Io e lui: c'eravamo solo io e lui. Tutte le altre puttane non contano, è chiaro il messaggio?
No.
C'è sempre questo problema della lucidità. Per esempio: come facciamo ad assumere il punto di vista dell'undicenne se molto spesso non è in scena? D'altro canto, pretendere lucidità da qualcuno che vuole rivivere (non illustrare: rivivere) il suo passato non è una contraddizione in termini? C'è il problema che a volte non sa cosa fare e gira a vuoto (non il protagonista: il film). Si può anche fare un film tutto di sketch che non fanno ridere e nemmeno pensare, scenette zen in cui succede qualcosa di intenso, a volte, forse (siamo in macchina, la macchina si rompe, accostiamo: fine dello sketch). Però a un certo punto anche le scenette cominciano a ripetersi. Mi dispiace da spettatore ogni volta che un regista usa contro di me l'arma più facile del mondo: blocca la inquadratura e zooma lentamente su un'immagine fissa finché non mi fa venire l'ansia; in pratica è un sequestro, il fatto di aver pagato il biglietto mi costringe a provare ansia per qualsiasi sciocchezza rimanga inquadrata per più di un minuto e mezzo? ma così son tutti buoni. Non è cinema, è sparare ai pesci nel barile, e con dei mezzucci così ti danno il Leone D'Oro? A questo punto è finita, la prossima volta terrà la camera fissa per due ore, tanto agli europei queste cose piacciono. Aveva davvero ragione Woody Allen, se acciechi un regista americano ottieni un autore europeo?
lunedì 20 settembre 2010
Più Bibbia a scuola!
Ma a questo punto, metti che la Gelmini dica qualcosa di ragionevole.
Lo so anch'io che è improbabile.
Ma metti che.
Come fai a darle ragione? Davanti a tutti?
Così. Ho una teoria #41 si legge sull'Unità, e si commenta qui (attenzione, con Chrome c'è qualche problema).
È facile prendersela con la Gelmini, e lei non ci fa mancare certo gli spunti. A volte però rischiamo di infervorarci inutilmente anche le rare volte che dice qualcosa di ragionevole. Persino l’orologio fermo, si sa, dice la verità almeno una o due volte al giorno. Il Ministro Gelmini potrebbe anche avere la competenza di un orologio scarico, ma se chiede che a scuola si studi la Bibbia non è che possiamo stracciarci le vesti e fingere che la richiesta sia insensata. Perché mai non si dovrebbe studiare la Bibbia a scuola? Sul serio, perché l’Odissea sì, l’Eneide sì, la Commedia dantesca sì… e la Bibbia no? È un testo meno importante? Si stenta un po’ a crederlo.
In questa battaglia per portare Antico e Nuovo Testamento nella scuola, Maria Stella Gelmini è in buona compagnia. In calce alla petizione dell’Associazione “Biblia” ci sono fra le altre le firme di Claudio Magris, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Amos Luzzatto, Margherita Hack. A occhio non ha l’aria di una lobby di integralisti cattolici. Forse dobbiamo intenderci su cosa significhi “studiare la Bibbia a scuola”.
Per i leghisti si tratta di portare negli istituti pubblici un altro simbolo identitario, accanto al crocefisso e al sole delle Alpi (quest’ultimo un po’ pagano, ma fa l’istess). In quanto simbolo, non credo che abbiano nessuna intenzione di aprirlo, col rischio di scoprire che racconta la saga di un popolo terrone e sfaticato che per non costruire le piramidi d’Egitto, fugge al di là del Mar Rosso e si dà al nomadismo. Una storia di zingari, figurati. Non è certo quello a cui pensa Zaia quando dice che ha già trovato "un imprenditore disponibile a stamparle in breve tempo". A proposito: quanto è costato tappezzare le scuole coi Soli delle alpi? Quanto costerà ficcare nell’armadietto di ogni scuola un altro librone che prenderà polvere insieme ai dizionari? Tanto paga il popolo somaro. La Bibbia in ogni scuola, per i leghisti, è un affare come un altro.
Per gli intellettuali, la Bibbia a scuola è una garanzia di laicità. Significa che il Libro dei Libri si può studiare, analizzare e smontare. Proprio quello che la Chiesa cattolica ha sempre preferito evitare: e del resto, se c’è qualcuno in Italia che ha ostacolato la diffusione della Bibbia è stata proprio la Chiesa, dalla Controriforma in poi. Per molto tempo le traduzioni si sono ritrovate addirittura all’indice dei libri proibiti. Ancora oggi a catechismo non si studia la Bibbia (si studia il Catechismo). Le gerarchie cattoliche sanno bene quanto sia potenzialmente pericoloso lo studio di quel libro. Solo chi lo ha sfogliato appena può riempirsi la bocca di parole come “cultura” o “identità”. Studiare la Bibbia è immergersi in un mondo e in una cultura radicalmente diversi dai nostri. È impossibile non diventare un po’ antropologi, un po’ filologi, un po’ studiosi della religione, mentre si sfoglia un libro che dispensa contraddizioni e ambiguità a ogni pagina. Dovremmo privarci di questa possibilità per scongiurare il rischio che qualche insegnante la usi per fare propaganda religiosa? Per lo stesso motivo dovremmo bandire dai programmi scolastici tutte le opere letterarie che possono essere usate allo stesso scopo. La divina Commedia, la Gerusalemme liberata, i Promessi sposi… tutte opere in fondo più cattoliche della stessa Bibbia. Dovremmo privarcene?
Nel frattempo, la Bibbia a scuola c’è già. Posso testimoniare che nei libri di testo di prima media (pardon, “secondaria di primo grado”) si trova sempre qualche pagina biblica, nella sezione “mito”. Di solito si tratta della Creazione e del Diluvio (spesso messi in confronto con miti analoghi di altre culture). A volte c’è anche la leggenda di Sansone, primo kamikaze integralista della Storia. Tre pagine sono poche? Sono tante? Anche l’epopea di Gilgamesh occupa più o meno lo stesso spazio. È una storia lontanissima dalla nostra cultura e identità, che nessuno ha più letto per millenni. La Bibbia ha avuto più fortuna, e forse meriterebbe più spazio sui nostri manuali. Ma a danno di chi?
Perché il vero problema è questo. Ogni volta che un Ministro spiega ai giornali che a scuola bisognerebbe studiare la Bibbia, o le foibe, o l’amore per gli animali, dà l’impressione di considerare i programmi scolastici come un involucro vuoto che si può riempire a piacere. Bisognerebbe una volta tanto avere il coraggio di spiegare cosa dobbiamo togliere dai programmi, per farci entrare la Bibbia (o le foibe, o gli animali). A meno che il Ministro non voglia allungarci l’orario scolastico… ma no, la tendenza è quella di aggiungere carne al fuoco e tagliare il combustibile. Vogliono più inglese, e ci tolgono i pomeriggi. Vogliono più internet, ma non ci danno un’ora in più. Vogliono che si studi la Bibbia, che è un testo letterario: e intanto tolgono lezioni agli insegnanti di italiano. Vogliono tutto, non danno nulla. Soltanto qualche gadget ogni tanto; quest’anno, un librone stampato da un imprenditore che conosce Zaia. Se lo apri verso la fine c’è scritto: “Gli scribi e i farisei siedono sulla cattedra di Mosè. Fate dunque e osservate tutte le cose che vi diranno, ma non fate secondo le loro opere; perché dicono e non fanno”.(Matteo 23,2). http://leonardo.blogspot.com
venerdì 17 settembre 2010
Se i bimbominkia sapessero
Neologismi da salvare (3): bimbominkia
If your parents knew how lame you really were, they would murder in your sleep. (Zappa, Freak out!)
