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venerdì 13 giugno 2025

Antonio, l'antifrancesco

Tanzio da Varallo
13 giugno: Sant’Antonio di Padova (1195-1231), frate prodigio

Nell’ottava della Pentecoste del 1221, i frati minori dell’ordine di Francesco si ritrovarono alle pendici di Assisi. A quel punto erano circa tremila, una piccola Woodstock intorno alla Porziuncola. Però medievale, quindi senza amplificatori, senza promiscuità, senza rifiuti di plastica, e droghe sintetiche; cosa restava? Il fango, la polvere, le tende, anzi le stuoie. Capitolo delle Stuoie, così lo avrebbero chiamato. Francesco era ancora vivo, ma già in qualche modo santo, una celebrità da esibire con parsimonia mentre una cerchia di confratelli cercava di traghettare il movimento dalla rivoluzione pauperista alla normalità di un ordine mendicante. L’alternativa era finire presto o tardi bruciati o massacrati, come più in là nel secolo sarebbe capitato ai catari della Linguadoca. Francesco tutto sommato si era mosso bene, aveva saputo inginocchiarsi a Papa Innocenzo al momento giusto: ma il pauperismo radicale che predicava e ancora dettava nelle regole era potenzialmente esplosivo. Intorno a lui il movimento aveva raccolto tutto quello che la società duecentesca non riusciva a omologare: figli di papà indisposti a lasciarsi inquadrare nella borghesia comunale, come era stato Francesco stesso; avventurieri senza arte né parte che non mancano mai; mendicanti che, da quando vestivano il saio, avevano raddoppiato le entrate; predicatori dell’Apocalisse che continuavano a ripetere le profezie di Gioachino del Fiore, rischiando la scomunica; fanatici delle crociate, semplici imbroglioni e così via. Il campeggio doveva durare una settimana, ma molti rimasero altri due giorni a consumare le provviste in sovrappiù. Alla fine comunque se ne andarono tutti, i mendicanti a mendicare, i predicatori a predicare, i missionari alle missioni, finché in mezzo alle stuoie consumate e ai rifiuti degli avanzi non rimase che un ragazzo, corpulento e taciturno. E tu chi sei?, gli chiese fra Graziano, responsabile di zona in Romagna. Non ce l’hai un posto dove andare?

Il ragazzo rispose… non ho la minima idea di come rispose, mica c’ero. Ma lo immagino chinare il capo e scuotere appena la testa.

“Beh? Non hai niente da dire? T’han mangiato la lingua, fratello? Come ti chiami?”

"A’m ciam Antòni, fradel".

"Ma sei romagnolo?"

Ovviamente no. Antonio veniva da Lisbona e per arrivare ad Assisi era passato, assurdamente, dall'Africa; ma sappiamo che aveva il dono delle lingue: le imparava subito e le riproduceva a piacere. Gente così esiste, ne ho conosciuta: così come esiste chi riesce a cavare un bel suono da uno strumento che prende in mano la prima volta. È un dono di Dio, se in Dio ci credi; ma anche se non ci credi, quando senti uno come Antonio rivolgerti la parola, il dubbio un po' ti viene. 

