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mercoledì 15 settembre 2004

Se il narcisismo è la pretesa che il proprio autoritratto in quanto tale risulti di grande interesse per chiunque, l’autoreferenzialità estende il quadro all’album di famiglia e alla cerchia delle frequentazioni. Il riferimento funziona come referenza, cioè come riga di curriculum, quando evoca un padre nobile in qualità di garante delle ambizioni artistiche”

Enrico Terrone, Architettura di un luogo comune
(in realtà l'ho trovato su Dillinger).

Vasco – Resto del Mondo

Magari è un bellissimo film, Le chiavi di casa, io non lo so. Non l'ho visto.
Mettiamo che non abbia nemmeno letto niente: ho solo visto il trailer. Be', per capire che non può farcela a Venezia, con una giuria internazionale, basta il trailer. Basta Vasco Rossi, insomma.

Magari è pure una bella canzone, non lo so, ho sentito dieci secondi – che è quello che basta, a un italiano della mia età, a capire che si tratta di una canzone di Vasco (magari bella). E ad appuntarla nella mia memoria, giusto nel cassetto che contiene tutti i ricordi associati a lui. Con Vasco, da vent'anni, non è più questione di odio o amore, è questione di rumore di fondo, di paesaggio urbano. Riconosci la sua voce come riconosceresti un cartello stradale, o un'insegna di un tabaccaio, o la facciata del Duomo di Milano. La forza della voce di Vasco: qualcosa di identificabile immediatamente.

Questo cassetto, piuttosto fondo e disordinato, ce l'hanno tutti gli italiani della mia e di altre età. Anche quelli che Vasco non l'hanno mai particolarmente amato od odiato, come me, appunto.
Il mio cassetto poi non è che contenga un granché, alla fine. Partendo dall'infanzia: lo stereotipo del vitellone scoppiato di provincia, il fratello maggiore cattivo che vivaddio non ho avuto (quello che ti frega le merendine e ti finisce il vinavil a sniffate); Colpa d'Alfredo sul pulmino delle medie; il giro di chitarra di Colpa d'Alfredo (uguale a Siamo solo noi, a Brava, a Baba O'Riley, tutte canzoni di presa sicura intorno a un fuoco); lunghe serate passate in giro per le provinciali nei sedili didietro, da una pizzeria a una birreria, con l'autoradio che mi pettina con qualche versione live (il tutto prima che sopraggiungesse Ligabue a cantarci delle sue eroiche serate passate in giro per le provinciali nei sedili didietro da una pizzeria a una birreria); poi, un ricordo abbacinante: un valico alpino in Valtellina, il profilo terribile del Monte Disgrazia, e da dietro il monte una voce, anzi un coro, un coro di angeli che intona un'arcana melodia a tratti percepibile, che alla fine si rivela

Ti vesti svogliatamente
Non metti mai niente
Che possa attirare
Attenzione


Finché a un certo punto l'immagine di Vasco si cristallizza definitivamente nella figura dell'anziano vitellone too old to rock'n'roll, to young to die. Che poi tra il rock and roll e la morte ce ne passa di spazio, fortunatamente, ma è quasi tutto occupato dal Rimpianto. Così, da Liberi liberi in poi, la canzone-tipo-di-Vasco è una lagna intorno al male di vivere, e di convivere coi propri errori, e domani è un altro giorno, però ieri ho fatto un sacco di cazzate, ma magari le rifarei, a qualcosa sarà pur servito, etc.. Molto più simpatico le rare volte che si riscuote e si rende conto che è un organismo ancora perfettamente funzionante, e magari si masturba reggendo il telecomando del vhs con la sinistra. Per finire con lo spot di un cellulare pieno di gente in barca che si distingue dall'uomo comune, cioè io, che stavo in casa a sudare perché avevo da finire un lavoro. Ecco, è tutto qui il mio dossier mentale su Vasco.
Mica male, però, per un cantante che non ho mai né amato né odiato. Gli bastano dieci secondi, lo spazio di un trailer, e mi apre un cassetto con vent'anni di ricordi. Per forza lo chiamano a fare le colonne sonore.
Quest'anno ha fatto una canzone anche per il film di Castellitto-Mazzantini. Quella canzone – posso dirlo perché l'ho ascoltata per intero – è orribile, ai limiti dell'autoparodia. Il testo è tutto così:

Voglio trovare un senso
A questa situazione
Anche se questa situazione
Un senso non ce l'haaaaaa

(eeeeeeeeeeh)


Tutto nel solito birignao da modenese sfattone, che già ci faceva ridere sul pulmino delle medie, figurati da laureati. Nel frattempo Castellitto correva per i corridoi di un ospedale per salvare il cranio della figlia, o l'utero dell'amante, non ricordo, comunque qualcosa di tristissimo e solenne. E dagli altoparlanti Vasco proseguiva

Voglio trovare un senso
A questa condizione
Anche se questa condizione
Un senso non ce l'ha

(eeeeeeeeeeh)


Davanti a noi una coppia di sessantenni, educata, ascoltava la performance del rocker di Zocca mentre seguiva i disperati sforzi di Castellitto per rianimare il rianimabile. In quel momento ho capito un paio di cose.
Prima cosa: Vasco era diventato nazionalpopolare. Incolore. Non più appassionante o detestabile, ma parte del rumore di fondo, come gli spot pubblicitari o i cartelloni stradali. Negli '80, un sessantenne al cinema in quelle condizioni sarebbe uscito sdegnato: ma i tempi cambiano. Il programma di liscio romagnolo su TeleEmilia ha cambiato palinsesto, tra Castellina Pasi e Casadei mette su Doors e Steppenwolf. E Vasco Rossi è diventato adatto a un film per la grande distribuzione nazionalpopolare. Lo metti su, e a più di metà del pubblico gli si scoperchia un cassetto nella testa. Non stanno neanche ad ascoltare le parole (che son ridicole): la voce basta. La voce degli anni Ottanta, eravamo tutti più giovani e felici. Ma anche la voce del Rimpianto, la voce dei Quarant'anni: voglio trovare un senso a tutte le stronzate che ho fatto, un mantra che ti penetra e ti consola.

Seconda cosa: Malgrado le previsioni del saggio, Castellitto non avrebbe avuto la nomination. Ma neanche di striscio. Come il Leone ad Amelio: come si fa? Vasco Rossi in colonna sonora può funzionare più o meno dalla Valtellina a Lampedusa: niente male per uno di Zocca, Mo, ma non un centimetro di più. Appena metti il naso fuori dai confini, la sua voce evocativa non ti evoca più niente. Resta solo un signore di mezza età che sembra faccia apposta a stonare, su basi rock che ormai han fatto il loro tempo anche in Polonia. Come i cartelli stradali, che da una nazione all'altra possono cambiare di forma e di significato; come la facciata del Duomo di Milano, che oltre confine resta confusa tra le facciate di cento altre cattedrali; come l'insegna di un tabaccaio, che a uno straniero non può dire proprio niente: così la voce di Vasco Rossi. Inesportabile, incomprensibile: e quindi imbarazzante, sgradevole. Tutta l'ironia con cui l'abbiamo sdoganata per vent'anni, tutta quell'ironia lì, alla frontiera non ce la fanno passare.

Poi, chissà, magari il film di Amelio è un capolavoro. Ma la voce di Vasco è una spia importante, segnale di un provincialismo definitivo, almeno in fase di postproduzione. Tra la voce di Vasco e il resto del Mondo passa una frontiera linguistica, culturale. Noi vorremmo esportare il nostro cinema, vorremmo avere capolavori da mostrare a una giuria di esperti mondiali, ma non ci rendiamo nemmeno conto di dove passano le frontiere che vorremmo oltrepassare. E poi ci ritroviamo tutti qua, a riaprire i vecchi cassetti, a lucidare i vecchi giocattoli, a raccontarci le solite storie che sappiamo solo noi, che interessano solo noi. Come in un bar, un dignitoso bar di provincia. In attesa del Tarantino che verrà a rivalutarci, tra vent'anni però (se nel frattempo non svalutano lui).

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