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giovedì 20 giugno 2024

San Luigi è uguale a noi (più o meno)

21 giugno: San Luigi Gonzaga (1568-1591), patrono della gioventù, magari un po' raccomandato.

Consacrazione di San Luigi, patrono della gioventù (Goya)

Una cosa bella del cristianesimo è che per la prima volta ha messo all'ordine del giorno l'uguaglianza. Non tanto il fatto che ci fosse un Dio – quello si pensava già prima – ma che davanti a questo Dio risultassimo tutti uguali, come... come davanti alla legge, salvo che questa idea di essere tutti uguali davanti alla legge non esisteva, prima che postulassimo di essere tutti uguali davanti a un Dio. Pensate alla Dichiarazione d'Indipendenza Americana, 1776: "Noi riteniamo certe verità autoevidenti: che tutti gli uomini siano stati creati uguali", insomma se avessimo chiesto a Thomas Jefferson, sì, ma perché dovrebbero essere tutti uguali? Lui non avrebbe avuto altro argomento che puntare verso il cielo, o verso il Vangelo (ne aveva una copia tutta ritagliata a piacere): siamo uguali perché Dio ci ha creato così, è autoevidente. Questo magari spiega l'importanza che ha Dio nella società americana, e le difficoltà che incontrano quando provano a farne meno: come se fosse ancora la chiave di volta di un edificio settecentesco che nessuno in seguito ha ritenuto di ricostruire. 

Dunque se qualche autorità ci considera ancora tutti uguali lo dobbiamo a Gesù Cristo... senonché forse questa idea non è nemmeno sua: almeno in qualche passo del Vangelo dà là sensazione che Egli pure facesse qualche differenza, ad esempio tra ebrei e non circoncisi. Il postulato dell'uguaglianza nasce un po' più tardi, forse perché il cristianesimo si stava diffondendo tra gli schiavi e agli schiavi serviva una religione che rimettesse in discussione le gerarchie sociali. Quando iniziate a vederla in questo modo, è una specie di rivoluzione copernicana: Cristo ci avrà messo qualche idea (e il suo sacrificio), ma di messia e di religioni in giro ce n'erano tanti. Il cristianesimo ha vinto perché piaceva agli schiavi, e raccontava una storia di giustizia che serviva agli schiavi. E forse davvero ha messo in crisi la società antica perché gli schiavi erano troppi ed erano stanchi di sentirsi inferiori. Non è che il cristianesimo ha liberato gli schiavi, come si raccontava una volta. È la schiavitù che ha inventato il cristianesimo per liberarsi. Un messaggio di speranza, ma anche di giustizia. Molto bene. Viene quasi voglia di battezzarsi, se uno si era sbattezzato (in realtà lo sbattezzo non funziona).  

Poi guardi il calendario, 21 giugno, San Luigi Gonzaga, e ti sale un po' la rogna. Un nobile figlio di nobili fatto santo dai nobili. Cos'ha fatto di importante nella vita? Non tantissimo, è morto quasi subito. Ma è morto Gonzaga, e i Gonzaga ad avere un santo ci tenevano. 

Lo so che non ha senso prendersela, perché se c'è un luogo dove per secoli la povertà è stata apprezzata e valorizzata, questa è proprio la Chiesa. C'è fior di poveracci sul calendario cristiano: poveri nati e poveri per scelta. Però, certo, c'è anche un sacco di bella gente, principi conti e regine, perché anche il martirologio è diventato uno status col tempo, come qualsiasi cosa.

Non so dove l'abbia trovata Cattabiani (Santi d'Italia, Bur, 1993), ma una leggenda dice che Luigino Gonzaga, a quattro anni, fu portato da papà Ferrante alle esercitazioni militari per l'imminente spedizione contro i turchi. Luigino vestiva "una corazza in miniatura, un archibugetto a tracolla e un ciuffo di piume bianche", e questo abbigliamento una sera avrebbe confuso le guardie della polveriera,  o più probabilmente dormivano, sicché Luigino riuscì a sgraffignare abbastanza esplosivo da caricare una spingarda e ustionarsi, "per fortuna leggermente, mani e guance". Ora, per quanto ai tempi i bambini potessero crescere più velocemente, è difficile immaginare un monello di quattro anni che se ne va in giro di notte da solo per un accampamento. E però se fosse successa davvero, questa che è l'unica bravata mai commessa da San Luigi, non sarebbe senza un senso. Da una disavventura del genere Luigi avrebbe potuto trarre una grande lezione: qualsiasi cazzata avesse fatto nella vita, non importa quanto grande e pericolosa, l'avrebbe fatta franca; perché imbecille o meno era pur sempre un Gonzaga, e i Gonzaga fanno quello che gli pare. Anche quelli dei rami cadetti, come Ferrante suo padre che era marchese, sì, ma di Castiglione delle Stiviere; e però era Gonzaga pure lui, e i Gonzaga hanno parenti in Austria e in Spagna, in cielo e sottoterra. Ecco, forse mentre piagnucolava e le lacrime gli salavano le ustioni sulle guanciotte, Luigi capiva questo: che non c'era nessun gusto nel fare birichinate, quando nessuno ti giudica; e così non ne fece mai più. Il resto della sua breve vita si potrebbe interpretare così: una sfida al bieco familismo del neofeudalesimo rinascimentale. Luigi evade dal suo destino di signorotto impunito nell'unico modo che la società gli consente: trovando Dio. Quattro anni dopo, quando Ferrante torna dalla guerra, constata con orrore che il suo primogenito, oltre alla tubercolosi, ha contratto una spaventosa vocazione religiosa: del resto un cugino della madre era un Dalla Rovere, vescovo di Torino. 

Ci fa caso anche il cardinale Carlo Borromeo, che passando da Castiglione scopre che il novenne Luigi si confessa già da tre anni (chissà di che peccati), e decide, potendo deciderlo, di impartirgli subito il sacramento della prima comunione. Forse in Luigino il cardinale si era riconosciuto: anche lui aveva sofferto il dissidio tra vocazione religiosa e il ruolo imposto dalla primogenitura (dopo la morte del fratello maggiore). Il padre però non molla, forse anche perché il secondogenito, Rodolfo, non gli sembra una cima. Nel 1582 la famiglia è ospite a Madrid di re Filippo II; Luigi e Rodolfo hanno l'onore di essere convocati come paggi di un infante di Spagna, ma quando non è impegnato dai doveri mondani, Luigi studia metafisica e teologia. Studiando si avvicina a un ordine di recente formazione, la Compagnia di Gesù, che ha un approccio moderno ma anche rigoroso, a metà tra l'università degli studi e la caserma. Papà Ferrante cerca ancora in vari modi di recuperarlo alla vita mondana; lo manda ospite in tutte le corti dei parenti (Mantova, Parma, Torino, Ferrara), magari sperando che qualche cugina impietosita provi a sedurlo, ma è tutto vano; Luigi ha fatto voto di castità a dieci anni e ormai ha deciso che sarà gesuita. Alla famiglia non resta che raccomandarlo al generale dei gesuiti, a Roma. Luigi arriva con un sontuoso corredo 'da gesuita' di cui si disfa ben presto, preferendo gli abiti comuni: sembrava avercela fatta, tra i gesuiti non era più un Gonzaga, ma un uomo tra gli uomini. A Roma, Luigi resterà dal 1585 in poi, salvo un soggiorno a Napoli per curare la tubercolosi, e uno a Castiglione nel 1589 per risolvere un contenzioso tra il fratello Rodolfo – che aveva ereditato il feudo del padre alla morte di quest'ultimo – e il cugino Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova, che reclamava Solferino. 

Luigi riesce a riappacificare i cugini, ma a questo punto scopre un'altra gatta da pelare: lo zio Alfonso Gonzaga preme perché Rodolfo sposi la sua unica figlia, ma quest'ultimo fa impazzire la famiglia opponendo un netto rifiuto. Luigi scopre che Rodolfo non può sposarsi perché è... si è già sposato, con la figlia di un artigiano della zecca di Castiglione di cui si era invaghito quando lei aveva quindici anni. Cosa faceva un signorotto del Cinquecento neofeudale quando si affezionava alla figlia di un dipendente? Rodolfo era un Gonzaga, faceva quello che gli pareva, e in questo caso l'aveva rapita e messa incinta. Però poi l'aveva sposata, ufficialmente la storia dice questo, anche se non osava dirlo in giro. Luigi riuscì a forzarlo a un imbarazzante coming out e grazie alla sua intercessione, la madre accettò in casa nuora e nipote. Rientrato a Roma, Luigi si tuffa anima e corpo nell'assistenza ai malati dell'epidemia di tifo, svolgendo incombenze decisamente non indicate a uno che aveva già i polmoni tormentati dalla tbc. In questi casi viene il sospetto che il santo abbia inconsapevolmente voluto anticipare i tempi della sua dipartita. Sulla terra, non importa quanti sacrifici e opere di bene, sarebbe rimasto per sempre un Gonzaga, un privilegiato. Solo davanti a Dio siamo tutti uguali, perlomeno in teoria.   

