Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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mercoledì 26 settembre 2007

eat my Ersatz

Invece quel che penso dei nuovi articoli del Foglio sui blog è… ma no, ma che due palle, scusate. Ma siam nel 2007, e ancora esiste il Foglio? Sul serio? Ma perché?

Chiudete il Foglio (e aprite le finestre)

Lo so anch’io che esiste, perché ne ho visto una copia. Un mese fa, in biblioteca. Sono sicuro che è stato un mese fa, perché il prestito mi è appena scaduto. E dunque un mese fa sull’espositore ho visto la prima pagina del Foglio, molto elegante come al solito. Sei colonne sull’omicidio di Garlasco. Il quotidiano intelligente. Cioè, pensa se era un cretino.

Ma non lo voglio neanche criticare, il Foglio, perché si criticano le cose che si conoscono e io da un pezzo non lo prendo neanche in mano. Mi pongo semplicemente la domanda: perché esiste, il Foglio? Serve ancora a qualcosa? A qualcuno? Me lo chiedo tutti gli anni, e tutti gli anni la risposta è più difficile.

Se poi qualcuno ha delle critiche da farmi in quanto rappresentante della categoria dei blog, io son qui, son pronto. Ma date soltanto un’occhiatina al piedistallo da cui le fate, vi conviene. Mi accusate di non fare giornalismo? In effetti non ne faccio. Non fornisco informazioni di prima mano, mai. Non ho neanche mai preteso di farlo. Ma voi che scrivete sul… Foglio?
Mi accusate di essere autoreferenziale? Beh, certe volte sarò pure autoreferenziale. Ma dovete proprio scrivermelo dalle colonne del… Foglio?
Mi accusate di essere inutile? Va bene, ma spiegatemi una buona volta in cosa consiste l’utilità vostra. A parte naturalmente il gusto di spremere soldi di finanziamento pubblico, con un patetico espediente, per stampare tutti giorni un sacco di carta che resta per lo più invenduta. Ma è un giornale per la classe dirigente, dicono. Ma per favore. Ce li voglio vedere, i padroncini, a decifrare Ferrara col DeMauroParavia a mano. La classe dirigente legge Libero, è questa l’amara verità. Poi ci sarà qualcuno che sfoglia il Financial Times per darsi un tono. Il Foglio è rimasto in mezzo, tragicamente fuori target.

La verità è che Il Foglio dovrebbe parlare soltanto bene dei blog. Ogni volta che un blog italiano fa un colpaccio, la redazione del Foglio dovrebbe titolare a quattro colonne: “noi lo sapevamo. Noi eravamo un blog quando ancora internet non c’era”. Perché è così. Quando io venivo in biblioteca, nel secolo scorso, a scaricare la posta da un 46k, il Foglio era già al suo posto nel raccoglitore di quotidiani, ed era già cazzeggio autoreferenziale. I tormentoni, i libri e i cantautori preferiti, i flame, era già tutto pronto. Mancava il supporto elettronico, ma i contenuti c’erano al 100%.
Non che io lo toccassi volentieri, ma in seguito l'ho letto molto, di seconda mano, proprio a causa dei blog. Un sacco di blog sbrodolavano adorazione per il Foglio, citando interi articoli. Se l’elefante aveva azzeccato un editoriale, sicuro che me lo copincollavano almeno un par di volte.

Adesso invece di Ferrara nessuno parla più, se non per spernacchiarlo, tanto che alla fine quatto quatto s’è fatto un blog pure lui, e che dire? Bravo Ferrara! E di che parla? Non è mica autoreferenziale, lui, macchè. Lui fa una polemica con Giampiero Mughini sul sesso. È chiaro? Vale la pena di ripetere? Una polemica, nel 2007, con Mughini, nel 2007, sul sesso.

Poi uno si lamenta perché Grillo usa male il blog? Ferrara lo usa per polemizzare con Mughini! Se Grillo attacca i buoi all'automobile, Ferrara ci attacca un'incudine da una tonnellata e poi parte in discesa. Ma scusa, se vuoi dire una cosa a Giampiero, invitalo nel tuo salotto tv! Oppure invitati tu a Controcampo, che bisogno c'è di annoiare i lettori con un lenzuolo sul... sesso? Perché tu saresti un'autorità sul sesso? Da quando? E in che modo è potuto succedere?

Scrivi che in occidente è diventato ridicolo. Proprio così. “Oggi il sesso non è libero, è soltanto ridicolo”. Parola di Ferrara. Ma quanto ne fai per dirlo? Ma sei sicuro che il sesso che fai tu sia rappresentativo della media occidentale? Perché a me qualche dubbio a volta viene, e sono un trentenne normodotato. Tu invece sei un vecchio obeso: non hai proprio nessunissimo altro argomento su cui pontificare? Se ho voglia di farmi un’idea sul sesso occidentale vado da pornoromantica. Da Melissa P. Vado in chat. C’è un migliaio di posti dove potrei andare, e in nessuno di questi posti mi piacerebbe trovarci tu o Mughini che vi scambiate dei pareri nel vostro lessico maldestro. Perché oltre a non essere due amatori rappresentativi (e non c'è nulla di male), restate anche due mediocri prosatori che continuano a sparare bordate di lessico stravagante nella speranza che qualcuno non se ne accorga e non si annoi. Io di solito manco vi seguo: scrollo col mouse e mi fermo quando vedo accrocchi di lettere strane. Molto spesso è tedesco, lingua che so poco – e voi meno di me.
Da noi si parlicchia, si freudeggia, si danza intorno a un sostituto, a un Ersatz

Sul serio, non vorrei essere nel lettore della classe dirigente che si mette a cercare Ersatz su google. Credo che ci metta meno tempo a prenotare un’escort, con la quale poi parlicchierà e freudeggierà a piacimento. Ma mangiatela, l’Ersatz, e se non va giù, condiscila con la mia Weltanschauung, toh, valà che ti piace.

