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lunedì 23 agosto 2021

Gesù e i suoi fichi

24 agosto - San Natanaele apostolo

Natanaele (in ebraico Dio ci ha dato) è un apostolo di Gesù, perlomeno nel vangelo di Giovanni; nelle liste degli altri vangeli non compare, ma è tradizionalmente identificato con Bartolomeo. Natanaele è di Betsaida come gli apostoli Pietro, Andrea e Filippo: quando quest'ultimo comincia a parlargli del nuovo messia arrivato in paese ("Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti: Gesù da Nazaret, figlio di Giuseppe", Gv 1,45), Natanaele risponde sprezzante: da Nazaret non può venire niente di buono. Nazaret era in Galilea, Betsaida nella regione del Golan, entrambe zone molti periferiche per la mentalità giudaica del tempo, centrata sulla città del Tempio, Gerusalemme. Gesù però appena incontra Natanaele reagisce nel modo opposto: lo saluta come un "vero israelita in cui non c'è frode" (1,47). Natanaele perplesso domanda: come fai a conoscermi? La risposta è sibillina: "Prima ancora che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto il fico" (1,48). Noi lettori non ci capiamo molto: cos'era successo di particolare sotto quel fico? Qualcosa di importante, perché Natanaele reagisce esclamando: "Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele" (1,49).

Santi Giovanni e Bartolomeo (Dosso Dossi) (nessun fico rilevato)
Santi Giovanni e Bartolomeo (Dosso Dossi) (nessun fico rilevato)

I miracoli del quarto vangelo sono un po' diversi dagli altri. Giovanni (se davvero fu lui l'autore) li chiama "segni" e li considera momenti fondamentali in cui Gesù si manifesta come Messia davanti a testimoni credibili. Alcuni studiosi pensano che l'evangelista abbia rielaborato una fonte precedente, il cosiddetto "vangelo dei segni", che avrebbe contenuto alcuni dei miracoli più spettacolari (le nozze di Cana, la resurrezione di Lazzaro). Accanto a questi però ci sono piccoli segni come il riconoscimento di Natanaele, che è il primo miracolo in assoluto e somiglia molto a quello che accadrà più tardi con la Samaritana: Gesù rivela al testimone qualcosa che soltanto lui può sapere. Di fronte a questo riconoscimento, le riserve del testimone crollano di schianto: non possono sussistere dubbi, Gesù è il Messia. Alla professione di fede di Natanaele, Gesù reagisce minimizzando: il meglio deve ancora arrivare. Credi in me solo perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico? "Tu vedrai cose maggiori di queste. In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo" (1,50-51). Il primo capitolo finisce così, promettendo effetti speciali e un lieto fine spettacolare, e sappiamo che l'evangelista manterrà. Ma il piccolo interrogativo iniziale non sarà mai risolto: cosa era successo a Natanaele sotto il fico? Cosa sapeva Gesù di lui, che noi forse ignoreremo per sempre?

Il fico è decisamente l'albero più enigmatico dei vangeli. Addirittura è l'unica creatura che Gesù maledice, in uno degli episodi più controversi, Marco 11,12-14. Il giorno prima Gesù è entrato trionfalmente in Gerusalemme: ma siccome ha preso alloggio in un villaggio fuori dalle mura, Betania, ogni giorno gli tocca rientrare, scortato dagli apostoli. La mattina seguente, mentre rientra a Gerusalemme, si scopre affamato e "veduto di lontano un fico", cerca se tra le foglie per caso non ci sia un frutto. Il fico, si sa, è un albero generoso: anche molto prima della stagione, e molto dopo, se si ha pazienza qualcosa si trova. Eppure Gesù in quel singolo fico "non trovò niente altro che foglie", del resto Marco ha cura di annotare che non era ancora stagione. Spazientito, Gesù maledice il fico: "Nessuno mangi mai più frutto da te!" Entrato in città, Gesù manifesta in modo ancora più plateale il suo malumore: si reca nel Tempio e ne scaccia i mercanti con grande scandalo dei farisei (ma la folla sembra ammirarlo). L'indomani, ripassando sulla stessa strada, Pietro fa notare al maestro che il fico maledetto si è seccato. Gesù ne approfitta per spiegare che la fede in Dio può tutto, anche spostare le montagne. Gli apostoli di Marco sono i più perplessi dei quattro vangeli, e in questo caso la loro perplessità è la nostra: se Gesù era in grado di seccare un albero (e spostare una montagna), perché non ha semplicemente trovato un frutto di fico quando gli serviva?

Odifreddi is for boys, Bertrand Russell is for gentlemen (foto del 1954, pubblico dominio).

La maledizione del fico è l'unico vero miracolo eseguito da Gesù con un fine punitivo; in tutti gli altri casi Gesù guarisce, resuscita, salva, riconosce, provvede di beni di prima necessità (o voluttuari, nel caso delle nozze di Cana). Solo in questo caso punisce un essere vivente, il che provocò l'indignazione, tra gli altri di Bertrand Russell che ne parla in Perché non sono cristiano. Per Russell l'episodio dimostrerebbe una certa inferiorità morale dell'uomo Gesù rispetto ad altri maestri dell'umanità come Buddha e, ehm, Socrate. A riprova che la morale è molto meno stabile di quanto si creda; Socrate che per Russell era un uomo più retto di Gesù, oggi si ritroverebbe di nuovo nei guai con le autorità per quel problemino coi minori che già impensieriva gli ateniesi. Oltre a sovrapporre all'episodio del fico una sensibilità ecologica completamente sconosciuta al primo secolo, Russell rifiuta qualsiasi lettura simbolica dell'episodio; inoltre sembra aver voluto trovare il passo evangelico in cui Gesù sembra più capriccioso e vendicativo. Non sorprende che si tratti del Gesù di Marco, il più arrabbiato e il meno conciliante con gli apostoli.

Quel che lascia perplessi i lettori di ogni epoca è che Marco afferma chiaramente che non si trattava della stagione dei fichi, insomma quel che Gesù chiedeva alla pianta era anch'esso un miracolo: o forse è la pianta l'unica, tra le creature di Dio, che rifiuta la grazia di Gesù, il quale può seccarla ma non vuole compiere il prodigio opposto: renderla rigogliosa di frutti se lei non li vuole. Il simbolismo abbastanza ovvio per i lettori del Vangelo (ma non per Russell) è col popolo di Israele, che i profeti avevano più volte descritto come un albero da frutto, una vite o un fico. Gesù dunque sembra voler fornire agli apostoli una parabola mimata, nello stile tipico soprattutto del profeta Ezechiele: gli apostoli dovrebbero imparare qualcosa non dalle parole, ma dalle azioni del Maestro. L'albero di fichi è Gerusalemme: Gesù vi ha cercato invano qualcosa di buono, ma non è evidentemente ancora tempo; non resta che mandare tutto all'aria; non a caso Marco prosegue con la cacciata dei mercanti che porterà i farisei a decidere la morte di Gesù.

Ramo, frutto, seme e fiore del fico, da Wikipedia 

Lo stesso episodio torna in Matteo, molto più stringato (21,18-22) malgrado degli evangelisti Matteo sia il più critico nei confronti del popolo ebraico dal quale pure proveniva. Matteo omette il riferimento alla stagione: nel suo racconto il fico si secca immediatamente dopo la maledizione, e gli apostoli se ne sorprendono subito. Ed eccoci all'eterno dilemma su quale sia il primo vangelo: è Marco che prende da Matteo o viceversa? È Matteo che attenua l'episodio di Marco, ne stempera la lettura antiebraica concentrandosi piuttosto sull'aspetto prodigioso? O viceversa è Marco che legge di un piccolo miracolo in Matteo e decide di trasformarlo in una metafora storico-religiosa?