In pratica forse no, perché una volta passato all'altro mondo, Luigino fu di nuovo oggetto di un trattamento di riguardo. Una prima richiesta formale di canonizzazione partì da un sinodo convocato a Mantova nel 1604; ora secondo voi come si chiamava di cognome il vescovo di Mantova che aveva convocato il sinodo? esatto, Gonzaga, Francesco Gonzaga, quanto è piccolo il mondo. L'anno dopo Luigino era già proclamato Beato, quattro anni prima del fondatore del suo stesso ordine, Ignazio di Loyola. Canonizzato definitivamente nel 1726, tre anni più tardi Luigi fu proclamato patrono della gioventù cattolica, e in quanto tale era un santo molto popolare ancora per la generazione di mio padre: almeno per lui "San Luigi" era una data importante, un pretesto per far festa. Ma immagino che prima di dar via alle danze il parroco ci tenesse a esortare i giovani fedeli a vivere santamente come San Luigi, che potendo scegliere tra fare il signore e il santo aveva scelto correttamente, meritandosi la santità. Perché il cattolicesimo è meritocratico, a modo suo. 

mercoledì 19 giugno 2024

Gerusalemme è in ciascuno di noi (e a Matera)

20 giugno: San Giovanni da Matera (1080-1139), che trovò Gerusalemme in Puglia 

Non è Gerusalemme ma ci si arrangia

Allo stesso modo in cui ciò che ti è più caro lo capisci soltanto quando te lo portano via, i cristiani d'Occidente sembrano aver cominciato a sviluppare una passione per Gerusalemme solo quando i turchi la chiusero per un po' ai pellegrini. In precedenza sì, qualcuno ci andava, ma Roma o San Giacomo di Compostela sembravano mete più ambite. Verso la fine del secolo XI però papa Urbano II lancia la prima Crociata: non è semplicemente una chiamata alle armi, Gerusalemme comincia a diventare un'ossessione anche per chi non aveva nessuna intenzione di impugnarle. Avventurieri, spiantati, predicatori improvvisati, tutta gente che chiameremmo fraticelli salvo che Francesco ancora non li aveva fondati; del resto anche Francesco, un secolo più tardi, risentiva dello stesso clima. Da Vercelli per esempio si mette in strada un Guglielmo che poi diventerà santo, diretto verso Gerusalemme e forse ci sarebbe arrivato se presso Ginosa (MT) non si fosse imbattuto in un altro eremita coetaneo, Giovanni da Matera, che lo esortò a restare in zona, dove avrebbe potuto fare del bene; del resto nel frattempo Gerusalemme era stata presa dai Crociati, ma il massacro che ne era seguito non sembrava aver migliorato un granché il morale della cristianità. Può darsi che le traiettorie irregolari di personaggi come Giovanni e Guglielmo, cresciuti negli anni in cui la Crociata era ancora un progetto, un sogno, risentano di questa grande delusione.

Giovanni da Matera e Guglielmo di Vercelli sono una strana coppia di eremiti. Leggendo la loro leggenda mi sono fatto un'idea che trae linfa più dalla mia misera esperienza di vita che dai dati in nostro possesso, ovvero: secondo me Giovanni stava bene con Guglielmo, e avrebbe voluto passare più tempo con lui, mentre Guglielmo probabilmente preferiva la solitudine, o comunque una compagnia diversa. Però comunicare questo tipo di cose è difficile; lo è anche oggi che parliamo tutti la stessa lingua e abbiamo tutti gli stessi riferimenti culturali. Guglielmo non poteva semplicemente dire, senti, ci ho riflettuto un po' e ho capito che dobbiamo dividerci. I santi eremiti nel medioevo non comunicavano così. Al limite poteva dire così: ho avuto una visione, Gesù Cristo mi ha detto che dobbiamo dividerci. Al che Giovanni risponde una cosa del tipo: mm sì, ecco cos'era prima quella cosa nella siepe, era Gesù Cristo che parlava con te. Ok. 

"Quindi ci dividiamo?"

"Va bene".

"Allora io vado di qua e tu vai..."

"Un attimo, un attimo, devo..."

"Devi cosa?"

"Devo prendere le mie cose".

"Ma cosa devi prendere, non hai niente, sei un eremita".

"Ah già. No, devo... devo pregare e meditare".

"Ok. Io intanto vado".

"No, dai, resta a pregare un po' con me..."

"Ma Gesù mi ha detto..."

"Ma figurati se Gesù ha fretta, dai".

Così alla fine Guglielmo diede fuoco alle capanne. Cioè, nella leggenda non c'è scritto così: c'è scritto che le capanne presero fuoco per miracolo, e questo fece capire ai due sant'uomini che Gesù un po' di fretta l'aveva. Sono io che sovrainterpreto, sono io che ovunque vado porto la mia sociopatia. Invece di portarmi Gerusalemme, come fanno i santi uomini.

Quanto a Giovanni, quest'ultimo proveniva, secondo la tradizione, da una famiglia benestante di Matera, i De Scalcionibus (per cui a volte lo sentirete chiamare San Giovanni Scalcione, o Scalzoni). Che non si trattasse di poveracci lo si può dedurre anche dal fatto che avessero residenza dove ora si trova la chiesa del Purgatorio, una specie di terrazzo su quello spettacolo di miseria che dovevano essere i Sassi nel 1100. Possiamo insomma immaginare che Giovanni sia cresciuto in un osservatorio privilegiato sulla povertà e la sofferenza, e se anch'egli da giovane potrebbe aver sentito il richiamo di Gerusalemme (del resto sappiamo che Urbano II nel suo tour propagandistico passò anche da Matera), da un certo momento in poi deve aver concluso che Gerusalemme è ovunque vi sia fede e povertà, Gerusalemme è dentro di noi. Un bel pensiero che se fosse stato universalmente condiviso ci avrebbero risparmiato grattacapi che tuttora perdurano, ma qualcuno a questo punto potrebbe offendersi, quindi ora metto punto.

Anche se Guglielmo fu suo ospite in una grotta poco distante da Matera, non è che Giovanni fino a quel momento non avesse viaggiato, anzi: aveva trottato per l'Italia meridionale così instancabilmente che facciamo fatica a ricostruire il suo itinerario (le agiografie dei due santi non coincidono). Era stato a Taranto, nel monastero dell'Isola di San Pietro, a litigare coi monaci locali che non apprezzavano la sua abitudine a meditare immerso nell'acqua fino al collo, giorno e notte; era stato in Calabria; non ancora in Puglia dove più tardi si sarebbe fermato. Nessun monastero gli sembrava abbastanza ascetico; talvolta era una visione a proporgli di cambiare destinazione. Anche a Ginosa non sarebbe rimasto a lungo, benché vi avesse già trovato i primi discepoli; secondo una leggenda fu incarcerato dal conte Roberto di Chiaromonte, con l'accusa di aver finanziato la comunità con i fondi di un tesoro da lui trovato in una delle grotte, e bisogna dire che tutto questo accadeva al termine di un periodo plurisecolare in cui chi si trovava dell'oro in casa tendeva davvero a nasconderlo in qualche luogo sicuro, insomma ritrovamenti del genere non dovevano essere rarissimi e può darsi che capitassero più spesso a chi aveva l'inclinazione a rifugiarsi nelle grotte più desolate; ma è difficile immaginare che un asceta come Giovanni ne avesse approfittato. Magari li aveva distribuiti ai poveri – cioè un po' a chiunque – senza immaginare cosa sarebbe successo quando un po' di poveri si sarebbero ritrovati a dover giustificare il possesso di oggetti d'oro. Ma può darsi che si tratti di una leggenda nata per giustificare il fatto che neppure a Ginosa, tra i suoi discepoli, Giovanni era riuscito a trovare la pace.

Lo ritroviamo in seguito a Bari (Giovanni non disdegnava, tra un eremo e un altro, i centri urbani più popolosi) dove finisce di nuovo nei guai; il principe Grimoaldo Alfaranite lo fa processare, a quanto pare perché predicava la povertà senza permesso. Assolto, Giovanni si rimette in viaggio, forse passando da Capua e incontrando di nuovo Guglielmo da Vercelli, in Irpinia. È qui che avviene l'episodio sopra riportato (Guglielmo vede Gesù e anche Giovanni fa in tempo a vedere la visione svanire). La volontà di Dio sembra abbastanza chiara, eppure i due santi fanno un po' fatica ad accettarla; l'incendio delle capannine che si erano costruiti sembra un segno più esplicito. Eppure i due fanno ancora un po' di strada assieme, fino al monte Cognato; qui Guglielmo riesce finalmente a liberarsi del collega; Giovanni prosegue fino a Monte Sant'Angelo, che ai tempi era il centro urbano più importante del Gargano, nonché il santuario più visitato di tutte le Puglie (anche se cominciava a sentirsi la concorrenza con quello di San Nicola a Bari). Qui risolve un caso di siccità, attribuendola pubblicamente ai peccati di un religioso; costui piuttosto di smettere di peccare abbandona il Monte, e la siccità cessa immediatamente. Anche Giovanni lascia di lì a poco il Monte per recarsi a Pulsano, nei pressi del golfo di Manfredonia, dove finalmente troverà il luogo ideale per fondare un monastero. Benché in teoria aderisse alla regola benedettina, l'insistenza di Giovanni sul lavoro manuale (e il disinteresse per quello intellettuale) è un chiaro segno anticipatore dei movimenti pauperisti che dilagheranno anche in Meridione nel secolo successivo. Alla sua morte (verso il 1140) esistevano decine di monasteri cosiddetti pulsanesi, da Pisa a Dubrovnik; l'ordine però si dissolverà altrettanto rapidamente, forse a causa della concorrenza degli ordini mendicanti dal Duecento in poi. Settecento anni più tardi, un regista visionario deciso a mostrare, la Passione di Cristo "as it was", deciderà di girare il suo film tra i Sassi di Matera, ormai più Gerusalemme dell'originale. 

martedì 18 giugno 2024

I dioscuri ambrogini

19 giugno: Gervasio e Protasio, misteriosi martiri milanesi

Ambrogio con Gervaso e Protasio, nella cripta della sua Basilica.
Di BáthoryPéter (talk) (UTC) - Opera propria, CC BY-SA 4.0, Collegamento

Benché sia Genova l'unica città italiana ad avere la sfrontatezza di definirsi con un peccato capitale ("la Superba"), non sarebbe poi così difficile appiopparne uno o più di uno a tutti i centri urbani rilevanti: Bologna e l'Emilia in generale sarebbero Golose, Napoli potrebbe scegliere tra Lussuria e Accidia, ma perché scegliere? Firenze, notava Dante, li ha tutti sette: l'Inferno è una sua provincia. E Milano?  Milano certo non vorrebbe, ma come si fa a non definirla Invidiosa? Alla fine nessuna città è la migliore di tutte ma Milano è quella che più soffre di non esserlo.

