Freddy è un reduce che porta a spasso per gli Stati Uniti del dopoguerra i suoi traumi e la sua passione per i distillati non convenzionali (manda giù il solvente come fosse acqua). L'incontro con Lancaster Dodd, uno scrittore che sta fondando una religione, gli offre una possibilità di riscatto - a meno che il Master non lo stia semplicemente usando come cavia per i suoi esperimenti sul controllo delle menti più impressionabili. Gennaio, diciamocelo subito, sta diventando un mese impossibile per chi si ostina a mettere da parte quei sette, quattordici, ventotto euro da investire in biglietti al cinema. Forse è colpa dei cinepanettoni (è sempre colpa dei cinepanettoni) e della loro logica di occupazione massiccia delle sale durante le feste; l'impressione è che i gestori e i distributori italiani abbiano deciso di organizzare una specie di festival su scala nazionale. C'è una mezza dozzina di titoli imperdibili e altri tre o quattro che promettono bene (e quando mantengono sono sempre le sorprese migliori). Qualcuno per forza ce lo perderemo; ci consoleremo pensando che prima o poi lo recupereremo al videonoleggio - cosa che in molti casi ci dimenticheremo di fare perché siamo già indietro con questa o quella serie imperdibile e poi in realtà la sera siamo distrutti e tutto quello che desideriamo è sonnecchiare davanti a qualcuno che litiga da Floris o Santoro. Quindi passiamo senza indugio alla domanda cruciale: vale la pena di investire parte del proprio budget cinematografico nell'ultimo pluripremiato film di Paul Thomas Anderson, che come praticamente tutti i film di P.T. Anderson da Magnolia in poi (passando per il Petroliere) è già considerato un capolavoro? Dunque. Dipende.
Io, per esempio, ci andrei senz'altro, ma non so se faccio testo, ho una fissa per le religioni e una devozione per Philip Seymour Hoffman - per inciso posso capire i suoi devoti nel film, chi non aderirebbe a una religione fondata da Philip S. Hoffman nella sua versione gioviale e buffoncella? I cinefili non possono senz'altro perdersi il primo film girato in 65 millimetri in quasi vent'anni - sempre ammesso che trovino una sala che lo proietta in quel formato - però un cinefilo mica sta ad aspettare che gliene parli io, di The Master, un film che non ha preso il Leone d'Oro soltanto perché non si può dare allo stesso film a cui si dà la Coppa Volpi per il migliore protagonista, e non si poteva non dare la Volpi ex-aequo a Hoffman e Joaquin Phoenix. Per i profani The Master è semplicemente un film dalla fotografia stupenda, con due attori al massimo della forma. Entrambi avevano già avuto una possibilità di vincere un Oscar interpretando un biopic; peccato che sia successo nello stesso anno 2005, quando il Capote di Hofmann soffiò la statuetta al Johnny Cash di Walk the Line. Per cui se vi piace vedere attori in gara, è senz'altro il vostro film; c'è quasi da vergognarsi pensando a quanto ci stanno dando dentro per gente che se ne sta a guardarli sgranocchiando popcorn. Joaquin Phoenix sembra che sia andato in guerra davvero, ha la schiena deformata da una scoliosi e parla muovendo un solo lato del volto, come Popeye. Sul serio, dopo averlo visto torni a casa e la prima cosa che fai è cercare notizie su internet perché hai paura che non stia bene (continua su +eventi!)
In effetti negli ultimi anni ha fatto dei numeri interessanti Phoenix (ormai lo si può chiamare col cognome, non c’è più la necessità di rimarcare che non è il suo povero fratello). A un certo punto ha messo in giro la voce che si ritirava dal cinema per darsi al rap; si è fatto crescere la barba ed è andato da Letterman a fare scena muta masticando gomma, alla fine il conduttore lo ha salutato dicendo: “È un peccato che tu non abbia potuto essere con noi stasera”. In realtà Phoenix stava semplicemente promozionando il suo film in lavorazione, I’m still here, in cui impersona sé stesso molto spesso nudo mentre sniffa, ordina puttane al telefono, e a un certo punto qualcuno gli caga addosso mentre dorme (non l’ho visto). E poi per due anni non ha fatto più film, e ora arriva con questo, e che razza di film. Il suo Freddy fa paura, non lo vorresti mai sul tuo lato del marciapiede. Non c’è un solo fotogramma in cui appare in cui non hai paura che stia per fare qualcosa di orribile, ti riduci a sperare che si stia soltanto masturbando nei pantaloni. In realtà non sbrocca così spesso, ma che ansia che fa. Ed è il protagonista. Immedesimarsi in lui significa ammettere che non c’è una figura del test di Rorschach che non ti ricordi qualche organo genitale al lavoro; non è una cosa per cui tutti pagheremmo un biglietto, credo. Per dire, se siete al primo appuntamento magari provate Tornatore.