Sia come sia, né il racconto di Marco né quello di Matteo convincono Luca, che in un Gesù maledicente le piante si rifiuta di credere. Luca non capisce la profezia mimata (che del resto è un unicum in tutti i vangeli) e decide di trasformare l'intero episodio in una parabola (13,6-9): non è più Gesù a cercare i fichi, ma un "padrone" ("Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò"). Ma nemmeno a questo padrone l'ambientalista Luca concede di uccidere la pianta: intercede in suo favore il "vignaiolo": "Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai". Il padrone accetta la proposta; il fico per il momento è salvo. Il che oltre a introdurre un dualismo tra un Dio-padrone stanco di essere tradito e un Cristo-vignaiolo incline all'intercessione, conferma terribilmente i miei sospetti su Luca, l'evangelista mansueto come il bue, quello che cerca in ogni atto o detto di Cristo la pietà, la dolcezza. Il che sarebbe magnifico; non fosse che quando questa pietà e questa dolcezza non le trova, Luca se le inventa. Trasformare in una parabola un episodio della vita di Gesù, attestato in due vangeli (uno dei quali Luca conosceva sicuramente) dimostra una certa disinvoltura con le fonti: a Luca non interessa più se il Cristo originale stava emettendo una sentenza nei confronti di un popolo. Luca ha deciso che il suo Cristo sarà misericordioso: i valori che vuole trasmettere vengono prima della fedeltà ai testi originali.

La maledizione del fico, già completamente stemperata in Luca, scompare in Giovanni: il quarto vangelo del resto è il più diverso dei quattro. Può darsi che l'episodio di Natanaele ne sia un'ulteriore rielaborazione: senz'altro è l'unico passo in cui un fico riveste qualche importanza, e come la maledizione descritta da Marco e Matteo, mantiene un'irrisolvibile ambiguità: cos'è successo sotto il fico? Ora che sappiamo che l'albero può rappresentare il popolo di Israele, possiamo meglio inquadrare il saluto di Gesù al nuovo apostolo: "Ecco un vero israelita in cui non c'è frode". La situazione di Marco e Matteo apparirebbe capovolta: Gesù ha controllato l'albero e ha scoperto almeno un frutto senza difetto. Dunque Israele non merita la distruzione - certo, per autorizzare un'interpretazione del genere, Giovanni deve tenere il fico più distante possibile da Gerusalemme, che al momento della composizione del quarto vangelo era già stata rasa al suolo dai Romani. Sappiamo che il testo è l'espressione di comunità cristiane-ebraiche dell'Asia Minore (Efeso e dintorni) che a differenza dei lettori degli altri tre vangeli avevano mantenuto forti legami con la religione originaria e festeggiavano la Pasqua nella data prevista dalla religione ebraica. Due secoli più tardi, un esegeta proveniente dallo stesso ambito culturale, Afraate il Siriaco, collegherà la maledizione del fico all'episodio della Genesi in cui Adamo, dopo aver peccato disobbedendo a Dio, usa foglie di fico per nascondere la sua oscenità. Seccando il fico, Gesù avrebbe annunciato l'espiazione del peccato originale: dopo di lui non ci sarebbe stata più vergogna, né più bisogno di nascondersi. Tornando a Giovanni, il suo Natanaele forse serve ad affermare il concetto: Dio ci ha dato ancora un frutto; non si è scordato del suo albero prediletto, Israele; non lo ha trovato sterile, non lo ha maledetto, non lo ha seccato.

C'è un'ultima leggenda a cui non si può non accennare parlando di fichi e di Gesù: a un fico si sarebbe impiccato Giuda, il traditore, secondo una tradizione antica ma non attestata nei vangeli ufficiali. Oltre alla simbologia ormai chiarita (il frutto del tradimento penzola dall'albero maledetto), può trattarsi di un tentativo dei primi interpreti di mettere d'accordo due versioni diverse e ugualmente attendibili: secondo Matteo, Giuda si impicca per disperazione quando si rende conto che i farisei hanno intenzione di consegnare Gesù ai Romani per farlo condannare a morte (27,1-10). Luca però ha sentito una versione diversa, e negli Atti degli Apostoli la mette in bocca a Pietro (1,18): "Egli dunque acquistò un campo con il salario della sua iniquità; poi, essendosi precipitato, gli si squarciò il ventre, e tutte le sue interiora si sparsero". Come conciliare un Giuda impiccato con un Giuda squarciato dopo una caduta? Una possibilità è che Giuda avesse scelto per impiccarsi un albero che non avrebbe retto il suo peso: una pianta dai rami fragili, come il fico o un suo parente subtropicale, il sicomoro, che ha rami più spessi ma ugualmente soggetti a spezzarsi con poco sforzo. L'albero in questo caso è già simbolo di qualcos'altro: fragilità, incapacità di tenere fede alla promessa data (anche di reggere il peso della colpa), ipocrisia.

venerdì 20 agosto 2021

Zaccheo, l'esattore buono

20 agosto ─ San Zaccheo pubblicano (I secolo) 

Scendi che devi offrirmi 
un pranzo
I pubblicani nelle province Romane erano gli esattori delle tasse; non si trattava, malgrado il nome, di funzionari pubblici, bensì di privati in appalto che le tasse le anticipavano ai Romani, dopodiché avevano il tempo e l'agio di farsele restituire dalla cittadinanza. Era abbastanza ovvio che facessero la cresta, visto che campavano di questo. Siccome per il loro mestiere era necessario disporre di una buona liquidità, era anche probabile che molti di loro tra una campagna fiscale e l'altra esercitassero il lucroso mestiere di prestatori a interesse. Insomma, strozzini e amici delle guardie: non sorprende che la gente li detestasse, e invece Gesù li frequentava. Come le prostitute; ma mentre lo scandalo nei confronti della prostituzione è spesso un'attrazione ammantata di ipocrisia, gli esattori delle tasse la gente li odia davvero, non deve sforzarsi. 

Zaccheo è il pubblicano che si arrampica su un sicomoro, a Gerico, per riuscire a vedere Gesù che è appena entrato in città circondato dalla folla. In mezzo a tanti curiosi, Gesù lo riconosce e lo chiama per nome: "scendi subito, Zaccheo, perché oggi devo fermarmi a casa tua". L'episodio è attestato soltanto nel vangelo di Luca (19,1-10). E qui devo confessare una cosa: sto perdendo un po' la mia fiducia in Luca, man mano che invecchio. Fu il primo evangelista di cui abbozzai un profilo, all'inizio di questa cosa: ne ero entusiasta, era il mio evangelista preferito quasi da sempre (vabbe', la cotta giovanile per Giovanni è uno scotto inevitabile, è un po' come i Pink Floyd). Luca è un vero cronista, scrivevo, Luca fa le ricerche e cerca di organizzare il materiale, di non annoiare il lettore con dettagli inutili. Ma avvertivo anche che Luca è un liberal, con un'attenzione particolare per i deboli, gli oppressi e le donne: un tratto incredibilmente moderno, così moderno che a un certo punto ha cominciato a insospettirmi: è come se Luca riuscisse a trovare in ogni situazione l'angolazione perfetta per me. La santa più importante della cristianità, Maria, è un personaggio di Luca: è lui che racconta l'episodio dell'annunciazione (Matteo fa parlare l'angelo a Giuseppe); e lui che le mette in bocca le sublimi parole del Magnificat. Luca fa dire al suo Gesù: "beati i poveri". Non "beati i poveri in ispirito", come Matteo, no: per Luca devono essere beati i poveri, è di loro il Regno dei Cieli: un luogo dove evidentemente è previsto un minimo di giustizia sociale, Matteo non si poneva il problema, Luca lo inventa. Luca è l'evangelista che sente il bisogno di correggere la parabola dei talenti di Matteo, livellando completamente il budget concesso ai servi: i talenti diventano "mine", dal valore molto più modesto, e il padrone prima di partire li divide tra i servi in parti uguali, modificando così il significato di quella paginetta del vangelo che pare fosse l'unica a interessare davvero Margaret Thatcher. Ma come fa insomma Luca a conoscermi così bene? 

La spiegazione più semplice è che Luca mi conosca perché è lui che mi ha fatto così. L'attenzione per i deboli, l'interesse per le figure femminili che si sforza di far uscire dal cono d'ombra, il sogno della comunione dei beni prospettato negli Atti degli Apostoli, non sono cose moderne che riconosco in Luca: sono cose che Luca ha descritto, ed è anche grazie a lui che duemila anni dopo ne parliamo ancora. Ma le ha descritte dal vero o le ha proprio inventate? Quanto Cristo c'è davvero nel vangelo di Luca, quanto Luca c'è nel Cristo che ci piace?