***

Nel 1980, su Linus, Altan pubblica Franz, ovvero la vita di Francesco d'Assisi a puntate. Molto prima di diventare il vignettista da prima pagina di Repubblica, Altan è stato un fumettista geniale e idiosincratico, e con Franz ha realizzato qualcosa che, per quel che ne so, nessun autore ha mai osato né prima né dopo: la demistificazione di Francesco d'Assisi. Il Franz di Altan è un ragazzino viziato e mitomane, che si lascia manovrare da poteri molto più grandi di lui, ma assolutamente umani. Verso la fine della storia, quando il lettore è ormai rassegnato a un mondo senza redenzione, dove i santi sono fantocci e i cardinali maneggioni, Altan fa entrare in scena Antonio, come un regista astuto che si tiene la guest star per le ultime sequenze. Il suo Antonio è spiazzante quanto Francesco: Altan ha fatto i compiti e sa che prima che gli artisti rinascimentali lo trasformassero in un ragazzino imberbe, nelle raffigurazioni medievali Antonio era distinguibile da Francesco perché molto meno magro, se non proprio sovrappeso. Altan aggiunge due inquietanti orecchie a punta, e i capelli crespi che avrà trovato in qualche santino brasiliano – Antonio è un santo popolarissimo in Sudamerica, dove assume i tratti somatici dei mulatti. È seduto a fianco a papa Innocenzo ed è astuto come un demonio – forse è il demonio. Con abili manovre convince il papa ad autorizzare l'ordine francescano, e Francesco a promettere di partire per la Terrasanta. Così un ordine nasce, ma Francesco deve subito allontanarsi, e Antonio gli subentra, dimostrandosi da subito molto più adatto al ruolo. Non è che le cose siano davvero andate così. Ma la sintesi di Altan ha un senso: il carisma di Antonio si fa spazio proprio nell'eclissi di Francesco, in quel periodo turbolento in cui il fondatore diventa un personaggio troppo ingombrante. Le centinaia di miracoli che gli sono state attribuite, a Francesco non si potevano attribuire perché la sua vita era un terreno di battaglia tra fazioni che raccontavano storie molto diverse, e a un certo punto fu letteralmente commissariata: le vecchie biografie distrutte e sostituite con l'unica biografia ufficiale, redatta dal capitano dell'Ordine. Per contro, l'esistenza di Antonio era molto meno controversa: dal Capitolo delle Stuoie in poi, era sempre stato dalla parte dei moderati, e i moderati lo ricompensarono alzandolo su un piedistallo che a un certo punto superò quello del fondatore.

In un certo senso Antonio è l'antiFrancesco, oppure può darsi che così come il cristianesimo non fu più lo stesso dopo la predicazione di Paolo, così il francescanesimo che c'è arrivato deve ad Antonio da Padova molto di più di quanto gli stessi francescani possano ammettere. Anche la venerazione per i due santi ha un che di complementare: Francesco è uno dei santi più ammirati e popolari tra i non cristiani, presso i quali Antonio è un illustre sconosciuto; quest'ultimo è uno dei santi più venerati dai cristiani praticanti, almeno in Italia e in Sudamerica. Oggi Francesco continua a ispirare film e fiction, mentre Antonio sembra una figura più opaca; ma per secoli il modello di frate predicatore è stato quello interpretato da Antonio. Da italianista, trovo irresistibile il paragone coi due grandi fondatori della poesia volgare; oggi tutti amiamo Dante, ma per secoli i poeti si sono riferiti soprattutto alla poesia di Petrarca. Il primo ha stupito il mondo con qualcosa di difficile da imitare; il secondo si è preoccupato soprattutto di normalizzare, di offrire a chi veniva dopo di lui un modello più praticabile; per cui di solito ammiriamo il primo e copiamo il secondo. 

Lo stesso Antonio, da ragazzo, era stato uno dei più accaniti ammiratori di Francesco: malgrado ne sentisse parlare a migliaia di chilometri di distanza, nel monastero di Coimbra in cui si era autoconfinato, Antonio aveva perfettamente recepito il messaggio radicale della sua predicazione. Francesco voleva tornare alla povertà evangelica, e convertire gli eretici e perfino i Saraceni con la pura forza della fede. Non servivano più gli studi e Antonio, studioso brillante, li interruppe. Indossò un sacco e partì appena possibile per l'Africa, come avevano fatto i primi quattro martiri francescani che prima di salpare per il Marocco erano passati proprio da Coimbra. Forse Antonio era riuscito a conoscerli; di sicuro era stato informato della loro tragica sorte, perché testimoniando la loro fede alla maniera francescana, senza difendersi con le armi dei crociati ma sostenendo con fermezza che l'Islam era un'eresia nel bel mezzo di Marrakesh, i quattro erano stati rapidamente arrestati e decapitati. Antonio decise che avrebbe seguito il loro esempio e s'imbarcò per il l'Africa. Giunto nelle terre degli infedeli, non sarebbe però riuscito a guadagnarsi il martirio con la predicazione a causa di una malattia contratta in loco. Ripresa la via del mare, arriva in tempo proprio per il Capitolo delle Stuoie, l'unico episodio in cui incontra di persona Francesco – ma da lontano, senza potergli dire niente. 