Nel giugno del 386 Ambrogio ha un problema. In quanto vescovo di Milano ha fatto costruire una Basilica dei Martiri: uno dei luoghi di culto monumentale che dovrebbero sancire la superiorità della sua Chiesa (quella di credo niceno-costantinopolitano) rispetto a quella degli ariani, che forse in città sono la maggioranza, ma non hanno le risorse di Ambrogio, né intellettuali né economiche. Il problema è che in questa Basilica dei Martiri... non ci sono martiri. Oppure può darsi che qualcosa ci sia, ma veramente non un granché, non abbastanza da giustificare un monumento del genere, al punto che Ambrogio ancora non si sente di consacrarla. In questo il sant'uomo, benché nato a Treviri, ci risulta già perfettamente intriso dello spirito milanese, quel millenario complesso di inferiorità che sembra costringere gli abitanti a confrontarsi con città più grandi, dal passato più glorioso, insomma a Roma hanno Pietro e Paolo, a Costantinopoli si arrangiano con Andrea e qualche reliquia della Madre di Dio, ma a Milano chi c'è? Ci sarà passato qualche apostolo? Mah, non si sa. Forse Barnaba, non uno dei Dodici ma nemmeno uno degli ultimi arrivati; e però reliquie di Barnaba ancora non ci sono, arriveranno poi. Ma possibile che due secoli di persecuzioni anticristiane non abbiano lasciato il segno? A Roma mietevano teste di cristiani come il grano, e noi niente?

Ambrogio ha un presentimento, così lo definirà in una lettera alla sorella Marcellina. Bisogna scavare. In effetti la sua Milano, per quanto molto più piccola della nostra, ha già qualcosa come novecento anni di Storia, e sappiamo bene cosa succede se provi a scavare in un posto del genere: due ossa prima o poi le trovi. Ma Ambrogio ha la fortuna, o l'astuzia, e la sensibilità, di trovare i cadaveri ben conservati di due fratelli, e questo anche una perizia del 2018 l'ha confermato: le ossa di Gervasio e Protasio presentano significative somiglianze morfologiche. Anche un martire solo sarebbe andato bene, ma Ambrogio riesce a trovarne due e in un qualche modo questo sembra più rassicurante: certo, non siamo più pagani, nessuno pensa più ai Dioscuri, eppure anche Milano ora ha la sua coppia di eroi, come Romolo e Remo a Roma (poi sostituiti da Pietro e Paolo), come Faustino e Giovita a Brescia, e così via. 

Ora sì che la basilica si può consacrare: la traslazione solenne avviene il 19 giugno del 386, ed è la prima cerimonia del genere che ci sia nota in Occidente. Dei due martiri, probabilmente ancora nulla si sapeva: che fossero cristiani lo provava il fatto che fossero benissimo conservati (Ambrogio a Marcellina insiste sul dettaglio del sangue). I nomi non si sa bene dove Ambrogio li abbia trovati: in un primo momento erano Gervasio e Protaso, poi quest'ultimo per assonanza finisce per essere chiamato "Protasio"; in Veneto molte chiese saranno dedicate a un "Trovasio" che è una specie di crasi dei due. La prima agiografia è di qualche anno successiva alla traslazione, e forse è costruita proprio a partire dai dettagli: un cadavere sembrava essere stato decapitato, l'altro no e quindi si decide che è morto fustigato a sangue. L'idea è che siano morti durante le persecuzioni di Decio, quindi terzo secolo; qualcuno preferiva Diocleziano, ma sembra troppo tardi visto che ottant'anni dopo, al tempo di Ambrogio, la memoria dei due era completamente estinta; altri suggeriscono Nerone, ma che a Milano ci fosse una comunità cristiana già verso il 60 sembra inverosimile. Ai due viene assegnata una famiglia di martiri: il padre, Vitale, sarebbe stato assassinato a Ravenna e la moglie, Valeria, mentre tornava da Ravenna a Milano. Negli anni successivi, la Basilica dei Martiri divenne la più importante di Milano, anche perché Ambrogio decise di essere sepolto lì, tra i due santi che aveva scoperto: e da allora la chiamiamo col suo nome, Basilica di Sant'Ambrogio. 

domenica 16 giugno 2024

Ranieri e la sindrome di Gerusalemme

17 giugno: San Ranieri di Pisa (1118-1160), un altro che a Gerusalemme ha perso un po' la testa.

Cecco di Pietro
Gerusalemme è una città che fa impazzire la gente. Non è solo un modo di dire. Esiste una vera e propria sindrome attestata nella letteratura psichiatrica a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. Colpisce i turisti, che nella stragrande maggioranza sono turisti religiosi (e forse sono predisposti a sperimentare un'esperienza perturbante). Nella forma più lieve si manifesta come un pensiero ossessivo nei confronti della città e della storia che rappresenta; in casi più gravi subentra il complesso del Messia, ovvero il turista si sente chiamato da Dio a una missione che può comportare atti vandalici (nel 1969 un australiano decise lì per lì di dare fuoco alla Moschea di Al Aqsa). C'è da dire che dopo una recrudescenza avvertita intorno al 2000, negli ultimi anni il fenomeno è stato relativamente ridimensionato, forse perché (ipotesi mia) è difficile sembrare pazzi arrivando in una città che sta già impazzendo di suo. Il cento di salute mentale Kfar Shaul  ha contato qualcosa come 1200 casi in un lasso di tredici anni (1980-1993), con 470 ricoveri (per lo più brevi). Considerato che nello stesso periodo Gerusalemme veniva visitata da più di tre milioni di turisti l'anno, si potrebbe anche concludere che la sindrome esiste solo perché ci aspettiamo che esista, come i miracoli a Lourdes: se metti tanti credenti nello stesso luogo, è statistico che qualcuno prima o poi in quel luogo cominci a vedere cose o a gridarne altre. In tutte le città qualcuno all'improvviso può mettersi a balbettare profezie, vestirsi di tuniche e proclamarsi il Messia, ma a Gerusalemme ci fanno più caso che altrove, anche se di solito una degenza di una settimana è sufficiente a risolvere il problema. Episodi del genere sono stati registrati in altre epoche: di uno avete senz'altro già sentito parlare (se ci riflettete). Altri sono stati descritti da un domenicano svizzero del XV secolo, Felix Fabri. E poi c'è il caso di San Ranieri Scacceri di Pisa.

A guardarla da lontano, l'agiografia di Ranieri sembra una bozza preparatoria di quella di Francesco d'Assisi: nasce 70 anni prima, fa impazzire i genitori con i suoi modi da ragazzaccio dissoluto (gli piace ballare e suonare la lira), tenta comunque di mettersi sulle orme del padre mercante, ma proprio a quel punto sente il richiamo della povertà, compie un viaggio in Terrasanta, si libera di tutti i suoi beni e diventa asceta e predicatore, venerato già in vita per i miracoli. Se il pauperismo di Francesco è l'espressione del disagio che cresce nel tessuto urbano proprio nei decenni in cui la civiltà comunale conosce un vero e proprio boom economico, non è così strano che nella repubblica marinara toscana sia comparso un simil-Francesco molto prima che in Umbria. 

Avvicinandoci un po', cominciamo a notare le differenze: Ranieri viene convertito da un eremita di origina corsa, Alberto Leccapecora; non va in Terrasanta a convertire il sultano (nel 1135 Gerusalemme è ancora controllata dai Crociati), ma in viaggio di lavoro, con alcuni soci di una compagnia commerciale. Quando arriva però capisce che la povertà è la sua vocazione. Ma non si veste di bianco o di sacco, non si proclama il Messia: si limita a liquidare ai soci la sua quota nella compagnia e a smettere di mangiare cinque giorni alla settimana. In Terrasanta rimane per 13 anni, prima di tornare a Pisa dove si sarebbe stabilito con alcuni seguaci nel monastero urbano di San Vito, compiendo vari miracoli e benedicendo regolarmente l'acqua che gli portavano (da cui il soprannome di Ranieri dell'acqua). A San Vito sarebbe morto nel 1160. 

Negli anni successivi il suo culto sarebbe stato promosso soprattutto dal vescovo Benincasa, che era stato suo discepolo negli ultimi anni a San Vito, e che modificò pesantemente un'agiografia già esistente, trasformando Ranieri in uno straordinario esorcista. Benincasa era esponente della fazione ghibellina in rotta con il papa Alessandro III, e cercava nel culto del suo antico maestro una fonte di legittimità. Quando fu deposto, Ranieri perse ogni speranza di essere canonizzato ufficialmente da Alessandro, e anche in seguito non c'è mai stata una vera causa di beatificazione. In compenso a Pisa è considerato il santo patrono.

sabato 15 giugno 2024

Giulitta e il neonato parlante

16 giugno: Santa Giulitta e suo figlio San Quirico, entrambi martiri nel 303

Giulitta è una matrona che cerca di scappare da Iconio per evitare a sé stessa e al figlioletto Quirico la persecuzione anticristiana: ma Diocleziano ha spie dappertutto, e Giulitta viene rapidamente catturata. Un turpe governatore durante l'interrogatorio la minaccia e la blandisce tenendo in braccio il piccolo Quirico, che nella leggenda originaria avrebbe al massimo tre anni. Non solo Giulitta rifiuta di convertirsi, ma lo stesso Quirico miracolosamente prende la parola, esorta la madre a resistere e si professa pure lui cristiano. Il governatore, dalla rabbia, lo afferra per un piede e lo scaglia contro i gradini del tribunale, così forte che ne "schizzarono le tenere cervella". Il tutto davanti alla madre che da quel momento sarà ancor più risoluta a morire testimoniando la propria fede. Tramandata da una Passione redatta dal vescovo di Iconio di Licaonia (oggi in Turchia), la storia di Giulitta e del suo piccolo Quirino conobbe per tutto il medioevo un grande successo. Annotiamo una volta in più come nel medioevo un certo gusto per lo splatter si sia tramandato proprio grazie alle leggende di santi, che con la scusa di dettagliare l'efferatezza dei pagani consentivano agli autori di sfrenare le fantasie più violente. Detto questo, dietro a ogni fantasia c'è una possibile verità e non possiamo escludere che durante la persecuzione dioclezianea un bambino sia morto in un modo tanto orribile. Non è nemmeno impossibile che Quirico abbia detto qualche parola ispirata, in fondo a tre anni alcuni bambini ne sono capaci. Ma l'episodio ricalca evidentemente un tropo più antico: quello del neonato che all'improvviso si mette a parlare come un adulto.  

