Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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venerdì 29 dicembre 2023

Il vescovo inesistente

30 dicembre – Sant'Eugenio di Milano (un secolo qualsiasi)


Di Santi Eugenii ce n'è tanti: solo in Irlanda la Bibliotheca Sanctorum ne nomina una decina. Poi ce n'è a Damasco, Gerusalemme e Cartagine, oltre a un paio di papi; e a questo punto poteva Milano non vantarne uno? Per un po' si è dato per scontato che si trattasse un vescovo, ma nella lista ufficiale dei vescovi di Milano il primo a portare questo nome è stato Eugenio Tosi nel... 1922. Potrebbe trattarsi dell'ennesimo santo generato da un refuso, visto che le cronache non solo lo consideravano contemporaneo di Sant'Eustorgio, ma addirittura menzionavano la traslazione dei suoi resti mortali proprio nella chiesa di quest'ultimo. "Eugenio" ha in effetti tutta l'aria di essere la soluzione che un copista potrebbe trovare di fronte a una parola di cui riusciva a leggere soltanto il dittongo iniziale – insomma quanti altri nomi cominciano per Eu

Quando scrive la sua Mediolanensis Historia, verso la fine del secolo XI, Landolfo Seniore risolve il problema definendolo vescovo sì, ma di qualche altra città "al di là dei monti" ("transmontanus"). A Milano ci sarebbe passato al seguito di Carlo Magno, di cui sarebbe stato padre spirituale. Non essendo di origine meneghina, Eugenio risulta più autorevole nel suo sforzo di salvare il rito ambrosiano minacciato dalle riforme semplificatrici di papa Adriano I. Già allora l'idea che i milanesi avessero un loro rito, e un calendario liturgico diverso dal romano (a quel tempo variamente diffuso in tutta la pianura padana) lasciava perplessi. Non fosse per quei quattro giorni di carnevale in più: il rito ambrosiano in effetti conta i quaranta giorni di penitenza dal Giovedì santo, mentre a Roma il conteggio partiva dal Sabato santo, ma ometteva le domeniche.

Landolfo racconta che dopo l'accorata difesa del rito ambrosiano da parte di Eugenio, i vescovi convocati in concilio a Roma stabiliscono di effettuare il seguente esperimento: posizionare sull'altare della basilica vaticana il messale ambrosiano e quello romano, sigillare il tutto e riaprire dopo tre giorni. Il libro che sarebbe rimasto aperto sarebbe stato adottato da tutta la cristianità. Immaginiamo nell'occasione l'ansia della delegazione milanese davanti a quella che i concittadini oggi definirebbero una lose/lose situation: se si fosse trovato aperto il messale romano, addio sabato grasso; ma se si fosse trovato aperto quello ambrosiano, il sabato di carnevale sarebbe diventato obbligatorio anche fuori dalla loro diocesi, togliendo ai milanesi il tipico gusto di bisbocciare mentre gli altri lavorano. 

Dopo tre giorni, il miracolo: entrambi i libri vengono trovati chiusi e poi si aprono assieme di colpo. Quando inventa questa simpatica storia, è probabile che Seniore avesse in mente l'iniziativa riformatrice di un altro papa (Gregorio VII), che aveva messo il rito ambrosiano nel mirino. Cosa non ci si inventa per tre giorni in più di carnevale.

martedì 26 dicembre 2023

Taccuino da un genocidio


You just can't kill'em all (30 ottobre). Devo accettare questa cosa che anche in caso di enormi disgrazie collettive, una delle mie reazioni è quella di venire qui e scherzarci sopra. È un meccanismo di difesa come un altro, c'è chi segnala la propria virtù, io una certa coglionaggine, che senz'altro non risolve alcun problema ma nemmeno li crea.

Più passano gli anni e più mi riconosco nel personaggio di John Hurt nei Cancelli del cielo di Cimino, che dura quattro ore ed è ubriaco tutto il tempo, pur dando la sensazione di essere un po' più intelligente di chi gli sta intorno. Ovviamente quando la Confcoltivatori del Wyoming decide di sterminare i peones lui non è d'accordo ma è facilmente messo in minoranza, dopodiché continua a bere e a fare battute del cazzo finché non si ritrova al centro esatto di un assedio all'ultimo sangue, dalla parte sbagliata della barricata, anche se non gli viene nemmeno in mente di sparare. L'ultima cosa che dice (con la fiaschetta in mano) è: l'anno scorso ero a Parigi, oh quanto amo Parigi (la penultima è: madò, quanti sono, mica potete farli fuori tutti).



Cheat mode.Tutto questo assurdo si potrebbe senz'altro spiegare con categorie religiose, ma alla fine basterebbero i videogiochi di strategia: come se gli americani fossero convinti di vivere in una simulazione in cui stanno vincendo, ma ha poca importanza perché Dio sta giocando la partita di Israele, e se perde tutto (o anche solo si annoia) il gioco finisce all'istante e buonanotte.  

La foglia di fico. (16 ottobre) Non dico perdere la verginità perché ce n'è sempre stata in giro poca, ma in questi giorni alcuni stanno perdendo comunque qualcosa di prezioso, diciamo la foglia di fico per cui ok, certe guerre a volte sono giuste ma i massacri della popolazione civile, ecco, quelli no: al massimo sono errori da coprire, da negare e poi ammettere con mille scusanti; in ogni caso non azioni da giustificare in nome di un bene superiore, fin qui nessuna bandierina copriva questa cosa.
Adesso invece un po' sì, c'è gente che ha già suggerito un'atomica su Gaza, ovviamente è una "provocazione", d'altro canto per quale altro motivo terremmo accese radio o tv, se non per sentici "provocati" a tirare fuori le cose che non abbiamo il coraggio di.
Dove a impensierirmi non è tanto Gaza, il destino di Gaza è probabilmente segnato e a fissare troppo si diventa colonne di sale; mi preoccupa cosa succederà dopo tra noi, perché quelle foglie di fico erano importanti, e se il bodycount questa volta fosse sensibilmente più importante, qualche "provocatore" dovrà continuare a rivendicarlo. Chi diceva: restiamo umani, forse ci metteva in guardia da questa cosa.


Ma tu nonno cosa ne pensavi. A volte mi chiedo come andrà a finire ma mi rendo conto che è una domanda retorica, non è che le cose finiscano. Oppure sì, ma finiscono tutti i giorni, un giorno ad esempio finirò io e quel giorno per me le cose saranno finite; inoltre tutto questo casino è causato soprattutto dal fatto che qualcuno ha pensato di "finirla" con Hamas, o con l'occupazione, ma anche con l'imperialismo russo o con l'Ucraina, insomma se c'è qualcuno di cui diffidare è appunto chi ti propone soluzioni, ehm, finali. Bisognerebbe accettare che le cose non si risolvono mai, al limite si migliorano e con molta pazienza, e con molto tempo, tempo che nessuno di noi individualmente possiede. 

Però davvero: come andrà a finire? Ci ritroveremo con due narrazioni inconciliabili: il Paese X ha raso al suolo Y, o Y era una congerie di terroristi stupratori che auspicabilmente è stata rasa al suolo. Sarà un po' difficile convivere tra gente che la pensa in modo tanto diverso, ma non è quello che facevamo già prima? Qualche migliaio di morti cambia la situazione? Qualche decina di migliaia di morti? 
Esisterà a un certo punto una narrazione condivisa, quello che una volta chiamavamo Storia? Se non i figli, i nipoti accetteranno l'idea che i nonni hanno commesso crimini che potevano evitare? E se ci domanderanno: nonno, macchecazzo, con tutti gli strumenti che avevate e la Storia che studiavate a scuola, tutta questa etica post-seconda-guerra-mondiale, tutta questa retorica antigenocida, com'è che a un certo punto una striscia con due milioni di persone ha cessato di esistere sotto i vostri occhi e voi guardavate da un'altra parte, se non addirittura applaudivate, noi che risponderemo? non puoi capire, non c'eri, le informazioni erano tendenziose... oppure proprio non è vero, gli storici mentono, il conteggio delle vittime è viziato, e comunque hanno iniziato prima loro. 
Oppure la domanda non avrà più senso. Forse l'oggettività occidentale è sempre stata un'illusione mantenuta da un equilibrio di poteri che è durato finché è durato; forse ai nostri figli e nipoti mancherà la sensazione che avevamo noi, di poter veramente sapere cosa accadeva nel mondo a volte persino in tempo reale, senza sempre dubitare di quanto i reporter ci mostravano. Era un privilegio che non meritavamo e che forse a un certo punto abbiamo smesso di desiderare, perché tutta questa oggettività a volte ci condanna. Beate le vittime, loro non hanno questi problemi, o meglio per loro i problemi sono già finiti.




Ci hanno gli algoritmi. Un ufficio propaganda abbastanza efficiente lascia comunque una sensazione fastidiosa, come quando un messaggio pubblicitario apre una breccia in una debolezza che non ricordavi di avere; ad es nella settimana contro la violenza sulle donne ci facevano notare che i loro nemici erano particolarmente violenti con le donne; se fosse seguita la settimana contro la violenza sugli animali probabilmente ci sarebbero arrivati inediti reportages dai macelli halal, invece la gente si è un po' rimessa a parlare di algoritmi e AI e loro ehi, a proposito, lo sapete che noi per bombardare usiamo un algoritmo che ci dice dove bombardare? Siamo o non siamo fighissimi.

(– Ma lo fate per minimizzare le vittime civili?

– Eh?)

Loro ci hanno un algoritmo, capite, per trovare il loro nemico pubblico n. 1 stanno bombardando da un mese una striscia di 40 Km. x 8, stiamo a 15000 vittime a essere prudenti, e i loro ufficiali, nota, i loro ufficiali, stimano che un terzo di loro dovrebbero essere combattenti. Insomma per abbattere due civili ogni combattente ci hanno l'algoritmo, figurati se non ce l'avevano. O no? 

Viene da domandarsi, non ironicamente: ma se non ce l'aveste, l'algoritmo; se le decisioni le prendeste alla vecchia maniera umana, a quest'ora ne avreste fatti fuori di meno o di più? Comunque oh, ai nipotini potrete sempre raccontare che obbedivate all'Algoritmo, vengono in mente libri antichi in cui un'entità altrettanto non-umana e astratta suggeriva agli uomini di radere al suolo città non molto lontane, ma dev'essere solo una suggestiva coincidenza.




Mille a ventimila. No, ve la rispiego perché davvero, con l'antisemitismo non c'entra niente: in un conflitto asimmetrico, quando è possibile contare le vittime con una ragionevole approssimazione, io parteggerò sempre per la parte che ne ha fatte di meno.
Così se davvero volete il mio sostegno – secondo me non lo volete, cosa ci fate col mio povero sostegno? secondo me volete solo una scusa per lamentarvi – ma se invece volete davvero il mio sostegno, se per voi è così tanto prezioso, ebbene, è facile: dovete cercare di fare meno vittime di quegli altri. Diabolico, nevvero? Ma il pacifismo funziona così. 
(I radicali effettivamente funzionavano in un altro modo).