Oscenità a parte: se anche Ferrara può avere un blog, cosa aspettano i pecoroni al seguito? Ci vuole così tanto coraggio a chiudere la baracca e ad aprirsi, finalmente, un bel multiblog, parolaio e autoreferenziale? Ci avete pensato a quanti soldi (nostri) e quanta carta risparmiata? E magari verrei a vederlo, sul serio, ci verrei! Mentre adesso il vostro lenzuolo in pdf non lo apro neanche per sbaglio, il pdf è una cosa che mi fa senso, puzza di concorsoni ministeriali e pecette della CIA, pussa via! Ma come si fa a mettere on line un pdf, nel 2007? Scusate l’insistenza sul calendario, eh, ma in dieci anni io ho cambiato almeno tre sistemi operativi, e sono uno tirchio. Voi invece siete ancora al pdf, è una cosa che dà da pensare.

Poi magari siete gli stessi che “dopo l’11 settembre nulla sarà come prima”: eh, magari. Voi, per esempio, anche dopo l’11/9/2001, siete rimasti al 1996. E si vede, si vede sempre più. Dieci anni fanno una certa foschia - state per scomparire dietro l'orizzonte. Vi volete dare una mossa? Qua da noi c’è tutta la fuffa che vi serve, tutta l’acrimonia che vi manca, tutto lo spirito che avete smarrito da un pezzo. Aver perso un tram è un peccato, ma non può diventare una vocazione. Potete prendere sempre quello successivo, ne passano continuamente. Insomma, in strada, su. Seguite Ferrara, seguite Camillo, seguite chiunque, vi aspettiamo.

lunedì 24 settembre 2007

back to reality


Caro spettatore di reality – ma a chi la vogliamo raccontare?
Cara spettatrice di reality, la stagione è iniziata - e la tregua è finita.
Ricomincia l’eterno dibattito tra me, barbogio critico dei reality, e tu, che ancora non ti sei annoiata, macché, insisti. Dopo tanti anni c’è ancora qualcosa di originale da dirci? Mah, chissà, a scavare forse c’è. Comincio io.

Con una concessione: molte delle cose che credevo sui reality non sono vere. Forse erano vere all’inizio. Ma poi i reality sono cambiati, più delle chiacchiere che ci sono cresciute intorno.
Oggi piacciono soprattutto a signore e ragazzine, ma quando arrivarono in Italia (più o meno era l’11 settembre), la curiosità era spalmata su una fetta di pubblico molto più estesa. Faranno vedere tutto? Ma proprio tutto tutto? Riprese nella doccia, sul serio? E poi, seriamente, cosa succede a una persona chiusa in una stanza per mesi con le telecamere? Insomma, all’inizio avrebbero potuto essere un programma per guardoni. O per sociologi. O per sociologi un po’ guardoni. O per guardoni con velleità sociologiche (quelli che tengono videoporno sull’hard disk perché “stanno facendo una ricerca”).

Col tempo abbiamo iniziato a capire che il reality era qualcosa di diverso, o meglio: col tempo è stato il reality italiano a coagularsi in una forma differente (in Italia: in altri Paesi l’opzione pornosoft è tutt’altro che scartata). Però quando critichiamo i reality, e quando litighiamo con voi che ancora vi ostinate a guardarli, abbiamo tutti ancora in bocca le stesse parole che usavamo nel 2001: noi vi diciamo “guardoni!”, e voi rispondete “macché, non capite che è un esperimento sociologico?”

Cerchiamo almeno di cambiare un po’ le posizioni (come si cambiano le regole dei reality: giusto per quella falsa sensazione di freschezza). Non è vero che siete guardoni, probabilmente non lo siete mai stati: però non è nemmeno vero che i vostri programmi preferiti contengano tutta questa sociologia. Non dico che all’inizio non ci volessero provare. Ai tempi della Bignardi ricordo una volta di aver intravisto davvero uno psicologo in trasmissione (non Meluzzi, uno vero), ma lo cassarono presto, probabilmente perché annoiava. Oggi nessuno osa dichiarare che i concorrenti di un reality siano uno spaccato della società eccetera eccetera: al limite possiamo dire che in una società differenziata e complessa si sono scavati la loro nicchia autoreferenziale (Vip di serie B, aspiranti vip, sconosciuti di area tamarra, ecc.).

Per descrivere questa progressiva emancipazione dei reality dalla realtà possiamo giocare sui titoli. Nel 2001 l’espressione “Grande Fratello” suonava ancora minacciosa: Orwell era stato riesumato per avvertire gli italiani che una trasmissione li avrebbe spiati (anche in bagno, sì, anche in bagno). Al confronto “L’isola dei famosi” è un titolo tranquillizzante: tutto quello che succederà sarà confinato in un’isola, e inflitto a un gruppo sociale ben definito (i “famosi”). In pratica il bacino d’utenza dei reality si è lentamente avvicinato e sovrapposto a quello delle riviste di gossip (sono cose scontate, lo so: ma vi giuro che non lo erano nel 2001).

Quindi, cara spettatrice di reality, prometto di non accusarti più di essere un guardone. Al massimo sei una sciampista pettegola, toh.
Ma non finisce qui. Da qualche anno a questa parte ho anche la sensazione che tu sia una… una terribile bacchettona, ecco. Una moralista. E questa davvero la devo spiegare, perché fino all’altro ieri ancora ti accusavo di spiare nei bagni, e questa cosa i moralisti non la fanno. Come faccio a rivoltare la frittata fino a questo punto?

Vorrei provare a illustrare questo paradosso attraverso un caso umano. Rocco del Grande Fratello. Lo so che non ha il carisma di Taricone o Jonathan. Ma secondo me è stato grazie a lui (o perlomeno attraverso lui) che il reality italiano ha trovato la sua via verso il perbenismo da divano.

Quando il reality cominciò (l’11 settembre), Rocco faticò molto a farsi notare. Gli altri inquilini della casa avevano tutti qualche caratteristica facilmente riconoscibile, lui un po’ meno. Il suo personaggio era ancora in fase di costruzione al momento di uscire – come se da quella casa poi si uscisse veramente. Andava alle serate e la gente lo fischiava. Andava alle serate, si faceva fischiare, firmava autografi e incassava. A un certo punto deve aver capito che quello era il suo mestiere, il suo personaggio: il fischiato.