Non c'è alcun bisogno di salvarlo, in effetti: bimbominkia (pl. bimbiminkia) si sta difendendo benissimo da solo. Nato nelle zone più frequentate dagli italiani nel web (msn?) il termine di recente è approdato in tv, e a questo punto ha davvero buone possibilità di sopravvivere nell'uso comune.
Bimbominchia, grosso modo, è un termine spregiativo che indica una persona giovane che occupa il suo posto nella rete (o nel mondo) in modo colpevolmente ingenuo. Spia rilevatrice del bimbominchia è lo sfoggio di k e di abbreviazioni difficili da interpretare. Un altro elemento che espone il bimbominchia al pubblico ludibrio è la sua devozione sconfinata e totalmente acritica nei confronti di tutto ciò che gli piace: la saga fantasy del momento, il cantante in età prepubere, eccetera. Un bimbominchia ad esempio non può limitarsi ad apprezzare Twilight: dovrà adorarlo, andare in crisi di astinenza, cercare succedanei; passare notti all'addiaccio per mettere le mani sul primo volume o sul primo biglietto del cinema di Twilight, trascorrere pomeriggi a difendere disperatamente il buon nome dell'autrice di Twilight in un forum dove la massacrano. Così bimbominchia viene a occupare un campo semantico prossimo a quello dell'inglese “fanboy”: è una parola insomma di cui c'era un effettivo bisogno. Tutto questo lo sapevate già.
Quello che magari non vi era ancora venuto in mente (anche io ci ho messo un po' a capirlo) è il modo in cui il neologismo 'bimbominkia' fotografa il collasso della piramide delle età in Italia. Eh? Daccapo.
Bimbominchia è un dispregiativo gergale, fin qui ci siamo. Nulla di eccezionale. Tutte le generazioni hanno coniato i loro dispregiativi gergali. Di solito nascevano in ambito giovanile e venivano adoperati per bollare gli adulti. Un esempio da manuale (anche per il suo sapore vintage: impossibile usarlo oggi senza autoironia) è “matusa”. I matusa (troncamento di Matusalemme, personaggio biblico dalla venerandissima età) in Lombardia occidentale, erano gli adulti che non capivano i giovani con i blue jeans. In un momento storico in cui i giovani erano all'avanguardia dei consumi, era naturale che fossero anche all'avanguardia nella sperimentazione linguistica.
Quarant'anni dopo, il termine “bimbominkia” si trova in una situazione speculare a quella di “matusa”. I bimbiminchia sono i giovani: a chiamarli così, a inventare il termine, sono stati i meno giovani (diciamo trenta-e-qualcosa). Il peccato originale del “matusa” era l'esser cresciuto, il non saper apprezzare twist e rocchenrol e la rilassatezza dei costumi. Il peccato originale del bimbominchia è l'esser bimbo: non riuscire a scrivere in modo corretto, non padroneggiare il t9 o le dinamiche dei forum, apprezzare libri da preadolescenti. Ma davvero possiamo fargliene una colpa?
Sì, possiamo, perché da vent'anni a questa parte la piramide delle età in Italia si è rovesciata, e oggi i giovani sono minoranza. E, quel che più conta, non sono più all'avanguardia nei consumi: non scoprono più trend, di solito riciclano quelli dei fratelli maggiori o addirittura dei padri. A voltar loro le spalle è addirittura la tv, che nelle fasce orarie una volta dedicate a loro continua a riprogrammare vecchi cartoni animati che i genitori sanno a memoria. Sono circondati da gente che ne sa più di loro e li sfotte. Noi non eravamo così.
La sfiga di essere preadolescente negli anni Dieci: nessuno vuole venderti nulla di più strutturato di un braccialetto in plastica. I CD ormai li comprano solo i vecchi sbabbioni – ai bimbominchia al massimo riesci a piazzare una suoneria, ed è tutto. Se vuoi appassionarti a Lady Gaga, puoi farlo, ma non è come Madonna Ciccone, che alienava completamente tua madre tredicenne dai gusti dei suoi genitori. Una tredicenne di oggi che si accosta a Lady Gaga si trova davanti a riferimenti culturali che sua madre capirà meglio di lei. In effetti stiamo rivendendo gli anni Ottanta in frullati omogeneizzati, sperando che i nostri figli non abbiano bisogno di nient'altro. Poi vengono su un po' fessi e li sfottiamo, ma è un modo per sentirci ancora padroni della situazione. In realtà i bimbominchia sono la generazione meno coccolata dalla fine del dopoguerra. Il modo in cui i media si sono fregati di loro sta tutto in queste due parole: Tokio Hotel. Una banda di preadolescenti tedeschi, praticamente un fondo di magazzino: per tre anni MTV Italia non ha avuto niente di meglio da offrire.
Se i bimbominkia sapessero come li abbiamo presi in giro, ci soffocherebbero nel sonno.
If your parents knew how lame you really were, they would murder in your sleep. (Zappa, Freak out!)
Non c'è alcun bisogno di salvarlo, in effetti: bimbominkia (pl. bimbiminkia) si sta difendendo benissimo da solo. Nato nelle zone più frequentate dagli italiani nel web (msn?) il termine di recente è approdato in tv, e a questo punto ha davvero buone possibilità di sopravvivere nell'uso comune.
Bimbominchia, grosso modo, è un termine spregiativo che indica una persona giovane che occupa il suo posto nella rete (o nel mondo) in modo colpevolmente ingenuo. Spia rilevatrice del bimbominchia è lo sfoggio di k e di abbreviazioni difficili da interpretare. Un altro elemento che espone il bimbominchia al pubblico ludibrio è la sua devozione sconfinata e totalmente acritica nei confronti di tutto ciò che gli piace: la saga fantasy del momento, il cantante in età prepubere, eccetera. Un bimbominchia ad esempio non può limitarsi ad apprezzare Twilight: dovrà adorarlo, andare in crisi di astinenza, cercare succedanei; passare notti all'addiaccio per mettere le mani sul primo volume o sul primo biglietto del cinema di Twilight, trascorrere pomeriggi a difendere disperatamente il buon nome dell'autrice di Twilight in un forum dove la massacrano. Così bimbominchia viene a occupare un campo semantico prossimo a quello dell'inglese “fanboy”: è una parola insomma di cui c'era un effettivo bisogno. Tutto questo lo sapevate già.
Quello che magari non vi era ancora venuto in mente (anche io ci ho messo un po' a capirlo) è il modo in cui il neologismo 'bimbominkia' fotografa il collasso della piramide delle età in Italia. Eh? Daccapo.
Bimbominchia è un dispregiativo gergale, fin qui ci siamo. Nulla di eccezionale. Tutte le generazioni hanno coniato i loro dispregiativi gergali. Di solito nascevano in ambito giovanile e venivano adoperati per bollare gli adulti. Un esempio da manuale (anche per il suo sapore vintage: impossibile usarlo oggi senza autoironia) è “matusa”. I matusa (troncamento di Matusalemme, personaggio biblico dalla venerandissima età) in Lombardia occidentale, erano gli adulti che non capivano i giovani con i blue jeans. In un momento storico in cui i giovani erano all'avanguardia dei consumi, era naturale che fossero anche all'avanguardia nella sperimentazione linguistica.