I pirati hanno preso il palazzo. A un certo punto qualcuno, va' a capire chi, deve avere commesso un tremendo errore, insomma il Foglio doveva restare un simpatico naviglio di filibustieri, col capitano burbero ma di buon cuore, qualche mozzo volenteroso a lavargli le parti intime, un po' di marinai esperti ma ricattabili e ricattati, qualche scemo di guerra a dar colore, ecc. Era previsto che ogni tanto facesse un colpo, non che un giorno si conquistasse l'egemonia culturale. Non conveniva neanche a loro, un conto era proporre di uscire dall'Onu sul giornaletto del fanclub italiano del Likud, un conto è ritrovarsi Molinari a dirigere Repubblica, dopodiché hai un bel da prendere in giro i novaccinisti, gli sciachimisti, i putinisti, cioè sul serio: noi ceto riflessivo, dovremmo credere che l'Onu copre Hamas, perché lo leggiamo sui quotidiani teoricamente rispettabili? O dovremmo capire che è solo un gioco, come il bispensiero, cioè una parte del cervello sa benissimo che gli israeliani asfalteranno Gaza ma l'altra parte del cervello deve fare finta di no e in questo, da qui in poi, consisterà la riflessività del ceto riflessivo: nel far finta di essere membri di una società civile, basata su ideali di giustizia e libertà purché restino ideali? A un certo punto qualcuno ha commesso un terribile errore, va' a sapere chi, certe notti ho paura di essere stato io ma mi rendo conto che è poco probabile, anzi anche un po' egotico, sicuramente avrei dovuto fare qualcosa di più anche se non sono mai riuscito a capire cosa.




Tite tute. Adesso forse sono io che capisco male o sono il solito malfidato ma come si fa anche solo a pensare che radere al suolo la Striscia sia un mezzo per arrivare ai vertici di Hamas (e non viceversa)? Proprio perché la considerate un'organizzazione terroristica, non avrà qualche base sparsa nel mondo dove i leader possono riparare tranquilli mentre il mondo brucia? Tutte le altre organizzazioni ce li hanno; Hamas no, i leader restano tutti nei bunker con gli ostaggi ad aspettare di farsi catturare dall'Idf, che stupidi.

D'altronde mica possono dire che spianano Khan Yunis perché tutto il modo in cui hanno impostato la situazione era tragicamente sbagliato e pensano che radendo completamente la Striscia al suolo e deportando la popolazione magari tra un po' nessuno ne parlerà più – ci sono precedenti, per esempio una volta un generale romano si ruppe i coglioni di un popolo che viveva da quelle parti, rase al suolo una città intera e disperse il popolo in tutto il bacino del Mediterraneo e anche oltre e infatti nessuno di quel popolo parla più, ne avete sentito parlare? insomma ha già funzionato così bene, perché non dovrebbe funzionare di nuovo.


Che avremmo dovuto fare. Vedo che siccome comincia a essere un po' difficile negare che si tratti di un'operazione di pulizia etnica, il trend è domandare, retoricamente: "cosa avremmo dovuto fare allora?" Come se insomma, alla pulizia etnica ci si arrivasse per mancanza di alternative. 
Ora, a parte il fatto che sì, esistono sempre alternative a bersagliare gli ospedali, però bisognerebbe che ogni tanto qualche buon amico ve lo dicesse: ogni volta che ci dite che non potevate fare diversamente, vi state autoaccusando di esservi infilati da almeno 20 anni in una situazione senza uscita – ovvero un'uscita c'è, ma vi vede nel ruolo dei cattivi segregazionisti e sterminatori. Qualcuno avrebbe dovuto avvertirvi – ah no, aspetta, qualcuno vi ha avvertito, a lungo, e pazientemente, e voi avete passato tempo e risorse preziose ad accusarlo di intelligenza col nemico. 
C'è un complotto mondiale contro di voi? Certo che c'è, e prevede esattamente che voi vi troviate dove vi trovate, con le spalle al muro che avete costruito con le vostre mani.

lunedì 18 dicembre 2023

Il sigillo dei profeti

18 dicembre: San Malachia (VI secolo), sigillo dei profeti

"Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l'uno contro l'altro profanando l'alleanza dei nostri padri?" Malachia 2,10, sul muro sulla barriera difensiva che separa Israele e Cisgiordania.
CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1027285

Non era forse Esaù fratello di Giacobbe? – oracolo del Signore – Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù. Ho fatto dei suoi monti un deserto e ho dato la sua eredità agli sciacalli del deserto. Se Edom dicesse: «Siamo stati distrutti, ma ci rialzeremo dalle nostre rovine!», il Signore degli eserciti dichiara: Essi ricostruiranno: ma io demolirò. Saranno chiamati Regione empia e Popolo contro cui il Signore è adirato per sempre. I vostri occhi lo vedranno e voi direte: «Grande è il Signore anche al di là dei confini d'Israele»
(Malachia 1,2-5)

Edom era un antico regno del Negev, a poche centinaia di km da Gaza. Per gli antichi ebrei gli edomiti erano discendenti da Esaù, il fratello che vendette la propria primogenitura a Giacobbe-Israele per un piatto di lenticchie; così come molti proprietari palestinesi in epoca ottomana vendettero terreni poco fruttuosi ai sionisti. Queste e altre coincidenze ci lasciano sempre sbigottiti. Si fa senz'altro un torto a proiettare le storie della Bibbia sulla storia contemporanea dello Stato di Israele; i motivi per cui sta distruggendo la Striscia sono tutti terribilmente razionali, il risultato inevitabile di una serie di errori commessi in settanta più anni. E tuttavia la Bibbia è ambientata proprio lì, e parla di popoli fratelli che si odiano. Il primo ministro democraticamente eletto cita Amalek, il nome di un antico popolo che osò attaccare gli ebrei mentre si insediavano nella Terra Promessa, e al quale giurarono guerra eterna, generazione su generazione, finché non fu effettivamente sterminato ed estinto. La Bibbia sta lì, e se la ride di tutti gli studiosi che ne mettono in discussione la storicità – forse in effetti non parla del passato, ma del futuro. Forse Mosè non ha mai riportato gli ebrei in Cananea, ma Zorobabele e Ben Gurion sì. Forse l'angelo di Dio non ha distrutto Sodoma e Gomorra, ma Gaza e Khan Yunis ormai sono colonne di sale. 

La Bibbia non va sottovalutata. Eppure tutti sanno come comincia (la creazione, Adamo ed Eva), ma nessuno ti saprebbe dire come finisce. In effetti dipende molto dall'ordine dei libri, che varia di traduzione in tradizione; in linea di massima le versioni cristiane dell'Antico Testamento tendono a posporre la sezione riservata ai profeti, l'ultimo dei quali è Malachia, già definito dagli ebrei "sigillo dei profeti". 

Malachia nella Cappella degli Scrovegni

Si tratta di un finale completamente arbitrario (anche nella Tanakh ebraica Malachia è l'ultimo profeta, ma ai profeti seguono altri libri). Malachia non è l'ultimo libro a essere stato composto, né contiene molti elementi che ci consentano di datarlo (persino il nome all'origine non era proprio: "Malachia" significa "il mio messaggero"). In effetti potrebbe adattarsi a qualsiasi momento della storia antica di Israele, tanto è esemplare di tutta la letteratura profetica nella sua alternanza di rimbrotti a un popolo peccatore e promesse di un futuro luminoso. 

Se però accettiamo, come abbiamo fatto per secoli, che Malachia sia l'ultimo profeta, non può che essere posteriore a Zaccaria e Aggeo che nel VI sec. aC si sono spesi per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme: il che significa che neppure la realizzazione del Tempio ha soddisfatto il Signore, di nuovo stomacato dei sacrifici come ai tempi di Geremia: "spanderò sulla vostra faccia gli escrementi delle vittime immolate nelle vostre solennità", dice. È l'ennesimo capitolo della psicosi di un popolo che qualunque cosa faccia non riesce a soddisfare il suo Dio, a meritare le sue promesse di grandezza. Stavolta i motivi della collera divina sono almeno definiti con chiarezza: i sacerdoti non sacrificano capi di prima scelta, com'è previsto dalle Scritture, ma "animali rubati, zoppi e malati". Non solo: ma gli israeliti non restano fedeli alle "donne della loro giovinezza", le tradiscono e praticano il divorzio. Quest'ultimo consente loro di risposarsi con le "figlie d'un Dio straniero". Questa avversione per i matrimoni misti è una delle ragioni per cui nella tradizione ebraica Malachia è stato associato a Esdra, il sacerdote che nell'omonimo libro aveva lanciato un allarme ancora più esplicito: gli israeliti che tornavano a Gerusalemme dopo la cattività babilonese si stavano mescolando con la popolazione locale, minacciando un progetto che evidentemente si basava sulla segregazione etnica. Malachia però è molto critico nei confronti della casta sacerdotale, di cui Esdra faceva parte; e sembra detestare la pratica del divorzio, laddove Esdra ottiene proprio che gli israeliti divorzino dalle mogli etnicamente scorrette.

L'idea di considerare Malachia come l'ultimo dipende probabilmente dal fatto che nel finale questo profeta gioca una carta molto impegnativa: in attesa di un trionfo del bene che assume sempre più caratteri escatologici, il Signore degli eserciti invierà "il profeta Elia", che secoli prima era stato salito al cielo sul carro del sole. La promessa di un Messia che riscatti il popolo di Israele, ricompensi i giusti e castighi i superbi col fuoco ("sta per venire il giorno rovente come un forno"), non era mai stata messa per iscritto con tanta chiarezza, al punto che quattro secoli più tardi, quando Gesù comincerà il suo ministero, molti vedranno in lui l'Elia promesso da Malachia. Gesù stesso identificherà Elia con Giovanni Battista (quest'ultimo almeno in un'occasione nega di essere Elia). Il testo di Malachia dunque presenta il finale più adatto per un Libro di cui si ha già intenzione di allestire un seguito: il cosiddetto cliffhanger, o finale sospeso. E se per i cristiani il seguito è noto, gli ebrei sono sospesi da allora.

venerdì 15 dicembre 2023

Le martiri della Drina, o come la Chiesa racconta la violenza sessuale

15 dicembre: beate martiri della Drina, assassinate il 15/12/1941


Da qui a qualche generazione di distanza, forse la Seconda Guerra Mondiale ci apparirà ancora più incredibile di quanto non sia adesso (è quel che dovremmo augurarci, perlomeno). In un secolo drammatico ma tutto sommato razionalmente descrivibile, ecco un intervallo di assurdo orrore i cui resoconti, anche quando dettagliati con minuzia, tradiscono comunque particolari che appaiono mitici o fiabeschi; proprio quando la storiografia sembrava aver abolito categorie assolute come il Bene o il Male, il nazismo e le persecuzioni a carattere etnico rimettono in discussione l'imparzialità degli studiosi. Una prova indiretta di questo fenomeno è la diffusione, nel secondo dopoguerra, di vere e proprie leggende dei santi come non se ne tramandavano da secoli: agiografie costruite a partire da fatti di cronaca e crimini di guerra che solo nel contesto della Guerra possono apparire plausibili. 