Ed è andato avanti. Nel lungo tunnel verso l’oblio allestito da Costanzo e co., Rocco ha avuto il tempo di perfezionare il suo personaggio (cito wiki) “fortemente eccentrico, ambiguo (soprattutto a causa del suo abbigliamento) e attaccabrighe”. Mentre ai tempi della Casa Rocco era una persona a tutto tondo, difficile da comprendere e riassumere esattamente come ciascuno di noi, in seguito Rocco ha avuto un po’ di successo in tv trasformandosi in un mostro morale: un personaggio che serve esclusivamente a titillare il moralismo che è in ognuno di noi. All’inizio un gay, per farsi fischiare dagli omofobi: poi un riccastro che sputa alla miseria, eccetera. Non so se sia stata una scelta consapevole, ma di sicuro non è stata una scelta del solo Rocco: è stata la via percorsa da tutto il mondo del reality italiano (Rocco è stato solo il personaggio che l’ha imbroccata prima, o nel modo più smaccato). I reality potevano dire qualcosa dell’Italia in cui viviamo: le possibilità c’erano. Ma in nove casi su dieci hanno preferito fare la caricatura dell’Italia che ci piace di meno.

È una deriva che non interessa solo i reality. Nell’arte di farsi detestare Rocco è rimasto un dilettante, rispetto a professionisti come Corona. Ma guardiamo anche fuori dall’Italia. Da qualche anno in qua, l’avrete notato, sono tornati di moda i personaggi sesso-droga-e-rock’n’roll: Pete Doherty, Kate Moss, eccetera. Una cantante soul è diventata una celebrità internazionale sostanzialmente in virtù dei suoi passaggi in clinica. Poi ci sono quelle sulla ribalta già da un po’, come Britney Spears, che erano emerse ai tempi in cui la parola d’ordine è “se m’impegno sin dalla culla posso riuscire in qualsiasi cosa”, e che per adattarsi all’epoca finiscono in clinica anche loro. La differenza con altre epoche di eccessi è enorme. A fine anni sessanta ci si stonava per rivoluzionare la propria percezione delle cose, alla vigilia della rivoluzione (non era una buona idea, col senno del poi): nel ’77 ci si autodistruggeva per nichilismo… oggi ci si stona per la clinica. Quando sei in clinica la gente può giudicarti per quello che sei, e già che c’è compra i tuoi dischi o i tuoi occhiali. L’ideale a questo punto è entrarne o uscirne a intervalli sempre più frequenti. A questo punto è abbastanza inutile criticare Doherty o la Spears: non fanno che incarnare un’esigenza del pubblico, e lo fanno “col loro corpo” (direbbero le tute bianche), senza recite: ingrassano, dimagriscono, vanno in overdose. Per il ludibrio di migliaia di lettori e spettatori, Paris Hilton è stata in prigione: io mi sono sempre chiesto qual è il tipo di spettatore che ama Paris Hilton. No, Paris Hilton sta al mondo per essere giudicata e disprezzata. Ma da chi?

Più o meno dallo stesso pubblico dei reality. Un pubblico all’apparenza pacifico e disincantato, ma con una sete neanche tanto segreta di lacrime e sangue. Un pubblico che non cerca in tv il documento sociologico, ma il mostro negativo, con il quale consolarsi della propria piccolezza. Un pubblico che giudica, con o senza televoto: un pubblico che passa anche tre ore di dopocena a giudicare degli estranei. Un pubblico che, a parte giudicare, non fa poi molto altro.

Io in questo pubblico non ci voglio entrare. Non si tratta di criticare i reality: i reality esistono per essere criticati. Si tratta proprio di sospendere il giudizio. Può darsi che io abbia una morale, ma non passa necessariamente dal divano del giudice-qualunque. Non ho bisogno di disprezzare un vip caduto in disgrazia per sentirmi una persona buona. Perlomeno, non dovrei.
E tu, spettatrice, sei sicura di averne bisogno?

martedì 18 settembre 2007

il problema non è parlare di Grillo

Il problema è non parlare di Veltroni

Chiedo scusa, ma non c’è niente da fare.
Questa sensazione settembrina di compiti da fare in arretrato non se ne va, non se ne andrà, finché non avrò scritto anch’io qualcosa su Beppe Grillo. Cercherò di non dire banalità, ma sarà dura.

“E tu che hai un blog, ci sei andato a Bologna?”
Sì: in questi giorni capita d’incontrare persone che t’iscrivono d’ufficio al partito di Grillo per il semplice motivo che hai un blog. Se poi sapessero che hai un’auto, e che anche Mussolini amava guidarla…
Peraltro, come nessuno è profeta in patria, nemmeno Grillo può vantare molti seguaci tra i blog. Come ha ben spiegato Mantellini, nel mondo dei blog italiani il sito di Grillo è un’enorme isola che non comunica col resto del mondo: il problema è che quest’isola è più frequentata di tutto il resto delle terre emerse. È frustrante, sì.
E tuttavia è pur sempre un blog che sta ispirando i titoli dei tg e dei giornali: la prova che il web italiano è diventato uno spazio importante, anche se è uno spazio usato ancora in modo rudimentale. Proprio mentre parla di partecipazione dei cittadini, Grillo produce un sito assolutamente monolitico in cui Lui parla e gli altri possono solo ascoltare. Il web 2.0 condivide, socializza… Grillo detta la linea. È come attaccare un’automobile ai buoi.
Fatto è che in Italia in questo momento attaccare un’automobile ai buoi funziona. Forse è il modo migliore di spostarsi, visto che le strade asfaltate sono ancora inaccessibili, o comunque poco conosciute e frequentate. Il problema (ma non sono nemmeno sicuro che sia un problema) è che la politica in Italia è sempre un discorso di massa, e le masse, in un meccanismo delicato come il web 2.0, forse non ci entreranno mai. Non ce le vedo le masse a realizzare un programma politico via wiki, come stanno facendo iMille, per esempio.

“Sì, ma tu poi di Grillo cosa pensi?”
Io credo che sia in buona fede. Non lo vedo nel ruolo di attentatore alle istituzioni democratiche. Secondo me è assolutamente convinto di lavorare per il bene del Paese, oltre che per un modesto tornaconto personale. È precisamente queste buona fede che lo rende così pericoloso.
Credo anche che sia un po’ più furbo di quanto non sembri. Due delle tre proposte di legge per cui ha raccolto le firme non hanno nessuna possibilità di passare in Parlamento (una è probabilmente anticostituzionale: un condannato che ha scontato una pena torna in possesso dei suoi diritti civili e politici, e quindi nessuno può impedirgli di candidarsi). Allora perché ha mobilitato milioni di persone per un’iniziativa di legge popolare che è destinata ad arenarsi alle camere? È chiaro che pensa già alla fase due: la fase, appunto, in cui i parlamentari saranno costretti a bloccare le sue proposte benedette dal bagno di folla di Bologna (non potrebbero fare diversamente).

