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martedì 25 maggio 2021

Dua Lipa contro il sionismo, chi vincerà?

twitter.com/matthewduchesne
Sabato scorso una pagina del NY Times chiedeva a Bella e Gigi Hadid e Dua Lipa di "condannare Hamas immediatamente". Si trattava di un'inserzione pagata da un gruppo di pressione sionista statunitense che ha l'obiettivo di "diffondere i valori ebraici nel mondo", immaginiamo la contentezza degli ebrei del mondo. 

Bella e Gigi Hadid sono due modelle di origine palestinese, lo so pure io perché vivo in un distretto di maglierie; Dua Lipa non è palestinese né (mi pare) modella, ma ha anche lei espresso rilievi critici nei confronti della politica israeliana in questi giorni, il che anche stavolta significherebbe essere emissari di Hamas; e in effetti non  ha ancora condannato Hamas, quindi insomma Israele è in serio pericolo. L'inserzione contiene la solita citazione antisemita presa dallo statuto di Hamas, il giorno del giudizio non verrà finché i musulmani non avranno ucciso gli ebrei eccetera. Chi ha anche solo due o tre contatti sionisti sui social queste cose ormai le sa a memoria; per tutti gli altri imbattersi in argomentazioni del genere è sempre uno choc culturale. L'inserzione è uno choc culturale. Ogni militanza ideologica richiede un minimo di fantasia, ma il momento in cui qualcuno cerca di venderti Dua Lipa come voce di Hamas è sempre il momento in cui ti guardi attorno per vedere se qualcuno ha montato una candid camera. Perché i sionisti fanno sempre queste figure? È antisemita chiederselo? Probabilmente è antisemita anche solo chiedersi di chiederselo, ma ops, ormai mi è scappata, tanto vale andare avanti.

Ci siamo passati tutti, anch'io durante almeno un paio di crisi israelopalestinesi sono stato inserito in un qualche organigramma di Hamas, errori di gioventù. Probabilmente non tutti i sionisti ragionano così, sono sicuro che ce n'è di intelligenti in giro, ma essendo intelligenti non perdono tempo a discutere con me (e nemmeno con Dua Lipa). Gli ottusi, al contrario... Su internet l'argomentazione idiota scaccia quella intelligente, più volte ho fatto notare che i sionisti sembrano farsi la parodia da soli ma è probabilmente vero per chiunque. Però, ecco, per loro un po' di più. In questo universo di bolle autoreferenziali la loro mi sembra quella che vortica più lontano di tutte, ormai irraggiungibile da qualsiasi disperato tentativo di ripristinare un minimo di oggettività, di buon senso. Esagero, in realtà c'è di peggio: novax, schiachimisti, però ecco, il sionismo non dovrebbe gareggiare in una categoria del genere. Un tizio che accosta il Gran Muftì a Hitler può essere un propagandista che tira l'acqua al suo mulino e fino a un certo punto è un gioco legittimo: il Gran Muftì collaborò coi tedeschi, lo sappiamo. Un tizio che si mette a dire che il Gran Muftì ispirò a Hitler la soluzione finale è uno che negli ingranaggi del suo mulino ci è rimasto incastrato e sarebbe uno spettacolo buffo, spesso lo è, ma è anche una tragedia culturale e sociale. A un certo punto Netanyahu questa cosa la proclama al mondo, e il problema non è che gli israeliani continuino a votarlo (gli italiani hanno continuato a votare Berlusconi anche dopo la storia della nipote di Mubarak); il problema è che potrebbe crederci pure lui ormai, a furia di sentirselo dire. La propaganda però dovrebbe servire per convincere gli altri, non te stesso. O no? E se non convince nessuno tranne te stesso, non abbiamo un problema?