Insomma dieci anni dopo non lo definirei più uno scrupoloso cronista. Che sia un liberal invece non c'è dubbio, è una cosa che traspare ad ogni confronto con gli altri tre autori e soprattutto con quello dei tre che aveva una vera ossessione per il denaro, al punto che tradizionalmente è identificato con Matteo, l'apostolo che faceva lo stesso mestiere di Zaccheo: ed è una coincidenza molto curiosa. L'episodio di Zaccheo è uno dei non pochissimi esempi in cui Luca sembra non volersi accontentare di quello che gli hanno raccontato su Gesù: come se l'episodio della conversione del pubblicano Matteo non lo convincesse del tutto. Luca la conosce, l'ha riportata (anche se chiama Matteo "Levi", come del resto fa l'altro evangelista Marco), però è come se l'obiezione dei Farisei ("Perché mangiate e bevete con quelli delle tasse e con persone di cattiva reputazione?" lo mettesse in imbarazzo. Eppure il suo Gesù ha la risposta pronta: "Quelli che stanno bene non hanno bisogno del medico; invece ne hanno bisogno i malati. Io non sono venuto a chiamare quelli che si credono giusti, ma quelli che si sentono peccatori, perché cambino vita". Tutto giusto, ma è come se Luca sentisse che non basta, perché il suo Levi dopotutto è una comparsa, non torna più: come può essere sicuro il lettore che la vita l'abbia cambiata davvero? Così, per questa esigenza più didattica che biografica che Luca ha di essere chiaro, di non alimentare dubbi nel suo lettore, ecco che decide di far incontrare al suo Gesù un altro esattore, che la vita l'ha già cambiata: il piccolo Zaccheo, che è un pubblicano, certo, ma il meno esoso di tutti: come spiega al Salvatore a pranzo, "io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto".

Possiamo immaginare le obiezioni che avrebbe mosso Matteo, che il denaro lo conosceva in modo meno astratto di Luca: un pubblicano che desse metà del suo gettito ai poveri, quanto ci metterebbe a fallire? E chissà come erano delicati gli occupanti Romani con i rei di insolvenza. Oppure dovrebbe alzare le tasse a tutti, altra cosa rischiosa e in fin dei conti insostenibile. Cosa significa poi "se ho frodato, restituisco quattro volte tanto": truffi i tuoi debitori e poi ti penti subito? Gesù invece approva tutto: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d'Abramo", e subito dopo racconta la parabola delle mine. Insomma l'episodio di Zaccheo è uno dei tanti in cui Luca sembra non volersi accontentare di quello che gli hanno raccontato su Gesù: sembra volerlo interpretare, spiegare, conciliare con una sua idea di Cristo che poi ha avuto una straordinaria fortuna e tutto sommato è anche la mia idea: e però corrisponde molto di più alle idee di Luca che a quello che su di lui raccontano gli altri tre evangelisti. Questa cosa che Gesù frequentasse la feccia della società, come gli esattori, lo infastidiva: l'unico modo per farla rientrare nel suo quadro di Gesù era immaginare un pubblicano diverso da tutti gli altri, un campione di onestà e generosità.

Zaccheo è l'esattore generoso: molto più raro di una prostituta virtuosa, per cui ammetto di fare un po' più fatica a credere che Gesù l'abbia incontrato davvero. Poi, siccome si arrampica sul sicomoro che è un parente subtropicale del fico, potrebbe essere stato ripreso da Giovanni per creare la figura di Natanaele. Ma di quanto siano importanti (e ambigui) i fichi nei vangeli riparleremo presto.

martedì 17 agosto 2021

Colonizzare costa


Le immagini e le notizie dall'Afghanistan sono agghiaccianti: questo va detto prima di ogni altra cosa. C'è qualcosa di peggio di un regime integralista e oscurantista? Forse c'è, ed è l'aver alimentato per qualche anno la speranza che un regime del genere non avrebbe prevalso; aver creato una bolla di modernità che non avrebbe mai potuto difendersi da sola e adesso scoppia, e questo ci fa più male. Ci sono al mondo persone che nascono nella sofferenza e nella prevaricazione, ma a Kabul per vent'anni qualcuno era nato e cresciuto nella speranza, e in questo momento l'ha persa: questo ci riesce molto più insopportabile. Come se non ne fosse valsa la pena. 

Sull'Afghanistan abbiamo litigato in tanti e può sembrare meschino, davanti a una situazione del genere, rispolverare vecchie polemiche. Per me si tratta solo di ripassare quel che penso di aver capito (molto poco) (ma nessuno ha mai capito l'Afghanistan, da Alessandro Magno in poi). 

Contrariamente a quello che i più giovani potrebbero aver sentito dire, gli americani non invasero l'Afghanistan per "esportare la democrazia"; nel 2001 il concetto di una democrazia esportata a suon di missili in un territorio conteso da faide tribali suonava ancora molto balzano. La guerra cominciò come una rappresaglia dopo l'11 settembre e fu presentata come la prima tappa di un'inevitabile (e potenzialmente interminabile) "Guerra al Terrore": si trattava di snidare Bin Laden e punire chi lo proteggeva, e poi sì, certo, togliere i burqa, ma con calma. Chi ne parla in questi giorni commette un perdonabile errore di sovrapposizione: di esportazione della democrazia e "nation building" si cominciò a parlare qualche mese dopo, durante quell'estenuante campagna mediatica che precedette l'invasione dell'Iraq e che nelle intenzioni dei promotori e dei finanziatori doveva convincerci tutti che deporre Saddam Hussein era un'ottima cosa. 

In questa fase fece molto parlare di sé un think-tank americano, i cosiddetti neocon, che diventarono molto interessanti (più che popolari) anche per la loro bizzarria: nascevano evidentemente conservatori, non avevano ancora messo via le spillette dei Bush e persino di Reagan, e però, per via di una specie di convergenza evolutiva, avevano sviluppato una specie di variante del trotskismo: la rivoluzione democratica permanente. Una posizione abbastanza infida per noi pacifisti senza-se-senza-ma che osteggiavamo la guerra in quanto guerra: di colpo diventavamo i difensori dello status quo, di tutte le dittature che non avevamo il coraggio di abbattere. George W. Bush il coraggio ce l'aveva e molto presto il Medio Oriente si sarebbe riempito di democrazie. Nel frattempo l'Afghanistan era stato occupato e, anche visto che Bin Laden non vi si trovava, i neocon si dedicarono a dimostrare come l'esportazione della democrazia stesse dando i suoi frutti: a Kabul erano ricomparsi i giornali, qualche donna si era tolta il burqa, eccetera. Come potevamo noi pacifisti duri e puri opporci agli indubbi passi avanti? Personalmente non mi sono mai opposto a niente. Ero scettico, non capivo come avrebbe potuto funzionare. In effetti non ha funzionato, ma questo non significa che avessi ragione; semplicemente non capivo: e si è poi visto che non capivano neanche i neocon, e che in generale nessuno ci ha mai capito molto. 

Per loro la democrazia era un valore in sé, a-storico, che si poteva tranquillamente esportare e che si misurava con parametri abbastanza chiari: numero di testate nelle edicole, quantità di volti femminili non coperti nelle strade della capitale. Per me è il risultato di determinate fasi storiche e addirittura circostanze geografiche: tanto per cominciare occorre che in una nazione prenda coscienza di sé un ceto borghese (in Afghanistan non è successo e non si capisce nemmeno come potrebbe succedere in tempi brevi); poi questo ceto deve ribellarsi alle gerarchie precedenti, clero compreso (ma se in Afghanistan il clero era rappresentato dai talibani, era questa la classe emergente sul tribalismo precedente: certo, era emersa grazie ai finanziamenti dei Sauditi). Sarebbe inoltre stata necessaria una scolarizzazione di massa, una rivoluzione industriale, eccetera. Insomma non è che ritenessi in assoluto impossibile l'esportazione della democrazia: ma credevo che servissero risorse immense, laddove gli stessi americani non ritenevano necessario mantenere che un piccolo contingente.