Ci fosse almeno qualche altro personaggio positivo, ma accidenti, non ce n’è. Intorno a Lancaster Dodd, lo scrittore pulp che sta fondando una setta, c’è il consueto codazzo di adoratori gregari e fulminati. La moglie (una stupenda Amy Adams in stato interessante) è la più antipatica di tutti. In effetti è forse il film più povero di personaggi positivi che io abbia visto, nel Petroliere c’era almeno un figlio che cercava di amare il patrigno, qui è tutto un concerto di fanatici maniaci e truffatori. Ti sorprendi ad aspettare che sullo schermo torni il Master perché lui, con tutte le sue teorie improvvisate alla bene e meglio, i suoi sermoni da predicatore da strapazzo… almeno è un tizio simpatico, a cui piace ridere e sperimentare cose nuove: bersi un distillato di trielina? Perché no, wow, è uno spasso, fammene ancora. E poi è Philip Seymour Hoffman, io lo seguirei dovunque; se venisse a dirmi dai rapiniamo la gioielleria dei nostri genitori, io con Philip ci andrei. Ma mettiamo che siate dei puristi, e che non andiate pazzi per i film doppiati: ecco, forse vale la pena di aspettare il dvd, ci sono almeno due scene fondamentali in cui Hoffman canta, e sono convinto che l’Hoffman originale non sia patetico come il doppiatore – ridicolo sì, patetico no, non so se mi sono spiegato. Per inciso, “trillion” in italiano significa “bilione”, non “trilione” come dicono i doppiatori. Vabbe’ che differenza farà direte voi? tre zeri di differenza, un trilione italiano è un milione di trillions inglesi. E la parola non è proprio lì per caso.
C’è infatti la questione di scientology, che è uno dei motivi per cui the Master ha fatto tanto discutere (e quindi ha incassato molto bene, per un film d’autore). Per quanto regista e produzione abbiano ribadito che non è un film su Ron Hubbard, Anderson non ha veramente fatto molti tentativi per stornare i sospetti. Freddy conosce Lancaster su una nave, dove il Master riesce a concentrarsi sul suo lavoro evitando le polemiche (e le indagini federali). Hubbard rimase anni per mare, nominandosi commodoro di una piccola flotta al largo del Portogallo. Le tecniche di audit sviluppate da Lancaster sembrano molto simili a quelle di Dianetics o Scientology. La mitologia, le parole d’ordine… le anime che migrano di corpo in corpo per bilioni (non trilioni) di anni, sono concetti abbastanza familiari. E soprattutto, anche la più influente e carismatica delle mogli di Hubbard si chiamava Mary Sue. Manco il nome ha cambiato Anderson, allora dillo che cerchi rogna.
Non è chiaro se sia stata la questione Scientology a rendere difficile la produzione del film, con la Universal che a un certo punto si è tirata indietro. Negli USA Scientology è ufficialmente considerata una religione, e va trattata con rispetto: se è meglio non fare film su Maometto, perché farli su Hubbard? Sappiamo che nel maggio dell’anno scorso Anderson ha voluto mostrare il film a Tom Cruise, che con lui vinse un Oscar per Magnolia. A Cruise il film non è piaciuto, soprattutto nel punto in cui il figlio primogenito liquida i discorsi del padre con una battuta: Non vedi che si sta inventando tutto? Anche il primogenito di Hubbard era scettico sulle teorie del padre. Giunse a cambiarsi il cognome, e si rifece vivo solo quando fu ora di reclamare un pezzo d’eredità. Insomma, è un film che parla veramente di Scientology. Ma se l’argomento vi incuriosisce, se vorreste capirne di più sulla storia di uno scrittore di fantascienza di serie B che fonda una religione (e una multinazionale del controllo pardon, autocontrollo delle menti), the Master rischia di deludervi: Scientology è solo un ingrediente, piccantissimo ma è solo uno di tanti. O forse il risultato finale, per quanto ottimo, risente delle difficoltà di percorso: Anderson ha rimesso le mani più volte nello script nel tentativo di ottenere qualcosa di finanziabile, e un po’ si sente. The Master è uno di quei film che ti fanno venire voglia di leggere il libro, perché sei sicuro che nel libro ci sia qualcosa di più esteso e profondo, magari qualche pensiero messo per iscritto che davanti allo schermo ti tocca immaginare di fronte a quei due faccioni magnetici ed esplosivi. Peccato che stavolta il libro non ci sia: the Master è una sceneggiatura originale (qui in una versione piuttosto diversa) in cui Anderson ha mescolato ingredienti originali e potenzialmente tossici: Dianetics, ma anche Steinbeck, e i ricordi di guerra di un grande caratterista, Jason Robards (l’anziano padre di Magnolia), una tensione forse edipica forse omoerotica forse tutte e due, e tante altre cose sullo sfondo difficili da distinguere. Il risultato sembra meno robusto del Petroliere, e forse non reggerebbe senza quei due giganti a tenere su tutto. Ma forse sono semplicemente deluso perché ho sviluppato una venerazione per Hoffman, e vorrei che qualcuno finalmente scrivesse un film maestoso tutto su di lui, un Quarto Potere per capirci. Secondo me se lo merita, e Ron Hubbard poteva essere il soggetto migliore, e Anderson l’autore giusto. Invece il regista aveva in mente un altro film – un film bellissimo. Ma se vi aspettavate anche voi l’epopea di un magnetico contafrottole interplanetario, rischiate di restare un po’ delusi.
The Master è al Cinema Monviso di Cuneo. Sbrigatevi, non si sa quanto lo terranno, e la prossima settimana ne escono tanti altri imperdibili. Buona visione (e buon Anno).