28 febbraio: martiri dell'inferno di Unzen (28/2/1627)
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Mi piacerebbe essere sicuro che i testimoni abbiano esagerato: documentare la persecuzione anticristiana dello shogunato era oggettivamente difficile; e siccome oggi la memoria interrotta del Kirishitan è soprattutto una questione turistica, preferisco coltivare il sospetto che una certa insistenza sulla crudeltà dei boia e sull'eroismo delle vittime sia quello che il pubblico internazionale vuole sentirsi raccontare: il Giappone piace estremo. Altrimenti non è facile capire le ragioni di una crudeltà che sorpassava la necessità di eliminare il culto che lo shogunato percepiva come un fattore di disgregazione e di apertura al mondo esterno (si sbagliava?)
Il 28 febbraio del 1627 il samurai Paolo Uchibori viene condotto con altri 14 cristiani presso il vulcano. Il giorno prima Uchibori è stato costretto a vedere i suoi figli morire annegati, dopo che le guardie dello shogun avevano loro mozzato le dita delle mani, una alla volta. Quando il primo dei prigionieri, a comando, salta dentro il vulcano, Paolo ammonisce gli altri: fatevi spingere, un buon cristiano non deve dare l'impressione di suicidarsi. Il rifiuto del suicidio rituale è il tratto che forse più distingueva i samurai cristiani, anche quando combattevano al servizio dello Shogun.
Paolo viene soppresso per ultimo, nel modo più doloroso: viene infatti calato nel fango ardente a testa in giù. Per tre volte viene risollevato dallo stagno tossico, per verificare se non ha deciso di pentirsi; per tre volte ripete: Sia gloria al santissimo sacramento. Amen. L'ipotesi estrema è che il cristianesimo portato nell'arcipelago da francescani e gesuiti, con le sue cupe storie di martiri, abbia risvegliato una inclinazione alla violenza che nell'arcipelago era stata mitigata da altre culture (il buddismo?)
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