Antonio assiste al Capitolo: malgrado abbia smesso di studiare, continua a essere una mente brillante e probabilmente si rende conto che la battaglia tra oltranzisti e moderati si è già combattuta, e Francesco l'ha persa; se rimane deluso dalla rassegnazione del fondatore, se lo tiene per sé. Ma capisce che i francescani ormai stanno diventando qualcosa d'altro, e presto o tardi si adegua. Ritrovatosi quasi per caso in una piccola cellula francescana nei pressi di Forlì, Antonio in un primo momento dissimula le sue doti intellettuali, ma quando lo costringono a predicare si rivela un talento naturale. Nel giro di pochi anni diventa la nuova star dell'Ordine, sguinzagliata dai superiori in Italia settentrionale e in Provenza a misurarsi retoricamente contro i Catari che dilagavano nelle città e nelle campagne. È il primo predicatore a rendere necessario un servizio d'ordine, perché intorno ai suoi pulpiti improvvisati la gente si accalcava rischiando di farsi e fargli male. Anche Francesco era stato un trascinatore carismatico, e può darsi che il successo di Antonio abbia in un qualche modo colmato un vuoto; Francesco ormai non andava più in tour, viveva segregato dal mondo alla Verna; chi avrebbe voluto vederlo e ascoltarlo doveva accontentarsi di Antonio, ma se Antonio all'inizio non era altrettanto famoso, sapeva spiegarsi molto meglio e attirava l'attenzione con miracoli veramente ben congegnati. Viene il sospetto che alcuni miracoli poi attribuiti a Francesco (la predicazione agli uccelli) siano la rielaborazione di prodigi compiuti da Antonio (che invece predicò ai pesci); quest'ultimo aveva già un senso teatrale del miracolo, come i predicatori dei secoli successivi; i suoi prodigi avvenivano sempre in pubblico, davanti a un popolo incantato che poi per settimane e mesi non avrebbe parlato d'altro, contribuendo a far circolare la fama del santo. 

Antonio diverrà presto così popolare che alla sua morte  (intervenuta troppo presto a 36 anni), scoppierà una contesa tra il borgo di Capodiponte, dove era morto mentre cercava di rientrare alla sua sede di Padova, e Padova stessa, su chi aveva il diritto a conservare il corpo. Oggi la maggior parte riposa nella basilica a lui dedicata; in particolare la lingua, che sembrava in grado di riprodurre ogni lingua vivente senza sforzo.  

giovedì 12 giugno 2025

Dodici milioni di voti, lo chiamano un disastro

Lo sconfittismo, suicidio del progressismo. 

C'è una pagina di Fenoglio a cui mi capita ogni tanto di pensare. In questa pagina c'è un partigiano, che come capita spesso in Fenoglio è poco più di un ragazzino; si dà arie di ribelle, sfoggia le armi, ha una grande voglia di usarle anche solo per sentirne il rumore. È chiaro che non è pronto al combattimento, ma anche noi lettori non siamo pronti alla sua reazione quando il nemico si manifesta all'improvviso. Invece di perdere la testa, di sparare all'impazzata – tattica disperata, ma giustificabile – il ragazzo si mette a camminare verso i tedeschi con l'arma nella mano protesa, come a volerla restituire: ha sentito un ordine urlato con una voce stentorea, e deve obbedire. Invece di dar retta all'orgoglio di cui sembrava intriso, al buon senso, persino all'istinto di conservazione, il ragazzo si rivela in balia di un istinto ancora più forte: l'istinto gregario di consegnarsi al più forte, con le proprie armi, il proprio cuore, la propria anima. Questo istinto gregario esiste in molti di noi – forse in ciascuno di noi, che discendiamo da migliaia generazioni di raccoglitori e cacciatori, ma anche di servitori e schiavi. Nella maggior parte di noi questo istinto è talmente sopito che quando affiora, a volte non riconosciamo nemmeno noi stessi; altri ne sono completamente manovrati; altri devono combatterci per tutta la vita. Altri, infine, riescono a puntellarci sopra una carriera di successo: in fondo di servi c'è ancora bisogno, in tutti i settori.

