Non vengo a onorare Yahya Sinwar. Prima del 7/10/2023 credevo che Hamas fosse stata una sciagura per il popolo palestinese, e quello che è successo dopo non mi ha dato motivi per cambiare idea. Hamas è stato il nemico che Israele si è coltivato con pazienza per molti anni, recintandolo a Gaza, separandolo dal resto della Palestina, rifiutandosi di dialogare con i palestinesi che ad Hamas non cedevano, eliminando o imprigionando i leader palestinesi che avrebbero potuto costituire un'alternativa credibile ad Hamas. Quelli Israele li temeva veramente: Sinwar no, Sinwar era la dimostrazione che i palestinesi erano barbari tagliagole; e se qualche gola israeliana veniva effettivamente tagliata nel processo, si trattava di un danno collaterale che i governi israeliani (non solo Netanyahu) erano convinti di aver calcolato. Fino al sette ottobre, un grandissimo errore di calcolo: dopodiché, tutto quello che Israele ha fatto si può interpretare anche come una crisi di panico. Un nemico ormai di cartone, un nemico che veniva tirato fuori per lo più nelle notti di estate come lo spauracchio per mandare a letto i bambini (e piatire fondi agli americani), si è rivelato un nemico vero che faceva ostaggi veri. Questo era intollerabile al punto che gli ostaggi sono stati sostanzialmente dati per persi: se descrivi il tuo nemico come un barbaro con cui è impossibile venire ai patti, scambiare prigionieri non è un'opzione. Inoltre sarebbe stata la fine politica di Netanyahu, e tra dimettersi e scatenare un conflitto su larga scala con annesso genocidio, N. non sembra avere esitato molto. Se Sinwar è corresponsabile della catastrofe che si è abbattuta su Gaza, Netanyahu è altrettanto corresponsabile della strage degli ostaggi; perlomeno la logica ci direbbe questo, ma chi è che ascolta la logica oggigiorno.
Non vengo a onorare Yahya Sinwar, ma non posso dire di trovare incomprensibile la sua traiettoria: nato profugo, cresciuto in una prigione, ha combattuto contro lo stesso nemico per tutta la sua vita, ed è morto sul fronte con un'arma in mano. La distanza da cui lo giudico una sciagura per la sua stessa causa è quella tra la mia comoda tastiera e Gaza. Se fossi nato là, sarei diventato molto diverso da Yahya Sinwar? Sospetto che mi sarebbe mancato il suo coraggio, ma a parte questo: avrei odiato i miei oppressori con meno intensità, li avrei combattuti con meno crudeltà? Non ne ho idea, e nemmeno l'avete voi. Siete soltanto nati in un posto diverso, e ringraziate. Qualcuno, proprio per essere sicuro di far nascere i propri figli in un posto diverso, ritiene giusto recintare intere popolazioni, bombardarle, e insomma permettere che dentro un recinto crescano altri milioni di persone come Yahya Sinwar. Al di là di ogni considerazione morale, mi sembra proprio che la cosa non stia funzionando: se era un esperimento possiamo interromperlo. In un certo senso è quello che Israele sta facendo: radere al suolo il recinto, fine dell'esperimento. Scopriremo che è colpa dell'Islam, come sempre, o dell'inemendabile tribalismo arabo.
Non vengo a condannare Yahya Sinwar – una cosa che non sopporto più sono quelli che siccome stai scrivendo due idee su internet, ti chiedono di "condannare" persone o eventi, come se fossimo giudici o boh, filosofi morali. Giudicare è operazione delicata, c'è gente che studia molti anni prima di esserne in grado: dopodiché merita il nostro rispetto (compresa una certa corte all'Aja che chiede con insistenza e dovizia di motivazioni che Israele cessi un genocidio). Noi non siamo giudici, siamo osservatori: non siamo qui per spiegare cos'è bene e cos'è male, ma per cercare di capire come mai certe cose si risolvono in bene e altri eventi scatenano il male. Se Sinwar è stato una sciagura, si tratta di cercare di capire cos'ha portato la società palestinese a esprimerlo. Durante questa ricerca, possiamo anche commettere errori, cedere alla nostra soggettività, a un punto di vista che è sempre in parte ideologico; succede. Ma saranno errori in buona fede, inevitabili da parte di chi sta semplicemente cercando di capire un problema enorme e forse non più solubile. Viceversa, chi ha deciso immediatamente che Sinwar era il Male, e che sradicandolo si sarebbe sconfitto almeno una porzione di Male, ecco, quello non sta cercando e non sta nemmeno giudicando: si sta raccontando una favoletta per bambini e non sarebbe un grosso problema, se la favoletta non servisse a giustificare un'operazione di pulizia etnica su larga scala. Ma così come devo cercare di capire Sinwar, mi tocca cercare di capire pure quelli e quelle che si raccontano la storia di sua moglie con la borsa di Hermès. (Continua)
In cauda veritatem: soprattutto non vieni a condannarlo. E questo è sufficiente, direi.
RispondiEliminaCosì contraddici l’assunto morale alla base del post precedente. Perché non riesci a condannare, almeno non del tutto, i metodi di una parte; nemmeno sopporti che te lo si chieda. Mentre con l’altra ci riesci benissimo, e condanni chi non lo fa. “Noi non siamo giudici, siamo osservatori”… sì, come no.
Sei convinto del contrario, cioè che io sia un giudice, o sei convinto di esserlo tu?
EliminaPerché guarda che non è così.
Sono convinto che usi due pesi e due misure, nient'altro.
EliminaNon viene a condannarlo, non viene ad onorarlo.
EliminaÈ sempre necessario che il narratore esprima in ogni momento un giudizio morale su ogni singola virgola della propria narrazione?
Non dico che dobbiamo diventare tutti come Brecht, ossia raccontare una vicenda lasciando che sia il lettore a prendere posizione, valutando in base al proprio giudizio se, nelle circostanze narrate, lui avrebbe effettuato le medesime scelte oppure altre, però questo fatto che ogni volta che si parla di un conflitto occorra ribadire ad ogni riga la propria parte avrebbe anche un po' stancato.
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Eliminacioè all'inizio era solo un modo di dire, ma ci ha un po' preso la mano, ci sono giovani veramente convinti che nelle discussioni uno debba tenere sempre davanti il bilancino
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