Un'idea (maliziosa) che mi sono fatto, è che i neocon non capissero la democrazia perché la confondevano con la loro condizione: erano un piccolo think tank generosamente finanziato, e quindi erano portati a considerare la democrazia come l'espansione del concetto: a Kabul non c'è? Sarà sufficiente aprire a Kabul un analogo piccolo think tank, coi quotidiani e il bar con le ragazze senza velo. E in effetti almeno a Kabul la cosa era fattibile. Si poteva anzi finanziare un'intera classe di funzionari, e scambiare l'indotto per la ripresa economica afgana. Probabilmente i sovietici negli anni '70 fecero qualcosa di abbastanza simile (a proposito di convergenze evolutive), e infatti in questi giorni sono rispuntate le foto delle ragazze di Kabul vestite alla moda degli anni Settanta. E però l'Afghanistan non è solo Kabul, anzi alla fine una delle poche costanti della storia afgana è che alla lunga la provincia trionfa sempre sulla capitale. Inoltre: come si chiama quel fenomeno per cui un potere X si conquista il favore della classe Y destinandole soldi a pioggia? 

Si chiama corruzione. 

Gli americani hanno provato a comprarsi un po' di Afghanistan, per un po' di tempo. Non ha funzionato e appena hanno trattato la resa (già durante l'amministrazione Trump), nessuno ha più voluto difendere qualcosa che senza i loro soldi non avrebbe comunque più funzionato. E del resto bisogna riconoscere a Trump, prima ancora che a Biden, che la situazione era insostenibile: gli USA stavano occupando l'Afghanistan da vent'anni. Come si chiama quel fenomeno per cui occupi un altro Paese per decenni interi, cercando di cambiarne un po' la cultura, quel tanto che ti basta per non aver continuamente la sensazione che i maggiordomi ti stiano fregando?

Si chiama colonialismo.

E c'è un motivo per cui a un certo punto è andato in crisi. I grandi imperi colonialisti sono caduti come frutti marci, dopo la seconda guerra mondiale, quando le nazioni che l'avevano combattuta (e vinta, ma a che prezzo) si sono trovate di fronte a banali questioni di budget. Gli inglesi non potevano più permettersi l'India, i francesi non potevano più permettersi mezza Africa. Scolarizzare popoli interi - che invariabilmente si sarebbero ribellati? Militarizzare immense regioni lontanissime dalla madrepatria? Non era più economicamente sostenibile. Anche quando non volevano mollare l'osso - i francesi e i portoghesi soprattutto - a un certo punto hanno dovuto arrendersi. Il colonialismo oggi richiederebbe risorse immense e sono incompatibili con la democrazia interna, ed è successo almeno un paio di volte che invece di esportare cultura e democrazia abbiano importato rivoluzioni o colpi di Stato. Gli americani, che in Vietnam subentrarono ai francesi, questa cosa in teoria dovrebbero saperla. Ma il complesso militare-industriale ha forse qualche interesse a dimenticarla, ciclicamente. Faccio notare che, perlomeno dal loro punto di vista, la missione afgana non è stata così inutile: c'è gente che ci ha fatto carriera, e di armi se ne sono vendute e comprate parecchie.

Ricapitolando: gli americani(*) andarono in Afghanistan perché dopo l'11/9 dovevano fare qualcosa. Ci restarono perché la situazione laggiù tende sempre a ingarbugliarsi, e lasciarono intendere che avrebbero tentato di esportarvi la democrazia. Quel che ragionevolmente potevano fare era alimentare la corruzione di un protettorato, ma anche questo a un certo punto era economicamente insostenibile, e così se ne sono andati. Chi in questi anni è cresciuto laggiù sperando che ci fossero margini per fare qualcosa di più, ora è prigioniero di uno dei regimi più oscurantisti del mondo. Chi invece è rimasto quassù deve ammettere di non avere capito abbastanza l'Afghanistan. Il fatto che nessuno abbia mai veramente capito l'Afghanistan (neanche gli afgani, forse) non è di nessuna consolazione.

(*) Beh sì, per un po' ci siamo stati anche noi, ma credo che l'istinto gregario sia sufficiente a spiegare il fenomeno.

lunedì 16 agosto 2021

A Gino Strada e chi lo infanga

I

L'altro giorno come sapete ci ha lasciato Gino Strada, fondatore di Emergency, punto di riferimento di quel movimento che dopo Genova rifiutava orgogliosamente qualsiasi leader, ma Strada lo avrebbe accettato di buon grado: lui però preferiva salvare il mondo un ferito alla volta e probabilmente aveva ragione (qualche anno più tardi qualche grillino lo voleva ancora al Quirinale, una traccia di quella continuità sotterranea tra noglobal e 5Stelle che imbarazza entrambi). Ma insomma è morto Strada, e molti che volevano ricordarlo su Facebook si sono trovati in calce al proprio ricordo un messaggio fotocopiato, stavo per dire ciclostilato, che accusava Strada di essere stato uno storico sprangatore di fascisti negli anni del movimento studentesco a Milano. Un comunicato del genere, costruito abbastanza ad arte (addirittura gli veniva attribuito un modello preciso di chiave inglese, la Hazet36 con cui era stato ucciso Sergio Ramelli), non poteva che provenire da qualche centrale neofascista e sarebbe anche interessante risalire a quale, ma stasera ho pochi giga e volevo soltanto confessare una cosa: io ci sono cascato. 

Cioè questa storia di Strada sprangatore, anzi capo degli sprangatori, non mi suonava nuova, l'avevo già sentita e la davo in qualche modo per scontata. Invece ho scoperto proprio in questa occasione che si trattava di diffamazione bella e buona, e che per aver sostenuto qualcosa del genere Gigi Moncalvo, da direttore della Padania, fu condannato da un tribunale a contribuire a Emergency per la cifra non trascurabile di euro 150.000. Così ho avuto conferma una volta di più che devo dubitare sempre di tutto, e soprattutto delle cose che ormai do per scontate e che invece mi sono entrate in testa solo per sentito dire. Inoltre dovrei essere sollevato, no? A un eroe della mia tarda giovinezza è stata tolta l'unica macchia di fango che qualche essere abietto era riuscito a schizzare. 

Invece sono un po' deluso.

Cioè a questo giovane Strada picchia-fasci, nella mia testa, mi ero un poco affezionato. 

E non perché approvassi troppo l'abitudine, in effetti un po' estrema, di trattare i fasci con quella violenza che è pur parte della loro mistica, insomma capisco che rompere teste con chiavi inglesi non è una bella cosa, nemmeno contestualizzando quel post Sessantotto milanese un po' tribale eccetera. Ma insomma se togli questo dettaglio così controverso alla biografia di Strada, cosa ti resta? Potrebbe essere l'unica cosa discutibile commessa dal tizio: gliela dobbiamo proprio togliere? A parte questo ha fatto soltanto del bene, come un santo; ma anche gli autori delle vite sui santi si perdono sui dettagli piccanti della giovinezza, perché alla fine che santità sarebbe se uno nasce già perfetto? Mi piaceva immaginare dietro quel cipiglio un senso di colpa di un tizio che dopo aver spaccato la testa a qualcuno decideva di passare il resto della vita a riparare qualsiasi testa, senza più far caso alle idee che c'erano dentro, né al colore né alla bandiera. Ammettete che aveva un senso almeno narrativo. Problema mio, che ho bisogno di trovare difetti alle persone per ammirarle. Strada forse non ne aveva. 