“Era una trappola?”
Direi. Che speranza possono avere, quelle proposte di legge, al nostro parlamento? Se non sono anticostituzionali, comunque fanno a pezzi l’establishment: la proposta di mandare a casa i parlamentari dopo due legislature è una pura e semplice provocazione. Si può essere d’accordo o no (io no), ma quale senatore o deputato oserebbe votare una cosa del genere? Nessuno vota per la propria autodistruzione. E Grillo lo sa benissimo. Il suo obiettivo non era fare approvare le sue proposte. Il suo obiettivo è portare a un grado massimo l’indignazione popolare, e quando le leggi si areneranno tra Camera e Senato, ci riuscirà.

“La vittoria dell’antipolitica…”
Io lo trovo molto politico, invece. Se la politica è astuzia e strategia, con questa storia delle proposte di legge è riuscito a mettere in sacco un bel po’ di mummie molto più navigate di lui. Se la politica consiste nel saper intercettare il sentimento popolare, beh, non lo trovo molto inferiore a Bossi o D’Alema. Non è politico perché non crede nei partiti di oggi? Non ci credevano neanche Fassino o Rutelli, se hanno appena sciolto i loro partiti. L’unica differenza, evidenziata da Luttazzi, è che Fassino e Rutelli comiziano gratis, mentre Grillo si fa pagare. Il che, da un punto di vista meramente economico, significa che Grillo è un oratore di gran lunga superiore.

“Quindi tutto bene. Viva Grillo…”
No, Grillo è il sintomo della prossima sconfitta del centrosinistra. Anzi. Facciamo dei nomi. Grillo è il segno della sconfitta di Veltroni. Non della sconfitta alle primarie, che vincerà in souplesse. Ma la sconfitta politica. Veltroni doveva recuperare al PD un’ampia fetta di elettorato di centrosinistra delusa da Prodi, da D’Alema, dal carovita, dal TAV, da qualsiasi cosa. Questa era la missione di Veltroni: il famoso valore aggiunto tra Ds e Margherita.
Invece Veltroni ha fatto una bella orazione ecumenica al lingotto, poi è partito per i mari del sud, è tornato molto abbronzato, e con la scusa di evitare le polemiche da bassa politica ha praticamente evitato la politica. C’è stato un appassionante dibattito sulla sicurezza; lui è il sindaco di una città assediata da ubriachi internazionali; vi ricordate esattamente la sua presa di posizione? E meno male che era un gran comunicatore. La sua strategia in questi giorni mi sembra ispirata al migliore Gianfranco Fini: silenzio e raggi UV. Certo, meno parlano, meno dicono cazzate: intanto però Grillo parla e riempie le piazze.

In quelle piazze, nel settembre 2007, avrebbe dovuto esserci Walter Veltroni. Avrebbe dovuto avere parole di speranza per chi paga troppo il pane e l’Ici. Avrebbe dovuto trovare la quadra tra i lavavetri e gli automobilisti frustrati. Avrebbe dovuto essere populista e ragionevole, e tirare bordate al vecchio establishment. E invece al momento è ammiraglio di una corazzata arrugginita sulla quale sono saliti tutti: D’Alema, De Mita, Rutelli, tutti. C’è anche Fioroni. Fioroni è il ministro dell’istruzione che qualche settimana fa è andato al meeting di Rimini ad annunciare che lo Stato avrebbe pagato a mamma e papà il liceo privato del figliolino. Un altro bel buco nel bilancio dell’istruzione pubblica, ma probabilmente ha conquistato 15 voti a Formigoni. Ecco, gli uomini di Veltroni sono questi qui. Se la gente non è entusiasta, se si butta sul primo comico che non le manda a dire, la responsabilità è anche sua.

“Quindi Grillo fa più proseliti al centro-sinistra?”
Mi sembra di sì: al centro-sinistra e al centro-nord. Lo scrive Ilvo Diamanti e io stavolta mi fido. Vado più in là: a me sembra che ci sia una continuità tra il grillismo, i girotondini, una parte del movimento di Genova (quella più moderata, intorno alla Rete di Lilliput) e più su, più su, fino a quelli che manifestavano contro il colpo di spugna e raccoglievano le firme con Segni e Orlando. Sono diplomati e laureati, prevalentemente impiegati e insegnanti, che hanno vissuto venti o trent’anni in un Paese di furbi dove sembra che paghino le tasse soltanto loro. Oscillano abbastanza comprensibilmente tra rabbia e speranza. Finché c’è Berlusconi a coalizzare la loro frustrazione, sfoggiano adesivi e spillette anti-nano; quando Berlusconi se ne va, e l’Italia non diventa immediatamente il Bengodi degli Onesti, diventano matti: non sanno nemmeno più in cosa sperare. Comprano “La casta”, proprio come nel 2001 compravano “L’odore dei soldi”. Si buttano su Grillo, che li capisce perfettamente. E vuoi sapere la cosa più incredibile?

“Dai, dimmela”.
La cosa più incredibile è che questa sacca di malcontenti, quando è alle strette, si rifugia storicamente sempre sotto la stessa bandiera: la Costituzione. Quando Berlusconi si faceva le leggi ad hoc, loro lottavano in nome della Costituzione. Le botte di Genova furono criticate in nome della Costituzione. E anche adesso, gli strumenti usati da Grillo per rivoltare la politica come un calzino sono perfettamente costituzionali: una legge di iniziativa popolare, liste civiche, eccetera eccetera. Questo secondo me è il vero limite di questo movimento: la carta costituzionale come inizio e fine di ogni cosa, quando è proprio la stessa carta a sancire lo strapotere del parlamento. Questo è anche il motivo per cui, periodicamente questo movimento deve morire e reincarnarsi in qualcosa di nuovo: i suoi rappresentanti presto o tardi devono entrare in Parlamento, o almeno in un consiglio comunale: ma appena varcano la soglia, diventano i nemici, che siano Pardi o Cofferati. E si riparte con qualcosa di nuovo. Perciò non credo che Grillo si candiderà. Sarebbe la sua fine.