In Italia il neonato parlante più famoso è senz'altro quello che Sant'Antonio di Padova prende in grembo a Ferrara: è nato da pochi giorni e il padre non vuole riconoscerlo, accusando la moglie di adulterio. Antonio scongiura il neonato di indicare il padre, e il neonato prende miracolosamente parola per scagionare la madre. Non sappiamo se la leggenda sia nata per giustificare le tante immagini in cui Antonio teneva in braccio un bambino; la leggenda poi confligge con un'altra che identifica nel bambino lo stesso Gesù: Antonio lo avrebbe tenuto in grembo in una visione. 

Il diavolo scambia un neonato con un changeling,
in un polittico di Martino di Bartolomeo.

Nei miti celtici, i bambini che parlano sono i changeling, folletti che le fate hanno sostituito ai figli veri delle madri che non hanno fatto sufficiente guardia alla culla. Queste fate in certi casi preferiscono crescere figli umani; oppure non hanno latte e quindi devono servirsi di questo sotterfugio perché una madre umana nutra il loro figlio. Le leggende dicevano che erano più goffi dei bambini normali, e che parlavano sì, ma solo di nascosto: per sorprenderli servivano una serie di trucchi che variavano di regione in regione. 

Un'ipotesi è che la leggenda dei changeling servisse a spiegare il fenomeno dei bambini affetti da malattie genetiche, come la sindrome di Down. Definirli figli delle fate era un modo per prenderne le distanze, visto che presto o tardi sarebbero stati uccisi o abbandonati. Apparentemente, la leggenda di Giulitta e Quirico non ha niente in comune coi changeling: e però appena il bambino parla, il pagano malvagio lo afferra da un piede e lo scaglia via come una vita indegna di essere vissuta. Non è impossibile che nella storia venga riciclato un mito più antico, rovesciato polemicamente: la pratica di eliminare i bambini malati o deformi diventa una prova della malvagità dell'antico mondo pagano; ora il bambino che parla è un martire ed è degno di essere venerato come santo. 

venerdì 14 giugno 2024

Eliseo e le sue orse

14 giugno: Sant'Eliseo, profeta da non contrariare (IX secolo aC)


Quando Eliseo, dopo aver purificato le acque di Gerico, si mise in cammino verso il monte Carmelo, passando da Betel incontrò dei giovani che lo presero in giro: la strada era in salita e loro gli gridavano: "sali, calvo". Non l'avessero mai fatto. Non solo si prendevano gioco di un profeta di Dio, ma di quello probabilmente più permaloso. Insomma giudicate voi: Eliseo (dall'ebraico Elisha, "Dio è la mia salvezza") li maledisse nel nome del Signore e subito dal bosco uscirono due orse che li sbranarono tutti e quarantadue. E benché i glossatori in seguito abbiano tentato di dare al termine ebraico "ne'arim" ("giovani"), un significato più esteso ("disobbedienti"), è probabile che la versione originale sia la più sgradevole: non erano adulti, e se il profeta li ha maledisse si vede che se lo meritavano. 

Di miracoli, Eliseo ne ha fatti parecchi: è la sua specialità. Isaia ha la poesia, Geremia le rampogne, Ezechiele le visioni, Elia i miracoli, Eliseo ancora più miracoli. Alcuni sono persino più cruenti, ma non è difficile capire perché questo è il più famoso. Erano 42 ragazzi: non offendevano il Signore servendo gli idoli, come facevano i re di Israele e dintorni che Eliseo periodicamente ammoniva e puniva. Avevano solo mancato di rispetto a un profeta, ecco, questo era già intollerabile. 

Quando fece sbranare i 42, Eliseo era già abbastanza maturo da aver perso i capelli, ma come profeta si era appena messo in proprio. Il suo maestro, il grande Elia, era da poco salito al cielo su un carro di fuoco. Eliseo aveva avuto il privilegio di assistere all'evento coi suoi occhi, l'unico modo, secondo il maestro, di riceverne l'eredità. Eliseo aveva chiesto addirittura di "averne il doppio", richiesta molto ardita perché già Elia era conosciuto per i suoi prodigi spettacolari. Eliseo evidentemente sentiva di meritarselo; anni prima, quando Elia lo aveva fatto suo discepolo stendendogli il mantello addosso, Eliseo aveva abbandonato la sua casa senza quasi fiatare. Stava arando un campo, alla guida di un tiro di dodici buoi – un dettaglio che ci suggerisce che la sua famiglia fosse abbastanza benestante. A Elia chiese solo un momento per salutare i genitori; poi fece arrostire i buoi sul fuoco che appiccò agli aratri, sfamò i suoi servi e li congedò, il Signore lo chiamava. Non sappiamo se durante gli anni di apprendistato presso Elia abbia fatto dei miracoli; senz'altro, appena raccolse il mantello di Elia che era caduto dal carro di fuoco, divenne in grado di dividere le acque del Giordano e fare qualsiasi altra cosa. Un enorme potere nelle mani di un uomo un po' bizzoso, ma Eliseo era anche capace di atti di generosità e tenerezza. 

Quando passava dal villaggio di Sunem era spesso ospite di una signora che aveva riconosciuto in lui "l'uomo di Dio", e aveva fatto costruire una stanza apposta per lui, senza nulla chiedere in cambio. Eliseo, non sapendo come sdebitarsi, le promette che entro l'anno aspetterà un bambino. La sunammita non vuole crederci, il che è pericoloso; chi reagiva con scetticismo alle profezie di Eliseo a volte finiva molto male. Un soldato che non aveva creduto alla vittoria promessa, era finito schiacciato durante i festeggiamenti. Ma il caso della sunammita è diverso: non dubita del profeta, ma ha paura del suo stesso desiderio. Il bimbo nascerà, crescerà, e un giorno cadrà in coma dopo aver lamentato forti dolori alla testa. Quel giorno la sunammita cavalcherà fino al monte Carmelo, per prendersela con il profeta: "Avevo forse domandato un figlio al mio Signore? Non ti dissi forse: non m'ingannare?"  Così tutti noi genitori, quando scopriamo che l'ansia di perdere i nostri figli sorpassa la gioia di averli attesi, se avessimo nei pressi il profeta Eliseo, lo malediremmo. Ma il potente Eliseo, inflessibile coi re e i loro eserciti, quando la sunammita venne ad accusarlo, scese dal Carmelo e andò a rianimarle l'unico figlio, con una tecnica che somiglia alla respirazione bocca a bocca. Era un tipo così. Per fortuna che quel giorno nessuno gli fece notare che stava perdendo i capelli. 

giovedì 13 giugno 2024

Ma dove l'avete pescato Vannacci


Se vogliamo poi parlare di Vannacci, forse questo è il momento. Io finché c'era il benché remoto rischio di fargli un po' di campagna elettorale gratis, mi rifiutavo anche di nominarlo. E non è che abbia molto da dire su un personaggio tutto sommato abbastanza lineare. Segnalo soltanto una cosa che ritengo divertente: Vannacci sfondò sui giornali l'estate scorsa, quando un libretto pubblicato a sue spese si ritrovò per primo in una classifica. Qualche mese prima (aprile 2023), io scrivevo questa cosa:

La coincidenza dell'agonia di Berlusconi con la fusione mentale di Calenda mi induce a una riflessione: e adesso cosa s'inventeranno, Loro?

Per "loro" intendo un soggetto forse troppo vago – diciamo quel ventre molle culturalmente un po' succube di una classe proprietaria che ha ancora in mano due o tre giornali a diffusione nazionale, insomma quel blocco sociale che una volta chiamavamo maggioranza silenziosa salvo che in Italia ha dimostrato più volte un'incredibile creatività, ma esclusivamente nei momenti in cui una specie di sinistra anche solo in vago odore di socialdemocrazia sembra potersi aggiudicare uno straccio di maggioranza in parlamento. Siccome la Storia ha la tendenza a ripetersi in farsa, la prima occorrenza di questa creatività è l'unica davvero tragica: la marcia su Roma del 1922, un giornalista a capo di un gruppo di picchiatori che all'improvviso diventa la soluzione a tutti i problemi, compresa un'insurrezione bolscevica che almeno in quel caso non era del tutto implausibile.

Settant'anni più tardi, a muro di Berlino crollato, la minima possibilità che il PDS di Occhetto possa vincere un'elezione trasforma un palazzinaro che sta occupando abusivamente delle frequenza televisive nel Cavaliere che salverà l'Italia dal comunismo.   

Il tizio in effetti i mezzi mediatici per imporsi nell'immaginario degli italiani ce li ha, ma quando si trova al governo non ha la minima idea di cosa fare. Non importa, perché all'orizzonte c'è già la soluzione, ancora più assurda: un movimento di popolo orgogliosamente antipolitico capitanato da un ex comico televisivo. 

Pure lui riesce a mandare la sinistra a casa in diretta streaming; pure lui non sa poi cosa combinare, e quindi che si fa? A quel punto si punta su personaggetti raccattati: prima Renzi, poi questo Calenda, che non si capisce se siano emotivamente instabili in partenza o lo diventino una volta messi sotto luci di riflettori che, è evidente, sono un po' troppo forti per loro. Ma a questo punto insomma Renzi è una barzelletta, Calenda una mina vagante, cosa s'inventeranno stavolta? Da dove lo possono pigliare? Fabrizio Corona è a piede libero? Morgan come sta, è andata bene la trasmissione? Olindo e Rosa sono ancora al gabbio? No così, sto pensando ad alta voce.

Che dire: alla fine Olindo e Rosa sono rimasti al gabbio, Morgan tutto sommato se la cava, anche Corona aveva da fare, vai con l'ufficiale in congedo. Ma capite che siamo al raschio del barile. La scarsa affluenza alle urne è un problema di casting, come all'Isola dei Famosi dove non diventano più famosi neanche dopo esserci andati. E ora? Donne barbute, nani proiettile? Avessi un circo, comincerei a rifletterci.

mercoledì 12 giugno 2024

Dalle urne solo buone notizie (le cattive le avete già lette)

Il Post

– Lamentarsi dei risultati elettorali è pratica molto diffusa, evidentemente appagante per chi si lamenta e forse anche per chi questi lamenti li ascolta o li legge. Lo dico perché continuo a vedere gente che si lamenta ancora prima di aver letto i risultati definitivi: e quando i risultati definitivi smentiscono le previsioni di catastrofe, continuano a lamentarsi perché il copione è quello, mica puoi aspettarti che improvvisino. Non è che non li possa capire: è difficile rinunciare a un bel frame quando te lo prepari da mesi. L'Europa doveva spostarsi a destra; un po' effettivamente è successo, ma non così tanto. Non importa, ormai nei cassetti c'è tutto un fior di riflessioni sullo spostamento a destra e devono pubblicarle. Non è un vero problema, tanto non le leggiamo più.