Nel settore della politica continua evidentemente a essere molto richiesta una specifica figura professionale: il soggetto che sostiene (A) di essere di sinistra e (B) che la sinistra stavolta abbia perso, e che sia necessario, indispensabile, inderogabile ammetterlo, come in effetti lo sta ammettendo lui. Ne avete tutti presente qualcuno: i feticisti dell'analisi-della-sconfitta, gli artisti dei Concession Speech. Ne sanno scrivere di bellissimi, al punto che ti domandi se non siano stati selezionati apposta per questo; per interpretare il ruolo del bel perdente che accetta nobilmente la sconfitta, affinché noi teppa possiamo capire dal suo esempio che perdere è utile e necessario, ed è molto meglio ammettere subito di aver perso, ancora prima che escano i numeri ufficiali. In un'epoca in cui la politica è un dibattito, ammettere la sconfitta è un atto performativo che si può realizzare anche quando ancora non è sicuro che stai perdendo o no, come capitò ad Al Gore nelle elezioni del 2000 (ma viene il sospetto che questa vocazione suicida sia la ragion d'essere del partito democratico, perlomeno quello USA).

Se gli sconfittisti sono giornalisti, hanno il loro pezzo già pronto una settimana prima della consultazione: i risultati non essendo in effetti che dettagli. Se vogliamo per esempio parlare di questi ultimi referendum, promossi da sindacati e partitini che lottano per la visibilità, quasi ignorati dai media (che comunque stanno perdendo la loro centralità) i numeri crudi ci direbbero che il 30% degli aventi diritto sono andati a votare, malgrado il quorum fosse un obiettivo praticamente impossibile, insomma sono andati a votare soltanto per contarsi e se li contiamo non sono poi così pochi. In particolare in questo 30% ci sono tra dodici e tredici milioni di persone che hanno votato per abrogare leggi difese non solo da questo governo, ma anche da quei centristi liberali che senza riuscire a mandare in parlamento nessun partito continuano a infestare quelli di centrosinistra e centrodestra. È una "vittoria"? No, non lo è: una vittoria era impossibile. Resta un dato molto interessante che spiega come mai a molti rappresentanti del governo siano saltati i nervi: dodici milioni sono più o meno lo stesso numero di voti che nel settembre del 2022 consentirono aa Meloni di formare un governo di maggioranza. Per i due principali partiti che hanno scelto di appoggiare la consultazione referendaria, PD e M5S, è un risultato incoraggiante in linea con quello delle ultime consultazioni amministrative. I numeri dicono più o meno questo, ma se il padrone ha deciso che invece Shlein e Conte hanno perso, i servi non possono che formulare lo stesso originale e coraggioso pensiero, con variazioni sul tema, ma neanche tante. Ha un senso discuterci? Probabilmente no, nella maggior parte dei casi: c'è chi recita a soggetto, e continuerà a recitare finché ci sarà un copione e uno straccio d'ingaggio. La mission è dare addosso all'unica possibile coalizione che abbia chances elettorali contro la destra; la speranza è che da qualche parte tra le macerie sorga finalmente il soggetto centrista e moderato che un sacco di editori evidentemente non smettono di desiderare, e pazienza se agli elettori continua a non interessare. Poi ci sono quelli in buona fede, i mistici della sconfitta, che vedono dodici milioni di voti, e lo chiamano un disastro. E sono loro, soprattutto, che mi fanno pensare a quella pagina di Fenoglio, a quel ragazzo ipnotizzato dalla voce stentorea del nemico. 

martedì 10 giugno 2025

La Santa Oliva, che forse è a Tunisi

10 giugno: Sant'Oliva di Palermo, vergine e martire (V secolo). 