“E allora cosa succederà?”
Non lo so. È probabile che le liste civiche col bollino di Grillo abbiano un buon successo. Questo potrebbe risultare persino positivo, se contengono nomi davvero nuovi. In fondo è quello che vogliamo tutti, no? Nomi nuovi. A quel punto i dirigenti del Pd se la faranno addosso, e prometteranno ponti d’oro. Questo potrebbe essere anche il momento in cui D’Alema o De Mita decidono di pensionarsi, per il bene della collettività. Se a quel punto anche Grillo manterrà una posizione marginale, finalmente avremo un ricambio di classe dirigente in seno al maggiore partito del Paese. Però mi sembra una strada impervia. Avrei preferito che il rinnovamento cominciasse all’interno del Pd: contavo molto su quello che avrebbe fatto Veltroni. Forse avevo frainteso un certo suo piglio presidenziale.
Sono passati quattro mesi e Veltroni non ha fatto nulla. A questo punto Beppe Grillo ce lo meritiamo.

“Parlando d’altro: ti piace la radio?”
Da matti.

“Anche a Hitler. Non è per caso che…”
Ma vaffanculo, va.

martedì 11 settembre 2007

ftg Donna Letizia

("Ma alla fine ce l'hai ancora quel blog?")

Col tempo si esce sempre meno, ci si perde di vista, ma per fortuna c’è settembre. A me capita ancora di incontrare più persone in settembre che in tutto il resto dell’anno, e per i soliti motivi: festival e matrimoni, matrimoni e festival. Praticamente alcune persone le vedo soltanto di settembre. Almeno così le cose da raccontarsi non mancano, direte voi.

Sarà. Ma da qualche settembre in qua la gente che incontro fa una smorfia strana. Loro non se ne accorgono, io sì. Non sono paranoico: semplicemente riesco a leggere le smorfie. È un potere terribile, da cui derivano grandi sbattimenti di coglioni. Insomma, Caro Amico, non ti vedo da un pezzo, ho voglia di dire anche solo due stronzate, ma mentre mi avvicino riesco a vedere la tua faccia congestionata in quella smorfia di terrore che conosco troppo bene. Dunque sono diventato un mostro? Anche peggio.
Sono diventato un blog.

E quella smorfia, la riconoscerei tra mille, quella smorfia sta dicendo: “Oddio! Eccolo qui! Ed è da sei mesi che non lo leggo!
E poi dice: “Se ne accorgerà di sicuro… non c’è niente che io possa fare… si sta avvicinando… qualsiasi argomento mi tradirà… il campionato? Dove sei andato quest’estate? Il riscaldamento globale? Le winx? Potrebbe avere scritto un post su qualsiasi cosa… maledizione! Ciao, Leonardo, come stai? Ti vedo in forma, eeeeh?

Grazie, sì, sono abbastanza in forma, ma non sono così sfigato. E non riesco a capire, davvero, come puoi pensare che io lo sia diventato.
Perché io non ho mai interrogato nessuno sui contenuti del mio blog. Non ho mai preteso che uno lo frequentasse abitualmente. Non ho mai tolto il saluto a qualcuno che non aveva letto un mio pezzo. È chiaro che se uno viene e legge mi fa piacere. Ma questo non significa che chi non viene mi faccia una dispiacere. In un giorno ci sono molte cose più importanti, e alcune sono persino più interessanti, per cui no, non dovete nemmeno giustificarvi: c’è chi legge i blog e chi non li legge. Se non li leggete potete essere miei amici ugualmente.
Siamo persone adulte. Abbiamo tutti le nostre economie di tempo e spazio. Se dieci anni fa mi avete spedito una cartolina, può darsi che io l’abbia sbattuta via. E voi invece non mi leggete il blog, ecco, siamo pari.
Questa non è falsa modestia. Anzi. Io ho una opinione molto alta di quello che faccio (soprattutto in rapporto a quanto ci guadagno). Diciamo che mi considero una specie di artista. E allora? Se incontrate in giro un amico pittore, non vi chiederà immediatamente se avete ammirato il suo ultimo quadro. Sarebbe piuttosto penoso. Se un vostro amico fa lo scrittore, non vi interrogherà sull’ultimo libro che ha scritto. Al massimo ve ne regala una copia, e morta lì. Io scrivo gratis – è come se le copie ve le regalassi in continuazione – ma il fatto che il mio medium sia molto accessibile non significa che voi dobbiate accedervi per forza, solo perché siete miei amici o conoscenti. E rilassatevi un po’.

Direte che questo pezzo è inutile, dato che si rivolge a persone che non mi leggono. Già.
Ma a un certo punto ho pensato: magari non è colpa mia. Io non ho mai fatto pressione su nessun amico o conoscente. Mai. Ho sempre fatto finta di niente, anche ai limiti dell’ipocrisia. Però questo sono io. Magari ci sono altri blogger che invece stressano i parenti e i vicini di casa. Magari sono loro che accreditano nel mondo l’immagine del blogger sfigato e brufoloso che implora attenzione. E io, siccome condivido la stessa interfaccia, devo condividere anche la loro sfiga, e i loro brufoli. E non mi pare giusto. Per questo motivo ho approfittato dell'ultima notte tempestosa per trafugare la salma di Donna Letizia, riattivando mediante scosse elettriche il suo encefalogramma, le ho esposto il mio problema e le ho chiesto di redigere una prima traccia del

MANUALE DEL BLOGGER GENTILUOMO IN SOCIETA'

Premessa:
Probabilmente non è che l'ennesimo diario adolescenziale inutile, ma il vostro blog potrebbe anche essere molto importante.
Il vostro blog potrebbe essere l’unica opera letteraria interessante del XXI secolo. Potrebbe fondare partiti, oppure abbatterli tutti e cambiare il corso della Repubblica Italiana in bene, in male o così/così. Dal vostro blog potrebbe scaturire il Manifesto destinato a rivoluzionare il cinema italiano, o la musica italiana, o la numismatica di San Marino. Il vostro blog potrebbe dimostrare inoppugnabilmente che Bin Laden è vivo, morto, o entrambe le cose. Il vostro blog potrebbe riscattare la vostra mediocre esistenza di impiegato/webmaster/ministro della giustizia. Il vostro blog potrebbe essere l’unica ragione della vostra vita. Potrebbe esserlo. Ma quando siete in società non ha importanza.