Uno dei casi più esemplari è quello delle cinque martiri della Drina, beatificate da Benedetto XVI. Si tratta di cinque suore cattoliche, di età tra i 29 e i 76 anni, che gestivano un piccolo convento a Pale, nei pressi di Sarajevo. Si chiamavano tutte di primo nome "Marija", e quindi si distinguono dal secondo nome e dal cognome: Jula Ivanišević, Berchmana Leidenix, Krizina Bojanc, Antonija Fabjan, Bernadeta Banja. Ad alcune viene associata la nazionalità austriaca, ad altre slovena, croata o ungherese, ma sono attribuzioni da prendere con le pinze (la nazionalità bosniaca negli anni Quaranta ancora non era definita). Di loro non si sa molto di più di questo; tutte le informazioni che mi è stato possibile trovare in italiano, su internet, provengono da siti cattolici e sono state redatte verosimilmente in occasione della cerimonia di beatificazione, intorno al 2011, nel settantesimo anniversario della strage. Con un po' d'impegno (e di serbo-croato) potremmo trovare anche notizie di fonte diversa, e non ci troveremmo in una situazione così simile a quella dei compilatori medievali. 

Quel che ci viene insomma tramandato è che le suore furono rapite e trucidate da un commando di cetnici, la milizia lealista serba che stava combattendo una guerra ambigua, contro gli occupanti tedeschi (e italiani) ma anche e soprattutto contro i partigiani jugoslavi di Tito. L'episodio è tragicamente verosimile: è la dinamica a ricordare più le miniature medievali che i film di guerra che danno forma al nostro immaginario. Sequestrate a Pale l'11 dicembre, rinchiuse in una caserma a Goražde il 15, quattro delle cinque suore avrebbero resistito a un tentativo di stupro gettandosi dalle finestre. Le leggende, che omettono sempre di indicare gli eventuali testimoni oculari della vicenda, specificano sempre invece con molta chiarezza che nessuna delle quattro morì a causa della caduta: ma furono tutte invece finite "a colpi di baionetta" dai cetnici.  La quinta sorella, la più anziana (76 anni), era sotto la custodia di un altro drappello: fu uccisa anche lei dai cetnici il 23 dicembre. Di fronte a fatti tanto cruenti, anche l'osservatore laico sente l'impulso a fare un passo indietro: è davvero così importante che siano riuscite tutte a lanciarsi dalla finestra, tutte e quattro, in così breve tempo ed esiguo spazio? È davvero importante che nessuna delle quattro sia morta a causa della caduta? Insomma, se i cristiani hanno deciso di raccontarla così, perché sollevare obiezioni? Perché, appunto, questo è il modo in cui si raccontavano le storie di martiri già nel mondo tardoantico. In particolare il salto nel vuoto delle suore richiama quello di Santa Pelagia di Antiochia, minacciata da legionari altrettanto minacciosi, cui Giovanni Crisostomo dedicò un elogio che forse le suore conoscevano. 

Se però il Crisostomo suggeriva che una buona cristiana dovesse preferire la morte alla perdita della verginità, in seguito la questione è diventata più spinosa, almeno in Occidente. A un certo punto l'entusiasmo con cui alcuni santi andavano verso il martirio è sembrato eccessivo; nel frattempo era stato messo nero su bianco che i suicidi non potevano ottenere il perdono di Dio, e quindi era opportuno ritoccare i passi in cui un santo nell'arena correva incontro alle bestie feroci, o forzava la mano armata di un titubante carnefice, o si lanciava, perlappunto, dalla cima di una torre o da una finestra. Il discrimine può essere stato, così come per tante altre cose, il Concilio di Trento; qualche decennio dopo, i samurai cristiani si fanno un punto d'onore di rifiutare la pratica del seppuku; quando Paolo Uchibori viene condotto presso i fanghi vulcanici di Unzen, domanda ai compagni di non gettarsi da soli ma di aspettare che siano i boia pagani a dare una spinta. Cosa cambia? Per i cronisti, poco o nulla. Per un cristiano, tutto. La distanza tra un martirio per la fede e un suicidio, nei fatti, è minima: ma per un cristiano il martirio è la strada maestra per il paradiso, laddove il suicidio schiude le porte dell'inferno. E se è possibile che Gesù Cristo Giudice applichi queste categorie con un minimo di buon senso e misericordia, da un punto di vista educativo non si può assolutamente correre il rischio di confondere le due cose. Quattro secoli dopo, chi tramanda la storia delle beate Marije sente ancora la necessità di stabilire con certezza che sì, si gettarono dalle finestre ma no, non morirono a causa della caduta, bensì delle baionette dei cetnici. 

Non solo gli agiografi devono allontanare ogni sospetto di suicidio, ma anche negare la possibilità che almeno una violenza sessuale su quattro sia stata commessa. Anche questo è un topos delle leggende di santi tardoantiche e medievali: ormai ne ho lette un po' e a memoria non mi sembra di aver mai trovato un caso in cui la violenza viene effettivamente consumata. Nei casi più realistici (come appunto quello di Pelagia) la vittima si salva con un sotterfugio e un gesto estremo; nella leggenda tipica è Dio stesso a intervenire, mediante miracoli più o meno spettacolari. Agnese e Lucia possono anche essere condannate al bordello; ne escono più pure che mai. Chi osa toccarle o anche solo guardarle finisce malissimo. Noi ovviamente siamo liberi di trovare tutto questo molto ingenuo; purché ogni tanto ci poniamo il problema: chi siamo, esattamente, noi?

Siamo esponenti di una civiltà che si vanta di curarsi della Verità più che dell'Ideologia; per cui, se qualche donna effettivamente è stata stuprata da un soldato, durante le persecuzioni di Diocleziano o anche millequattrocento anni dopo in un conflitto mondiale, ci piacerebbe esserne informati. Siccome è successo, riteniamo doveroso segnarcelo da qualche parte; magari dopo aver raccolto un po' di resoconti di questo genere riusciremmo anche a realizzare delle statistiche, scoprire chi violentava di più, eccetera eccetera. E mentre riflettiamo su queste cose, ecco che scoppia di nuovo una guerra, e intorno a noi un sacco di devoti della Verità comincia appunto a contare le violenze e gli stupri inflitti da una parte e dell'altra, senza lesinare i particolari. Alcuni di questi particolari dopo un po' risultano essere stati inventati ma è troppo tardi, c'è chi ormai li ha memorizzati e non smetterà più veramente di crederci. Insomma a guardarlo più da vicino, e in tempi di guerra, questo culto della Verità appare meno granitico di quanto sembrava; se gratti bene sotto le statistiche ci trovi di nuovo l'Ideologia. Niente di nuovo sotto il sole; chi combatte ha sempre messo in guardia i civili dal nemico bieco e stupratore; lo stesso nemico del resto molto spesso si rivela bieco e stupratore, la propaganda è una distorsione inevitabile in tempi di guerra,  e una guerra c'è sempre. 

Accettiamo la cosa; però mettiamo a verbale che gli agiografi non lavoravano così. Partendo da un presupposto che tutto sommato ancora condividiamo – la violenza sessuale è un crimine insopportabile – decidevano di cancellarlo. In una civiltà in cui la vittima di violenza sessuale sarebbe stata considerata meno pura, irrimediabilmente macchiata, se non addirittura connivente con il suo carnefice, gli agiografi preferivano scrivere che la vittima non era stata toccata; nemmeno in un bordello. Facevano un torto alla verosimiglianza e probabilmente alla stessa verità; nonché forse alla fantasia morbosa di qualche studioso; ma forse rispettavano le vittime molto più di quanto le stiamo rispettando noi, coi nostri referti, le nostre statistiche, i nostri video che dimostrano inoppugnabilmente che il nemico stupra più di noi. Forse le Marije non si sono salvate dalla violenza sessuale; magari non tutte e quattro. Ma avrebbero voluto risparmiarsi, e l'agiografo le ha risparmiate. Forse chi è davvero riuscita a saltare dalla finestra è morta sul colpo; ma non avrebbe voluto, e l'agiografo l'ha fatta morire in un altro modo. Cambia qualcosa? Per noi che non crediamo no, non cambia quasi nulla. Ma qualcuno ci crede: e per lui cambia tutto. 

sabato 2 dicembre 2023

Il Ponte sullo Stretto è un fake (almeno su facebook)

A proposito del Ponte sullo Stretto, la cui erezione ormai è imminente (non sto nella pelle), non avrei nulla da aggiungere a quel poco che ho scritto: senonché ho trovato una di quelle immagini che valgono davvero le proverbiali mille parole. Eccola qui dalla pagina Facebook di cui tutti stanno parlando: Ponte sullo Stretto di Messina.


Chissà se l'hanno fatta con un'AI – perché sembra più una fiaccolata che un'insurrezione – d'altro canto parliamo di una pagina amatoriale, mica si può pretendere una qualità professionale. In ogni caso mi sembra che il senso sia chiaro: gli italiani che stravedono per le grandi opere all'estero, appena si prova a farne una in Italia si mettono a protestare, maledetti provinciali. Ora, questo in generale potrebbe anche essere vero.

Ma nel caso del Ponte è una sciocchezza.

È esattamente la sciocchezza che cercavo di spiegare un anno fa, ma davvero non l'ho mai trovata esposta con tanta sfacciata chiarezza come nei meme di questa pagina Facebook. Una sciocchezza che è una specie di tappa obbligata per chiunque voglia sostenere non solo che il ponte sullo Stretto è fattibile, ma lo è in virtù del progetto approvato da un governo Berlusconi ormai vent'anni fa. Ma se quel progetto fu approvato, perché il ponte non c'è? In fin dei conti di governi Berlusconi ce ne fu più d'uno, e a parole erano tutti assolutamente convinti che il Ponte bisognava farlo, e bisognava farlo con quel progetto. 

Ciononostante il ponte non si è fatto. Perché?

Perché gli italiani non lo vogliono! Maledetti ingrati! Li vedete nella seconda immagine, con le fiaccole, pardon, torce? Non lo accettano proprio! Si mettono di traverso, lo boicottano, votano partiti antiponte, è una vergogna. Per fortuna che ci sono coraggiose pagine facebook amatoriali come Ponte sullo Stretto di Messina, che cercano di cambiare questo atteggiamento pubblicando informazioni assolutamente non di parte e simpatici meme come questo. Certo. 

Salvo che appunto, è una sciocchezza.

Non esistono italiani con le torce che non vogliono il ponte sullo Stretto. Ok, qualche manifestazione c'è stata, ma nulla di paragonabile all'esempio che tutti hanno in mente: i No Tav della Val di Susa. Quelli esistono e combattono contro un progetto concreto con pratiche di lotta a volte altrettanto concrete, da trent'anni e più. Non è difficile dimostrare come la loro ostilità abbia realmente rallentato la realizzazione di un'opera che (a differenza del Ponte) era considerata prioritaria dalla UE. Per contro, un movimento No Ponte, se pure esiste, è stato fin qui marginale; non ha bloccato nessun cantiere anche perché fin qui non c'è stato nulla da bloccare. Il fatto che po' di italiani, come me, manifestino un cauto scetticismo ogni volta che un governante tira fuori il Ponte non ha mai realmente impedito a nessun governante di fare il Ponte. Se il Ponte non si è fatto comunque, è stato per altri motivi: il primo che mi viene in mente è che forse non esisteva ancora la tecnologia per realizzarlo in sicurezza, ma può darsi che io sia il solito malfidato. Comunque no, gli "italiani" non seguono il dibattito sul Ponte con le torce in mano: siamo lì in attesa tranquilli, un po' scettici, che chi ha promesso più volte castelli in aria ce li costruisca. Siccome abbiamo pagato (e continuiamo a pagare), sarebbe il minimo.