Quarant'anni dopo, il termine “bimbominkia” si trova in una situazione speculare a quella di “matusa”. I bimbiminchia sono i giovani: a chiamarli così, a inventare il termine, sono stati i meno giovani (diciamo trenta-e-qualcosa). Il peccato originale del “matusa” era l'esser cresciuto, il non saper apprezzare twist e rocchenrol e la rilassatezza dei costumi. Il peccato originale del bimbominchia è l'esser bimbo: non riuscire a scrivere in modo corretto, non padroneggiare il t9 o le dinamiche dei forum, apprezzare libri da preadolescenti. Ma davvero possiamo fargliene una colpa?
Sì, possiamo, perché da vent'anni a questa parte la piramide delle età in Italia si è rovesciata, e oggi i giovani sono minoranza. E, quel che più conta, non sono più all'avanguardia nei consumi: non scoprono più trend, di solito riciclano quelli dei fratelli maggiori o addirittura dei padri. A voltar loro le spalle è addirittura la tv, che nelle fasce orarie una volta dedicate a loro continua a riprogrammare vecchi cartoni animati che i genitori sanno a memoria. Sono circondati da gente che ne sa più di loro e li sfotte. Noi non eravamo così.
La sfiga di essere preadolescente negli anni Dieci: nessuno vuole venderti nulla di più strutturato di un braccialetto in plastica. I CD ormai li comprano solo i vecchi sbabbioni – ai bimbominchia al massimo riesci a piazzare una suoneria, ed è tutto. Se vuoi appassionarti a Lady Gaga, puoi farlo, ma non è come Madonna Ciccone, che alienava completamente tua madre tredicenne dai gusti dei suoi genitori. Una tredicenne di oggi che si accosta a Lady Gaga si trova davanti a riferimenti culturali che sua madre capirà meglio di lei. In effetti stiamo rivendendo gli anni Ottanta in frullati omogeneizzati, sperando che i nostri figli non abbiano bisogno di nient'altro. Poi vengono su un po' fessi e li sfottiamo, ma è un modo per sentirci ancora padroni della situazione. In realtà i bimbominchia sono la generazione meno coccolata dalla fine del dopoguerra. Il modo in cui i media si sono fregati di loro sta tutto in queste due parole: Tokio Hotel. Una banda di preadolescenti tedeschi, praticamente un fondo di magazzino: per tre anni MTV Italia non ha avuto niente di meglio da offrire.
Se i bimbominkia sapessero come li abbiamo presi in giro, ci soffocherebbero nel sonno.
mercoledì 15 settembre 2010
La Padania è un'espressione geografica
Neologismi da salvare (2): Padania
Suona incredibile, pure è così: sul mio slabbrato Zanichelli “Padania” non c'è, quindi dovrebbe trattarsi di un neologismo. La cosa è abbastanza strana. Io ricordo di averne sentito parlare addirittura a lezione di filologia. Se non mi sbaglio (prestai il manuale e gli appunti a una ragazza, me sciagurato, che non me li ritornò) con “padanìa” si indicava la regione linguistica delimitata a sud dalla linea Rimini-La Spezia. Addirittura negli anni Ottanta è attestato il termine tecnico “padanese”, traduzione di “padanian”. Nel frattempo Gianni Brera scriveva “padania” già da vent'anni. A quel tempo la Gazzetta dello Sport era un laboratorio linguistico: allo stesso Brera dobbiamo “centrocampista”, “contropiede”, “pretattica”, “melina”. Questi termini però ebbero fortuna perché i colleghi di Brera ne avevano effettivo bisogno. “Padania” rimase un brerismo, forse perché non era un termine tecnico.
Insomma, l'idea è che fino a metà Novanta “Padania” (anzi, Padanìa) fosse esclusivo appannaggio di filologi occhialuti e gaddiani della domenica sportiva. Ma ne siamo davvero così sicuri? Su internet la discussione divampa (come qualsiasi discussione). “Padania” è una parola tradizionale o una novità dell'altro ieri, un coccio celtico made in China? Se trovate scritto “padania” su un documento antecedente al 1995, potete segnalarlo ai curatori di questo sito, li farete felici:
In questa pagina saranno segnalati tutti i testi siano essi libri, riviste, quotidiani o qualsiasi altro genere di pubblicazione che riportino in qualche modo il nome Padania . Si vuol così dimostrare che il termine era già in uso e non costituisce quindi un frutto del recente periodo politico, ma al contrario la politica stessa ha ricavato il termine dal territorio che ne porta il nome, dal territorio dove il termine era in uso già da molto, molto tempo.
Mah. In uso o no, senz'altro fino a metà '90 “Padania” non era un termine del lessico politico. Addirittura i leghisti per più di dieci anni non sapevano di essere gli strenui difensori di una cosa che iniziava con la P. Nei primi tempi Bossi parlava di una “Repubblica del Nord” che faceva un po' guerra di secessione; nei momenti più lirici (ne ha, ne ha, per quanto di atteggi a scarpe-grosse-cervello-fino ha sempre avuto gli slanci del boccalone da bar) si azzardava a sognare un'“Eridania trapuntata di stelle”. Purtroppo l'Eridano è una delle costellazioni meno interessanti dell'emisfero boreale, e poi c'è il problema del marchio registrato dallo zuccherificio. E così era abbastanza inevitabile che un bel giorno nascesse la Padania. Con l'accento sulla seconda a, non si sa bene perché. Probabilmente per evitare anche solo la rima con Albania e Romania.
Come inventare una nazione con una parola, prendete nota. Semplice e geniale, un uovo di Colombo. Padani lo siamo sempre stati, ma finché abitavamo in Valpadana la cosa era abbastanza irrilevante. Ora invece popoliamo la Padania: vuoi mettere? La parola “Valpadana” evocava un ambiente fisico delimitato e circoscritto. Togli la connotazione fisica, aggiungi un suffisso semplice e maestoso (-ia) e hai qualcosa di più. Niente più prati verdi e montagne, ma una patria. Che non esiste, secondo Gianfranco Fini. E neanche secondo me. Però intanto la parola c'è, e le parole vanno maneggiate con cura.
Lo slogan “La Padania non esiste”, per esempio, mi sembra un caso da manuale di “Non pensate all'elefante”: ti costringe a ragionare su quel che nega. In fondo siamo tutti cresciuti in quel famoso ambiente sessantottardo dove purtroppo tutti questi sei politici non li ha visti nessuno, ma in compenso abbiamo imparato a mettere in discussione qualsiasi autorità, qualsiasi imposizione, e soprattutto qualsiasi negazione. Così la mia prima reazione istintiva alla frase “X non esiste” è: come fai a dirlo? Chi sei per dirlo? Se x non esiste, perché ha un nome? Chi glielo ha dato evidentemente pensava che esistesse. Perché devo fidarmi di te e non di lui? E perché tu ci tieni tanto a dire che non esiste? È una rimozione, e se abbiamo leggiucchiato Freud sappiamo cosa c'è dietro le rimozioni. Insomma, Gianfranco, non è per caso che vuoi negare la padanità che è in te? Come Hitler che forse, chissà, aveva zii di quarto grado ebrei? Eccetera eccetera.
La Padania è “un'invenzione”, dite. Un po' come qualsiasi altra cosa. l'Impero Romano, la Repubblica di San Marino, qualsiasi entità statale ha dovuto essere inventata a un certo punto. Anche la parola “Italia”, ricorderete, è stata confinata un bel po' di tempo nel limbo delle “espressioni geografiche”: e continuava a suonare stravagante anche negli anni più drammatici del Risorgimento. A credere nella sua consistenza di patria e nazione era una minoranza che non doveva attestarsi molto lontano dal 10% che hanno i leghisti oggi in Parlamento. Le nazioni sono comunque concetti astratti, e qualsiasi concetto astratto esiste una volta nominato. Insomma è un incantesimo, la Padania: essa esiste un po' di più ogni volta che la si nomina, e non ha nessuna importanza che la frase sia negativa. Ogni volta che dici “La Padania non esiste”, i suoi confini diventano più nitidi.