Quando siete in società, il vostro blog non sarà per voi che un hobby innocuo. C’è chi ha il pollice verde, chi suona il sassofono. Voi avete un blog. Tutto lì. Ne consegue che:

1. Il blogger gentiluomo non parla mai per primo del suo blog.
Mai. Questa è la regola aurea, da cui tutte le altre discendono. Se invece di un blog suonassi un sassofono, non interverrei in una discussione dicendo “Ciao, io suono il sassofono, mi hai mai ascoltato? Vuoi ascoltarmi?”, perché dimostrerei di essere sfigato ai limiti della mitomania. Ed avere un blog non significa essere sfigati ai limiti della mitomania. Non ancora.

2. Il blogger gentiluomo non parla mai per primo del suo blog, nemmeno se la discussione verte esattamente sull’argomento di cui ha scritto la mattina stessa. Perché i casi sono due: o nessuno vi ha letto (e a questo punto è meglio lasciar perdere), oppure vi hanno letto e preferiscono non commentare nemmeno le sciocchezze che avete scritto: e dovete solo ringraziarli.

3. Il blogger gentiluomo parlerà del suo blog soltanto se qualcun altro prima di lui è stato così poco gentiluomo da citarlo esplicitamente (es. “ho apprezzato veramente il tuo post sui lavavetri”, vs. “il tuo thread sui lavavetri è una rivoltante incubatrice di postfascismo”): e ne parlerà col tono distante e autodenigratorio di un lord inglese che accenni alla sua passione per il giardinaggio. “Mah, sì, c’è stata questa discussione sui lavavetri, un po’ intensa… devo dire che io nemmeno mi ricordo da che parte stavo all’inizio… bah”. Magari sembrerete un po’ falsi, ma l’alternativa è sembrare un po’ tromboni: come a dire che non c’è alternativa. (In effetti il blogger gentiluomo prova davvero fastidio nel parlare del suo blog, perché sa che non c’è modo di uscirne veramente puliti).

4. A cena non si parla di blog, e neanche dopo. Per l'amor di Dio, non avete nessun altro argomento? Davvero la vostra vita sociale si riduce a questo? Parlate di musica, di politica. Di donne, e motori, o centravanti. Raccontatevi barzellette spinte. Parlate esattamente di tutto quello che vi interessa e di cui parlate già sul blog, ma non parlate del vostro blog, né di quello degli altri. Magari scoprirete che la conversazione offline vi offre sfaccettature che online vi mancavano. Magari troverete nuovi argomenti per nuovi meravigliosi post, ma a quello ci penserete domani. Ora state conversando con persone in carne ed ossa! È una cosa miracolosa! Persino la cronaca dettagliata delle malattie infettive da loro contratte nel villaggio turistico è più interessante dell’ultimo aggiornamento della classifica aggregata di staminchia.

5. Il mondo è pieno di persone che non hanno un blog, non leggono un blog, e magari non hanno neanche voglia di essere evangelizzate sull’argomento dalla prima persona con cui escono. Se non riuscite a dare l’impressione di essere persone interessanti senza il blog, probabilmente non siete persone interessanti. Se invece ce la fate, magari a questa persona un giorno verrà voglia di leggerlo. E magari le piacerà. Sì, magari.

Detto questo, Donna Letizia ha rantolato un’orribile risata che ha infranto gli elettrodi, accasciandosi sulla branda. Ma se pensate che ci sia ancora qualcosa da aggiungere, prego, scrivete le vostre proposte nei commenti. No, non dovete venirmele a dire di persona, abbiamo detto che di queste cose non si parla. Nei commenti.

venerdì 7 settembre 2007

Oimè, e non danzerò mai più

Con o senza P

Quando di anni non ne avevo ancora venti, e di lirica non capivo assolutamente nulla, uscivo tuttavia con un soprano: così un giorno varcai la soglia mai prima osata di un negozio di classica, perché volevo regalarle una versione in CD dell’opera che stava studiando (che dolce) e speravo anche di cavarmela con poco (che fesso). Il nome dell’opera non me lo ricordo; ricordo invece la risposta del negoziante.

“Con Pavarotti o senza?”
“Eh?”
“La vuole con Pavarotti o senza?”
“Mah, non so, faccia un po’ lei”.

L’ignoranza mia plateale dovette muovere a pietà l’esercente, che mi spiegò l’arcano: in quel negozio, forse in tutti i negozi di Modena, i cd di classica si vendevano così: con-Pavarotti o senza-Pavarotti. Fu così che nella mia fantasia il più illustre concittadino venne per sempre assimilato a quello che nelle gelaterie è il dispenser di panna montata: “mi fa una Turandot?” “Ci vuole sopra un Pavarotti?” “Se è fresco sì, grazie!”, oppure “No, mi scusi, non lo digerisco”. Evidentemente P o si amava o si odiava, con un sentimento di pari intensità. Pavarotti come il Mac? No, piuttosto come Windows: popolare, un po’ troppo costoso, ed estremamente compatibile, anche se troppo spesso con esiti catastrofici. Pavarotti lo puoi montare anche su Zucchero o sugli U2, ma per quale motivo al mondo dovresti poi ascoltare una schifezza del genere? Mah, forse per l’amore dei bambini poveri. E va bene. Io però non ci sono mai andato, al Pavarotti&Friends, anche se una volta la Feffe aveva misteriosamente trovato dei biglietti e ci eravamo messi d’accordo per portare davanti alle telecamere uno striscione contro… contro… mah, l’Afganistan, forse… poi qualcuno tirò un pacco, non mi ricordo.

Non ricordo neanche se quel giorno, nel negozio, alla fine scelsi l’opera con- o senza-Luciano. Non che abbia importanza, il soprano mi lasciò di lì a poco per un poeta di neo-neoavanguardia. Senza dubbio anche a causa del trauma che ne conseguì, di lirica a trent’anni suonati continuo a non saperne nulla, e non crediate non me ne vergogni. Il mio orecchio, per altri aspetti così sensibile, di fronte a quella roba si pianta, non scevera un baritono da un basso, per lui Mozart o Verdi pari sono. Una sola cosa riesce a fare: distinguere il gusto Pavarotti dal no-Pavarotti. Quale dei due gusti sia poi preferibile non saprei dire, ma so che la mia sordità selettiva è condivisa da milioni di persone del mondo. Per quelli come noi, che dell’ignoranza ancora non van fieri, poter identificare almeno una voce è occasione di orgoglio e gratitudine: senti, senti, questo è senz’altro lui. Non che sia granché, appunto, è panna montata: ma è dolce, buona, democratica. Senti, senti il do di petto, senti.