La moschea dell'ulivo, a Tunisi

Che i siciliani venerino una Santa Oliva non è così bizzarro, così come non risulta bizzarro che si tratti di una martire dalla vicenda particolarmente evanescente: non si capisce nemmeno chi l'abbia martirizzata, se i Vandali o, molto dopo, i Saraceni. A questo punto il mio buon lettore sta già sviluppando una congettura: il martirio sarebbe una leggenda posticcia, celante un'origine pagana: altro che martire, i siciliani veneravano l'Oliva in Quanto Tale! La sua preziosità organolettica, la sua centralità economica, la sua duttilità gastronomica: tutte qualità decisamente venerabili. E come l'Oliva per dare olio deve essere spremuta, in modo analogo Sant'Oliva doveva essere stata flagellata, scarnificata sull'eculeo, e immersa in una caldaia di olio bollente: così perlomeno nella Vita più antica, che antica non è affatto (è già del Quattrocento)  Congettura interessante, mio buon lettore (ti parlo al singolare, tanto ormai); e tuttavia fa a pugni col semplice fatto che Sant'Oliva si è sempre festeggiata in giugno, ovvero decisamente fuori dalla stagione della raccolta e della spremitura.

Oliva è una santa che non piace agli agiografi. Non si fidano, è come se fiutassero aria di paganesimo, o anche solo puzza di fritto. Il Martirologio romano la snobba; il nome compare per la prima volta in un breviario gallo-siculo di epoca normanna; la Vita come abbiamo visto è molto più tarda; Agostino Amore, che ne curò la scheda per la Bibliotheca Sanctorum, la definisce senza molta diplomazia un racconto "evanescente e fantasioso", "degno di essere annoverato tra le passiones della peggiore specie". Sembra in effetti scritta col pilota automatico: secoli prima che le Intelligenze Artificiali cominciassero a colonizzare la parola scritta, molti agiografi apparivano già tormentati dal rischio di apparire anche solo vagamente originali, e dovendosi inventare una storia di martirio sembravano decisi di non aggiungere un solo dettaglio che non fosse uguale a decine di altre Vitae: dunque ecco la fanciulla di buona famiglia che a tredici anni subisce la vocazione; ecco il miracolo (restituisce la vista a due ciechi; non sfuggirà la connessione tra occhi e olive, il cui olio veniva usato anche nella cosmesi e nell'oftalmologia popolare), l'esilio nel deserto, l'arresto e la sequela di torture, come al solito culminante nella decapitazione. L'unico dettaglio che non suoni copia di mille riassunti è l'ambientazione: benché siciliana, Oliva sarebbe stata martirizzata a Tunisi. Il che forse serviva a spiegare l'assenza di reliquie importanti per una santa che comunque godeva di una certa popolarità: celebrata tra l'altro ad Alcamo, a Termini Imerese, e invocata a Palermo anche prima che il culto per Rosalia prendesse piede. E per quanto questi e altri comuni se ne disputassero i natali, nessuno reclamava di custodirne i resti. Come mai? Esiste più di una leggenda: forse sono nascoste nella vecchia chiesa che un tempo portava il suo nome (ma adesso è dedicata a Francesco di Paola). Forse sono in fondo a un pozzo. Forse quando verranno trovate scateneranno un'età dell'oro; e forse sono al di là del mare. Quest'ultima idea era così convincente che nel 1402 il re Martino I di Aragona (detto l'Umano) chiese ufficialmente la restituzione dei resti al califfo Abu Faris Abd al-Aziz II; il quale avrebbe ben potuto nell'occasione mettere in un cofanetto qualche osso sbeccato e far contento Martino; non sarebbe nemmeno stato il primo califfo a ingraziarsi un re cristiano con qualche patacca, ma a quanto pare non lo fece. Forse era troppo onesto, o forse non voleva darsi la pena di ingraziarsi il re di Aragona. 