II

Morire a Ferragosto è problematico, per gli italiani almeno. Quelli che hanno fatto qualcosa di buono, qualcosa che meriterebbe di essere ricordato, ma da chi? Una volta per questa cosa c'erano i giornali, ma a Ferragosto chi li scrive? Gli stessi di tutti gli altri giorni, ormai, ma sono ancora più svagati del solito, forse dettano dall'ombrellone e in redazione non c'è nessuno a correggere le sciocchezze più evidenti. Oppure in redazione c'è qualcuno che ha interesse ad aggiungere sciocchezze molto evidenti, non lo so, insomma giudicate dai risultati. Questo è l'incipit del coccodrillo di Maurizio Crippa sul Foglio. Qualcuno ha deciso che andasse in stampa così voglio dire, non è uno scherzo. Hanno deciso di cominciare un pezzo su Gino Strada così:


Cioè pensate che colpo di fortuna, che dono esclusivo, andarsene all'improvviso (in realtà Strada era malato da tempo) proprio quando la Stampa ti pubblica un pezzo. Che boh, forse è una cosa dei giornalisti, come morire sul palco per i musicisti o per gli attori. Qui però semplicemente l'editor era ubriaco, o disattento, o genuinamente convinto che qualche lettore possa comprendere un fetish dei giornalisti professionisti. Molto peggio è successo il 14 agosto sulla Repubblica, che ha affidato la pratica Strada a Pietro Colaprico, e questo è il risultato (o almeno l'incipit del risultato):


Faccio fatica a commentare. Colaprico non sa una cosa, ma decide ugualmente di scriverla perché il dato "va comunque registrato": una mentalità da dossierista imprestato al giornalismo. Oppure Colaprico (o il suo editor) forse una cosa la sa, e apparentemente la "registra": ma non ce la dice tutta, anzi non ci dice praticamente niente. C'era davvero il bisogno di dire e non dire che Strada faceva la spia, senza nemmeno riuscire a chiarire per chi? Non siamo su facebook, qui, in teoria ci sono professionisti al lavoro, già, ma appunto: professionisti di cosa? Più in là, nello stesso pezzo:

"Se sa resistere dove cadono le bombe, volano i proiettili e bisogna stare attenti a calunnie, dossier, rapporti torbidi con spie ed assassini, per i suoi nemici dipende dai rapporti che mantiene con le popolazioni, uno scambio in cui la cosa essenziale per Strada è curare senza chiedere i documenti e per gli altri, per lasciare l'ospedale in zona neutrale, chissà quale sia la cosa essenziale".

Ecco, qui sembra davvero dettato dall'ombrellone: ma la volontà di adombrare la reputazione di Strada, quella no, quella è rimasta in un ufficio con l'aria condizionata e sembra abbastanza determinata a ottenere un risultato. Tutto questo, si noti bene, di fianco a un pezzo di Daniele Mastrogiacomo che racconta con una certa vividezza quanto si espose concretamente, Strada, quando si trattò di liberarlo (riscattarlo?) dai miliziani che lo avevano rapito. Un racconto da cui emerge abbastanza chiaramente quanto Strada per tenere aperto un ospedale neutrale in zona di guerra fosse costretto a barcamenarsi con qualsiasi criminale, e con "qualsiasi criminale" non escludo ovviamente gli agenti dei servizi occidentali. Ma che senso ha partire da questa ambiguità prevedibile e necessaria e trasformarla in una "doppia anima"? Che senso, a parte quello di cercare una pecca in Strada, a ogni costo? Forse anche alla Repubblica sentono che un santo ha bisogno anche di qualche difetto. Forse. Altre ipotesi stanotte le tengo per me, l'ho detto che ho pochi giga. 

domenica 15 agosto 2021

I falsi e i veri lemming

Non so quanto c'entri con quanto detto fin qui, ma invecchiando mi scopro sempre più determinista genetico. Si tratta a dire il vero di una tendenza con cui combatto sin da quando sono cosciente (credo di averlo scritto all'inizio di questo sito web): io tra gene e ambiente sono uno che ha deciso di tifare ambiente non perché sia convinto che il gene sia meno importante, anzi il contrario; è solo che sul gene mi rifiuto di intervenire, il Novecento mi sembra un monito significativo in tal senso, e quindi se voglio modificare la società non mi resta che intervenire sull'ambiente - ma con gli anni si ingrossa il dubbio che più che una scelta sia un ripiego. Anche la paternità avrà avuto il suo peso: a un certo punto non ci puoi fare niente, vedi i tuoi geni che se ne vanno in giro e per quanto cerchi di evitar loro tutta una serie di guai che a questo punto indovini benissimo, ti rendi conto che non ci puoi far niente, è come aver caricato un giocattolo a molla, ma sto divagando.


Invecchiando divento sempre più darwiniano, come gli "scienziati" dei giornali di quando ero bambino che ogni settimana scoprivano il gene di qualcosa di diverso (il che mi innervosiva immensamente): il gene della fantasia, il gene dell'originalità, a un certo punto scoprirono pure il gene dell'omosessualità, il che mi perplesse molto perché non capivo come potesse diventare dominante (in seguito forse ho capito). Adesso che queste cose mi sembra vadano molto meno di moda, sono io che invece continuo a osservare i miei simili e fantasticare continuamente di vantaggi evolutivi. Vedo un falò: come quando ero bambino, il fuoco mi ipnotizza, potrei passare ore a guardarlo. Penso a quanto fu fantastico a un certo punto trovarsi un camino in casa, imparare ad accenderlo, rischiare la vita centinaia di volte, puzzare di fumo, scottarsi la lingua con le caldarroste, ora so che nel frattempo inquinavamo l'ambiente più che con il turbodiesel, ma poi crescendo vedevo i miei compagni di scoutismo che non avevano un camino in casa restare ipnotizzati davanti allo stesso sortilegio nel quale io ormai mi destreggiavo, mentre loro rischiavano di bruciarsi le ali come insetti intorno a una lampadina. Ma non faccio in tempo a formulare il ricordo che sto già pensando al vantaggio evolutivo che premiò i miei antenati che invece di scappare davanti a un tronco colpito da un fulmine ebbero la pazza idea di restare nei pressi e cercare di capire come funzionava, folli! chissà quanti ne morirono, e malissimo! ma poi venne qualche glaciazione e alla fine chi sopravvisse furono proprio i folli piromani, che poi siamo noi, chi più chi meno. E così via. Una volta penso al fuoco, un altra volta al rumore, in generale a qualsiasi cosa apparentemente fastidiosa e pericolosa ma in sostanza vitale, che risvegli in noi sia la paura, sia il desiderio di sopraffarla. 

A volte penso ai lemming: e anch'io non penso a quelli veri, ma a quelli che a un certo punto l'uomo si è inventato, quelli che decidono di sterminarsi. Chiunque abbia formulato la leggenda, è chiaro che aveva in mente più i suoi simili che qualche roditore dei ghiacci. Stava cercando un modo per descrivere le psicosi collettive, crociate dei fanciulli, le guerre inutili (cioè tutte, viste dalla debita distanza), tutte quelle situazioni in cui una massa di persone sembra volersi annientare e c'è sempre un metodo, nella loro follia: c'è sempre la convinzione di rendere al resto dell'umanità qualcosa di utile. Tra le tante leggende che serpeggiano nel sottobosco dei noVax, una delle più rivelatrici mi sembra quella che vede nel vaccino un espediente creato da Bill Gates, il quale, dopo aver calcolato che l'umanità deve ridursi del 10%, ha prima introdotto il virus per spaventarci, e poi il finto vaccino che opererà questa demoniaca riduzione. (Prevedo l'obiezione: ma Bill non poteva semplicemente ammazzarci con un virus, invece di tutta questa manfrina? Probabilmente all'inizio la leggenda non prevedeva il vaccino, e poi si è adattata alla situazione). 