Però adesso basta, per favore. Se in tv attaccano un altro Nessun dorma, ci viene il diabete.

Pavarotti ha riportato l’opera lirica tra la gente. Chissà poi se la gente se la meritava, in tutti i sensi. Secondo me a un certo punto si era semplicemente stancato di far la scimmia ammaestrata per un pubblico di cariatidi in visone. Proprio come me, come te, come chiunque, lui aveva un solo sogno: fare la rockstar. Ragazze nei camerini, poker, corse al trotto, il piazzale di Novi Sad come la sua Las Vegas personale. Mi viene sempre in mente di una vecchia intervista da New York, in un periodo in cui teneva le prime pagine del mondo semplicemente steccando ogni tanto (le registrazioni delle sue stecche devono valere parecchio, come i francobolli sbagliati):

“Ha letto il Critico-tale? L’ha stroncata, dice che a questo punto preferisce andare a un concerto di Tina Turner”.
“Beh, in effetti anch’io”.

Prima o poi i melomani dovevano uscirci, dal loro Ottocento paludato. Bisogna ringraziare Pavarotti perché ha ricordato a tutti che il melodramma, prima di ogni cosa, è una baracconata kitsch, il padre nobile e ubriacone del musical di Broadway, una cosa tutto sommato divertente: che se non diverte, probabilmente non è nemmeno buono. Come i quadri di Covili da cui sembra uscito, che prima di piacere ai critici piacciono ai bambini. Come il gelato, che prima di ogni cosa è dolce: hanno provato a farli salati, ma il popolo lo vuole dolce. E poi sì, a volte ha gusti assurdi il popolo: c’è chi chiede la panna sopra l’ananas, ma in fondo è un suo diritto.

Una delle cose meno comprese che ho fatto con questo blog è il gioco a inventare edizioni immaginarie di Pavarotti & Friends: 2001 e 2003. Si fa così: si prende una qualsiasi canzone pop, si traduce in italiano ottocentesco, e poi si immagina Pavarotti che la canta. Se siete nella doccia, potete anche interpretarlo. Forse sono l’unico al mondo a cui queste cose fanno a ridere, in ogni caso ecco a voi il duetto con George Michael

George: And I never gonna dance again
Guilty feet they've got no rhytm
Though it's easy to pretend
I know you're not a fool
I should have known better than to cheat a friend
And waste a chance that I've been given
So I never gonna dance again
The way I dance with you


Luciano: Oimé, e non danzerò mai più
Nell'orma dei passi colposi
Finger già facile fu
Ma con te giammai!
Con te persi l’amico che il fato mi dié
E nel pensier io mi torturo
So I never gonna dance again
Com’io danzai con te

E con Bono (non escludo l’abbiano fatto davvero):

Luciano: Non posso credere alle nuove
Né chiuder gli occhi miei e fingermi altrove
Ahi, quanto / dureremo in questo pianto?
Ahi quanto/ ahi qua… a … a… a… nto…
Bono: Tonight we can be as one,
tonight, tonight
Insieme: Domenica trista, domenica trista.

Con i Depeche Mode:

Luciano: Ognor ti penso, e cresce in me il desio
Dave: And I just can’t get enough, I just can’t get enough
Luciano: Soltanto in te trova conforto il pensier mio
Dave: And I just can’t get enough, I just can’t get enough

Con i tre Doors superstiti (e Morrison, all’inferno, stride i denti):

Sai ch’io non sarei sincero
Sai ch’io sarei ben bugiardo
Se or io ti dicessi, invero
Che non possiam salir più in alto

Orsù amor appicca il foco
Orsù amor appicca il foco
Di quella pira orrendo… foco!.

Adesso provate a indovinare voi:

Diletta mia, mi devi dir
Debbo partirmene o restar?
S’io vado, vi saranno guai?
S’io resto, un doppio amante avrai?
Deh dimmi, mia diletta, inver:
debb’io partirmene o restar?

Ok, era facile. E questa?

Ogni tuo sospir
Ogni tuo pensier
Ogni tuo piacer, ogni tuo voler
Io ti scruterò.

Che, non lo sai?
Ti posseggo, ormai,
e reclamo inver
ogni tuo pensier.

Finale col botto: Luciano e Serge Gainsburg si guardano negli occhi, l’orchestra parte, ed è un trionfo:

Pavarotti: Deh! Ché t'amo, io t'amo, oh se t'amo!
Gainsbourg: Moi non plus
Pavarotti: O mio divino!
Gainsbourg: L'amour physique est sans issue
Pavarotti: Tu vai, tu vai e tu vieni
Tra le mie reni
Tu vieni e tu vai
Tra le mie reni
E poi… ti ritrai
Gainsbourg: Je vais, je vais et je viens
Entre tes reins
Je vais et je viens
Et je me retiens…
Pavarotti: No… adesso… vien! (Acuto)

Nel paradiso dei musicisti oggi c'è una nuvola transennata, a forma di Modena, dove i morti illustri fan la fila per duettare col maestro: Tupac, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Syd Barrett, Natalino Otto... Lui stringe le mani e canta qualsiasi cosa, che oggi è la sua festa. Intorno è tutto uno sbandare di angeli che si tappan le orecchie con le ali. Ma tu vai così, Maestro, fregatene. Rock and roll.

mercoledì 5 settembre 2007

l'invasione degli ultrabuoni

Contro i buoni (e i lazzaroni)
...vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante…
Marx, Il 18 brumaio

Uno dei grandi misteri d’Italia è quello della scomparsa dei comunisti. Dopo aver affollato le piazze e le officine per quarant’anni e rotti, i comunisti italiani (senza lettere maiuscole) sono tutti scomparsi improvvisamente, nel giro di pochi mesi. Più o meno gli stessi mesi in cui comparivano agli incroci i lavavetri, ma probabilmente è una coincidenza.
Al loro posto, certo, sono rimasti i simulacri: due o tre Partiti nominalmente Comunisti, con falce e martello nel simbolo, e tutto un brulicare di magliette di Che Guevara che Togliatti difficilmente avrebbe autorizzato. Gente anche simpatica, per carità, ma… comunisti? Non scherziamo. I comunisti, quando esistevano, erano un partito dotato di una coscienza di classe. Prima ancora che comunisti, erano lavoratori. Proletari. Rivoluzionari? Sì, ma in prospettiva, con calma, senza sommosse o barricate che sono roba da cialtroni o avventurieri. Per farsi un’immagine bisogna pescare nell’inconscio collettivo pretelevisivo, per esempio nel Quarto Stato di Pelizza da Volpedo. La rivoluzione verrà e sarà una dignitosa passeggiata.