Quelli che dicono “X non esiste”, di solito sono i cattivi. In Turchia sono quelli che negano il Kurdistan. In Palestina, quelli che fingono di non vedere i palestinesi. In fondo se questa è tutta la cattiveria di cui oggi è capace Gianfranco Fini, se è tutto qui il suo residuale nazionalfascismo, verrebbe quasi voglia di abbuonarglielo: ma non si può, non conviene. Padania è una parola potenzialmente pericolosa, e l'ultima cosa da fare con le parole pericolose è proibirle. Occorre disinnescarle. Facciamo che esiste: che è un comodo sinonimo del più tradizionale Valpadana; che è la macroregione in cui abitano i padani, che saremmo sempre noi, dotati di un'identità linguistica più che storica, che comunque non cessiamo per questo di essere italiani come lo sono i meridionali, gli isolani, e... e quelli che stanno in mezzo. A proposito, forse occorrerebbe inventare un nome anche per loro. Già, ma non è mica facile. È in questi momenti che gente come Brera ti manca davvero.
Suona incredibile, pure è così: sul mio slabbrato Zanichelli “Padania” non c'è, quindi dovrebbe trattarsi di un neologismo. La cosa è abbastanza strana. Io ricordo di averne sentito parlare addirittura a lezione di filologia. Se non mi sbaglio (prestai il manuale e gli appunti a una ragazza, me sciagurato, che non me li ritornò) con “padanìa” si indicava la regione linguistica delimitata a sud dalla linea Rimini-La Spezia. Addirittura negli anni Ottanta è attestato il termine tecnico “padanese”, traduzione di “padanian”. Nel frattempo Gianni Brera scriveva “padania” già da vent'anni. A quel tempo la Gazzetta dello Sport era un laboratorio linguistico: allo stesso Brera dobbiamo “centrocampista”, “contropiede”, “pretattica”, “melina”. Questi termini però ebbero fortuna perché i colleghi di Brera ne avevano effettivo bisogno. “Padania” rimase un brerismo, forse perché non era un termine tecnico.
Insomma, l'idea è che fino a metà Novanta “Padania” (anzi, Padanìa) fosse esclusivo appannaggio di filologi occhialuti e gaddiani della domenica sportiva. Ma ne siamo davvero così sicuri? Su internet la discussione divampa (come qualsiasi discussione). “Padania” è una parola tradizionale o una novità dell'altro ieri, un coccio celtico made in China? Se trovate scritto “padania” su un documento antecedente al 1995, potete segnalarlo ai curatori di questo sito, li farete felici:
In questa pagina saranno segnalati tutti i testi siano essi libri, riviste, quotidiani o qualsiasi altro genere di pubblicazione che riportino in qualche modo il nome Padania . Si vuol così dimostrare che il termine era già in uso e non costituisce quindi un frutto del recente periodo politico, ma al contrario la politica stessa ha ricavato il termine dal territorio che ne porta il nome, dal territorio dove il termine era in uso già da molto, molto tempo.
Mah. In uso o no, senz'altro fino a metà '90 “Padania” non era un termine del lessico politico. Addirittura i leghisti per più di dieci anni non sapevano di essere gli strenui difensori di una cosa che iniziava con la P. Nei primi tempi Bossi parlava di una “Repubblica del Nord” che faceva un po' guerra di secessione; nei momenti più lirici (ne ha, ne ha, per quanto di atteggi a scarpe-grosse-cervello-fino ha sempre avuto gli slanci del boccalone da bar) si azzardava a sognare un'“Eridania trapuntata di stelle”. Purtroppo l'Eridano è una delle costellazioni meno interessanti dell'emisfero boreale, e poi c'è il problema del marchio registrato dallo zuccherificio. E così era abbastanza inevitabile che un bel giorno nascesse la Padania. Con l'accento sulla seconda a, non si sa bene perché. Probabilmente per evitare anche solo la rima con Albania e Romania.
Come inventare una nazione con una parola, prendete nota. Semplice e geniale, un uovo di Colombo. Padani lo siamo sempre stati, ma finché abitavamo in Valpadana la cosa era abbastanza irrilevante. Ora invece popoliamo la Padania: vuoi mettere? La parola “Valpadana” evocava un ambiente fisico delimitato e circoscritto. Togli la connotazione fisica, aggiungi un suffisso semplice e maestoso (-ia) e hai qualcosa di più. Niente più prati verdi e montagne, ma una patria. Che non esiste, secondo Gianfranco Fini. E neanche secondo me. Però intanto la parola c'è, e le parole vanno maneggiate con cura.
Lo slogan “La Padania non esiste”, per esempio, mi sembra un caso da manuale di “Non pensate all'elefante”: ti costringe a ragionare su quel che nega. In fondo siamo tutti cresciuti in quel famoso ambiente sessantottardo dove purtroppo tutti questi sei politici non li ha visti nessuno, ma in compenso abbiamo imparato a mettere in discussione qualsiasi autorità, qualsiasi imposizione, e soprattutto qualsiasi negazione. Così la mia prima reazione istintiva alla frase “X non esiste” è: come fai a dirlo? Chi sei per dirlo? Se x non esiste, perché ha un nome? Chi glielo ha dato evidentemente pensava che esistesse. Perché devo fidarmi di te e non di lui? E perché tu ci tieni tanto a dire che non esiste? È una rimozione, e se abbiamo leggiucchiato Freud sappiamo cosa c'è dietro le rimozioni. Insomma, Gianfranco, non è per caso che vuoi negare la padanità che è in te? Come Hitler che forse, chissà, aveva zii di quarto grado ebrei? Eccetera eccetera.
La Padania è “un'invenzione”, dite. Un po' come qualsiasi altra cosa. l'Impero Romano, la Repubblica di San Marino, qualsiasi entità statale ha dovuto essere inventata a un certo punto. Anche la parola “Italia”, ricorderete, è stata confinata un bel po' di tempo nel limbo delle “espressioni geografiche”: e continuava a suonare stravagante anche negli anni più drammatici del Risorgimento. A credere nella sua consistenza di patria e nazione era una minoranza che non doveva attestarsi molto lontano dal 10% che hanno i leghisti oggi in Parlamento. Le nazioni sono comunque concetti astratti, e qualsiasi concetto astratto esiste una volta nominato. Insomma è un incantesimo, la Padania: essa esiste un po' di più ogni volta che la si nomina, e non ha nessuna importanza che la frase sia negativa. Ogni volta che dici “La Padania non esiste”, i suoi confini diventano più nitidi.
Quelli che dicono “X non esiste”, di solito sono i cattivi. In Turchia sono quelli che negano il Kurdistan. In Palestina, quelli che fingono di non vedere i palestinesi. In fondo se questa è tutta la cattiveria di cui oggi è capace Gianfranco Fini, se è tutto qui il suo residuale nazionalfascismo, verrebbe quasi voglia di abbuonarglielo: ma non si può, non conviene. Padania è una parola potenzialmente pericolosa, e l'ultima cosa da fare con le parole pericolose è proibirle. Occorre disinnescarle. Facciamo che esiste: che è un comodo sinonimo del più tradizionale Valpadana; che è la macroregione in cui abitano i padani, che saremmo sempre noi, dotati di un'identità linguistica più che storica, che comunque non cessiamo per questo di essere italiani come lo sono i meridionali, gli isolani, e... e quelli che stanno in mezzo. A proposito, forse occorrerebbe inventare un nome anche per loro. Già, ma non è mica facile. È in questi momenti che gente come Brera ti manca davvero.
lunedì 13 settembre 2010
Il ritorno di Elmo
Io, i leghisti, un po' li invidio. No, non è vero.