– Non leggiamo più, quindi perché lamentarci di una stampa asservita ai potenti di turno. Personalmente ho smesso di indignarmi per Vespa, per Mentana e per tutti gli altri tromboni che si ostinano a mettersi tra noi e le notizie in tv: pensionati che intrattengono pensionati, lasciamo che si seppelliscano da soli. I giovani non li conoscono, se non come feticci da evitare. I social, nel tentativo quotidiano di farmi litigare con qualcuno, nei mesi scorsi mi hanno mostrato dallo specchio un pezzo d'Italia particolarmente sgradevole, guerrafondaio, filosionista, ben rappresentato sui media, qualcosa che poteva realmente farmi preoccupare. Poi si va alle elezioni e quel pezzo si rivela un pezzetto, un pezzettino che non valeva il mio tempo e la mia preoccupazione. I giovani non sono guerrafondai, non sono filosionisti, e crescendo spesso in scuole multietniche non sono neanche particolarmente razzisti. Certo, hanno tutto il tempo per diventare stronzi come i loro genitori, ma non deve succedere per forza di cose. Quel che è chiaro è che non guardano la tv, non leggono, non si informano; e finché tv e giornali sono messi come sono messi continuerò a dire: meno male.

– La gente non legge, non si informa, e in molti casi non va a votare. I vecchi personaggi (Berlusconi) sono morti o in pensione, i personaggi noti (Renzi, Salvini, Conte) sono tutti a fine ciclo o in ciclo calante (compresa aa Meloni, che in termini assoluti ha perso voti), i personaggi nuovi non forano particolarmente malgrado si diano da fare (Schlein) o godano dell'attenzione morbosa di una stampa in crollo di vendite (Vannacci sempre in homepage su Corriere e Repubblica). Più che delusi, credo che molti non elettori siano annoiati o semplicemente non interessati. I talk televisivi sono una zuppa sempre più respingente, i social un labirinto di specchi che invece di metterci in comunicazione con gli altri ci restituisce versioni caricaturali di noi stessi: possono convincere qualche mitomane di avere un seguito nazionale sufficiente a candidarsi, ma non lo mettono in contatto con gli elettori che dovrebbero scoprire di avere interessi in comune con lui. La gente è mediamente meno informata che dieci anni fa, ma quando era più informata votava anche peggio. Almeno si è capito che non abbocca agli ami. 

– Io a lamentarmi non mi diverto, e da queste elezioni riesco a trovare solo notizie positive. C'è gente che pensava di fare campagna elettorale sugli insetti fritti, o sui tappi delle bottiglie di plastica. Questa gente per lo più Bruxelles la vedrà in cartolina. C'erano una volta i no euro, ve li ricordate? Erano una legione. Hanno concentrato i loro sforzi su un ufficiale in congedo che ora può ripassarsi tutti i gay bar di Bruxelles a spese loro (e nostre). Nunc est bibendum, per dirla come i vecchi politici.

 – Dopodiché, certo, aa Meloni tiene: ma non sfonda come sfondò Renzi dieci anni fa, e ora dovrebbe giocarsi tutto con una riforma istituzionale come Renzi dieci anni fa. Scopriremo in quest'occasione se è persino meno avveduta di quanto fu Renzi dieci anni fa. Io la credo un po' più furba, se non altro perché fa politica da prima di Renzi, e lo ha visto passare: possibile che voglia davvero commettere lo stesso errore? Quindi i casi sono due: o dopo queste europee rinuncia al premierato, o va avanti e casca come cascò Renzi. C'è persino una terza ipotesi, piuttosto hard: mettiamo che riesca a realizzare il premierato, con o più facilmente senza referendum confermativo. Le europee ci dicono comunque che è in fase calante, e la storia di questo decennio postberlusconiano ci dice che nessun leader ha un secondo ciclo a disposizione. Grillo non lo ha avuto, Renzi nemmeno, Salvini nemmeno, Conte nemmeno. Non c'è nessuna buona notizia all'orizzonte paa Meloni, solo guerre e tasse e debiti, e sempre meno margini per incolpare la gestione precedente. Persino se riuscisse a coronare il sogno almirantiano di una repubblica semipresidenziale, aa Meloni starebbe semplicemente confezionando gli stivali che qualcun altro indosserà, ma chi? Chi è l'unico personaggio politico in fase crescente? Ecco, questo è buffissimo, perché mi guardo in giro e vedo solo Elly Schlein. E mi viene da ridere, non dite che non sarebbe divertente, ritrovarsi Elly Schlein super-premier d'Italia, grazie al suo impegno ma anche alla ciclopica ottusità degli avversari. Non succederà, ma se succedesse, oh beh. 

lunedì 10 giugno 2024

L'ingegnosità del massacro


Quando dico che a Gaza è in gioco la nostra umanità, mi riferisco a fatti come questo: non solo che per liberare quattro ostaggi si siano uccise più di duecento persone, ma che un episodio del genere sia presentato come un successo. Un'ecatombe, in cui forse hanno trovato la morte altri ostaggi, Netanyahu deve vendercela come la dimostrazione che la sua strategia sta funzionando; e noi compriamo. Basta accendere la tv per scoprire che il rapporto tra duecento civili palestinesi e quattro ostaggi israeliani è perfettamente ok. Sono cresciuto negli ultimi decenni del secolo scorso, di guerre ne ho viste parecchie, per fortuna quasi tutte su un video. Un cinismo del genere, un disprezzo così esibito per le vite dei "nemici", non me lo ricordo nemmeno nei giorni più oscuri della Guerra al Terrore. È un fatto nuovo, forse un'avvisaglia dei nuovi tempi che incombono, delle prossime guerre e delle prossime migrazioni e del razzismo che provocheranno, che stanno già provocando. Evidentemente non possiamo più permetterci di provare pietà per tutti; senz'altro non possiamo più provare pietà per i palestinesi. Così Netanyahu ci chiede di essere felici perché senza cedere a nessun compromesso è riuscito a liberarne quattro, e noi festeggiamo. Qualche mese fa era bastato un accordo temporaneo con Hamas per portarne a casa un centinaio, ma questo è meglio dimenticarselo. 

Da quel che ci è dato sapere, il commando che ha provato a liberare gli ostaggi israeliani è partito dal molo che gli USA avevano costruito per motivi umanitari, (la consegna di aiuti umanitari via nave, che ha funzionato poco e male). Lo stesso commando si sarebbe nascosto in un convoglio umanitario. Tutto questo, ci spiegano i commentatori israeliani, dimostra l'abilità dell'esercito israeliano, la sua irrefrenabile inventiva. Lo stesso Netanyahu in conferenza stampa ha lodato "l'ingegnosità e l'audacia" di Israele, e questo è persino buffo, dopo anni e anni in cui Netanyahu e colleghi non smettevano di lamentarsi del fatto che i combattenti palestinesi si mimetizzavano... tra i convogli umanitari e le strutture sanitarie. Questo non dovrebbe più stupirci: ormai abbiamo capito che la moralità di ogni azione dipende semplicemente dal sionismo di chi la compie. L'IDF è l'esercito più morale del mondo, quindi se camuffa un commando in un furgone umanitario, questa è "audacia"; se lo fanno i palestinesi è detestabile, slealissimo terrorismo. 

I quattro ostaggi, per ora, non hanno accennato a torture e molestie, e questo è in linea con quanto abbiamo appurato fin qui: non c'è una sola vittima delle torture e delle molestie dei miliziani palestinesi che sia sopravvissuta per parlarne in prima persona. Viceversa abbiamo testimonianze di palestinesi scarcerati dal campo di prigionia di Sde Teiman che affermano di essere stati sodomizzati. con bastoni e altri strumenti. 

Non so più dove ho letto che ogni accusa di un sionista è una confessione. Per mesi, mentre il conteggio delle vittime civili aumentava paurosamente, e le demolizioni rendevano chiara al mondo l'idea di un'operazione di pulizia etnica, hanno scelto di difendersi accusando i miliziani palestinesi di "stupro di massa". Non hanno mai trovato le prove, ma intanto includevano lo stupro tra le pratiche con cui interrogano i prigionieri. Per anni hanno accusato i palestinesi di usare scuole, ospedali e strutture assistenziali dell'UNRWA come basi militari: anche qui, non sono mai riusciti a dimostrarlo, mentre invece abbiamo numerose testimonianze che ci dicono che il commando che ha liberato gli ultimi ostaggi era nascosto in un convoglio umanitario. Per mesi hanno abusato della nostra pazienza lamentandosi perché qualche studente cantava "From the river to the sea", con evidente proposito genocida: e intanto sbandierano allegramente mappe e canzoni che prevedono l'annessione di tutti i Territori. Quando dico che a Gaza è in gioco la nostra umanità, mi riferisco a quell'enorme trappola in cui è caduta l'ideologia sionista: giustificare ogni errore, ogni crimine, postulando che il nemico prima o poi ne abbia fatto uno peggiore. Bastano pochi anni, lo abbiamo visto, per convincere la maggioranza di un popolo che qualsiasi nefandezza è giustificata, anzi necessaria. Abbiamo visto Israele cadere in questa trappola: che sia almeno monito per chi le sta intorno.   

domenica 9 giugno 2024

Quando i teologi cantavano

9 giugno: Sant'Efrem il Siro, teologo e cantautore (306-372)