Dal ritiro di Gaza in poi i sionisti hanno avuto ormai vent'anni per impostare il dibattito secondo la narrativa che preferivano. Sono organizzati, sono determinati, i fondi non mancano, tanti ex nemici ormai sono alleati; in certi teatri periferici, come l'Italia, non c'è più un partito in parlamento che osi manifestare solidarietà ai palestinesi. E malgrado tutto, appena ripartono i bombardamenti, il conto delle vittime crea il solito imbarazzo. È la natura asimmetrica del conflitto, non c'è niente da fare: gli oppositori a Israele fungano spontanei sui social, nessun Soros li paga. È gente qualsiasi, di qualsiasi estrazione ideologica o religiosa, che si domanda com'è possibile che in un angolo del mondo succeda questa cosa assurda. I sionisti prontamente rispondono: guardate che Israele è costretta, è minacciata nella sua stessa esistenza. Ma l'aritmetica dei morti e dei feriti ogni volta dice una cosa diversa e intollerabile, bisognerà una volta buona dichiarare antisemita l'algebra (il nome in effetti suona un po' sospetto). 

Finisce che il sionismo diventa uno spettacolo a sé, e non se lo merita. Ogni volta che tirano fuori dal repertorio il solito trucco benaltrista, ogni volta che ti chiedono: ma perché ti interessi dei palestinesi invece che dei siriani / armeni / nordirlandesi / saharawi? sono tentato di rispondere: guarda che io mica mi interesso ai palestinesi, poveracci: sei tu quello interessante. Sei tu che ogni volta mi lasci con la mascella a terra, quando dopo dieci razzi paventi la distruzione di Israele e il complotto mondiale di George Soros, Dua Lipa e Roger Waters. Sei tu che una volta eri progressista e adesso fai discorsi sulla necessità di salvaguardare l'identità religiosa, l'identità etnica, ma nel frattempo la tua identità te la ricordi? ti sei visto ultimamente? Cosa ti è successo, sei cambiato, come sono cambiate le città più multietniche di Israele ormai a un passo dalla guerra tra bande. Come avete fatto a ridurvi così, era inevitabile? Forse succede a tutti i militanti, a un certo punto, di dover scegliere tra la causa e il senso del ridicolo. Forse. L'alternativa del resto quale sarebbe: vivere alla giornata, soppesare ogni argomento finché non va a male? Io ho questa cosa, che di fronte a un problema a volte non so cosa scrivere. So benissimo che scrivere non è la soluzione del problema, perlomeno fuori da me; dentro di me invece qualche fila decente di parole basterebbe a farmi sentire in pace con quel disastro che è il mondo, ma non le trovo – per fortuna! Poter dire che comunque avevo ragione io, mentre la casa va in fiamme: non mi è consentito. Son vent'anni che ho un blog e decisamente la mia prosa non ha apportato nessun contributo fattivo alla risoluzione della questione palestinese. È un problema? I sionisti da tastiera, loro sanno sempre cosa scrivere: sempre le stesse cose, che nella loro testa funzionano. Sembrano risolti. Felici no; un po' ansiosi, talvolta terrorizzati: ma risolti. Loro sono i buoni, fuori ci sono i cattivi e tramano, tramano, ma ognuno di loro può fare nel suo piccolo qualcosa per sconfiggerli, anche solo ripostare per la millesima volta l'articolo 7 dello Statuto di Hamas in una conversazione in cui nessuno sta sostenendo Hamas. Per loro è tutto molto semplice e anche tu, che non sei d'accordo con loro, dovresti fare loro il favore di assumere un punto di vista più semplice possibile: critichi Israele? E allora si vede che stai con Hamas e con nazisti, che poi è la stessa cosa. Confessa, dai, che ci vuole.  