Li invidio tantissimo. Ho una teoria #40 è solo sull'Unita.it! E si commenta lì!
Carissimo ELMO (Elettore Leghista Medio Operaio),
ti scrivo di nuovo in questi giorni di sagre e festival, di comizi e marce sul Po, in cui mi sono reso conto di invidiarti anche più del solito. Io, come sai, milito in un partito che perde da quando è nato, anzi, da un po’ prima; un partito che non riesce a guadagnare consensi neanche quando l’avversario ne perde. Il tuo invece ha vinto le ultime elezioni e rivincerà le prossime; vincerebbe anche se votassimo oggi. Certo, malgrado tutte queste vittorie non vale ancora la metà del mio in punti percentuali – ma i numeri non hanno poi così importanza. L’importante è quell’aria di vittoria che ieri si sentiva forte e chiara a Venezia, e a Torino no.
ti scrivo di nuovo in questi giorni di sagre e festival, di comizi e marce sul Po, in cui mi sono reso conto di invidiarti anche più del solito. Io, come sai, milito in un partito che perde da quando è nato, anzi, da un po’ prima; un partito che non riesce a guadagnare consensi neanche quando l’avversario ne perde. Il tuo invece ha vinto le ultime elezioni e rivincerà le prossime; vincerebbe anche se votassimo oggi. Certo, malgrado tutte queste vittorie non vale ancora la metà del mio in punti percentuali – ma i numeri non hanno poi così importanza. L’importante è quell’aria di vittoria che ieri si sentiva forte e chiara a Venezia, e a Torino no.
Carissimo Elmo, come tu sai il passatempo preferito di noi del PD è il tiro al segretario. Ogni due anni o giù di lì ne eleggiamo uno nuovo. Questi fa giusto in tempo a sconfessare la linea del precedente e a barcamenarsi un po’ tra le non-correnti, le quali aspettano soltanto il momento propizio per buttarlo giù. Tutto questo teatrino, voi della Lega, non sapete nemmeno cos’è. Voi avete un capo, e quel che dice il capo non si discute. Sul serio, dev’esser bello.
Ma ci vuole carisma, e quello di Bossi è indiscutibile. Chiunque, al suo posto, probabilmente sarebbe già schizzato via. Pensa soltanto, carissimo Elmo, a come ha trascorso l’estate. L’ha passata a ventilare crisi di governo, a chiedere elezioni, a minacciare invasioni: nemmeno cinque giorni fa parlava di portare dieci milioni di persone a Roma! Poi improvvisamente ha cambiato idea. Sembrava accontentarsi delle dimissioni di Fini dalla presidenza della Camera – è salito con Berlusconi al Quirinale per chiedere la sua testa a Napolitano. Napolitano però ha spiegato che non si può. A questo punto cosa avrebbe dovuto succedere? Crisi, elezioni, invasioni? No, niente. Bossi ha alzato le spalle e vi ha detto più o meno: pazienza. Le elezioni non si fanno, Fini non si dimette, il governo va avanti.
A questo punto, caro Elmo, qualsiasi leader che non si chiamasse Bossi, di cognome (e Umberto di nome) avrebbe semplicemente perso la faccia. Bossi no: lui può dire e fare tutto e il contrario di tutto, sicuro che voi lo seguirete sempre: perché sa che quel che importa sono i risultati, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, no? No?
Da quel che ho capito del discorso di ieri, il federalismo è arrivato. Questione di ore, minuti, secondi. Non è chiaro di che federalismo si tratti, probabilmente di quello fiscale. Realizzato con che soldi? Non si sa, vedremo. Certo però che è strano. Fino a una settimana fa, per ottenere il federalismo, bisognava aprire una crisi di governo, cacciare il centralista Fini, lasciare che l’asse del centrodestra si facesse spostare dal vento del nord. E poi, improvvisamente, non ce n’è più bisogno: il federalismo è già tra noi.
E questa è un’altra cosa che v’invidio, caro Elmo. I nostri leader non sanno mai cosa prometterci. C’è sempre una crisi che ci costringe a essere realisti, c’è sempre qualche sacrificio da fare, qualche cinghia da tirare. Voi leghisti, invece, qualsiasi cosa desiderate, la ottenete. Volevate il federalismo – eccolo qua. E non è tutto, perché un altro pregio di Bossi è che non smette mai di alzare l’asticella. A Venezia ne ha proposto un’altra delle sue: decentrare le sedi dei ministeri. In apparenza potrebbe sembrare scomodo: ministri e sottosegretari sarebbero costretti a fare la spola dalle sedi decentrate a Roma. Un bel traffico di auto blu… ma non importa. Bossi è uno che bada al sodo e non fa tanti giri di parole. “I Ministeri sono una fonte enorme di posti di lavoro e di soldi”, ha detto. “Perché i nostri giovani non vi possono accedere?”
Ora, se un qualsiasi rappresentante politico del mio partito dicesse una cosa del genere, sarebbe sommerso di pernacchie. I suoi avversari interni non tarderebbero cinque minuti a replicare. Che razza di federalista è, direbbero, uno che concepisce i ministeri come vacche da mungere? Che fine ha fatto l’orgoglio del lavoratore padano, che irride il posto fisso e crede nella libera impresa? Siamo davvero messi così male da chiedere a Roma una quota di posti ministeriali? Vogliamo passare da Roma Ladrona a Milano e Torino ladruncole, il tutto mentre continuiamo a tagliare i fondi per gli enti locali? Ma poi, chi dovrebbe pagare per tutti questi nuovi uffici, per tutte le assunzioni dei “nostri giovani”? Tutto questo, a Bossi, nessuno lo dice. Lui può veramente somministrarvi qualsiasi scemenza. “In Inghilterra è una battaglia che hanno fatto da tempo: non c’è più un ministero a Londra”. In realtà, malgrado qualche ufficio sia stato spostato, i ministri di Sua Maestà la Regina hanno tutti una sede nella capitale – persino dopo la devolution, a Londra continua a esserci uno “Scotland Office”, un “Wales Office”, un “Northern Ireland Office”. Prova a immaginare, carissimo Elmo, un bel “Ministero della Lombardia” affacciato sul Tevere… http://leonardo.blogspot.com
venerdì 10 settembre 2010
Ti quoto molto
Neologismi da salvare (1): Quotare
Da qualche anno in qua, se partecipi a una discussione on line, in un forum o nei commenti di un blog, o su facebook eccetera, puoi avere la soddisfazione di essere quotato. A volte, anche chi ti sta quotando se ne vergogna: ha la sensazione di usare la parola sbagliata. Scrivere “ti quoto” per intendere “ti do ragione, sono dalla tua parte” suona comodo ma ti dà quella sensazione di proibito che danno spesso i prestiti dall'inglese. E in effetti “quotare” sui forum italiani c'è arrivato come un calco dell'inglese “to quote”.
“To quote” però in inglese significa “citare”: una citazione letteraria è una “quotation”. Ora: se gli utenti italofoni di internet usassero “quotare” per intendere “citare”, non potremmo avere per loro nessuna pietà, nessuna compassione. Perché “quotare” una frase, quando adoperando una parola più chiara, precisa e italiana, puoi “citarla?” Tolleranza zero.