Nel quarto secolo, terminata la grande persecuzione dioclezianea, i cristiani tornano in superficie e per prima cosa si mettono a cantare. Potrebbe non esserci stato un altro periodo della storia dell'uomo in cui teologia e musica fossero tanto intrecciati; quasi tutti gli intellettuali del tempo non solo compongono inni, ma li usano per difendere le proprie teorie, e spesso li intonano direttamente nelle chiese in cui officiano i riti. Oggi li immaginiamo perlopiù mentre vergano pergamene o insegnano da un pulpito, ma nel IV secolo i dottori della chiesa componevano canzoni e le cantavano, col coro a rispondere. Cantava Ambrogio a Milano; cantava Diodoro ad Antiochia; ad Alessandria canta anche Ario, su musiche popolari che gli consentono di spargere le sue idee per le strade quando la Chiesa ufficiale gli volge le spalle. A Edessa, Siria (oggi Şanlıurfa, Turchia) andava forte un tale Armonio, figlio d'arte perché già il padre Gardesano a Nisibi aveva messo le sue idee gnostiche in musica; ma fu il successo di Armonio a stimolare il monaco Efrem a mettere in musica la sua dottrina.  Non sappiamo che musica fosse, perché non si sono tramandate forme di notazione comprensibili, ma può darsi che ci suonerebbe familiare, visto che Efrem componeva su arie della tradizione popolare, e la musica è un linguaggio più universale di quanto non si creda. Poi si sa come andavano le cose, non solo nel medioevo: quando si voleva salvare una bella canzone in siriaco, la si attribuiva a Efrem, per cui di lui ci sono arrivate centinaia di pagine in poesia e in prosa, dalle quali ricavare quelle davvero scritte dal monaco non è affatto facile. Questo è comunque un miracolo, se si considera quanto poco ci è rimasto di tutto il mondo che Efrem rappresentava. La sua lingua, il siriaco, che in quei secoli era una delle più parlate dai cristiani (e la più simile alla lingua di Gesù, l'aramaico occidentale), scomparve quasi del tutto dopo l'islamizzazione della regione, togliendoci gran parte della sensibilità necessaria ad apprezzare la musicalità e il ritmo delle composizioni di Efrem. La stessa comunità siriaco-cristiana cui apparteneva era già a rischio: se durante l'infanzia di Efrem l'impero Romano era ancora il nemico dei cristiani, la situazione si sarebbe ribaltata dopo il 310 quando i Romani divennero abbastanza rapidamente i difensori della fede cristiana contro la penetrazione persiana; il grande trauma della vita di Efrem è la conquista persiana di Nisibi, la sua città natale, dove a quanto pare, malgrado l'appellativo "monaco" suggerisca una vita appartata viveva e predicava. Ai cristiani fu consentito di salvare la vita abbandonando la città. Efrem, che secondo i biografi avrebbe partecipato attivamente alla difesa durante l'ultimo assedio, in seguito si sarebbe trasferito con molti altri correligionari a Edessa, fondando un monastero; sarebbe morto nel 372, assistendo i malati di peste.

sabato 8 giugno 2024

Il santo dei ladri di bestiame

8 giugno: San Medardo vescovo (VI secolo)

"S'il pleut à la Saint-Médard, il pleut quarante jours plus tard". La leggenda che associa San Medardo agli acquazzoni estivi prevede che il giovane aspirante santo incontri, all'età di dieci anni, un poveraccio disperato perché gli è morto il cavallo e non sa più come tirare il carretto o l'aratro. Decide quindi di donargli il suo, è una cosa che i santi fanno spesso, anche prima dell'introduzione delle stimmate avevano già le mani bucate; invece una cosa che fanno spesso i genitori dei santi è imbestialirsi quando scoprono che i figli stanno facendo i santi a spese loro. Il padre di Medardo, un nobile galloromano chiamato Nectar, quando scopre che suo figlio sta elargendo cavalli, esce immediatamente dal castello per andare a riprenderselo, e si porta il bambino con sé: ed è a questo punto che scoppia un violento acquazzone e Nectar, già completamente fradicio, si volta verso Medardo e si accorge che è completamente asciutto. Un'aquila lo sta riparando dalla pioggia battente; è un miracolo, un segno del cielo, insomma addio cavallo. I padri dei santi si devono rassegnare, magari sperando che col tempo i figli mettano la testa a posto, insomma quando toccherà a loro gestire il patrimonio la smetteranno di regalare cavalli a destra e a manca, o no? 

In effetti le leggende non riportano altri straordinari atti di prodigalità commessi da Medardo una volta cresciuto e ordinato sacerdote; un conto è regalare i cavalli del padre, un conto è intaccare il patrimonio della Chiesa. E tuttavia le leggende non nascondono un atteggiamento piuttosto eccentrico del santo nei confronti dei ladri. Quando Medardo ne scopre uno incastrato nei filari della vigna, lo perdona e lo lascia scappare, e questo fatto è registrato come "miracolo" benché ai nostri occhi contemporanei non risulti nulla di miracoloso, se non appunto la resistenza all'impulso di bastonare il ladro di frutta. Una cosa simile accade a un ladro di miele, che Medardo salva dalle api. Quando un altro furfante che nottetempo cercava di sottrarre una mucca viene tradito dal tintinnare delle campanelle, Medardo le fa tacere all'improvviso, dopo che avevano già svegliato tutto il vicinato: questo è già più simile a un miracolo, ma è un miracolo che serve a coprire la fuga del ladro di bestiame, che se ne va con la mucca di Medardo! Il quale è tradizionalmente considerato patrono dei prigionieri, di chi soffre di una malattia mentale o di semplice emicrania, degli agricoltori e dei birrai; ma a leggere storie del genere ci si domanda se per caso non sia anche il patrono ufficioso dei ladri. E se questo abbia a che fare con la sua popolarità in Francia, e con l'ascendente che ebbe Medardo su un ladro e assassino come re Clotario I.

In effetti il culto per Medardo comincia immediatamente dopo la sua morte (intorno alla metà del VI secolo), quando il re Clotario lo fa seppellire nella sua capitale, Soissons (oggi nell'Aisne), in un sito intorno al quale sorgerà una delle più importanti abbazie benedettine della Francia. Lo stesso Clotario si farà costruire la sua tomba lì accanto. Ma cosa aveva fatto Medardo, per meritare siffatti onori da parte di un re che aveva passato la vita a dar guerra a Visigoti, Burgundi, Turingi, nipoti, fratelli, figli? Lo aveva aiutato a sbarazzarsi di una moglie, Radegonda. 

No, non in modo cruento. Anzi, era stato forse uno dei pochi casi in cui Clotario era riuscito a risolvere un problema senza spargere sangue (era il tipo di re che quando un figlio si ribellava non condannava a morte soltanto lui, ma anche nuora e nipotini). Probabilmente Clotario non aveva mai amato Radegonda: l'aveva requisita come bottino di guerra in quanto figlia di un re di Turingia – quella volta che lui e un suo fratello avevano attraversato il fiume Unstrut sui cadaveri – e l'aveva sposata per le solite questioni politiche. Per le stesse questioni politiche gli era successo in seguito di far ammazzare un cognato; a quel punto Radegonda, rimasta senza parenti, era scappata, temendo per la sua stessa vita, e conoscendo i precedenti dei mariti è difficile darle torto. Clotario era un gangster; non è chiaro se aspirasse a unificare la Francia ammazzando tutti i parenti che ne possedevano una parte, o se l'unità della Francia fu semplicemente il risultato della sua propensione a uccidere tutti i parenti di cui poteva reclamare l'eredità. Presto o tardi avrebbe sentito la necessità di sposarsi con qualche altra principessa fornita di dote: tanto più che Radegonda non riusciva a dargli figli, almeno maschi. Così decise di scappare, e Dio fece crescere in un istante l'avena in un campo dove si era nascosta mentre le guardie di Clotario la cercavano. Trovò rifugio presso Medardo, che invece di riconsegnarla al re ebbe l'idea di nominarla diaconessa: Radegonda avrebbe trovato sollievo alle sue pene nella vita claustrale e fondato un monastero femminile a Potiers, una città assai distante dalle grinfie del marito. Invece di prendersela con Medardo, come alcuni temevano, Clotario ebbe da quel momento grande considerazione per lui e lo fece seppellire con tutti gli onori, poco prima di raggiungerlo. Aveva appena unificato la Francia, ma siccome la nuova moglie (che forse era una vecchia concubina) gli aveva dato cinque figli maschi, le guerre fratricide ripresero abbastanza presto. 

Secondo i francesi, se piove oggi, piove per altri 40 giorni – a meno che non faccia bello a San Barnaba, che è l'11. E almeno di pioggia i francesi s'intendono. 

giovedì 6 giugno 2024

Norberto il fulminato

6 giugno: San Norberto di Magdeburgo, vescovo e predicatore (1080-1134)

Di Norberto si racconta che cambiò vita dopo essere stato colpito da un fulmine, non sulla strada di Damasco ma nei pressi di Magdeburgo, capoluogo della Sassonia centrale. Norberto a dire il vero era già un chierico importante, tanto che aveva accompagnato l'imperatore Enrico V a Roma per la sua incoronazione. Per cui agli agiografi non resta che immaginare che fosse già un sacerdote, sì, ma di quelli un po' mondani che pensano più agli intrighi di corte che alla cura delle anime. L'episodio del fulmine potrebbe persino alludere a un episodio più concreto: il provvedimento di scomunica con cui il papa Pasquale colpì l'imperatore, visto che quest'ultimo continuava a nominare vescovi come se fosse una sua prerogativa. Proprio nello stesso periodo Norberto si sgancia dalla corte imperiale e comincia a dedicarsi alla predicazione e alla vita cenobitica. 