A un certo punto della storia – non saprei veramente dire quando – il sionismo ha deciso di appostarsi mentalmente sull'ultima spiaggia, quella dove o si salva Israele o si muore. Da quel momento è saltato qualsiasi ragionamento sulle proporzioni: non che nei ministeri non li sappiano fare, ma nel dibattito non si può più: ogni razzo che parte da Gaza è una minaccia-alla-nostra-stessa-esistenza, ogni critica alle azioni di Tsahel o alle deliberazioni della Knesset è antisemitismo, ogni palestinese è un potenziale nazista, e contro queste minacce nessuna rappresaglia sarà mai esagerata. Ripeto: questo solo da un punto di vista ideologico, in realtà nella stanza dei bottoni i conti li sanno fare, però questi conti prima del cessate-il-fuoco prevedono sempre un rapporto 1:10 tra vittime israeliane e vittime palestinesi (approssimato molto per difetto). Questo per il resto del mondo è scandaloso, è guerra, è apartheid; per loro è routine. Bisogna anche ogni tanto sforzarsi di vedere la faccenda dal loro punto di vista; per noi quella tra Israele e palestinesi è ancora una guerra, infatti ce ne accorgiamo soltanto quella volta ogni 3-4 anni che partono i razzi. Per gli israeliani invece questa è la pace: non ne hanno mai avuta una molto migliore; senz'altro è preferibile al periodo in cui la gente saltava in aria sugli autobus (ai vecchi tempi uno stallo del genere, in cui i combattimenti sono periodici e coinvolgono solo una parte periferica della popolazione, veniva definita guerra fredda). Il ritiro da Gaza è stato decisivo: in cambio del controllo del suo feudo, Hamas si è in un qualche modo addomesticata. Per molti versi si è trasformato nel nemico ideale, quello che Israele ha coltivato (approfittando di ogni occasione per minare la legittimità di Al Fatah e dell'ANP). Di tutte le possibili identità palestinesi, Hamas ha sempre rappresentato quella meno presentabile all'estero: è un'organizzazione islamica, non ha mai rinnegato i metodi del terrorismo, riceve senz'altro aiuti dall'Iran ma alla fine un aiuto decisivo glielo dà Israele, che ogni 3-4 anni dà una bella sfrondata ai grattacieli di Gaza e alla classe dirigente intercettata nei tunnel, e il resto del tempo lascia che cresca in seno a una comunità che non ha alternative o speranze. Israele e Hamas si legittimano a vicenda, non è che la scopro io oggi questa cosa. Bisognerebbe trovare un modo per contrastarle entrambi ed è esattamente quello che entrambi ti impediscono di fare, continuando a tirarsi razzi in modalità asimmetrica.

Quel che è davvero terribile, è che la situazione ormai sembra essersi assestata. A noi sembra orribile, intollerabile (e anche molti sionisti, ogni 3 o 4 anni, condividono dall'altra parte della barricata lo stesso orrore; cioè su questo almeno dovremmo trovare un accordo: non può continuare così). Ma agli israeliani no, e anche agli abitanti di Gaza forse no. È orribile per noi osservatori, che abbiamo alternative. Una di queste alternative è guardare da un'altra parte, e dopo un po' lo facciamo. 

(Ah se me lo chiedete, io condanno Hamas. E l'occupazione marocchina del Sahara Occidentale. Per altre questioni chiedete nei commenti).

8 commenti:

  1. Condanniamo Hamas, che a Gaza governa, molto giusto, ma adesso poniamoci una domanda: che possibilità hanno gli abitanti di Gaza? Sono un milione di persone, stretti in una fettina di terra angusta, inospitale, che dipende dagli aiuti esterni per sopravvivere e che non controlla nemmeno i propri varchi di frontiera. Ogni tanto, per cause indipendenti dalla loro volontà (uno sfratto a Sheick Jarrakh, un calcolo politico di Hamas, una sassaiola sulla spianata delle Moschee, un premier israeliano in crisi...), scoppia il conflitto e loro si risvegliano con la casa distrutta e mezza famiglia all'altro mondo.
    Ma se potessero andarsene, non credete che lo farebbero all'istante? Andare via, non importa dove: al Cairo, a Beirut, a Tor Bella Monaca, a Termoli, a Marsiglia...
    Ma possono farlo? No: sono lì, bloccati, impossibilitati alla fuga, in un ghetto invivibile che però per loro è l'unica realtà.
    Forse la comunità internazionale, preso atto dell'insostenibilità della situazione, dovrebbe seriamente valutare l'evacuazione di Gaza: sono solo 1 milione di persone, da qualche parte troveremo il posto dove metterle... chi si offre a prendere i primi centomila?

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  2. Ne abbiamo già parlato e ci hanno già provato. Sì, Gaza è una città ostaggio, no, gli abitanti di Gaza non si possono deportare (Israele ha fatto tutto quel che poteva per recintarli esattamente lì: se sparissero domattina, dovrebbe isolare un altro recinto in Cisgiordania). "Andare via, non importa dove": e invece le colonie di rifugiati palestinesi hanno destabilizzato ogni Paese confinante in cui si sono trasferiti (Siria, Giordania, Libano). La comunità internazionale non può farci niente: Israele è in sostanza un protettorato americano e gli USA hanno il veto all'Onu.