***

La pagina Ponte sullo Stretto di Messina non esiste da molto – mi sembra di essermela trovata per la prima volta in bacheca l'estate scorsa. Faccio fatica a ricordarmi con precisione perché come molte pagine facebook, vive in un eterno presente: scrive più o meno sempre le stesse cose, con infinite variazioni minimali sullo stesso tema. Ogni post che pubblica contiene quasi tutte le informazioni fondamentali (il progetto del ponte è ottimo, ce lo copiano all'estero, se all'estero li fanno e qui da noi no è colpa di voi miscredenti), per cui letto il primo, li hai letti quasi tutti. Pubblicare un contenuto al giorno è già complicato in generale, figuratevi per qualcuno che ha deciso che ogni giorno scriverà più o meno la stessa cosa su un Ponte che per ora nemmeno esiste. Per cui a volte ai redattori non resta che attaccarsi ai commentatori ostili, come i cani che fanno chiasso intorno alla loro coda; rispondiamo a Caio73 che dice che una campata così lunga non può reggere il vento, ebbene no, il Messina Type Deck ha già dimostrato di reggere a tot venti alla tale velocità, bla bla, io non è che possa fingere più di tanto di capire cosa stanno dicendo, non sono un ingegnere. 

Sono un povero prof di geografia, per cui almeno una volta li ho beccati a scrivere un'imprecisione geografica (i giapponesi non avevano voluto mettere la ferrovia nell'Akashi perché non ne avevano bisogno). A giudicare dalla quantità dei traghetti nella stessa zona, è difficile credere a una cosa del genere. È molto più probabile che i progettisti non abbiano inserito la ferrovia perché non era sicura, del resto durante la costruzione un terremoto spostò i pilastri di quasi un centimetro. L'Akashi, ricordo, è stato per più di vent'anni il ponte a campata unica più lungo del mondo, e la campata in questione non arrivava a 2000 metri, mentre per arrivare dalla Calabria alla Sicilia ne servono 3000: è vero che l'ingegneria fa progressi, ma per vent'anni non ne ha più concretamente fatti. Poi l'anno scorso finalmente un ponte sui Dardanelli ha sorpassato il record dell'Akashi: di 32 metri. Il ponte sullo Stretto dovrebbe superarlo di altri mille. A questo punto di solito qualcuno obietta che siamo andati sulla Luna, il che è fantastico, però ci abbiamo messo tanti tentativi, abbiamo speso tanti soldi, dopodiché non è che siamo andati subito su Marte: i progressi tecnologici non si possono dare per scontati. Tra l'altro di che progressi tecnologici stiamo parlando, se il progetto per il Ponte continua a essere quello di vent'anni fa? Forse nel frattempo davvero unire Calabria e Sicilia potrebbe essere diventato ingegneristicamente più facile, ma il progetto rimane lo stesso, perché? La pagina Ponte sullo Stretto non spiega il perché. 



Una spiegazione l'ha proposta Report nella puntata della scorsa settimana: il progetto deve rimanere lo stesso perché è quello di Webuild (ex Impregilo). Salvini l'ha imposto per decreto: se si volesse cambiare il progetto, bisognerebbe fare una gara, ma se si facesse una gara, siamo sicuri che Webuild la vincerebbe? Evidentemente Salvini non ne è sicuro; ma Webuild non è che può essere messa alla porta, c'è ancora in corso una lunga vertenza giudiziaria, ci sarebbero penali miliardarie da pagare, tanto vale farle costruire il ponte, e poi chi vivrà vedrà. È una conclusione a cui arrivano quasi tutti quelli che stanno un po' nella stanza dei bottoni, compresi quelli che anni prima avevano criticato il ponte: Salvini, Renzi (i grillini no, ma forse non hanno avuto il tempo). Si vede che Webuild in quella stanza possiede un bottone più grosso di altri.

Sul piano della comunicazione, viceversa, c'è ancora qualcosa che si può migliorare. Dopo la puntata di Report, la pagina indipendente Ponte sullo Stretto ha subito pubblicato un post sugli errori di Report. Report di errori ne fa spesso, però sono professionisti: non è che che lanci l'amo e loro tirano fuori la lingua. Ci hanno messo pochi minuti a notare che il contenuto della pagina indipendente Ponte sullo Stretto era stato rapidamente diramato a tutti gli organi di stampa, e da chi? Da un PR di Webuild. "Una pagina Facebook indipendente con alle spalle un’agenzia di comunicazione internazionale?" Ma chi l'avrebbe detto mai! Sembrava così amatoriale...

Attaccare Report non è un gesto senza conseguenze. Nel giro di qualche ora la pagina è stata sospesa da Facebook, probabilmente per eccesso di segnalazioni. Poi è tornata on line; nel frattempo Report aggiungeva un poscritto al suo comunicato: "Dalle prime verifiche effettuate risulta che SEC & Partners si è limitata a segnalare un articolo, reperito nel web, che fornisce informazioni sull’opera, ma che non ha, né ha mai avuto, alcun rapporto con la pagina Facebook “Ponte sullo Stretto di Messina”, come gli stessi amministratori della pagina hanno peraltro già dichiarato con un post successivo". E noi ci crediamo. Perché no? Se dobbiamo credere che vent'anni fa esistesse un progetto per una campata unica che in un colpo solo superava del 50% il record mondiale, un ponte all'avanguardia che non è stato realizzato malgrado gli sforzi dei governanti, dei lobbisti e dei costruttori, a causa del maledetto provincialismo italico, perché non dovremmo credere che un paio di ragazzi abbiano deciso di passare il tempo a scrivere ogni giorno un contenuto a favore del Ponte sullo Stretto, su una pagina Fb che si chiama Ponte sullo Stretto? Chi di voi, avendo studiato ingegneria e quel tipo di cose, non amerebbe passare il tempo a scrivere più o meno le stesse cose su un ponte che nel frattempo nessuno sta costruendo? io non so davvero perché invece mi sono messo a scrivere di canzoni dei Beatles, o santi del calendario, quando avrei potuto divertirmi molto di più scrivendo tutti i giorni che i più lunghi ponti del mondo sono tutti "Messina Type". 




Scrivono proprio così: dovete infatti sapere che William Brown, l'ingegnere che concepì l'ambizioso progetto che Salvini ha deciso di riprendere senza cambiare uno strallo, ebbene in quell'occasione avrebbe disegnato un avveniristico impalcato aerodinamico che da quel momento sarebbe stato usato in tanti altri megaponti, e che viene generalmente chiamato Messina Type Deck, l'impalcato tipo Messina. Vi rendete conto? Il ponte sui Dardanelli ha il Messina Type Deck; il ponte di Xihoumen ha il Messina Type Deck: starebbero tutti copiando un ponte che non esiste, e ricordo che non esiste esclusivamente a causa dello scetticismo oscurantista di noi poveri italiani. Non ci credete? Googlate, bingate Messina Type Deck...

...ops, troverete solo comunicazioni della Webuild. O della pagina Ponte sullo Stretto. Curiosissima coincidenza. Su queste pagine c'è scritto che il ponte sui Dardanelli ha il Messina Type Deck, il che non è improbabile visto che al progetto collaborò lo stesso Brown; ma per ora non ci sono pagine in turco che citino il Messina Type Deck riferendosi al ponte sui Dardanelli (o pagine in cinese che citino il Messina Type Deck riferendosi al ponte di Xihoumen). Anzi Bing dice proprio che l'impalcato di questi due ponti è diverso, ma non mi fido molto di quello che dice Bing. E non sono un ingegnere, ricordo: per cui non ho motivo di dubitare che l'impalcato di questi lunghissimi ponti ricordi, o sia ispirato, al progetto del Ponte sullo Stretto. 

Sono però un comunicatore, magari amatoriale, ma in tanti anni qualcosa l'ho capito, e credo di poter concludere che l'espressione "Messina Type Deck" è tipica della comunicazione corporate di Webuild. È una cosa che usano soltanto loro, con una piccola, stranissima eccezione: la pagina Facebook Ponte sullo Stretto di Messina. Che però dice di essere una pagina indipendente. Non credo che potrò mai dimostrare il contrario. Nemmeno ci provo. 

Resto così, scettico, con la mia fiaccola in mano, a domandarmi: ma se il progetto era così buono, perché il ponte non l'hanno già fatto? E perché hanno bisogno di convincerci in questi modi così contorti? E se davvero la pagina facebook è indipendente, perché non c'è verso di capire chi la gestisce? Davvero: non c'è scritto da nessuna parte. Dicono che sono indipendenti, e non dicono chi sono. Magari ho cercato male, purtroppo anch'io sono un amatore, non è che posso stare tutta la notta a googlare. Ma credo che il modo migliore per convincere i propri detrattori, e anche i propri follower, sarebbe metterci la faccia. Eccoci, ci chiamiamo così e così, siamo laureati in ingegneria qui e qui, non abbiamo conflitti di interesse, eccetera eccetera. Ci vorrebbe così poco. Io mi chiamo Leonardo Tondelli, insegno italiano storia e geografia, non ho mai lavorato per la Webuild, vedete? Bastano due righe. Anche una sola. 

venerdì 1 dicembre 2023

Il profeta (A)bacucco

2 dicembre: Santo Abacuc, profeta (VI secolo aC)

C'era un vecchio dizionarietto dei santi della Tea edizioni che come sottotitolo aveva Da Abacuc a Zosimo, tutti i protagonisti della fede, insomma se non avesse altre qualità il profeta potrebbe sempre rivendicare di essere il primo tra i santi almeno in ordine alfabetico (un alfabeto che non lesse mai in vita sua). Purtroppo la Bibliotheca Sanctorum ricorda, prima di lui, una venerabile Aalaide, un Aaron (che poi sarebbe Aronne), un sant'Abachirion e un sant'Abaco. Abacuc è appena il quinto, ma anch'io volendo scrivere un sottotitolo a effetto partirei da Abacuc. È un nome che dà soddisfazione, ha quel suono da xilofono che suggerisce un trapestio di vecchie ossa, o una testa pelata percossa. A quanto pare il lemma "bacucco" nasce proprio da queste suggestioni, e dall'iconografia che a un certo punto stabilì che tra tanti profeti, Abacuc era uno di quelli più anziani e calvi, se non l'anziano e il calvo per eccellenza. Forse fu il successo della statua di Donatello, uno dei primi capolavori del Rinascimento, un'opera così cara al suo autore che secondo Vasari era solito giurare su di essa. I fiorentini che la ammiravano esposta su una delle nicchie del terzo ordine del campanile di Giotto la battezzarono "Zuccone", e benché non siamo completamente sicuri che ritraesse Abacuc (potrebbe anche trattarsi di Geremia) col tempo l'allitterazione Zuc-Cuc è risultata irresistibile. 

Così, per una pura associazione di suoni e significati, il profeta si è ritrovato una fama di vecchio brontolone piuttosto ingiusta, per un autore di poche parole ma molto incisive: il suo libro è brevissimo ma composto con una certa eleganza, e contiene almeno un paio di versetti che non ci hanno più abbandonato. Di fronte alla tragedia imminente (l'invasione neobabilonese), Abacuc accetta la lettura degli altri profeti: si tratta di una punizione collettiva che Dio impartisce al suo popolo disobbediente. Ma cosa sarà degli individui che hanno continuato a rispettare Dio e le sue leggi? Dovranno patire anche loro gli effetti della vendetta di Dio? Abacuc spera di no, e a un certo punto (capitolo 2, versetto 4) suggerisce che "il giusto vivrà per la sua fede". La frase sarà ripresa più volte da San Paolo, che darà un significato ultraterreno al verbo "vivrà", e costituirà l'architrave della teologia protestante: la giustificazione secondo la fede. 