La leggenda suona simile a quelle fiorite in ambito sciachimista (le scie chimiche sarebbero parte di un piano per ridurre la fertilità). Sono tutti spettri malthusiani e c'è da domandarsi se non siano persino ottimisti: magari bastasse ridurre la popolazione del 10%, magari bastasse spargere un po' di bromuro per risolvere la sovrappopolazione e il surriscaldamento. Ma quel che mi ipnotizza di queste fantasie, come il fuoco quand'ero bambino, è l'inferno interiore che rivelano: non è Bill Gates che vuole ridurre la popolazione, sono loro che inconsapevolmente ci stanno provando. Sono gli apostoli del Covid, che molti ancora non hanno preso ma non vedono l'ora e faranno tutto quello che possono per passarlo ai loro cari, ai colleghi, agli studenti. Quando ci fu il lockdown non sopportavano il lockdown, il che è comprensibile perché durò mesi: ma loro erano già a spasso a starnutire fuori dalla mascherina dopo due settimane. Quando arrivarono i vaccini, decisero immediatamente che erano sieri sperimentali non sperimentati abbastanza, e ora eccoli in piazza a intervalli regolari, inconsapevolmente decisi a creare almeno un focolaio in ogni città. Se davvero Bill Gates fosse il Thanos della leggenda, è loro che finanzierebbe e ispirerebbe: e qualcuno del resto li ispira davvero, lo si intravede nel modo in cui a raggiera condividono i loro slogan. Ma potrebbe anche non esserci nessun grande vecchio dietro, potrebbe essere l'istinto a guidarli verso i crepacci; la follia che apparentemente li contagia potrebbe essere un vantaggio evolutivo. 

Forse sopravviviamo come specie perché ogni tanto una parte di noi oscuramente avverte di aver saturato il proprio ambiente naturale e si autodistrugge. Forse il diluvio l'abbiamo causato noi, disboscando qualche altura di troppo; di certo la crisi del Trecento l'abbiamo causata noi (anche in quel caso sovrappopolazione e disboscamento, ancora prima che arrivasse la peste). Quando si può fare una guerra, la facciamo; ma in molti posti non si può fare più, causerebbe la mutua distruzione, e allora ritorniamo ad altri sistemi già testati e attestati, come la pestilenza. Ma se è quello che sta succedendo, che senso ha provare a ragionare coi noVax? Non solo il loro comportamento è istintivo, ma cosa ci sarebbe poi di sbagliato nel loro istinto? La scienza e la politica stanno cercando di salvare più umanità possibile, nel solito goffo modo, con le goffe equazioni utilitariste per cui la vita di due uomini dovrebbe essere meglio della vita di uno solo eccetera. I lemming inconsapevolmente intuiscono che l'umanità si salva in un altro modo: potando molti rami per salvare il fusto. La politica non saprebbe che rami potare, i regimi totalitaristi forse possono abbozzare un piano ma le democrazie non sono in grado di sostenere calcoli di questo genere, sono intelligenze fragili che vanno in crash al primo dilemma del trolley. I lemming non fanno calcoli, non cercano di salvare sé stessi o i loro congiunti (ovvero, proprio mentre credono di salvare sé stessi, si proiettano più direttamente nei crepacci). Il loro unico piano è scritto nei loro geni, come una bomba a tempo. Sì, qualcuno di loro è convinto di essere intelligente, alcuni sono intelligenti addirittura di mestiere e sono convinti di avere un sacco di argomenti per mandare i simili al massacro. Hanno studiato il Novecento e quindi si aspettano che si ripeta prima o poi, non necessariamente in farsa. Ma non sono i capibranco, raramente li vedi in testa a una colonna di roditori, insomma è inutile prendersela con loro. Sono meno intelligenti di quel che credono? In un certo senso sì. Non capiscono quello che stanno facendo? Non del tutto. Hanno torto a fare quello che stanno facendo? Non lo so, vedremo.

giovedì 12 agosto 2021

Il futuro è sempre alle spalle

Noi esseri umani non siamo progettati per capire il futuro che ci attende. Può anzi darsi che sia la cosa che ci riesce meno bene. Procediamo nel tempo come se camminassimo all'indietro (per rispolverare una vecchia allegoria): ogni passo è un rischio, ogni novità un ostacolo; quel poco che avevamo capito si allontana da noi man mano che andiamo avanti e però è anche l'unica cosa che ci fornisca indizi su quello che intanto ci si prepara alle spalle. Nessuna meraviglia che borbottiamo tutto il tempo, specie invecchiando, ma siamo onesti: c'è chi comincia prestissimo, c'è chi a sedici anni ha già nostalgia di situazioni precedenti che non ha vissuto e passerà il resto della carriera o dell'esistenza ad aspettare che tornino, o a maledire chi o cosa ne impedisce il ritorno. 

La Storia ci insegna soprattutto questo, un bel paradosso: che gli storici non sono oggettivi. Ora che ci penso fu proprio durante un corso monografico sui cronisti medievali (in un'aula inspiegabilmente affollata di matricole, a mezzogiorno) che mi appuntai la formula: laudatores temporis acti. Non c'era cronista che non cascasse nello stereotipo, spiegava il professore con quel ritmo placido che assecondava la mia propensione alla sonnolenza: anche se quel che hanno da raccontarci in concreto si riduce a un mezzo secolo di avvenimenti in una città, devono tutti partire da Adamo ed Eva, devono tutti adombrare un'età dell'oro universale rispetto a cui il presente, il loro presente che è il nostro medioevo, rappresenta invariabilmente un periodo di scandalosa decadenza dei costumi. Sarà poi vero? Onestamente non sono mai andato a controllare, magari nel frattempo i colleghi del professore hanno scoperto che tanti cronisti medievali non sono affatto laudatores temporis acti; in compenso mi sono messo a studiare altre cose e posso garantire che laudatores ce n'è dovunque, che siamo tutti laudatores. 

(Mi bastava davvero salire al primo piano del dipartimento di Italianistica, per trovarmi davanti un volantino in cui Pasolini salutava la fine di un'età autentica, adesso non mi ricordo più come la chiamasse, e l'inizio di un'altra età inautentica che neanche a farlo apposta coincideva con il mezzo del cammin della vita di Pasolini; e il volantino restava lì perché ce l'aveva messo il potente sindacato studentesco di Comunione e Liberazione, mica qualche libero pensatore antagonista e dissidente). 

Siamo tutti laudatores, non possiamo farne a meno: tutto quello che conosciamo intorno a noi è già passato, tutto quello che è nuovo fatichiamo a farlo rientrare nel quadro, e questa fatica dopo un po' diventa intollerabile e decidiamo che non è colpa nostra, ma del tempo che non si ferma e neanche ha la compiacenza di girare in tondo. Sono anch'io un laudator, cosa credete. Mando la prole al campeggio e non posso fare a meno di notare che quando ci andavo io, al campeggio, era una cosa più seria, quasi epica, i sacchi a pelo erano pesantissimi e arrotolarli una cosa faticosissima eccetera e in questo modo sono diventato un vero uomo. Si può diventare veri uomini in altri modi? Magari sì, ma l'unico di cui sono sicuro è quello in cui lo sono diventato io, prova ne è che sono qui. Torno a casa, mi annoio, apro quella commovente capsula temporale che è la Settimana Enigmistica, inspiegabile come non sia stata ancora dichiarata monumento nazionale e non si sia mobilitata un'autorità a impedirne qualsiasi ulteriore modifica. Cerco un enigma davvero difficile, qualcosa che mi dia angoscia come da ragazzino, non lo trovo; ne deduco che si stanno rammollendo anche i lettori della Settimana, che anche la redazione più refrattaria alle novità abbia deciso di annacquare la formula perché la gente sta diventando scema. E così via. 