Duomo di Palermo. Foto di
© José Luiz Bernardes Ribeiro,

Sia come sia, in quel periodo nasce la diceria che il corpo di Oliva sia davvero custodito in una piccola moschea a Tunisi, vicino alla Grande Moschea che è chiamata, appunto, "dell'ulivo" (Gami-az-zaytum). Se si chiama così, è probabilmente perché lì accanto sorgeva un vecchio ulivo; ma nulla impedisce ai cristiani di fantasticare che prima della Moschea lì sorgesse una chiesa dedicata a Sant'Oliva; e che il califfo non volesse restituirne il corpo perché ne era geloso. In una scheda di Santiebeati attribuita a un tale Ugo Russo si legge che "ancora oggi i tunisini, presso i quali è ancora oggi venerata, credono che la loro religione e la loro dominazione tramonterà quando scomparirà il Corpo della Vergine Oliva". Questa nozione, che se fosse vera sarebbe sconvolgente (musulmani sunniti che venerano il Corpo di una Vergine che è anche una santa cristiana?) non risulta altrove; il che non impedisce Gemini di ricamarci sopra, da brava AI di Google che non vuole contraddire nessuno.

La frase "la loro religione e la loro dominazione tramonterà quando scomparirà il Corpo della Vergine Oliva" è una credenza popolare in Tunisia, dove è venerata Sant'Oliva di Palermo, e in particolare tra i sunnitiSecondo questa credenza, la scomparsa del corpo di Sant'Oliva segnerà la fine della loro fede e del loro potere. Questa credenza si basa sulla venerazione che i tunisini nutrono per Sant'Oliva, la quale è considerata un'importante figura religiosa e un simbolo di protezione.                                                                                                             
Maccosa Gemini vai a casa sei ubriaco
In sostanza, la frase esprime la convinzione che la presenza del corpo di Sant'Oliva è fondamentale per il mantenimento della loro fede e del loro potere. La scomparsa di questo corpo, quindi, segnerebbe un evento catastrofico, con la fine della loro religione e del loro dominio. 
Ma di che dominio stai parlando, Gemini.
Questa credenza è un esempio di come le tradizioni religiose possono influenzare la visione del mondo e la comprensione della storia. La figura di Sant'Oliva, in particolare, è un simbolo di resistenza e di speranza per i tunisini, e la sua presenza è vista come un fattore cruciale per la loro sopravvivenza come comunità. 

Cioè davvero ora tocca togliere internet agli studenti.   

Grazie a questa diceria, Oliva è diventata anche la patrona della (piccola) comunità cristiana di Tunisi; questo malgrado la storia non abbia molto senso, in qualsiasi periodo si voglia collocare la vicenda; in teoria sarebbe avvenuta nel quinto secolo, durante le scorrerie dei Vandali che si erano stabiliti intorno a Tunisi e per quanto potessero essere ostili, in quanto ariani, ai cristiani ortodossi, non si capisce perché avrebbero dovuto punire Oliva con l'esilio nelle loro terre. L'autore della Vita dà piuttosto la sensazione di immaginare i carnefici di Oliva come Saraceni musulmani; i quali in effetti avevano controllato la Sicilia per un secolo, ma anche loro non risulta che deportassero in Africa i cristiani – o che li venerassero dopo averli ammazzati. 