L'altra citazione immancabile è il versetto finale del libro, in cui il Signore, comparso nella sua gloria a salvare i giusti, consente al profeta di salire verso lui con "passi di cerva": ci sono profeti che volano, ma Abacuc preferisce zampettare. Eppure è proprio lui che viene scelto da uno degli autori del libro di Daniele come protagonista di un volo miracoloso: in questo episodio (che riprende quello famoso della fossa dei leoni, ma è sicuramente un'aggiunta posteriore), Abacuc sta preparando una minestra "per i mietitori", il che ci sorprende perché fino a quel momento Abacuc ci era sembrato un intellettuale più che un addetto alla refezione. Può darsi che dopo l'invasione neobabilonese anche i profeti si fossero messi a sgobbare: comunque mentre preparava questa minestra, un angelo lo "afferrò per i capelli" e "con la velocità del vento lo trasferì in Babilonia e lo posò sull'orlo della fossa dei leoni” in cui era stato gettato Daniele. Dunque, di tutti i profeti della Bibbia, Donatello avrebbe ritratto come calvo proprio quello che nella Bibbia viene afferrato da un angelo per i capelli. Ma insomma Daniele può finalmente mangiarsi una minestra, mentre l'angelo riporta immediatamente Abacuc in Palestina. Non è dato sapere cos'abbiano mangiato quel giorno i mietitori. 

martedì 28 novembre 2023

Gerusalemme, sopra ogni gioia


Il cessate-il-fuoco distende parzialmente i nervi e allenta i riflessi che fin qui vi hanno risparmiato diverse riflessioni oziose, ad esempio: avete presente quelli che hanno preso le distanze dalla manifestazione di Non Una Di Meno perché Non Una Di Meno non prendeva le distanze da Hamas, ecco, molto probabilmente stavano usando un argomento pretestuoso (Non Una Di Meno ha preso le distanze da Hamas), ma secondo voi qual era il vero pretesto: la violenza sulle donne o la causa israelopalestinese?

Ovvero: hanno usato la Palestina come scusa per boicottare una manifestazione contro la violenza di genere, o hanno approfittato della grande esposizione che ha avuto in questi giorni il dibattito sulla violenza di genere per aprire un altro fronte contro i nemici di Israele e chi li appoggia? Gerusalemme è semplicemente una scusa per far notare la propria distanza insormontabile con un certo tipo di sinistra, o è l'unica vera cosa che interessa, il motivo stesso per cui la distanza con quel tipo di sinistra è diventato insormontabile?

Vi avevo avvertito che era una riflessione oziosa – è nato prima l'uovo o la gallina? Può essere l'occasione per mettere a verbale una questione che mi intriga da decenni, ovvero: perché in qualsiasi situazione che preveda una presa di posizione politica, a un certo punto ci si mette a litigare su Gerusalemme, come se fosse una questione di fondamentale importanza, mentre a mente fredda bisognerebbe invece concludere che non lo è? Nemmeno dopo giorni come questi, in cui un piccolo conflitto asimmetrico in una piccola regione del mondo ha fatto più vittime che la grande guerra russo-ucraina su un fronte di centinaia di chilometri: nemmeno oggi, se volessimo restare razionali, potremmo concludere che il destino del mondo dipende dalla risoluzione del conflitto israelopalestinese. È una situazione terribilmente intricata, forse la più intricata di tutte, ma è anche una guerra come tante: perché ci appassiona così? Perché (ma questa forse è una sensazione mia) sembra diventare sempre più cruciale, man mano che il tempo passa? Se è una guerra di civiltà, ne abbiamo altre; se è un conflitto postcoloniale, non sarà l'ultimo; se è una delle caselle del Grande Gioco del Medio Oriente, non è quella più popolata né contiene la maggior parte delle risorse. 

Calenda vigila.

Dopodiché, è chiaro che mi dispiace per israeliani e palestinesi. Ma se dal generico dispiacere passo all'ansia per il futuro, se dovessi mettere per iscritto le prime dieci cose che mi preoccupano, ho la sensazione che Gerusalemme non ci entrerebbe. C'è l'emergenza climatica, è l'anno più caldo di sempre; non sappiamo esattamente cosa mangeranno i nostri figli quando avranno la mia età; dalla Cina sta arrivando un'altra ondata di polmoniti sospette, eccetera eccetera. Abbiamo così tanti motivi di preoccuparci, ma per qualche motivo Gerusalemme ciclicamente torna a catalizzare non solo la nostra attenzione, ma la nostra aggressività. Non saprei dire il perché. Quel che posso dire è che da quando mi ricordo di essere al mondo e partecipo a iniziative politiche, ho avuto modo di notare che procedendo il tempo in senso lineare sulla retta t, prima o poi si arriva sempre a un punto che definirò Y, in cui qualcuno ti chiede di prendere una posizione su Israele e Palestina. 

Ciò avviene invariabilmente e indifferentemente dal motivo per cui è stata organizzata l'iniziativa, ovvero potrebbe trattarsi di una raccolta fondi per gli ex gattini ciechi o per il buco dell'ozono, non importa; la prima volta che assistei con i miei increduli occhi a un evento Y stavamo cercando di organizzare un circolo Arci, che dalle nostre parti significava un bar e una pista per ballare, e mentre ne discutevamo un tizio prese la parola per spiegarci che Arafat voleva mettere gli ebrei nei forni. Lì per lì ci restammo male: non perché credessimo in quel momento che Arafat volesse mettere gli ebrei nei forni, ma insomma come si fa a discutere di un bar quando ci sono problemi del genere all'ordine del giorno, che figura ci stavamo facendo, altro che bar, parliamo un poco di questo Arafat. Vorrei poter dire che è l'ultima volta che ci sono cascato ma ahimè no, altre discussioni furono fatte, altre posizioni furono prese, il bar rimase aperto due mesi (due mesi incredibili, va detto) e però cinque anni dopo mi ritrovavo a Khan Yunis a fissare le torrette di guardia degli israeliani e i buchi delle granate nel cemento, domandandomi: ma che ci faccio, cos'è successo, io ero lì che volevo aprire un bar.

Ma io non faccio probabilmente testo. Ho questa strana formazione biblica (non particolarmente cattolica) per cui in fondo me lo aspetto che ogni strada dialettica ci conduca prima o poi a Gerusalemme, e che l'Armageddon debba cominciare in una spianata lì nei pressi; mentre non ho mai capito come mai gente in teoria laicissima si lasci coinvolgere con tanta foga in dilemmi così assurdi. Davvero, perché non succede mai in mezzo a un corteo femminista scoppi una diatriba sulla Libia o lo Yemen del Nord, cos'ha di Gerusalemme di così fondamentale per tutti, non si sa. Escludo che siano gli ebrei italiani, i primi a dividersi in squadre e a prendere posizioni molto forti (forse anche perché non sentono, come altri adulti, un impulso ad autocensurarle: capita così che tra tutti gli organi di stampa in Italia, un pezzo che ricollega l'attivismo filopalestinese a George Soros, insomma il complotto ebraico contro gli ebrei, venga pubblicato proprio su Open). Si tratta di una piccola comunità, certo ben rappresentata sui media, ma mi sembra comunque inverosimile che riescano a scatenare una diatriba così diffusa e capillare.

  

Io me la ricordo già così

Poi ci sono gli israeliani, ovviamente, e i palestinesi, e ogni volta che li vediamo all'opera nel tentativo di difendere la propria parte, con toni che tradiscono un'aggressività ancora difficile da accettare alle nostre latitudini, mi trovo a rammentare a osservatori sbigottiti che no, non sono simpatici; cosa vi aspettate da gente che si odia da 80 anni, che può nominare padri nonni e bisnonni che si sono fatti fuori a vicenda? Hanno un pelo sullo stomaco che noi neanche ci immaginiamo. È inevitabile che se c'è una manifestazione nazionale su qualsiasi argomento loro cercheranno di parteciparci con più bandiere possibili o mostrare polemicamente che sono stati esclusi con più bandiere possibili. È la continuazione della guerra con altri mezzi, lo hanno sempre fatto ed entro certi limiti è consentito che lo facciano, c'è libertà di espressione qui da noi. Il che non significa che sia giusto dare loro più visibilità di quanta ne meritano, certo, dipende tutto dai giornalisti.

Non credo di essere stato l'unico a notare che nel paio di giorni precedenti a una manifestazione nazionale contro la violenza di genere, sugli organi di stampa più vicini a Israele si è cominciato a ricordare che il 7 ottobre erano stati commessi stupri etnici. Nulla che non sapessimo già, ma improvvisamente se ne riparlava. Sono operazioni di comunicazione che mi lasciano sempre a metà tra l'ammirato e l'allibito, perché davvero, c'è qualcosa di geniale ma anche di molto cinico nel saper sempre trovare in ogni argomento il punto Y, quello che dividerà gli ascoltatori in due fronti che non hanno mai niente a che vedere con la causa per cui stavano marciando, ma sempre con questa benemaledetta Gerusalemme. 

Da decenni la questione israelopalestinese è una cartina al tornasole molto più efficace di teorie economiche o statistiche sul reddito: così come una volta per capire con che ragazzo uscivi dovevi chiedergli che musica ascoltava, da trent'anni per capire se una persona è di sinistra, e di che sinistra è, gli devi semplicemente chiedere cosa ne pensa dei Territori Occupati. E non ci sono sfumature, presentatemi una sola persona che ha cambiato idea sull'argomento almeno dall'assassinio di Rabin in poi. Sono successe tante cose, ma chi stava con gli israeliani sta ancora con loro, e chi stava coi palestinesi, beh, magari la kefiah l'ha messa via, ma a parte questo è ancora dalla stessa parte. Insomma per quanto ne abbiamo parlato in questi trent'anni, non stavamo davvero discutendo. Abbiamo imparato qualcosa? Più che altro abbiamo imparato come ragionano gli avversari, ormai i discorsi sono diventati slogan, gli slogan sono diventati meme, i meme un puro gesticolio. Il vero motivo per cui non litigo più con i sionisti è che mi annoio. Dicono sempre le stesse cose e probabilmente le dovrei dire anch'io. Ogni tanto passo a controllarli e mi sembra il giorno della marmotta, stanno di nuovo parlando di com'è davvero andata nel '48 e del Gran Muftì. Rispetto a loro mi sembra di avere una vita piena e complessa, e allo stesso tempo capisco che per loro dev'essere riposante avere un solo argomento, e su quell'argomento delle idee così chiare e definitive. Hanno un'idea da difendere, che tra le altre cose nel 1948 si è fatta nazione (per quanto a chiamarli nazionalisti si offendano), e per difenderla sono pronti a qualsiasi paradosso, a qualsiasi espediente retorico, il che consentirebbe loro un'esplosione di creatività, se fossero persone creative – salvo che non è quasi mai il caso, non so il perché, forse la creatività rifugge le idee chiare e definitive. Israele deve sopravvivere (dal momento che è minacciata, ogni istante, nella sua stessa esistenza) e questa sopravvivenza è prioritaria su qualsiasi altro problema, anzi, ogni altro problema è conseguente e vale la pena di essere risolto soltanto se contribuisce alla sopravvivenza di Israele e nella modalità in cui contribuisce alla sopravvivenza di Israele. Fiat Israel pereat mundus, è una cosa che leggendoli a volte mi esce dalle labbra. E un po' ci credo, il mondo potrebbe davvero finire. Magari non stavolta, ma intanto c'è già chi suggerisce che Biden si stia giocando la rielezione. Lì c'è un problema a monte: possibile che i Democratici in quattro anni non abbiano trovato meglio del vecchio Biden? Anzi due problemi a monte: possibile che con la loro invidiabile civiltà giuridica Donald Trump sia ancora in lizza? 