Ma “quotare”, il più delle volte, non si usa in quel senso. All'inizio, certo, qualche sciagurato “quotava” le frasi. Ma ormai a essere quotate sono le persone che le scrivono. Non quoto una tua affermazione: quoto te, ti quoto, che è un modo conciso ed efficace per dire che secondo me hai assolutamente ragione. Succede nelle discussioni on line dove la quantità è importante: ad esempio, su wikipedia quando si vota per cambiare o cancellare una pagina. “Quotare” qualcuno a questo punto significa non solo accettare una tesi, ma appoggiarla; essere disposto entro un certo limite a combattere per la tesi stessa. È un significato complesso, come si vede, che presenta diverse sfumature e si fatica a rendere in italiano con una parola sola, per il semplice motivo che questa parola fino a qualche tempo fa non c'era. Oggi c'è: si dice “quotare”.
È vero che è un calco dall'inglese (che a sua volta lo aveva ripreso dal latino, ma lasciamo perdere la genealogia, per il momento). Ciò che lo salva è appunto questo slittamento di significato (da “citare” ad “appoggiare la tua tesi”), che è avvenuto in mezzo a noi. Notate il paradosso: se “quotare” volesse dire “to quote”, non ne avremmo bisogno. Ma siccome nel ricalcare “quotare” abbiamo commesso un errore, abbiamo inventato una parola. Che ci serve. Così nascono le parole nuove: dall'errore, dal fraintendimento, dallo slittamento del significato.
Il caso di “quotare” mi sembra significativo di come una lingua si evolve. Per prima cosa, si evolve mescolandosi alle altre: anche in linguistica esiste l'entropia, e i puristi se ne devono fare una ragione (l'accademia della Crusca se l'è fatta da un bel po'). Detto questo, è giusto pretendere un minimo di sorveglianza ai confini. Non è che possiamo accogliere la prima parolina straniera che entra e pretende di sostituire una parola italiana di analogo significato. Non c'è nessun motivo di dire “misunderstanding” al posto di “equivoco”, a meno di non essere milanesi con l'aperitivo nel cervello. Il caso di “quote” però è particolare. È entrato in clandestinità, nessuno lo nega. Però si è subito dato da fare. Si è trovato un significato che nessuna parola italiana voleva assumersi. Dopo qualche anno che lavora in mezzo a noi, rendendoci un servizio comodo, con che faccia possiamo cacciarlo via? Per sostituirlo con cosa?
C'è poi il problema della faccia. Forse con altri termini, visibilmente più forestieri, saremmo meno tolleranti. Ma “quotare” ha una faccia latina che sembra dirti: uè, paesà. Più che un forestiero, un oriundo, che non ha mai veramente perso i contatti col paesello. Nel mio vecchio e slabbrato Zingarelli (1995) erano già ammessi due “quotare”. Uno, intransitivo, significava “partecipare a una contribuzione impegnandosi a pagare una certa somma”: è un tecnicismo, se ne sta nel suo angolino e non dà fastidio; l'altro, transitivo, ammetteva tre significati “(1) Obbligare per una quota; (2) Assegnare il prezzo ad un titolo in un listino di borsa; (3) (Figurato): Valutare, stimare: Nel suo ambiente lo quotano molto.
Da “stimare” a “sostenere la tua tesi” il passo non è poi così lungo. Certo, in mezzo c'è stato un soggiorno a Brooklyn, nessuno lo nega. Ma l'importante è che adesso sia tornato a casa. Insomma, basta con quei nasi arricciati, quei sorrisi di condiscendenza. Quotare è dei nostri; perlomeno, io lo quoto, voi fate un po' come vi va.
Da qualche anno in qua, se partecipi a una discussione on line, in un forum o nei commenti di un blog, o su facebook eccetera, puoi avere la soddisfazione di essere quotato. A volte, anche chi ti sta quotando se ne vergogna: ha la sensazione di usare la parola sbagliata. Scrivere “ti quoto” per intendere “ti do ragione, sono dalla tua parte” suona comodo ma ti dà quella sensazione di proibito che danno spesso i prestiti dall'inglese. E in effetti “quotare” sui forum italiani c'è arrivato come un calco dell'inglese “to quote”.
“To quote” però in inglese significa “citare”: una citazione letteraria è una “quotation”. Ora: se gli utenti italofoni di internet usassero “quotare” per intendere “citare”, non potremmo avere per loro nessuna pietà, nessuna compassione. Perché “quotare” una frase, quando adoperando una parola più chiara, precisa e italiana, puoi “citarla?” Tolleranza zero.
Ma “quotare”, il più delle volte, non si usa in quel senso. All'inizio, certo, qualche sciagurato “quotava” le frasi. Ma ormai a essere quotate sono le persone che le scrivono. Non quoto una tua affermazione: quoto te, ti quoto, che è un modo conciso ed efficace per dire che secondo me hai assolutamente ragione. Succede nelle discussioni on line dove la quantità è importante: ad esempio, su wikipedia quando si vota per cambiare o cancellare una pagina. “Quotare” qualcuno a questo punto significa non solo accettare una tesi, ma appoggiarla; essere disposto entro un certo limite a combattere per la tesi stessa. È un significato complesso, come si vede, che presenta diverse sfumature e si fatica a rendere in italiano con una parola sola, per il semplice motivo che questa parola fino a qualche tempo fa non c'era. Oggi c'è: si dice “quotare”.
È vero che è un calco dall'inglese (che a sua volta lo aveva ripreso dal latino, ma lasciamo perdere la genealogia, per il momento). Ciò che lo salva è appunto questo slittamento di significato (da “citare” ad “appoggiare la tua tesi”), che è avvenuto in mezzo a noi. Notate il paradosso: se “quotare” volesse dire “to quote”, non ne avremmo bisogno. Ma siccome nel ricalcare “quotare” abbiamo commesso un errore, abbiamo inventato una parola. Che ci serve. Così nascono le parole nuove: dall'errore, dal fraintendimento, dallo slittamento del significato.
Il caso di “quotare” mi sembra significativo di come una lingua si evolve. Per prima cosa, si evolve mescolandosi alle altre: anche in linguistica esiste l'entropia, e i puristi se ne devono fare una ragione (l'accademia della Crusca se l'è fatta da un bel po'). Detto questo, è giusto pretendere un minimo di sorveglianza ai confini. Non è che possiamo accogliere la prima parolina straniera che entra e pretende di sostituire una parola italiana di analogo significato. Non c'è nessun motivo di dire “misunderstanding” al posto di “equivoco”, a meno di non essere milanesi con l'aperitivo nel cervello. Il caso di “quote” però è particolare. È entrato in clandestinità, nessuno lo nega. Però si è subito dato da fare. Si è trovato un significato che nessuna parola italiana voleva assumersi. Dopo qualche anno che lavora in mezzo a noi, rendendoci un servizio comodo, con che faccia possiamo cacciarlo via? Per sostituirlo con cosa?
C'è poi il problema della faccia. Forse con altri termini, visibilmente più forestieri, saremmo meno tolleranti. Ma “quotare” ha una faccia latina che sembra dirti: uè, paesà. Più che un forestiero, un oriundo, che non ha mai veramente perso i contatti col paesello. Nel mio vecchio e slabbrato Zingarelli (1995) erano già ammessi due “quotare”. Uno, intransitivo, significava “partecipare a una contribuzione impegnandosi a pagare una certa somma”: è un tecnicismo, se ne sta nel suo angolino e non dà fastidio; l'altro, transitivo, ammetteva tre significati “(1) Obbligare per una quota; (2) Assegnare il prezzo ad un titolo in un listino di borsa; (3) (Figurato): Valutare, stimare: Nel suo ambiente lo quotano molto.