Se non cedo del tutto a questo borbottio interiore, è perché proprio studiando Storia ho trovato qualche antidoto: ho scoperto che tutti i miei simili di ogni epoca borbottano e constatano la fine delle religioni, dei costumi, Agamben aggiungerebbe delle ideologie. Il che non significa, attenzione, che ogni tanto le religioni o le ideologie o civiltà non tramontino davvero: succede quasi continuamente, così non è difficile scoprire laudatores che ci hanno azzeccato, ma è quasi sempre una pura coincidenza: voglio dire che è abbastanza raro che il laudator riesca a mettere a fuoco consapevolmente i motivi di una crisi a cui assiste di persona. Di solito dà più l'impressione di capitare lì per caso: si aspettava la fine dei tempi e il Regno dei Cieli, invece crolla l'impero Romano, ci riflette un po' e decide che è quasi la stessa cosa. Gli storici questa cosa ormai l'hanno capita e si regolano di conseguenza: così come la luce delle stelle e dell'universo ci giunge un po' spostata sul rosso, le testimonianze del passato ci arrivano tutte un po' spostate sull'apocalittico, è una specie di costante storiografica cui bisogna fare la tara. Essa permane in tutto quello che diciamo pensiamo e scriviamo, il che non ci impedisce di dire pensare o scrivere cose intelligenti: ma se i posteri le troveranno intelligenti, sarà malgrado questa nostra propensione a vedere in tutto l'Apocalisse. Poi l'Apocalisse può benissimo arrivare, ma mai da dove uno se l'aspetta. Secondo Agamben e tanti suoi nuovi lettori, il Green Pass è l'anticamera di una nuova formula di regime totalitario. Esagera? Probabilmente, ma se la crisi climatica dopodomani conoscesse una brusca accelerazione, i governi nazionali potrebbero dover imporre con la forza ai cittadini razionamenti draconiani, e quel che scrive oggi Agamben non sembrerebbe più esagerato, anzi: qualcuno dirà che aveva visto lungo. A poco varrà far notare che era stato di spalle, il filosofo, per tutto il tempo (continua).

mercoledì 11 agosto 2021

Filosofi e altri roditori, 1


Non che sia molto importante, non che possa cambiare più di tanto il senso del discorso, però nel suo ultimo comunicato Giorgio Agamben ha commesso un curioso lapsus: ci ha paragonato ai lemming (lui veramente scrive lemmings). Siccome siamo in tanti a leggere ormai (non siamo mai stati così tanti, e provenienti da milieu culturali tanto diversi) è stato tanto generoso da includere la definizione. "I lemmings (scrive) sono dei piccoli roditori, lunghi circa 15 centimetri, che vivono nelle tundre dell’Europa e dell’Asia settentrionali. Questa specie ha la particolarità di intraprendere improvvisamente senza alcun motivo apparente delle migrazioni collettive che terminano con un suicidio in massa nelle acque del mare". Agamben aggiunge che "l’enigma che questo comportamento ha posto agli zoologi è così singolare che essi, dopo aver tentato di fornire spiegazioni che si sono rivelate insufficienti, hanno preferito rimuoverlo".

Lemming, votati all'autosterminio, forse guidati da una pulsione di morte; zoologi che si pongono un enigma e poi lo rimuovono. Materiale potente per chi ha bisogno di metafore. C'è il piccolo problema, ecco, veramente piccolo, mi vergogno quasi di farlo notare, che è quasi tutto falso: i lemming non intraprendono "improvvisamente senza alcun motivo apparente delle migrazioni collettive che terminano con un suicidio di massa". Si tratta di una leggenda urbana così vecchia e così confutata che quando l'ho letta mi sono sentito in pena. E poi mi sono chiesto: ma come fa Agamben, persona di straordinaria cultura, a credere a una cosa del genere? 

Domanda mal posta; al massimo avrei dovuto chiedermi: come faccio io, persona dalla cultura molto meno straordinaria, a sapere che è una leggenda urbana? Di sicuro non sono in grado di confutarla di persona, di certo non sono andato nelle tundre a controllare: quindi da cosa deriva tutta questa mia sicumera? Bella domanda, in effetti non ne ho idea, non ricordo. So solo che da trent'anni ogni volta che sento parlare di lemming che si suicidano (non spesso), subito sento soggiungere che non è proprio così, che è una vecchia credenza che nasce da un comportamento dei lemming solo apparentemente irrazionale: essendo mammiferi infestanti, in un habitat poco generoso di risorse, ogni tanto si risolvono a migrare all'improvviso, attraversando luoghi che non conoscono, gettandosi in crepacci che non vedono e cercando di attraversare corsi d'acqua di cui fraintendono la larghezza. Non lo fanno per ammazzarsi, ma per sopravvivere: arte in cui magari non eccellono (ma chi siamo noi per giudicare?) Se per un pezzo abbiamo creduto il contrario è soprattutto grazie a un documentario tv della Disney - uno di quelli pioneristici che per ottenere scene apparentemente realistiche si prendeva molte licenze. La puntata dei lemming in questo senso fu proverbiale: gli esemplari di lemming furono letteralmente spinti nei crepacci per fornire ai telespettatori e a noi ancora più di mezzo secolo dopo una metafora tanto seducente quanto artefatta. Potenza dello Zeitgeist, quando in piena Guerra Fredda l'idea che una specie animale corresse volontariamente all'autosterminio doveva risultare irresistibile alle fantasie di chi viveva in attesa di un terzo e definitivo conflitto mondiale. 

E tuttavia i lemming veri non corrono al suicidio, c'è scritto persino in una delle più fondamentali pagine di Wikipedia (List of common misconceptions): e rieccoci alla contrapposizione già descritta con una brutale allegoria nel pezzo precedente: da una parte un miliardo di primati non molto intelligenti ma cocciuti che si costruisce un sapere collettivo che fa acqua da tutte le parti, ma un po' di conoscenza la trattiene (Wikipedia è forse il caso più esemplare); dall'altra il savio filosofo, discendente da tutta una schiatta di savi filosofi che ha una cultura settoriale imbattibile ma poi ci scivola su una delle most common misconceptions. 

A parte questo la cosa non avrebbe molta importanza: Agamben ha preso una cantonata su una curiosità zoologica, ma non è questo il lapsus di cui volevo parlare all'inizio. Non è nemmeno una gran cantonata, in fondo; senz'altro la mancata propensione suicidiaria dei lemming non inficia la riflessione di Agamben: i lemming non gli fornivano una prova e nemmeno un indizio, bensì... già, cosa? Nella retorica antica e medievale si chiamavano exempla, servivano a vivacizzare il discorso (non a puntellarlo su dati reali), e non infrequentemente si basavano sul mondo animale, perché chi ascolta la predica è sempre un bambino dentro: i paroloni dopo un po' lo addormentano, gli animali invece gli danno una sveglia e gli fanno correre la fantasia. Agamben usa i lemming come i predicatori medievali usavano gli unicorni, probabilmente già sospettando che i leggendari equini non fossero così fessi da farsi catturare nel momento in cui posavano il capo sul grembo di una vergine: sono favolette, exempla, non dati naturali, ma luoghi comuni letterari. Del resto lo scrive pure Agamben, che i lemming di cui sta parlando sono quelli descritti da uno scrittore e non uno qualsiasi: Primo Levi, che ai roditori dedicò un breve racconto del 1971, Verso Occidente. 

Il racconto di Levi è un esperimento mentale, tipico esempio di quell'hard science fiction che in Italia purtroppo ebbe pochi esponenti, e nessuno probabilmente del suo livello: immaginiamo che esista una specie vivente che vuole morire. Da cosa potrebbe dipendere una simile pulsione? Chimico di formazione, Levi ipotizza che al sangue dei roditori manchi un composto organico (un alcol), e immagina che la stessa carenza alcolica sia condivisa da un popolo amazzonico in via di estinzione. Questo popolo non solo prevede una forma molto codificata di suicidio tribale, ma si distingue per un'altra fondamentale caratteristica: non ha sviluppato credenze religiose. Da qui forse si capisce meglio cosa abbia solleticato la fantasia di Agamben: la specie suicida e soprattutto il popolo amazzonico sembrano evocare l'idea che tanto gli sta a cuore della "nuda vita":

Gli esseri umani non possono vivere se non si danno per la loro vita delle ragioni e delle giustificazioni, che in ogni tempo hanno preso la forma di religioni, di miti, di fedi politiche, di filosofie e di ideali di ogni specie. Queste giustificazioni sembrano oggi – almeno nella parte dell’umanità più ricca e tecnologizzata – cadute e gli uomini si trovano forse per la prima volta ridotti alla loro pura sopravvivenza biologica, che, a quanto pare, si rivelano incapaci di accettare. Solo questo può spiegare perché, invece di assumere il semplice, amabile fatto di vivere gli uni accanto agli altri, si sia sentito il bisogno di istaurare [sic] un implacabile terrore sanitario, in cui la vita senza più giustificazioni ideali è minacciata e punita a ogni istante da malattie e morte.