Dua Lipa contro il sionismo: chi vincerà?

Quando tutto intorno a me diventa un problema, non posso non sospettare che il problema sia io, il modo in cui mi ostino a vedere le cose. La mia pretesa di individuare problemi che ci minacciano in quanto umanità, problemi che riusciremo a risolvere soltanto tutti assieme: l'ambiente, la pace (intesa anche come riduzione progressiva e sistematica della violenza di genere), eccetera. Non è che alla fine ho sviluppato la mia forma di socialismo utopico? Non è che mi sto illudendo anch'io che il mondo si salverà convincendo i tycoon a convertirsi all'energia pulita e al riciclaggio, mandando qualche esperto a insegnare le emozioni nelle scuole... Gerusalemme sta lì per ricordarmi che no, i problemi non si risolvono mettendosi tutti d'accordo, ma sconfiggendo un avversario che ha una soluzione diversa dalla tua. Con tutte le armi metaforiche e non metaforiche, consentite e non consentite. Filoisraeliani e filopalestinesi mi fanno paura perché capisco che alla fine hanno una priorità che viene prima della pace del mondo, della tutela dell'ambiente e della mia, della loro stessa sopravvivenza, e benché quella priorità da fuori sembri tanto assurda quanto piantare una cazzo di bandierina su una spianata, forse il punto è semplicemente questo: il mondo ha il senso che tu decidi di dargli; non può averne tanti, ne ha uno solo e gli altri dipenderanno da quello. L'avevo pur letta questa cosa, da qualche parte: se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; resti la mia lingua attaccata al palato, se io non mi ricordo di te, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.

martedì 21 novembre 2023

Femminicidi ne avremo sempre

 

Istat.it

– Dopo anni che parliamo di populismo, rinfacciandocelo a vicenda, proviamo a essere più precisi: usare i fatti di cronaca per imporre determinate priorità è populismo attivo (ad es.: vuoi imporre un inasprimento dei controlli e ti inventi un'emergenza rave). Lasciare viceversa che i fatti di cronaca dettino le priorità è populismo passivo. Il primo lo puoi fare se controlli i media, o se sei controllato dalla stessa proprietà che controlla gran parte dei media. Il secondo lo fai se ormai stai nell'angolino e l'unico modo per farti sentire fuori dal ghetto è combattere le battaglie che gli altri vogliano che tu combatta; ovviamente le perdi, o se le vinci, altri se ne prenderanno il merito (la Schlein chiede l'ora di educazione affettiva; aa Meloni ce la darà, ringrazieranno aa Meloni).

– I fatti di cronaca sono emergenze percepite. Un cane morsica un bambino e improvvisamente è emergenza cani mordaci. Non significa che non possa veramente esserci una recrudescenza di morsicamenti, ma è un'evenienza irrelata; i media semplicemente registrano che i bambini morsicati funzionano, e si mettono a cercare altre notizie simili. C'è un'emergenza femminicidio in Italia? Statisticamente si fa una certa fatica a dirlo. Quel che è sicuro è che a ogni femminicidio esplode un boato di reazioni che ci coinvolge tutti per diversi giorni, e questo ai media indubbiamente interessa. Si stringe ogni volta un'alleanza sempre meno precaria tra femminismo e cronaca nera; per un po' sembra che parlino degli stessi contenuti e con la stessa retorica. 

– Capisco che nessun professionista della politica oggi possa ignorare i fatti di cronaca nera, e rifiutarsi di cavalcarne l'ondata quando arriva – anche perché l'alternativa sarebbe lasciarsi travolgerne. Credo ugualmente che la differenza tra populismo e politica sia la capacità di distinguere tra singoli fatti di cronaca ed emergenze sociali. Lo strumento che ci consente di percepire le emergenze è la statistica, e la statistica parte ovviamente dal conteggio dei singoli episodi. Ma per essere una buona statistica, deve raccoglierne tanti, il più possibile; mentre se lavora su campioni ridotti, rischia più facilmente di essere una statistica tendenziosa e cattiva. Se per assurdo riduciamo il campione a un singolo fatto, la statistica non ci dice più niente. Ovvero: il singolo fatto di cronaca ha un significato politico tendente allo zero. Di fronte al singolo fatto di cronaca, i politici dovrebbero alzare le mani come i fisici quantistici al cospetto di una singola particella.

Istat.it

– I fatti di cronaca, quando sono tragici, possono ispirare arte e letteratura e colpirci con la stessa forza anche ad anni di distanza. Ma restano fatti di cronaca, episodi isolati in cui il caso gioca un ruolo importante. Se una farfalla non avesse battuto le ali quella sera Giulia Cecchettin forse non sarebbe uscita con l'ex, oggi sarebbe viva, noi non la conosceremmo, e la questione della violenza di genere sarebbe ugualmente grave. Possiamo non darci pace al pensiero, possiamo continuare a domandarci perché è successo quello che è successo, ma non lo sapremo mai, perché nessuno strumento può darci la risposta a un singolo perché. Possiamo senz'altro piangere, chi vuole può pregare. Ma dovremmo resistere all'impulso di fare politica in quel momento: formare un involucro di rispetto, di raccoglimento, che sospenda il dibattito, anche solo per quel paio di giorni necessario a evitare che il lutto dei famigliari diventi un video virale, che sui social si scateni la gara tra prefiche professioniste e aspiranti tali; che ideologi laici scoprano senza neanche accorgersene le proprietà purificatrici dell'esame di coscienza e propongano a tutti i maschi di confessare i peccati di pensiero o di omissione, che i professionisti della politica sentano la necessità di proporre soluzioni rapide e risolutive. Anche perché...

– Nel 90% dei casi queste soluzioni rapide e risolutive prevedono un intervento della scuola, l'unica entità del resto che si possa prestare a qualsiasi intervento a costo zero. Insomma cosa insegni tu oggi, geografia? matematica, storia dell'arte? Nessun problema, facciamo un consiglio di classe straordinario, scriviamo un "progetto" e tra una settimana comincerai con tutta la tua competenza e professionalità a spiegare ai ragazzi come non femminicidiare quando sei grande. Funzionerà senz'altro, perché "farà media", mica come le prove Invalsi. Ora, mi dispiace contraddire tra l'altro una delle artiste viventi che più ammiro al mondo, ma è una cazzata. L'educazione all'affettività la facciamo già, gli interventi con gli psicologi li facciamo già, possiamo farne di più, ma dare i voti su queste cose significa invitare i ragazzini a perfezionare eventuali atteggiamenti manipolatori. È davvero così difficile capire che i ragazzi, a scuola, tendono a restituire agli insegnanti quello che gli insegnanti si aspettano da loro? Se propongo loro di scrivere, ad esempio un racconto dell'orrore (dopo avergli mostrato una serie di strumenti per scriverli), essi cercheranno di scrivere il racconto dell'orrore che spaventi il loro insegnante. Se gli chiedo di farmi un tema su quanto è sbagliato picchiare le donne, loro ne scriveranno di bellissimi che mi commuoveranno. Questo significa che abbiano acquisito una maggiore maturità emotiva? No, significa semplicemente che hanno capito come si commuove un prof di mezza età con un po' di retorica, in questo caso femminista, poi magari scoppia una guerra e tutti a scrivere temi su quanto è bella la pace. Alcuni di loro magari ci prendono gusto e poi da grandi useranno le competenze acquisite per manipolare famigliari e amanti. L'educazione affettiva si fa in altri modi; non pretendo di conoscerli, ma credo che un passaggio fondamentale la scuola italiana lo abbia capito già tanti anni fa, ed è quello di mettere coetanei e coetanee di fianco, sugli stessi banchi. Questa coabitazione funziona meglio di centinaia di lezioni teoriche su quanto è sbagliato picchiare le ragazze; non a caso è uno degli aspetti della scuola pubblica che ogni tanto qualche riformatore vorrebbe superare perché in effetti, sì, le classi monosex da un punto di vista meramente formativo sono più efficienti. 

– Ma se a scuola facciamo già tante cose, perché il numero dei femminicidi non cala? Beh, un po' cala. Sì, ma non abbastanza: ovvero, meno di quanto calano gli altri omicidi. L'emergenza sarebbe questa. Allora, io non so il perché. Ho qualche esperienza, ma non abbastanza da montare in cattedra. So quanto fosse facile, in passato, assumere atteggiamenti che oggi riteniamo abusanti e che quando ero giovane io (non tantissimo tempo fa) erano normalissime scenate di gelosia. Ricordo che a vent'anni la rottura di una relazione comportava una sofferenza che nessuno mi aveva educato a gestire, e che portava anche individui sostanzialmente inoffensivi come me a gesti di idiozia inconcepibile, cose per le quali proverò vergogna finché campo – ormai posso dirlo, visto che a trent'anni di distanza la vergogna non si è nemmeno dimezzata. Ma che a muovere i miei passi in quei momenti fosse il Patriarcato, ebbene no, non riesco a dirlo. Quel che mi schiantava era piuttosto che il Patriarcato non funzionasse più, che le ragazze si sentissero già in diritto di sganciarmi senza che io potessi far valere nessun argomento. Può darsi che il numero di femminicidi non si stia abbassando proprio perché c'è una lotta in corso. Sarà ancora molto lunga e non ho grandi idee su come combatterla; esami di coscienza collettivi non mi sembrano così efficaci; bei voti a chi scrive No Alla Violenza credo siano ancora meno efficaci. Dipende anche da cosa ci aspettiamo dalla vittoria: la riduzione a zero dei femminicidi? Non succederà mai, i fatti di cronaca ci saranno sempre e ci faranno piangere sempre. Di nessuno sospettate come di chi propone di eliminarli all'improvviso.  

giovedì 16 novembre 2023

Io sciopero quanto posso, finché posso, perché posso


Domani venerdì 17 novembre, sarebbe stato difficile trovare una data più lugubre ma la scaramanzia rovina solo chi ci crede, io sciopero per otto ore, e spero anche voi. Magari qualcuno è curioso del perché, ebbene: io sciopero perché posso. È un mio diritto, ne approfitto. Potremmo anche finirla qui. Invece no, andò avanti: a questo servivano i blog, ad andare avanti fino a esaurimento della pazienza dei lettori. Domani sciopero perché:

– Scioperano le scuole e io ci lavoro, e sono stanco di sentirmi ogni giorno più povero mentre cercano di vendermi tablet e lavagne interattive (per quelle i soldi ci sono sempre) e mi tagliano le cattedre, i sostegni, i fondi per le supplenze brevi, tutte quelle cose che mi consentirebbero di fare davvero il mio mestiere e non passare il tempo a tappare i buchi dei tappi precedenti. Ma a parte questo:

– Sciopera il settore scuola, il mio comparto, ed è da anni che io me la prendo coi miei colleghi perché non scioperano abbastanza o aderiscono a scioperi civetta, scioperi ballerini promossi da sigle fantasma, scioperi farsa. Questo è uno sciopero compatto, promosso dalle principali sigle sindacali, e tiriamo una tendina pietosa sulla cosiddetta Cisl. Ma a parte questo:

Sciopera il mio sindacato, che non è immune da difetti ed errori e in tanti anni ne ha commessi tanti, ma è ancora il mio sindacato e io mi fido. Ma a parte questo: 

– Non mi piace la finanziaria del governo, anche se devo ammettere che poteva andare molto peggio, vista la feccia da cui provengono. No, chiedo scusa, non dovrei parlare in questi termini. "Provengono" implica che a un certo punto se ne siano andati e invece no, io questo governo continuo a vederlo galleggiare nella feccia. Dopodiché da gente di così pochi scrupoli, di scarsa nulla dirittura morale e di risibile cultura potevo anche immaginarmi una finanziaria più genuflessa ai padroni, e tuttavia non sarò io a tendere una mano a codesta gente, non è così che funziona la democrazia, finché c'è. Io la mano devo già tenderla agli ex grillini, credete non mi costi? Se voi volete aiutare aa Meloni e la sua corte dei miracoli, prego. Io sciopero. È un mio diritto. Ma a parte questo:

– Questa cosa di esser nato nell'unico Paese in Europa dove più o meno da quando mi sono messo a lavorare non è mai cresciuto il salario medio, capisco che non dipenda da un solo fattore ma da un complesso insieme di fattori, ma ugualmente non mi va più di tanto giù. E a proposito:

– Questa cosa che probabilmente non andrò mai in pensione, perché la dovrei prendere così sportivamente? Va bene, in pensione non avrò mai il diritto di andarci, ma di scioperare sì. E inoltre:

– Salvini si è molto arrabbiato e sta precettando alla cazzo; ora ditemi che questo non fa venire voglia di scioperare anche a voi? Io ne avevo già, di sicuro non me la stanno facendo passare. Ma più in generale:

– Quella storia del premierato, ora io lo so che probabilmente non ce la faranno neanche stavolta, visto che sono più sgarrupati del solito (ma lo stesso mi fa paura); lo so che rispetto a quegli improvvisati dei renziani almeno Meloni & co. sono coerenti, il desiderio di oltrepassare il parlamentarismo è una loro costante sin dal 1919; lo so che gli scioperi non sono lo strumento tecnicamente più preciso per protestare contro una riforma costituzionale; e però qui abbiamo già al governo gente che non sa cos'è il diritto allo sciopero: vogliamo anche dargli il premierato, e poi cosa? In attesa che salgano al balcone a spiegarci gli imperativi categorici e con chi belligereremo l'anno prossimo, io sciopero: giusto per ricordare a lorsignori che è un diritto, e che se vogliono togliermelo serviranno come minimo mazzate. E quindi, in definitiva:

– Io sciopero perché posso, davvero. Ho la sensazione che qualcuno questa cosa non la capisca, e non è la prima volta che gliela provano a spiegare. C'è una specie di analfabetismo selettivissimo che coinvolge gente che sui social e in tv ti spiega l'economia, ti spiega il mondo del lavoro, ti spiega la qualunque e poi al primo sciopero casca dal pero, non ne ha mai sentito parlare, è convinto che non sia un diritto, tra le altre cose ignora il concetto di riduzione del trattamento economico, di trattenuta insomma. Credono che siamo come i ragazzini che saltano scuola a gratis, ebbene no, no, no. Se questo fosse l'unico motivo per scioperare, sarebbe comunque un ottimo motivo: io sciopero perché me lo posso permettere, lavoro, produco, guadagno e sciopero, capito? E se non lo hai capito, chi ti ha venduto la laurea ti ha fregato, furbacchione. Certo, questo implica anche che:

– Io sciopero perché sono un privilegiato. Altri non se lo possono permettere. Non lavorano, o non lavorano e guadagnano abbastanza, e quindi non possono. Precisamente. E io sciopero anche per loro. Per quel che posso, finché posso, siccome posso, io sciopero. Spero anche voi. 

mercoledì 8 novembre 2023

Io gli israeliani però li capisco


Lo voglio dire a un punto qualsiasi di questo massacro: io capisco gli israeliani. Vorrei dire: li compatisco, se la parola italiana non si portasse con sé una sfumatura negativa, là dove vorrei semplicemente intendere: soffro con loro. Ho la sensazione di soffrire più con loro che coi palestinesi, per tutta una serie di motivi. E non li giudico, per lo stesso motivo per cui non giudico i palestinesi: perché giudicare non spetta a me. Per quanto i social, e in generale la mediasfera, possano avervi convinto di trovarvi in una corte internazionale permanente dove con la pressione di un tasto potete condannare Hamas, i coloni, Netanyahu, la Jihad, il Likud, ebbene no: questa cosa è un'illusione. Nessuno ci ha veramente convocato, nessuno saprà veramente che farsene del nostro giudizio – al massimo qualche profilazione per cercare di venderci un libro, o un costume da bagno, e soprattutto per metterci in contatto con gente che non la pensa come noi, così possiamo litigare a lungo e nella foga cliccare per sbaglio su altre inserzioni. Non siamo giudici internazionali, non siamo proprio giudici in generale; siamo banali osservatori e la cosa migliore che possiamo fare è cercare di capire cosa sta succedendo: una missione a cui la maggior parte dei giornalisti italiani mi pare abbia rinunciato. 

Qui accade qualcosa di non dissimile a quanto è successo con l'Ucraina, ovvero che dopo un'iniziale sorpresa ci tocca constatare che gli avvenimenti tanto imprevisti erano in realtà inevitabili, la conseguenza di decisioni prese anni fa, con troppa leggerezza; tanto che chi li ha prese spesso è già fuori dai giochi. Allo stesso modo, quel famoso 7 ottobre in cui "comincia tutto", secondo una retorica che trasuda di malafede, è un giorno che effettivamente ci ha preso alla sprovvista, ma che ora ci sembra inevitabile. Se la scommessa di Netanyahu – e in generale della classe dirigente israeliana – era mantenere la Striscia in uno stato di ebollizione permanente, evitando con ciclici interventi mirati che saltasse il coperchio, ebbene, il piano richiedeva il mantenimento di un'attenzione costante e capillare che nemmeno con tutti i droni del mondo Israele poteva permettersi; tanto più che prima o poi i droni avrebbe cominciato a usarli anche Hamas. Il 7 ottobre avrebbe potuto succedere qualche anno fa o tra qualche anno, ma prima o poi sarebbe successo, e questo è un motivo per cui capisco gli israeliani: da anni dormono, come noi, di fianco a una o più bombe a orologeria. 

In arancione i caduti palestinesi, in viola gli israeliani. CNN.

Israele è una nazione giovane (28 anni l'età media) che si trova in una situazione senza uscita a causa di scelte fatte ormai due generazioni fa. Le colpe dei bisnonni non dovrebbero ricadere sui figli, ma nei fatti è così. A chi è tanto lesto a condannare questo e quello, continuo a chiedere: ma se tu fossi nato in un quartiere di Gaza devastato dalle granate, credi che oggi non approveresti Hamas, che non ne faresti parte? E se invece io fossi nato in una colonia nel Negev o in un quartiere di Haifa, non chiederei anch'io di asfaltare la Striscia? Probabilmente sì – o magari affetterei un vago senso di colpa, come quando leggo che i miei ministri stanno allestendo altri campi di concentramento per i migranti all'estero. Vent'anni fa, Israele ha tentato di fermare la demografia recintando Gaza: fu una scelta scellerata, ma al tempo era difficile rendersene conto. Persino io per un attimo credo di aver pensato che potesse trattarsi di un passo avanti: finalmente la Palestina avrebbe avuto un pezzo di territorio senza coloni. Ma avrei già avuto tutti gli elementi per capire che quel pezzo di territorio sarebbe caduto in balia di Hamas. Anche il ruolo dell'Iran in tutta la vicenda si è chiarito abbastanza presto e adesso bisognerebbe dirlo: è inutile pretendere che israeliani facciano la pace coi palestinesi, finché gli USA mantengono un embargo con l'Iran. Israele e Palestina sono solo due o tre caselle della scacchiera – le caselle che da sempre ci attraggono di più, per motivi storici e culturali – ma il gioco è molto più vasto ed è ipocrita, è sempre stato ipocrita pensare che israeliani e palestinesi possano risolvere i loro problemi da soli. Alla fine sono solo due piccoli popoli schiacciati in due striscioline di terra, e questo è un altro motivo per cui li capisco: per quanto mi possa percepire al centro del mondo, anch'io alla fine abito in provincia. 

Israele fa quello che può – e quel che può fare è terribile – ma a questo punto non potrebbe fare diversamente. È uno Stato che si è dato per scopo la sicurezza del suo popolo, e che si è trovato incastrato in un territorio aspro tra popoli nemici. Per sopravvivere ha dovuto combattere molte guerre e concludere molte paci, e ancora non basta. Qualcuno da fuori potrebbe astrattamente concludere che si è trattato di un errore: forse non bisognava andare là, forse bisognava fare le cose in un modo diverso, forse, forse, forse. Può darsi che essere israeliani significhi ogni giorno svegliarsi e dire di no a tutti questi forse: perché a questo che qualcuno chiama errore, la tua famiglia ha dedicato vite intere, dissodando il deserto, morendo in guerra. Non posso dire di capire veramente gli israeliani in questo: per me, e credo per la maggior parte degli italiani, la nazionalità è qualcosa che si dà ormai per scontata, e dalla quale anzi amiamo chiamarci fuori appena possiamo. Però la fatica di credere ogni giorno in un ideale anche quando l'ideale assomiglia sempre più a una trappola, ecco: quella la conosco, l'ho sentita sulle mie spalle, anche solo per una giovinezze: non posso che compatire chi ci convive da sempre e sa di doverla passare ai propri figli.  

Ecco, ho scritto i motivi per cui credo di capire gli israeliani. Ora mi resta da spiegare perché non posso capire allo stesso modo chi in Italia, o altrove, tifa per loro: proprio come se fosse una squadra di calcio, e non un popolo intrappolato in una tragedia. La prossima volta.

domenica 5 novembre 2023

Now and Then, un falso d'autore

Fuori concorso: Now and Then (Lennon 1977 / McCartney 2023)


Ogni tanto mi manchi. Se definisco Now and Then un falso d'autore, non è per litigare (ok, voglio anche litigare, su internet un po' di pepe è necessario) né per esprimere un giudizio di valore su una canzone che comunque ho negli orecchi da tre giorni, ce n'è di peggio in giro (ma anche di meglio). Non perché voglia discutere se due Beatles superstiti siano ancora "i Beatles", e sulla narrazione che hanno impostato per convincerci di questo (la storia la sappiamo: i nastri li ha regalati Yoko Ono a Paul, quindi John sarebbe stato d'accordo; George a dire il vero 26 anni fa ha rifiutato di completare Now and Then, però una minuscola particina di chitarra deve averla lasciata incisa, ecc.). Nemmeno voglio prendere una posizione sulla tecnologia adoperata per ricostruire la voce di John Lennon: la differenza tra voce recuperata da un vecchio nastro e voce ricostruita facendo ascoltare a un'AI migliaia di minuti di voce di John e chiedendogli "questa come la canterebbe" ormai è più filosofica che interessante. Niente di tutto questo, o un po' di tutto questo, ma soprattutto sento la necessità di valorizzarla, questa canzone. Come pezzo dei Beatles autentici se ne finirebbe credo sotto la centesima posizione della Grande Classifica (quella messa assieme sul Post, ehm ehm, dal sottoscritto); come falso d'autore, viceversa, è molto più intrigante, perché alla fine cos'è un falso d'autore? Un esercizio di stile, per prima cosa. Un artista decide di imporsi come limite lo stile di un altro artista. 