Da “stimare” a “sostenere la tua tesi” il passo non è poi così lungo. Certo, in mezzo c'è stato un soggiorno a Brooklyn, nessuno lo nega. Ma l'importante è che adesso sia tornato a casa. Insomma, basta con quei nasi arricciati, quei sorrisi di condiscendenza. Quotare è dei nostri; perlomeno, io lo quoto, voi fate un po' come vi va.
martedì 7 settembre 2010
Controcammelliamoci
Un giorno magari, chissà, i BlogAwards diventeranno una cosa seria. Quel giorno li prenderemo in giro. Ma per adesso resta più divertente fingere che siano premi veri, sfoggiare le nomination, intessere oscure alleanze, ringraziare lo splendido pubblico.
(Se volete partecipare al gioco, in fondo a questo post c'è il modulo da compilare: il regolamento impone di votare in tutte le categorie).
Già l'anno scorso io vi chiedevo di votare, non tanto per me, ma per i blog fatti in casa, amatoriali, ruspanti, come il mio; contro la claque impalpabile che vota in massa i Vip che a Riva del Garda non verranno mai, come Grillo o Travaglio, gente che di una statuetta a forma di fantasmino non ha certo bisogno. Vi chiedevo altresì di allearvi e combattere contro le truppe cammellate dei blog commerciali, senz'anima, i cosiddetti nanopublisher, che invece a portarsi a casa i fantasmini ci tengono tantissimo: si vede che in casa hanno un sacco di mensole libere, beati loro. L'unico senso che si può dare al Blogaward è quello di attirare un quarto d'ora d'attenzione su chi da anni si scrive il suo blogghetto per passione, su chi i lettori se li è conquistati con le unghie, attirandoli con quella spontaneità e quella freschezza che i nanopublisher si sognano.
Devo dire che malgrado le sconfitte di questi anni, le nomination del 2010 presentano qualche novità. Il blog di Grillo è sparito, sarebbe interessante chiedersi il perché. Dal momento che non cessa di essere il più seguito, l'unica ipotesi che riesco a formulare è che sia quasi sparita l'intersezione tra il pubblico di Beppegrillo.it e quello di Macchianera (e della "blogosfera" mainstream italiana, anche se forse il vero mainstream è Grillo, ed è tutto il resto della blogosfera a essere una nicchia). Insomma, i lettori di Grillo gli altri blog non se li filano più. Non saprei neanche dire se sia un bene o un male; in ogni caso dare un fantasmino a Grillo era più o meno come premiare Kafka al Campiello, inutile e abbastanza ridicolo. I fantasmini diamoli a chi ne ha bisogno. Voglio dire, guardate me. Ero piccolo e nero, oggi strappo contratti miliardari a prestigiosi quotidiani fondati da Gramsci, e tutto questo grazie ai MBA, forza MBA! Ma andiamo al sodo. Qui sotto avete le mie sommarie indicazioni di voto (spero di non violare nessuna regola pubblicandole).
Miglior Blog 2010
L'anno scorso Spinoza non si limitò a stracciare Travaglio: lo doppiò. Travaglio quest'anno non si presenta nemmeno. Io invece ci sono: direi che non ho nessuna speranza, ma votatemi pure.
(Il grande escluso: Inkiostro. No, in realtà è poco attivo ultimamente. Ma le potenzialità le avrebbe, accidenti a lui).
Blogger dell'anno 2010
Un dettaglio curioso: l'anno scorso i primi due classificati furono Paul The Wine Guy e Beppe Grillo. Il primo è scomparso subito dopo, il secondo non gareggia. Il terzo era Qualcosa del genere, che quindi i numeri per vincere potrebbe averceli. Sarebbe abbastanza clamoroso, però proviamoci.
(Il grande escluso: io. No, scherzo. Mi sembra curioso che non sia in cinquina Byoblu, che non è il mio blog preferito, ma ha un pubblico vasto e affezionato, che qualche mese fa lo ha portato in trionfo al Premio Ischia. Mentre a Riva magari non sanno nemmeno chi sia. E' come se la blogosfera italiana perdesse i pezzi: inevitabile, ma dispiace).
Blog Rivelazione 2010
Metilbaraben e Machedavvero c'erano già nel 2009, ragion per cui... ComedySubs mi sembra un bel servizio. Anche qui comunque sono tutti bravi, è stato un buon anno, e dire che io non me ne stavo accorgendo.
(Il grande escluso: non saprei, appunto, leggo sempre gli stessi).
Migliore Community
Facebook non è una comunità; a rigore non lo sarebbe neanche Friendfeed, benché ormai ci bazzichino solo i fancazzisti italiani. Spinoza ha già vinto l'anno scorso (e vincerà anche quest'anno), quindi... boh, io dico Girl Geek Life.
(Il grande escluso: Asphalto).
Miglior Blog d'opinione
Sono io. Perlomeno, questa è l'unica statuetta che ho qualche speranza di portare a casa, quindi... voi poi fate quel che vi pare, eh? Quest'anno vi siete già sparati un centinaio di opinioni gratis, e fate ancora in tempo a sciropparvene una cinquantina prima di Natale, ma d'altro canto si sa, l'ingratitudine umana. No, no, per carità, votate pure Travaglio, che ne ha un gran bisogno.
(Il grande escluso: Malvino, finalmente affrancato dall'insano giogo del Cannocchiale).
Miglior Blog collettivo
Io sto con Cloridrato. L'unico che ha qualche possibilità di infliggere perdite alla corazzata Spinoziana. E poi da qualche parte ho anche l'account, quindi se vince vinco anch'io, come Bordon nell'82.
(Il grande escluso: Schegge di liberazione. Più collettivo di così).
Miglior Blog giornalistico
Dunque. Qui c'è il solito problema di definire un blog. Giornalettismo e il Post sono ottimi oggetti, ma non blog in senso stretto. Piovono Rane è un (ottimo) blog, ma ha vinto l'anno scorso. VoglioScendere ha vinto due anni fa. Quindi vieni avanti, De Biase. E' il tuo anno.
(Il grande escluso: Mazzetta. Ma perché non mette i feed interi, accidenti a lui).
Miglior Blog tecnico-divulgativo
Tutti probabilmente bravissimi e meritevolissimi, in particolare Attivissimo che però ha già stravinto l'anno scorso. Prima o poi l'unanime simpatia per Beggi deve concretizzarsi in un fantasmino.
(Il grande escluso: che fine ha fatto Mantellini?)
Miglior Blog televisivo
Può darsi che quest'anno Dave se lo meriti meno del solito, però a occhio mi sembra l'unico in grado di poter contrastare la funesta dittatura di Tvblog.
(Il grande escluso: Tuttofamedia).
Miglior Blog culinario
Dissapore è un gran sito, ma secondo me non è un blog. Zenzero ha vinto l'anno scorso. Cavoletto l'anno prima. Ne restano due, ma per fare i giurati seri bisognerebbe provare le ricette. Io non me la sento e rivoto Cavoletto.
Miglior Grafica di un blog
Questa è la categoria che non cessa di stupirmi. A guardare i blog nominati sembra che la "grafica" sia quella cosa che non si usa nei siti normali, perché disturberebbe la lettura. Pensoscrivo è senz'altro molto elegante: caratteri grigi su sfondo nero. Randomthought pubblica testi brevi su tre colonne. Persino 7years, a cui voglio un po' di bene, probabilmente si è guadagnato la nominescion grazie alla bella idea di evidenziare i link con una banda gialla lampeggiante. Poi c'è un sito che non è un blog, ma una rivista di cultura cinematografica (in un font minuscolo, ovviamente). Resta Coreingrapho, che probabilmente si trova lì per un equivoco, ma a questo punto lo voto lo stesso, tanto più che i fumetti "scrollati" mi piacciono davvero (i grafici fighetti no, mai piaciuti).