Confesso che un po' mi dispiace: qualsiasi storia che ci facesse sentire Tunisi un po' più vicina alla Sicilia (e all'Italia), credo che varrebbe la pena continuare a raccontarla. In fondo siamo più o meno gli stessi esseri umani – e raccogliamo più o meno le stesse olive. Oliva meritava agiografi migliori. Ma forse c'è ancora tempo.

giovedì 5 giugno 2025

E allora ho detto sì, sì, sì, sì, sì

Tra l'8 e il 9 giugno sarà possibile votare per abrogare/modificare cinque leggi ingiuste, e io voterò Sì. Tutto qui. In altri momenti, quando scrivere qui sopra significava discutere davanti a un pubblico, forse mi sarei dato un po' più da fare per attirare l'attenzione su una campagna che tra l'altro è promossa dalla Cgil, una delle poche organizzazioni a cui sono iscritto.

Oggi come oggi non credo sia utile, non credo sposti un voto, e se lo spostasse sarebbe comunque un voto buttato via. Non mi faccio molte illusioni sul raggiungimento del quorum: credo in generale che questa campagna referendaria sia stata azzoppata dalla Corte costituzionale che (legittimamente) ha bocciato il quesito sull'autonomia differenziata. Quest'ultimo avrebbe portato molti voti e contribuito più di altri a creare una saldatura tra l'elettorato del Pd e quello più meridionalista del Movimento di Giuseppe Conte. Così alla fine questa è una di quelle situazioni in cui un esercito si mette in marcia anche se il comandante sa che gli alleati non manderanno i rinforzi promessi; la vittoria è molto improbabile, ma la guerra è stata dichiarata e quindi comunque combattere bisogna, sperando di limitare i danni.

Ho un problema coi referendum. In molti casi sono scorciatoie populiste; non ci hanno dato il divorzio o l'aborto (c'erano già), in compenso non possiamo più chiamare un ufficio "Ministero dell'agricoltura" e abbiamo dimezzato i parlamentari, forse il momento più basso nella Storia delle istituzioni di questa repubblica, capolavoro che trovo difficile perdonare a chi l'ha promosso e poi votato. Poche persone ritengo politicamente incompetenti come quelli che, di fronte alla dura evidenza del quorum (al crudo fatto che la tua sacrosanta battaglia abrogativa non interessa alla maggior parte degli aventi diritto), periodicamente propongono di abbassarne l'asticella sotto al 50%: ovvero di abolire il parlamento e sostituirlo con iniziative basate sulla raccolta di firme. La trovo una sciocchezza, ma non sarebbe la prima sciocchezza a cui prima o poi si riesce ad arrivare. D'altro canto. 

D'altro canto posso capire come il referendum resti l'unica arma alla portata di sindacati, e in generale di parti sociali che altri strumenti per farsi sentire non ne hanno. I lavoratori non hanno più un partito di riferimento, non hanno un giornale, un canale televisivo, nulla; e anche se l'avessero, mi domando seriamente se farebbe qualche differenza. Dalla pandemia in poi l'opinione pubblica si è sfarinata completamente: i principali social network, dopo essere diventati i principali organi di smistamento delle notizie, hanno completamente sminchiato i loro algoritmi, e ora se anche cercassi una discussione interessante sui referendum dovrei aggirare balletti di cani, cuochi e batman. I giovani semplicemente non passano più, ma nemmeno riescono a leggere i giornali on line (non ci riesco nemmeno io), e nel caso di questi referendum non faranno nemmeno caso all'interruzione scolastica perché, tu guarda la coincidenza, sono stati indetti nel primo weekend dalla fine delle lezioni. 

In questa situazione è molto difficile che una notizia riesca ad attirare un'attenzione collettiva. È successo alla crisi di Gaza, forse semplicemente per le dimensioni della tragedia. Gaza è qualcosa che mi ha tolto la voglia di scrivere e ha reso ogni altro problema (anche personale) troppo piccolo perché ne valesse la pena. Detto questo, tra l'8 e il 9 giugno sarà possibile votare per abrogare/modificare cinque leggi ingiuste, e io voterò Sì. 

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