Con Now and Then, Paul McCartney mette mano per la terza volta a un demo del suo antico compagno John Lennon. Nel primo episodio (Free as a Bird, 1995) aveva preso un ritornello di John e aveva aggiunto una sua strofa. Nel secondo (Real Love, 1996) non aveva aggiunto nulla. Nel terzo addirittura ha tolto qualcosa che John aveva composto: il ponte tra la strofa e il ritornello. Forse è questo l'indizio che cerchiamo per dimostrare che i Beatles originali non esistono più; quando ha composto la sua parte di Free as a Bird, Paul si sentiva ancora chiamato ad aggiungere qualcosa di creativo. Con Real Love già sembrava rassegnato a limitarsi a un restauro conservativo; con Now and Then invece si ritrova a dover eliminare quella parte lennoniana che non 'suona abbastanza Beatles', come fa un buon falsario, determinato ad autocensurare qualsiasi guizzo personale che minacci l'aderenza dell'opera allo stile che sta imitando. Il paradosso è che i Beatles, finché sono esistiti 'davvero', non hanno smesso di guizzare, senza troppo preoccuparsi di rispettare uno stile in continua evoluzione. Può darsi che Now and Then fili davvero meglio così, strofa-ritornello, strofa-ritornello, e poi uno stacco strumentale (effettivamente composto da Paul) che non esce dal seminato, anzi ne sviluppa le premesse. Certo, ha l'aria di una banalizzazione. Possiamo perfino immaginare che John avrebbe accettato il taglio proposto da Paul: nella storia della loro collaborazione ci sono anche casi in cui uno ha sforbiciato la canzone dell'altro. Dà comunque i brividi l'osservazione che nel ponte tagliato John cantasse "I don't want to use you or abuse you".


Quel che rende eccezionali i Beatles è proprio quello che rende discutibile un'operazione del genere, ovvero il fatto che non si siano mai riuniti davvero; che non abbiano mai avuto il tempo per diventare i falsari di sé stessi. Una sorte toccata a quasi tutti i loro compagni, e a tal proposito è fin troppo facile notare che qualche settimana fa è uscito un disco dei Rolling Stones. Ma se persino Jagger e Richards non hanno mai rinunciato del tutto ad aggiornarsi un po' (con risultati discutibili, ma umani), è lecito domandarsi: che musica farebbero oggi John e Paul, se il primo fosse vivo e il secondo non fosse preoccupato di dare al pubblico esattamente quello che il pubblico immagina di aspettarsi da lui e dall'amico fantasma? Prendi la strofa di Now and Then, così sospesa e irrisolta nella versione demo – dà veramente l'impressione che da qualche parte manchi un accordo. Un'incompiutezza assolutamente lennoniana, quel senso di vuoto che mi ha ricordato subito la prima sensazione provata davanti ad altre sue canzoni, Because, Across the Universe. È chiaro che da lì si può partire per imbastire la classica canzone beatlesiana; è chiaro che Paul si sentiva quasi obbligato, nel 1995 o nel 2023, a imbastire qualcosa del genere – ma se invece John si fosse detto ehi, facciamo una cosa alla Radiohead? Con una batteria campionata in stile Tomorrow Never Knows, con qualche synth buttato lì, perché no? 

Se John fosse stato vivo, se lo sarebbe potuto permettere; e quella strofa si presterebbe. Anche il ponte. Il ritornello no, è veramente un richiamo all'ordine del Canone Pop Beatlesiano (che alla fine forse ci ricorda più gli ELO o i tardi XTC che i Beatles): però insomma da uno spunto come Now and Then si poteva partire per fare qualcosa di molto diverso dalla solita canzone strofa-ritornello che il pubblico si aspetta dai Beatles. Ingiustamente, perché i Beatles quel pubblico lo spiazzavano spesso e volentieri: Paul non osa più e non possiamo fargliene una colpa: ormai è di guardia a un monumento. La colpa è nostra, come sempre: cosa ci aspettiamo da uno spettro, se non che dica esattamente quello che vogliamo che ci dica? Now and then I miss you. 

(È facile immaginare che si stia rivolgendo a Yoko, magari nella fase in cui si riconciliò con lei dopo il lost weekend. Ma è altrettanto facile, come in tante altre canzoni beatle, sovrapporre Paul a Yoko, e noi a Paul. Una delle prime cose che hanno capito quei due, quando erano ancora due ragazzini che improvvisavano pezzi in corriera, è che le canzoni devono parlare a tutti, devono parlare di tutti).


Il problema dei falsi è un falso problema. Se in casa tua c'è una riproduzione perfetta della Venere di Botticelli, in scala 1:1, tu e i tuoi ospiti possono vedere la Venere di Botticelli esattamente come se foste agli Uffizi. Se una canzone che imita i Beatles è bella come una canzone dei Beatles, che problema c'è se non l'hanno davvero scritta o incisa i Beatles, ma gli XTC? o i Rutles? gli Zombies? o Paul McCartney e Ringo col fantasma di John Lennon? (mentre il fantasma di George Harrison dalla cantina sibila "fuckin' rubbish", ma è sovrastato da una steel guitar ricostruita?) Se è una bella canzone – ma è una bella canzone? Eh, va' a capirlo. Coi Beatles di solito è facile, piacciono a tutti. Se però non sei sicuro che sia davvero dei Beatles, improvvisamente non sei più sicuro che ti piaccia. Se trovassi la Venere di Botticelli in scala 1:1, appesa nello spazio espositivo di un mobilificio, magari non ci faresti caso. L'hanno appena rubata dagli Uffizi e l'hanno messa lì: un nascondiglio perfetto, nessuno la degna di uno sguardo. Oppure l'hanno fatta dipingere a un'intelligenza artificiale col machine learning, ed è davvero uguale. E non interessa a nessuno, perché è solo una copia di Botticelli. Now and Then sembra veramente troppo una canzone dei Beatles. Il problema dei falsi è che devono somigliare ai veri. Questo limita molto le possibilità dei falsari, che a volte sono ottimi artisti – magari anche migliori degli autori degli originali. Oppure sono la stessa persona: capita a molti artisti di ridursi a diventare i falsari di sé stessi. Ai Beatles non era capitato – bella forza, stettero assieme soltanto una decina d'anni. Paul McCartney invece incide dischi da sessanta e probabilmente ha avuto tutto il tempo per rassegnarsi al fatto che una sola canzone incisa col fantasma di un vecchio amico verrà riprodotta e ascoltata milioni di volte più dei brani originali che continua a scrivere e incidere. 

Ti sta piacendo questo pezzo?
Lo sai che sulle canzoni dei Beatles ho scritto un libro intero?
Non muori dalla voglia di impossessartene

Now and Then, come ci è stato ricordato in questi giorni, avrebbe dovuto uscire nel terzo volume dell'Anthology, quindi 26 anni fa, ma qualcosa andò storto. La spiegazione fornita in questi giorni da McCartney, che tutti danno per buona perché ormai contraddire McCartney è come offendere Babbo Natale, è che la voce di Lennon era registrata troppo male; mescolata a un pianoforte fastidioso e troppo compressa. Ragion per cui la canzone fu archiviata, finché una tecnologia più avanzata ha consentito di ricostruire una voce lennoniana separata dal pianoforte. Non voglio dire che McCartney ci stia consapevolmente mentendo – non oserei mai – ma non sarebbe la prima volta che ci fornisce una versione pacificata della realtà. Anche i primi due abbozzi erano registrazioni casalinghe, un aspetto che i singoli del 1996 non cercavano affatto di occultare. Anzi al tempo a funzionare era proprio questa dialettica tra la voce sgranata e appannata di John e gli arrangiamenti nitidissimi della produzione di Jeff Lynne – due sbiadite foto in bianco e nero messe in evidenza da due cornici smaglianti. Il risultato alla fine, per quanto macabro, non era diversissimo da un restauro conservativo: il morto faceva musica coi vivi, ma l'ascoltatore non poteva nutrire nessun dubbio su cosa cantasse il morto e cosa avessero aggiunto i vivi. Può veramente darsi che il demo di Now and Then fosse di qualità inferiore (non apparteneva alle stesse sessioni), così come può darsi, per esempio, che McCartney abbia dovuto rinunciare a lavorarci perché Harrison si era stancato (non sappiamo se il suo "fuckin' rubbish", si riferisse all'abbozzo di Lennon, al suo stato di conservazione, o all'arrangiamento a cui stavano lavorando). Fu l'ultima volta che Paul e George provarono a incidere una cosa assieme. George non lavorava volentieri con Paul. 

Il passato non è una scala lineare: ci sono mesi che valgono decenni, e altri decenni che non sappiamo dove abbiamo buttato. Dà una certa vertigine constatare, ad esempio, che tra la pubblicazione di Now and Then e gli altri due brani postumi ci sono più anni di quelli intercorsi tra i due brani postumi e lo scioglimento dei Beatles. Nel frattempo non è cambiata semplicemente la tecnologia, ma anche il modo in cui (grazie alla tecnologia) possiamo interagire coi morti. Nel 1996 la voce sgranata di Lennon ci colpiva al cuore come una polaroid sbiadita recuperata dietro un armadio; un ricordo improvviso che per un attimo ci lasciava fantasticare su che musica avrebbero fatto i Beatles, se lui non fosse scomparso in quel modo così assurdo, se si fossero rimessi assieme. Nel 2023 ormai siamo assuefatti all'idea che Lennon sia ancora tra noi, come altri attori risuscitati in computer graphic: lo abbiamo visto al cinema in Yesterday, e ora lo sentiamo cantare, non più da un nastro gracchiante; si sente forte e chiaro, (perfino troppo chiaro: come fa notare Federico Pucci, Lennon di solito non lasciava la sua voce così diretta: la raddoppiava, la modificava). Il passo successivo, già adombrato in rete, è che si rimetta a scrivere canzoni. Forse in futuro Now and Then sarà considerata, più che l'ultima canzone dei Beatles vivi, la prima dei Beatles intelligenze artificiali. O magari l'anello di congiunzione tra le due fasi della loro carriera. Questo in parte potrebbe spiegare perché McCartney (e Ringo Starr) l'hanno voluta pubblicare – tanto prima o poi sarebbe uscita comunque, avranno pensato. Anche se la lasciassimo nel cassetto, prima o poi qualche nostro erede aprirà il cassetto, convocherà i nostri simulacri digitali e ce la farà suonare. Tanto vale farlo adesso, che siamo vivi. Magari per il resto del mondo non farà così tanta differenza; per noi sì. Come dar loro torto.

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