L'idea del fulmine ovviamente ricalca la caduta di san Paolo, però è davvero una coincidenza singolare che una storia simile si racconti anche di Martin Lutero, che sarebbe nato 400 anni dopo, ma a pochi km di distanza da Magdeburgo, a Eisleben. Anche nel suo caso un fulmine lo avrebbe convinto ad abbandonare gli studi giuridici e a farsi monaco. Lutero entrò nel monastero agostiniano di Erfurt; Norberto, 400 anni prima, ne fonda uno in Piccardia, a Premontré. I suoi monaci, che saranno chiamati premostratensi, seguono la regola agostiniana ma ai doveri del monastero aggiungono la predicazione del Vangelo nelle campagne. In pratica sono l'anello di transizione tra il monachesimo contemplativo e gli ordini predicatori che si diffonderanno nel secolo successivo, domenicani e francescani. Lutero – anche lui grande predicatore – invece abolirà tutti gli ordini monastici, insomma un fulmine può darti anche la scossa, ma la direzione in cui schizzi via la scegli sempre tu.

mercoledì 5 giugno 2024

Bonifacio l'abbattitore

5 giugno: san Bonifacio (675-754), evangelizzatore e taglialegna 


A un certo punto, non si sa bene quando, qualcuno ha messo in giro la voce che san Bonifacio/Winfred di Magonza sia l'inventore dell'albero di Natale. Lo avrebbe addobbato per la prima volta nel 724, "per spiegare alle popolazioni pagane il senso del Natale". Le candele accese sui rami simboleggerebbero "la discesa dello Spirito Santo sulla terra", discesa che a rigore si festeggerebbe più a Pentecoste che a Natale, insomma, è una storiella messa in giro da qualcuno non troppo esperto di queste cose – magari un protestante. Alla lontana richiama quegli espedienti di inculturazione che sono tipici dei pionieri dell'evangelizzazione, e qui forse giova ricordare che "pagano" deriva da "pagus", campagna: abbiamo cominciato a chiamare "pagani" i non cristiani quando ormai i centri urbani erano cristianizzati e i politeismi erano considerati superstizioni da contadini. Bonifacio, patrono di Germania e Olanda anche se era un benedettino nato in Inghilterra, ha appunto dedicato la sua vita all'evangelizzazione dei pagi: il papa Gregorio III, che lo aveva ribattezzato Bonifacio, lo aveva nominato vescovo di tutta la Germania, ma in concreto la zona in cui riusciva a esercitare le sue funzioni era quella intermedia tra Frisonia, Renania e Francia orientale, intorno alla sua sede di Magonza. Ora si sa che molti di questi evangelizzatori di massa non vanno per il sottile e hanno il battesimo facile, anche di fronte a popolazioni che ancora non capiscono la lingua delle preghiere: prima battezzare, dopo spiegare, magari tu non capirai ma tuo figlio sì. Ovviamente gli idoli pagani vanno distrutti, ma senza essere troppo drastici, specie nei confronti di elementi naturali che in effetti possono essere impossibili da rimuovere: ad esempio un monte è sacro a qualche dio? Mica si può distruggere il monte: ma ci si può mettere un santuario cristiano e nel giro di una generazione il dio è sostituito. Quanto all'albero di Natale, è ovvio che si trattava di un'usanza precristiana. Di giudaico-cristiano non ha veramente nulla, in Palestina i pini, quando ci sono, hanno tutt'altra forma. Quindi Bonifacio avrebbe potuto davvero prendere un'usanza pagana e riutilizzarla in senso cristiano: i missionari queste cose le hanno sempre fatte, e qualcuno senz'altro deve averlo fatto con gli alberi di Natale, visto sono sopravvissuti a duemila anni di cristianesimo. 

Ma è difficile che sia stato Bonifacio. Lui in questa cosa dell'inculturazione non ci credeva così tanto: dai suoi scritti e dai suoi atti risulta un personaggio piuttosto intransigente, e poco conciliante con i rigurgiti di paganesimo che riscontrava intorno a lui. Quanto agli alberi pagani, preferiva tagliarli. Uno degli episodi più celebri della sua vita è appunto l'abbattimento della sacra quercia di Fritzlar, in Assia. La quercia era considerata proprietà di Thor, ragione per cui la popolazione accorsa ad assistere era curiosa di vedere se il monaco inglese sarebbe stato fulminato all'istante: probabilmente non ci credevano del tutto; ci credevano come noi crediamo all'oroscopo o alle previsioni del tempo, ma se poi il fulmine cadeva davvero, volevi perdertelo? Così accorsero in tanti, anche perché l'avvenimento era stato dovutamente pubblicizzato: in data tale il vescovo di Magonza abbatterà la Quercia. Nessuno provò a trattenerlo, probabilmente perché Bonifacio era il braccio spirituale del potere carolingio ed era scortato da guardie del maestro di palazzo. E non dovette nemmeno sudare troppo perché appena cominciò il lavoro con l'accetta, in luogo dei fulmini si alzò un gran vento che sradicò la pianta, il che provocò migliaia di conversioni spontanee. Col legname ricavato Bonifacio avrebbe poi eretto la chiesa di un nuovo monastero in loco. Secondo una leggenda più tarda, proprio dai resti dell'albero sarebbe germinato l'abete che Bonifacio avrebbe deciso di addobbare, e qui è chiaro che l'idea di associare al santo l'albero di Natale è un tentativo un po' maldestro di addolcire un personaggio spigoloso. Bonifacio non amava i compromessi, malsopportava sia la rozzezza dei pagani sia la scarsa dimestichezza dei cristiani con i principi e la lingua della loro stessa religione: a un certo punto fu censurato dallo stesso papa perché voleva considerare nulli i battesimi impartiti con formule sgrammaticate ("Baptizo te in nomine patria et filia et spiritu sancta"). Malgrado i monasteri fondati (tra cui Fulda), i concili organizzati, le diocesi disegnate, i popoli battezzati, le querce sacre abbattute, non fu mai veramente soddisfatto di quello che stava facendo e non smise mai di provarci, così che il martirio lo trovò a ottant'anni in un pagus della Frisonia, una domenica di Pentecoste, circondato da infedeli che pensavano di trovare nei suoi bauli preziosi gioielli e non libri sacri. Ai suoi compagni chiese di abbassare le armi, tanto "non possono uccidere la nostra anima": poi quando gli infedeli lo stavano ammazzando non riuscì a impedirsi di difendersi col libro che aveva in mano, il De bono mortis di Sant'Ambrogio. Oggi il codice, coi segni di un'arma da taglio e macchie di sangue, è conservato a Fulda.



martedì 4 giugno 2024

Quirino che chiese di affondare, anzi no

4 giugno: San Quirino di Sciscia (Siszeck), martire (III-IV sec.)

By Berthold Werner, CC BY-SA 3.0

Se per un po' è sembrato che Internet potesse diventare la Biblioteca di Alessandria – l'archivio di tutte le cose che sappiamo o crediamo di sapere – ormai dobbiamo accettare che sia diventato la Biblioteca di Babele: un enorme corpus di testi che potrebbero persino avere senso, e forse un tempo l'avevano, ma poi è intervenuta una specie di Intelligenza Artificiale abbastanza intelligente per ricombinarli come se volessero dirci qualche cosa, ma non abbastanza per verificare se fosse qualcosa di vero. La maggior parte in ogni caso è pubblicità di cose che molto spesso nemmeno esistono; all'inizio servivano soltanto a infastidire il lettore e convincerlo a passare a una versione a pagamento di un servizio che non comunque non funziona più da anni. 

Di San Quirino comunque sopravvive ancora in qualche vecchia pagina web – ma di quelle vecchie davvero, con gli sfondi marmorizzati, le tabelle htm style e ancora le sottolineature blu sotto i link, ricordate? No, tutto questo ormai vi è più remoto di un manoscritto medievale, perché quelli li potete googlare, mentre il vecchio web degli anni Novanta ora dov'è, perduto come lacrime nella pioggia – ma dovevo parlare di San Quirino, ebbene, di lui sopravvive ancora in qualche vecchia pagina web la voce che lo riguardava su una versione del Martirologio Romano che non è quella attuale (edizione del 2004? del 2001?) Questa voce è così breve che la posso riportare senza troppa paura di annoiarvi:


In una versione più recente del Martirologio, sempre tra i santi del 4 giugno, si legge così:
A Szombathly in Pannonia, nell’odierna Ungheria, passione di san Quirino, vescovo di Siszeck e martire, che sotto l’imperatore Galerio, per la fede in Cristo fu precipitato nel fiume con una pietra legata al collo.

E dunque cos'è cambiato? come si sta evolvendo la martirologia ufficiale? Aumentano i riferimenti geografici: accanto a Siszeck di Croazia ora è menzionata anche Szombathly, oggi in Ungheria (l'antica Savaria, che tra l'altro rivendica anche i natali di Martino di Tours). Meno rilievo invece è dato agli aneddoti miracolosi, qui del tutto sacrificati, forse anche perché un santo che "impetrò Dio di affondare" può lasciare perplessa la sensibilità dei fedeli moderni: non si chiede mai a Dio di morire, anche quando si sta affogando già da parecchio tempo e tutto quello che si poteva fare per rendere testimonianza è stato fatto. Sarebbe eutanasia, e il cristiano moderno deve avere orrore per l'eutanasia, molto più di quanta probabilmente ne provava Prudenzio. Dal martirologio è poi sparito il riferimento a un omonimo Quirino di Tivoli, che si festeggia sempre il 4 giugno e da sempre è considerato lo stesso santo, le cui reliquie sarebbero arrivate a Tivoli da Szombathly già nel V secolo. Oggi riposano a San Giuseppe in Seregno, provincia di Monza e Brianza.

Se invece chiedo a Chat Gpt, lui mi risponde che:
Durante le persecuzioni dei cristiani sotto l'imperatore Galerio, Quirino fu arrestato e condannato a morte per la sua fede. Fu gettato nel fiume Raab (oggi il fiume Rába in Ungheria) con una pietra al collo e morì per annegamento.