Avete mai notato quant’è elegante il Quarto Stato, il portamento con cui indossa i suoi quattro stracci? Nella folla non è dato vedere lavavetri, ma non c’è dubbio che se i signori in prima linea li avessero incrociati durante la marcia se li sarebbero lasciati indietro senza molti complimenti. I proletari sono barbuti, non barboni, la differenza è tutta qui. Persone dignitose che nel presente lavorano, nel futuro prendono il controllo dei mezzi di produzione, nel tempo libero leggono Marx o se lo fanno spiegare, e se hanno un parabrezza preferiscono tenerselo pulito da soli. Senza fare l’elemosina, che è un retaggio medioevale. Non dico che fossero bravi e buoni, anzi no, proprio non lo erano. Erano comunisti dotati di coscienza di classe. La loro classe: il proletariato. E la lotta di classe non era soltanto quella contro il Signor Padrone, ma anche quella quotidiana contro il sottoproletariato degli straccioni. Quelli che non lavorano per scelta, quelli che campano di pietismo: la carità è roba da preti, il proletariato difende i suoi interessi e non ha pietà di nessuno. Anche perché a dargli corda, finisce che questi che si alleano con la borghesia e mandano un parassita pari loro al potere: Marx aveva mostrato l’esempio di Napoleone III. Alle elementari m’insegnarono che non si regala un pesce a un vagabondo, ma gli si insegna a pescare: io non ero tanto d’accordo, ma alla fine mi adeguai. Più tardi scoprii con orrore che si trattava della dottrina di Mao (ancora più tardi scoprii che Mao scopiazzava Confucio).

Sono cresciuto così, in ogni caso: quindi, mentre voi forse rimpiangete i pittoreschi rumeni ai semafori, io rimpiango i comunisti. Se esistessero ancora probabilmente mi terrei un po’ sulle mie, frequenterei l’osteria e la festa dell’Unità con un certo spocchioso distacco da intellettuale, ma è tutto vano, perché tanto non ci sono più. Sono stati sostituiti da una manica di pietisti, pronti a commuoversi per il povero rumeno, la povera zingara, il povero pancabbestia: tutta gente che non voterà mai per loro (anzi, probabilmente quando sarà il momento farà le barricate per il Napoleone III di turno). Non so di chi sia stata la colpa, se di Pasolini o di Wojtyla, fatto sta che a un certo punto i dirigenti hanno totalmente perso il contatto con la loro classe di riferimento: che non erano gli insegnanti o gli intellettuali o i dipendenti pubblici, ma i lavoratori. Il popolo delle otto ore, che guarda caso è l’unico popolo che i lavavetri li incrocia due volte al giorno, e le monete le deve risparmiare per il parcheggio. La classe lavoratrice dignitosa e conformista, che priva di un serio partito di riferimento si butta sulla Lega: col risultato tragico di mandare nelle giunte dei lazzaroni non molto meno avidi o più capaci degli stessi lavavetri.

Ogni giorno ne scompare qualcuno, sostituito da un ultracorpo radical-chic di nessun interesse. La scorsa settimana se n’è andato Asor Rosa: perché quello che ha scritto la letterina al Corriere contro il conformismo dominante non può mica essere lui. Asor Rosa non può essersi dimenticato del conformismo massiccio e tetragono che teneva insieme il Partito di Togliatti, di Longo e Berlinguer. Il problema è proprio che non ce n’è più abbastanza, di conformismo: che tutti vogliono tentare la loro strada, nel disperato tentativo di intercettare qualche sacca di voti qua e là. Come Rutelli, che difendendo i privilegi feudali delle immobiliari del Clero spera magari di conquistarsi qualche chierichetto. La Chiesa, del resto, è da duemila anni che si fa sovvenzionare con il ricatto della Carità: e funziona. Fa anche del bene, a volte, non dico di no. Però il comunismo è un’altra cosa, e confondere queste due cose non ci sta portando alcun bene.

Forse bisognerebbe ripartire da un’idea forte: se il neoliberismo è un tentativo di riorganizzare la società intorno alla legge della jungla, la criminalità non è una falla del progetto, ma ne è la massima incarnazione: il sopruso al potere. Come sta succedendo in quei Paesi, come la Russia o l’Estremo Oriente, in cui si fa veramente fatica a capire dove finisce la mafia e comincia lo Stato o il Partito. Ma allora combattere contro la criminalità equivale a combattere contro il neoliberismo. Un problema da materialisti seri, da affrontare con razionalità, e da non lasciare ai pagliacci come Gentilini, decisamente.

Quando invece si critica il sindaco di Firenze (o quello di Bologna, dove però il discorso è un po’ diverso) perché se la prende con “gli ultimi”, si fa un discorso terribilmente cattolico. Io sono anche cattolico e quindi lo capisco, ma purtroppo, in materia di microcriminalità, prendersela con gli ultimi funziona, eccome. Il racket è un’idra a teste intercambiabili: se te la prendi coi vertici, se fai una retata nel Quartier Generale, stai soltanto preparando la successione per il prossimo gruppo dirigente (e infatti dietro l’arresto di un ras c’è spesso lo zampino del ras successivo). L’unica strategia vincente è il soffocamento: togliere progressivamente alla criminalità lo spazio in cui si organizza e prospera. A me sembra abbastanza chiaro, ora va spiegato agli ultracorpi. Con tutti i noir che si sono letti quest’estate, per loro non dovrebbe essere difficile capirlo. Ma forse certe cose le capisci solo quando ci sei in mezzo tu, con la tua utilitaria dignitosa, senza moneta davanti a un semaforo rosso: la zingara si avvicina e tu acceleri a vuoto, vorresti solo metterla sotto.

(L'argomento è talmente controverso che per le prima volta io e Cragno ci troviamo d'accordo).

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