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    1. Io non sono mai stato troppo sicuro di questa cosa, nel senso che da un protettorato mi aspetterei che il protetto faccia di tutto per compiacere il protettore.
      Qui è chiarissimo fino a che punto gli USA si spendano per Israele, dagli svariati miliardi di dollari ogni anno in armi piuttosto sofisticate (per dire: non so se noi potremmo comprare gli stessi sistemi d'arma che Israele compra dagli USA coi soldi degli USA) alla "dottrina" Negroponte in sede internazionale; ora hanno preso a licenziare chi non allegia a Israele e chissà cos'altro.
      Quello che è meno chiaro è cosa ci sia esattamente (al netto della narrazione più o meno fuffosa sulla destabilizzazione permanente del medioriente per calmierare il prezzo del petrolio, o sull'avamposto dell'uomo bianco europoide tra i selvaggi con la scimitarra) sull'altro piatto della bilancia. Israele è forse l'unico paese al mondo il cui presidente, pur essendo un nemico giurato del mr president di turno (e non già di Trump, che aveva contro il 120% di establishment e apparati, bensì del fico premio nobel preventivo, il cui rancore personale per Netanyahu era forse persino superiore a quello per il malvagio Putin) viene invitato a parlare al Congresso, dice quello che vuole, e viene celebrato a un livello che in patria su per giù se lo sogna.

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    2. In ogni caso, al Consiglio di Sicurezza (dove c'è il veto) non si è mai andati neppure vicini a calendarizzare un voto su un provvedimento vagamente serio; non entro nei dettagli solo per non essere più nojoso di me, ma tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sulla palestina, qualunque cosa esse dicano, sono ex chapter VI, dei consigli; simboli, dunque, potenti quanto si vuole, ma tali. La situazione è più interessante in Assemblea Generale (dove non ci sono veti, e uno vale uno, o più probabilmente zero); ben noto è l'inizio col botto: all'n-sima rivotazione il mitico piano di partizione (fatto redigere da una undicina di nazioni più o meno irrilevanti, e anch'esso legalmente non vincolante) è approvato, e il giorno dopo scoppia la guerra; ma ci sono altri passaggi importanti e meno noti: verso metà anni '70 viene approvata una risoluzione che condanna il sionismo come una forma di razzismo; verrà sbianchettata solo quindici anni dopo, mentre il misuratore del battito cardiaco sovietico emette ancora qualche timido bip.

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  3. Ci fosse ancora l'URSS dei primi tempi, si potrebbe ragionare di una Oblast Palestinese sulle sponde del lago Bajkal.
    Ma non siamo più agli inizi del XX secolo e queste cose non s'usano più.

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    1. Ma tu pensi che ai palestinesi interesserebbe davvero andare da un'altra parte?
      Sono secoli che si scannano per una pietraia perché una volta c'era il magnifico regno israelita di Re Salomone. Questo a prescindere dal fatto che gli archeologi (israeliani) non hanno trovato una mazza, per quanto abbiano scavato, se non accampamenti di pastori di cammelli.

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  4. Io dico una cosa, ma ce ne possiamo ad un certo punto iniziare a sbattere i co@@@ni di questa roba che dura da più di un secolo?
    In effetti sposo la linea dei benaltristi. Non ci possiamo occupare con lo stesso vigore del Marocco e dei saharawi?

    A me basterebbe smettere di considerare Israele un fedele e imprescindibile alleato in Medio Oriente.

    E poi che si aggiustino fra di loro.

    Anche Hamas coi suoi razzi ha rotto le balle, a prescindere dal fatto in se, se considerarlo un atto di terrorismo o un atto di guerra, sa le conseguenze a cui va incontro. Gli altri sono più grossi e più cattivi, tu li minacci e loro te ne danno una gragnuola. E muoiono i bambini. Ma anche basta, davvero.

    Se in Israele faranno definitivametne l'appartheid, come hanno iniziato a fare Sheik Jarrah, con le leggi che valgono solo per gli ebrei e non per gli arabi, subiranno le stesse consguenze che subì il Sudafrica a suo tempo.

    Davvero non se ne può più. Più che un conflitto è un nodo gordiano irrisolvibile.

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    1. Be', sembri ben avviato sul percorso dello sbattimento, e non sei certo il solo a percorrerlo.

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