Wikipedia invece dice che fu gettato nel fiume Perint, che in effetti passa da Szombathly. E in generale credo più all'intelligenza umana di Wiki che a quella artificiale di ChatGpt, che prende spesso solenni cantonate. Ma tra un po' i collaboratori di Wiki cominceranno ad attingere sistematicamente informazioni da ChatGpt, causando referenze circolari che renderanno impossibile documentarsi di qualcosa su Internet. A questo punto non saprei nemmeno più dire se sia un problema. Cioè, capitemi, Internet è stata fantastica, ci ho vissuto per quanti anni, trenta? Il posto più interessante dove sia stato. Ma non era previsto che durasse per sempre, quello che la rendeva fantastica era proprio una serie di difetti strutturali che la condannavano a diventare col tempo la Babele inanimata che è adesso. Per fortuna che nel frattempo non abbiamo bruciato tutte le biblioteche. 

domenica 2 giugno 2024

Un beota a Trani

2 giugno: San Nicola di Trani (XI secolo), il pellegrino beota


Anche Trani ha il suo san Nicola, meno conosciuto di quello di Bari (che è in effetti il santo più famoso di tutti, quello che porta i regali ai bambini la notte di Natale). Il Nicola di Bari fu vescovo in Licia e patrono dei naviganti; il Nicola di Trani invece era un beota, nel senso che proveniva anche lui da oriente ma nello specifico da un villaggio della Beozia, non troppo lontano dal Parnaso. 

Tra i Greci già in epoca classica era uso chiamare "beoti" gli stupidi, per via dell'antico pregiudizio dei nobili abitanti delle acropoli nei confronti dei pastori e dei montanari. Ma anche tra questi ultimi Nicola era un caso limite: orfano di padre, pastore già a otto anni, non è chiaro se non abbia mai imparato a parlare o se le sue competenze lessicali si siano ridotte a causa di un trauma (una "visione") a un'unica invocazione: Kyrie Eleison, Signore Pietà. Il comportamento di Nicola rientra nella casistica dei "folli di Dio", tipici del cristianesimo orientale (anche se al tempo erano ormai anacronistici erano ormai anacronistici): emarginati dagli atteggiamenti eccentrici, che mettono alla prova la tolleranza che il Vangelo pretende dai suoi fedeli nei confronti dei poveri di spirito. Tollerare Nicola doveva essere una prova particolarmente ardua, perché all'ennesimo kyrieleison anche la madre lo caccia di casa (a dodici anni!) Per qualche tempo si rifugia nella grotta in cui prima viveva un'orsa che Nicola era riuscito a sloggiare brandendo un crocefisso, e magari anche in questo caso mitragliando kyrieleison. In seguito la madre si fa venire uno scrupolo e lo porta in un monastero, ma Nicola non è evidentemente tagliato per la vita cenobitica e in poco tempo riesce a farsi percuotere e rinchiudere. Tra i vari incidenti, notevole quella volta che durante una processione, mentre tutti chinano la testa al passaggio di un'icona della Madonna, lui va a inchinarsi davanti a un anziano ebreo che era rimasto seduto, forse un rabbino. Ma con le icone non si scherza, nella Grecia bizantina. Un'altra volta i monaci lo legano come un salame e lo buttano in mare, ma lui riesce a farsi liberare da un delfino, anche se non è chiaro come facciamo a sapere tutto questo, visto che quando arriva nel 1094 a Otranto, Nicola è tutto solo e l'unica cosa che sa dire è Kyrie Eleison. Il testimone oculare citato dalle agiografie, un compagno di eremitaggio chiamato Bartolomeo, non sembra conoscere molto della Beozia: probabilmente si è aggregato a Nicola solo dopo l'arrivo in Puglia. Dunque tutto quello che sa se l'è fatto raccontare da Nicola, che quindi qualche parola oltre a Kyrie Eleison doveva saperla dire: che poi queste parole dicesse la verità, non possiamo saperlo.   

Nicola era arrivato in Puglia perché desiderava visitare Roma, e si era imbarcato con una comitiva di pellegrini diretti che però lungo il viaggio avevano deciso di buttarlo a mare. Anche in Puglia, l'accoglienza non è delle migliori. Nicola si fa strada mendicando nella parte più grecofona della regione recentemente conquistata dai Normanni, ma sia a Lecce che a Taranto viene frustato per ordine dei vescovi locali. Un minimo di rispetto il santo sembra ottenerlo dai bambini, ai quali dona dei frutti, ma questo dettaglio potrebbe anche essere il risultato di una contaminazione col Nicola più famoso, che è famoso proprio per i regali. Quando il 20 maggio Nicola arriva a Trani, trova per la prima volta un arcivescovo che lo tratta da cristiano e gli offre vitto e alloggio. Doveva essere talmente malato da ispirare finalmente più pietà che fastidio: muore dodici giorni dopo. Gli abitanti di Trani, che non hanno fatto in tempo a stancarsi dei suoi kyrieleison, imparano ad apprezzarlo per i miracoli. Il vescovo soprattutto coglie la palla al balzo: deve consacrare la cattedrale che era in cantiere già da parecchio, e un "Nicola" venuto dall'oriente sembra un segno del cielo. Quando scrive a papa Urbano II per chiedergli il permesso di canonizzarlo, è il 1097: sono passati appena dieci anni da quando i resti dell'altro San Nicola sono arrivati a Bari. Il papa acconsente (creando un precedente importante), e anche Trani può invocare il suo San Nicola. Kyrie Eleison.

sabato 1 giugno 2024

Il santo nella porta

1° giugno: Simeone di Siracusa (XI secolo), eremita e viaggiatore

A Treviri hanno la sensazione di vivere in una città antichissima – se ricordo bene c'è una targa in piazza che dice che è stata fondata mille anni prima di Roma. Questo è evidentemente impossibile, a quei tempi era tutta foresta; ma Treviri è l'ultima città sulla Mosella prima che il fiume si getti nel Reno, dopodiché cominciava la Germania vera e propria, che sarebbe rimasta foresta anche mille anni dopo: ai bordi di questo oceano verde, Treviri si sentiva una metropoli e fece il possibile per conservare quest'illusione. Certe rovine che in altre città facevano tristezza e venivano smantellate, con quel che costava cuocere mattoni nuovi nel medioevo, a Treviri in un qualche modo resistettero: compresa un'intera porta monumentale, la più grande testimonianza architettonica del periodo romano a nord delle Alpi. In parte il merito è anche di un santo, che andò ad abitarci quando ormai era un rudere. Si chiamava Simeone e veniva, di tutti i posti al mondo, da Siracusa. E prima di accamparsi nella Porta Nigra di Treviri era cresciuto a Costantinopoli, rapito in mare, naufragato ad Antiochia, aveva cercato di riscuotere un credito in Bretagna, ed era tornato in Terrasanta come guida turistica. 

Una vita del genere è il segno che il Medioevo ormai ha scollinato: prima dell'anno Mille non sarebbe stata possibile e anche ai tempi di Simeone era abbastanza straordinaria. Il mondo cominciava a rimpicciolirsi, al punto che persino a un monaco come lui, che aspirava probabilmente a una vita studiosa e tranquilla, capitava di frombolare da un punto all'altro del mondo conosciuto come una trottola. Se il primissimo viaggio di Simeone (a sette anni, da Siracusa a Costantinopoli) non era che la tipica traiettoria del bambino di buona famiglia che i genitori vogliono far studiare nella capitale – Siracusa era ancora grecofona, e controllata dai bizantini – il pellegrinaggio in Terrasanta compiuto al raggiungimento della maggiore età è uno dei pochi che Simeone sembra aver compiuto per sua libera scelta, anche se una volta arrivato nei luoghi santi (non ancora insanguinati dalle Crociate), Simeone sembra indeciso tra la vocazione all'eremitaggio in solitudine e l'ingresso in un monastero organizzato. Questa indecisione gli consente di guardarsi un po' intorno. Tra i luoghi in cui si ritira c'è il Giordano, una grotta vicino al Mar Rosso, la cima del Sinai. Forse è questa irrequietezza a suggerire ai confratelli che Simeone è l'uomo giusto per una missione quasi impossibile: andare a batter cassa presso un creditore del monastero, Riccardo II duca di Normandia. 

All'inizio del XI secolo i Normanni ormai è possibile trovarli un po' dappertutto, compreso in Italia meridionale dove combattono per il migliore offerente; ma Riccardo no, per trovare Riccardo bisogna proprio attraversare tutto il mondo conosciuto e chiedergli udienza in Normandia. Il viaggio di Simeone si complica subito: la nave in cui si era imbarcato viene assalita dai pirati. Il santo si salva tuffandosi e nuotando fino a riva; arriva a piedi ad Antiochia e qui fa la conoscenza con due illustri pellegrini che stanno tornando in Europa: un altro Riccardo, l'abate di Verdun, ed Eberwino abate di San Martino a Treviri, che anni più tardi scriverà la prima agiografia di Simeone. I tre rimangono compagni di strada fino a Belgrado, dove Simeone viene sequestrato e perde di vista gli altri due. Dopo una serie di vicende avventurose arriva a Roma, da cui può imbarcarsi per la Provenza, dopodiché non resta che attraversare tutta la Francia a piedi per raggiungere finalmente la corte del duca Riccardo II, ma non è così strano che quando finalmente arriva (ci ha messo più o meno cinque anni), il duca sia morto. E siccome gli eredi non sono intenzionati a ripagare nessun debito, Simeone si ritrova straniero in terra straniera, senza fondi per tornare nel monastero base. In un qualche modo riesce a contattare i due vecchi compagni di viaggio, Riccardo ed Eberwino, che gli trovano un ingaggio come guida turistica: accompagnerà Poppone, vescovo di Treviri, nel suo pellegrinaggio in Terrasanta. Presso Poppone, Simeone si trova bene che una volta raggiunta la meta tanto agognata, invece di rientrare nel suo monastero sul monte Sinai, decide di ritornare a Treviri col vescovo, che forse gli ha già promesso un eremo d'eccezione. Si tratta appunto della Porta Nigra, che agli abitanti del tempo doveva sembrare una montagna di pietra – nei primi tempi Simeone fu visto da alcuni come un misterioso stregone appollaiato tra le rovine. Poi col tempo la sua fama di santo si diffuse, e alla sua morte la Porta divenne l'ossatura di una delle chiese più grandi della città, con annesso convento. Lo era ancora al tempo di Napoleone, che fece demolire la chiesa per valorizzare l'originale romano.

Per quanto abbia svolto un ruolo cruciale nella preservazione dell'identità di Treviri, Simeone non ne è ovviamente il cittadino più famoso. Lo si è visto nel 2018, quando il comune, vincendo una certa titubanza, ha accettato il dono della Repubblica Popolare Cinese: una nuova statua di Karl Marx, che era nato a Treviri duecento anni prima. 

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