(Il grande escluso: chiunque abbia un layout leggero e un Verdana 10 nero su sfondo bianco con un'interlinea ragionevole).
Miglior Blog cinematografico
Kekkoz ha lasciato capire che non ne può più, e non lo biasimo. Anche stavolta partecipa con ben due blog, il che significa che se i suoi sostenitori si mettessero d'accordo, forse la bieca tirannide di Cineblog avrebbe i giorni contati. E sarebbe francamente ora. Oppure facciamo così: tutti noi anti CineBlog ci contro-cammelliamo su I400calci. Se i numeri sono più o meno quelli dell'anno scorso ce la possiamo fare. Eddai.
(Il grande escluso: Secondavisione. Ma anche Freddy Nietzsche ultimamente regala).
Miglior Blog erotico
A volte penso che sia un problema mio. Ma non lo è. Una volta c'erano dei blog che parlavano di sesso in modo divertente e saltuariamente arrapante. Magari da qualche parte ci sono ancora. Ma in concorso, qui c'è della roba che funziona più o meno come l'alfabeto al contrario. Prendo una cosa a caso:
Adoro certi aperitivi milanesi in piedi. Denti che affondano in fettine d’arancio, l’alibi della musica ad alto volume per labbra pericolosamente vicine ad un lobo. Dire tutto in punta di dita, che sono roventi attraverso gli abiti d’ufficio. Insinuare un ginocchio tra le mie cosce, passarti la mano sul petto, disegnando ghirigori mentre ti parlo. Fuori baciarsi con lingue alcoliche ed il freddo che ci da i pizzicotti. Tu che mi allontani in un vago palpeggio. Ridacchi, io torno alla carica e ti premo contro. E’ come se i cubetti di quello sbagliato mi si fossero sciolti tra le gambe.
Scherzando cerchi di calmierarmi [calmierarmi? Cioè "fissare il prezzo massimo delle merci al minuto"? In aperitivo?] con un “Pussa via!”
Ma sotto il vestitino capisco solo “Pussy via”.
Capito il torbido gioco di parole? No, ma veramente, se riuscite a eccitarvi con Pussa/Pussy io vi invidio, sul serio, vi invidio tantissimo. Voto Dania per la simpatia.
(Il grande escluso: http://puttanieri.blogspot.com. Magari neanche questo è erotico in senso stretto, ma resta abbastanza istruttivo).
Miglior Blog musicale
Io Polaroid, ovviamente.
(Il grande escluso: io! No, scherzo. Facciamo Weekendance?)
Miglior Blog letterario
Dopo il trionfo di Chinaski, quest'anno si sono fatti avanti i pezzi grossi. E a questo punto la cosa si fa imbarazzante: scegliere tra Mozzi, Nori, la Lipperini, cos'è, lo Strega dei poveri?
(Il grande escluso: Falsoidillio).
Miglior disegnatore / vignettista
Quando ho visto inserito tra i soliti noti (tutti bravissimi, eh, ma sempre gli stessi) Stefano Disegni, il mio cuore ha avuto un sussulto. Ho anche cliccato. E' partita un'intro in flash. Fine del sussulto. Voto Eriadan.
(Grande escluso: Daw).
Miglior Blog fotografico
Faccio sempre molta fatica. Virzì, se non fosse Virzì, con la sua estetica polaroide mi infastidirebbe un po'. Voglia di Terra ha già vinto. Insomma alla fine Pensierisupellicola mi è sembrato il più votabile. Ma non me ne intendo, e se fosse possibile astenersi qui davvero lo farei.
Miglior Blog ecologista / sociale
Ecoblog è ok, ma è nanopublishing: niente di personale. Nrg4life è inquietante, mi sembra che venda dei cerotti strani. Vada per il Potatore.
(Grande escluso, ma proprio grande: Petrolio).
Miglior Blog sportivo
Voto Poetare con i piedi, ultimamente giambi e dattili sono gli unici piedi che riescono a interessarmi.
(Grande escluso: boh. Sul serio, era l'anno del mondiale e nessuno è riuscito a renderlo eccitante).
Miglior servizio Mobile
E' passato un altro anno e sono sopravvissuto senza caricare quotidiani su un dispositivo mobile. Probabilmente tra qualche anno non ne potrò fare a meno, ma fino a quel momento... Mobileblog è il solito nano; Iphoneitalia non mi sembra meglio; Skytg24 è una cosa che sta su iTune; restano Corriere e Repubblica e allora io voto Repubblica, ma un po' come un eunuco che dà i voti alle cortigiane.
(Grande escluso: non saprei, ma a proposito: Leonardo su mobile ci va?)
Miglior Testata Giornalistica online
Io voto il Post, si legge volentieri.
(Grande escluso: l'Unità, diamine!)
Miglior Post dell'anno
Quest'anno partecipo con due pezzi addirittura: il coccodrillo su Taricone e la lettera alla Marescialla. A rileggerli nessuno dei due mi sembra così rappresentativo: peggio per me, così imparo a non autopromuovermi. Chiedere voti su un coccodrillo mi sembra vagamente ricattatorio, così vi chiedo di votare - se proprio ci tenete - per la Marescialla. Non credo di avere molte possibilità in ogni caso: quest'anno ci sono dei pezzi molto validi in concorso (l'anno scorso viceversa era una cosa che gridava vendetta al cospetto d'Iddio).
(Il grande escluso: L'esistenza di Lapo Elkann è tutta quanta un grosso triste manuale how not to. Il capitolo che vediamo oggi è: come non si fa il viral marketing. Betty, ci manki troppoooooooooooooooooooo!) :....(
Miglior Podcast / Trasmissione Radio
Uffa, non le scarico. Voto Disinformatico sulla fiducia.
Miglior Social Network o Servizio per i Blog
Un blogaward a facebook è un po' come assegnare lo Strega a una cartiera, o il Nobel a Internet. Voto friendfeed perché magari così non lo chiudono per un altro paio di mesi.
(Migliore escluso: Tumblr!)
Cattivo più temibile della blogosfera
Bucknasty, se scrivesse anche un pezzo al mese, non darebbe fastidio. La Soncini si difende bene, ma tanto quel fine settimana sarà alle sfilate. Qualcosa è davvero così cattivo? Vabbè, votiamolo.
(Migliore escluso: l'Inferno degli Angeli).
Miglior Blog andato a puttane
Categoria un po' sui generis. Il situazionismo di PaulTheWineGuy (che si è fatto eleggere blog dell'anno '09 e immediatamente dopo ha cancellato ogni traccia del suo sito) si merita anche questa statuetta, che invece andrà a Luttazzi per via di qualche battutina non proprio originale. Votare Malvestite sarebbe di pessimo gusto (Betty ha interrotto il blog per problemi personali).
(Migliore escluso: Indymedia Roma).
Miglior Blog politico
Auff. Non so se devo apprezzare il politico o il modo che ha di comunicare via blog. Sono troppo stanco per entrambe le cose, comunque. Piglio Scalfarotto e non ci penso più. Ps: leggo da Ciwati che Modena sarebbe "una città tra le più belle e le meglio amministrate del mondo", insomma l'Aldina si è messa a stendere la sfoglia con l'LSD e nessuno mi ha avvertito.
(Migliore escluso: Onda Viola Tv).
Miglior Blog personale
Galatea, finalmente. Arrivederci a Riva.
Si può votare qui sotto.
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