Qui c'è in nuce tutto il pensiero di Agamben sull'epidemia. Pensiero come si vede basato su un'ipotesi apocalittica: la "parte dell'umanità più ricca e tecnologizzata" avrebbe perso qualcosa che tutto il resto dell'umanità ha sempre avuto. Questo qualcosa non è l'alcol immaginato da Levi, ma è comunque alla base di tutto ciò che ispira "religioni, miti, fedi politiche, filosofie e ideali". Tutto questo non c'è più e quindi non abbiamo più voglia di vivere. 

Una cosa interessante di questo pensiero è come contraddica praticamente tutto quello che possiamo vedere intorno a noi, su internet ma anche solo alla finestra; religioni, miti, fedi politiche, ve n'è ovunque e benché sia vero che sembrano sempre declinare, di solito è per lasciare lo spazio a nuove religioni, miti, fedi politiche: insomma una grande vivacità che si può anche definire come "crisi", ma con cautela perché lo storico lo sa, che se una civiltà in media dura 500 anni, di solito si comincia a parlare di crisi già verso il cinquantesimo. Per Agamben invece tutto sta finendo: ci stiamo riducendo a una pura sopravvivenza biologica che però non accettiamo - e anche qui, basta dare un'occhiata fuori per restare perplessi: lo stesso modo in cui abbiamo affrontato la pandemia ci potrebbe mostrare quanto siamo tutti attaccati alla vita. Chi ha sperato sin dall'inizio in tutte le misure adottate, dal distanziamento ai vaccini, lo ha fatto perché voleva vivere: ma anche chi ha osteggiato sin dall'inizio lockdown, e vaccini, anche chi ha completamente negato l'emergenza, lo ha fatto in nome della sua esigenza di vivere una vita più piena possibile. Perlomeno è questa la sensazione complessiva che nel mio piccolo mi sembra di poter trarre da questi venti mesi in cui tutti intorno a me mi sono sembrati molto attaccati a qualsiasi vita gli capitasse di vivere: alcuni sacrificando la propria libertà e barricandosi in casa, altri viceversa mettendo a repentaglio la sicurezza altrui in nome del proprio benessere. Di fronte a un quadro del genere, se proprio volessi cercare un significato unitario, io vi leggerei un collettiva, commovente ostinazione a vivere malgrado tutto; il filosofo il contrario: non ne abbiamo più voglia, al punto che l'unico sistema è terrorizzarci con malattie che evidentemente sono più politiche che reali. 

Buffo, anche se avessimo davanti un'orda di lemming, vedremmo esattamente l'opposto: lui una colonna di roditori diretta verso lo sterminio, io una massa di animaletti che in una situazione che non conosce cerca di destreggiarsi come può, combina ovvi disastri che scarica sugli individui, ed errore dopo errore traccia la sua strada verso una salvezza non predestinata, ma nemmeno impossibile... (continua)

venerdì 6 agosto 2021

Il monastero e la palestra


Proveremo a immaginarci la filosofia continentale come un dipartimento kafkiano, un monastero dove si fa carriera dopo aver lungamente finto di apprendere una lingua misteriosa che (qualcuno sospetta) non ha nessun significato o ne ha troppi, ogni vocabolario fallisce nel tentativo di spiegare il significato cangiante che assume la stessa parola da Maestro a Maestro e quindi (qualcuno sospetta) forse la carriera la fai pigliandotene uno e servendolo e riverendolo finché non muore e dopo averlo pianto per giorni e giorni spetta a te staccarlo dalla cattedra. 

Secondo altre teorie all'inizio questo monastero era un dipartimento come un altro. Quando però, secoli fa, è subentrata questa moda di fare esperimenti e verificare ipotesi, gli altri monasteri ci si sono tutti buttati con un entusiasmo molto sospetto; e mentre scoprivano aberrazioni come il calcolo infinitesimale, si sono sempre più allontanati dall'unica via che il monastero continentale si è dedicato a difendere, anche se la maggior parte dei monaci non ti saprebbe dire in cosa consista – e se anche lo sapesse non te lo direbbe, il loro avanzamento di carriera dipende direttamente da questo gap tra le cose che loro dovrebbero sapere e tu no, anche l'eventuale capra non ha altra scelta che inventarsi un sapere qualsiasi e un non-linguaggio in cui non riesce ad esprimertelo. Questo per quanto riguarda la filosofia continentale. 

L'internet invece dobbiamo figurarcela come un'enorme palestra di scimmie, ma quando dico enorme dico proprio che ormai siamo in miliardi, e abbiamo una tastiera a disposizione per quasi tutte le ore del giorno, il che significa che le possibilità di scrivere qualcosa di sensato non sono poi così basse e in particolare non sono più da qualche anno così inferiori a quelle del monastero continentale. Le scimmie sono animali sociali, con tutti i loro limiti; dopo anni di intense interazioni on line non potevano che arrivare a codificare una serie di comportamenti abbastanza interessanti, per quanto discutibili. Le dispute si sono ritualizzate al punto che vi sono argomentazioni che vengono rifiutate in quanto "fallacie", una specie di fallo retorico (che come il fallo sportivo è sempre un po' arbitrario, a volte vale la pena di fischiarlo a volte no). Uno degli esempi più noti è la reductio ad Hitlerum: dopo che alle scimmie era stato insegnato che Hitler era il male assoluto, nel giro di pochi anni avevano iniziato a paragonare a Hitler qualsiasi atteggiamento intendessero stigmatizzare. Ma persino le scimmie si rendono conto, evidentemente, che un paragone inflazionato perde il suo valore, e prima di arrivare al punto in cui chi apriva una banana dal punto sbagliato era Hitler, hanno stabilito collettivamente che la reductio ad Hitlerum era un tabù. Il che magari è altrettanto assurdo, ma almeno evitava loro di doversi difendere da accuse di nazismo ogni volta che pelavano una banana. La decisione non fu presa ufficialmente da nessuna intelligenza superiore: fu il punto di arrivo di una serie di atteggiamenti collettivi, presi da numerosissime intelligenze inferiori.  

Va bene, ma in questi giorni cos'è successo? Niente di così nuovo: ogni tanto un monaco continentale sente la necessità di recarsi nella palestra del miliardo di scimmie a dispensare la sua necessaria Verità. Le scimmie lo sbertucciano, non che lui si aspetti qualcosa di diverso. Quel che forse non si aspettava è l'incredibile boato nel momento in cui il monaco sceglie di pronunciare la fatidica parola, "Hitler": le scimmie se l'aspettavano e reagiscono ormai come se fosse un tormentone comico. Non c'entra più il nazismo, ormai: la parola "Hitler" per loro è diventata l'etichetta che segnala la presenza di un argomentatore non all'altezza. Per assurdo anche se fosse una delle rare volte in cui la parola "Hitler" aveva un senso, ormai è troppo tardi: lo aveva in un'altra lingua che le scimmie hanno smesso di capire. Il monaco comunque sapeva che le scimmie avrebbero preferito riferimenti ad articoli scientifici, statistiche e cose così, e ha fatto anche il possibile per procurarseli, ma sono scritti in un'altra lingua ancora, un'altra lingua che il monaco non ha mai appreso e non capisce davvero; le scimmie per contro qualche statistica la sanno leggere, la loro abitudine a discutere di tutto 24 ore al giorno ha selezionato tra loro dei veri campioni in grado di procurarsi qualsiasi numero adatto a qualsiasi ragionamento in pochi minuti, per cui nel momento in cui smette di leggere la sua predica il monaco è già stato debunkato da quattro o cinque scimmie in competizione tra loro.

Tutto qui. Il monaco scuote i calzari e se ne torna orgoglioso al suo monastero, confortato nell'idea di essere l'ultimo depositario di una Verità inaccessibile alle scimmie. Le scimmie ne ridacchiano ancora per un po', poi si mettono a chiacchierar d'altro. La palestra non chiude e senz'altro non chiude il monastero, per il solito motivo per cui da millenni ne teniamo aperti: troppi figli da parcheggiare.

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