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domenica 28 maggio 2023

San Giusto sui monti profumati

28 maggio: San Giusto di Urgell, glossatore cattolico di poesie d'amore


Biblioteca universitaria di Bologna


Il 28 maggio il Martirologio romano ricorda succintamente un San Giusto che "a Urgell, nella Spagna settentrionale... scrisse una interpretazione in chiave allegorica del Cantico dei Cantici e partecipò a vari concili spagnoli". Tutto qui, ed evidentemente basta.

C'è chi per andare in cielo si è fatto ammazzare nei modi più dolorosi: Giusto all'apparenza non sembra aver compiuto un sacrificio così grande, né gesta che facciano gridare al miracolo, ma bisogna ammettere che trovare una lettura allegorica per un testo che recita "i tuoi seni sono come cerbiatti al pascolo" (4,5) non è così semplice; ovvero sì, ma voi ci riuscireste restando seri? Io non ci riuscirei, ma viviamo in tempi molto diversi.

Oggi abbiamo molto più rispetto per il senso letterale dei testi, per cui se un brano ci sembra un inno all'amore fisico, preferiamo leggerlo come tale. Troviamo deliziosamente piccante che nella Bibbia sia finito un fascicolo di poesie che si conclude con un invito a "correre sui monti profumati". Attenzione, non è che la Chiesa abbia mai negato che il Cantico (attribuito a Salomone ma più facilmente composto verso il VI secolo aC) fosse anche una composizione erotica. La Bibbia ha un che di enciclopedico, se la sessualità esiste è giusto che ne parli. Quello che si chiedeva a esegeti come Giusto era di provvedere a ulteriori chiavi di lettura, che a quel tempo erano state codificate: oltre al senso letterale vi era quello morale (che insegnamento di carattere morale si cela dietro questo testo?), quello allegorico (di quali avvenimenti più importanti questo testo è un'allegoria?) e quello anagogico che sinceramente mi è sempre sfuggito, a volte è un senso escatologico (cioè i "monti profumati" dovrebbero alludere in un qualche modo alla fine del mondo), ma siccome neanche i più bravi riescono a trovare l'apocalisse in qualsiasi versetto, talvolta è un livello superiore in cui il lettore entrerebbe in suprema comunione col testo e con Dio, quel tipo di riflessioni da cui dev'essere scaturita l'ermeneutica tedesca, io mi sono sempre tenuto a rispettosa distanza, no, neanche troppo rispettosa. Mi consola il fatto che anche Giusto si sia limitato all'allegoria, e in paradiso lui c'è andato, Heidegger non me lo immagino, è un limite mio. Almeno Giusto ha il buon gusto di tener fuori la vergine Maria da queste allegorie, una linea interpretativa che si insinua in Occidente verso il Duecento e sinceramente m'infastidisce, se avete deciso che è vergine perché deve mettersi a cantare "Ti farei bere vino aromatico,
del succo del mio melograno", dai, è la mamma di Gesù, di tutti noi, non vi dà fastidio? I mariologi certe volte mi fanno paura.

Oggi, dicevo, apparentemente ci facciamo meno menate: di fronte al testo ci chiediamo cosa significava per l'autore, per il suo pubblico (che nel tempo può essere cambiato), e cosa significa per noi: e finisce qui. Inoltre se troviamo del sesso siamo ben felici di sviscerarlo, per cui per noi quei cerbiatti sono seni, punto (gran parte del fascino del Cantico per i contemporanei sta nell'esotismo di chiara matrice mediorientale che traspare dalle metafore). Ci capita più spesso l'operazione opposta a quella che ha mandato in paradiso Giusto, ovvero cerchiamo il sesso anche nei libri dove a prima vista non c'è, io quando ero all'università avevo trovato il sesso in alcune poesie di Marinetti che erano sostanzialmente macchie d'inchiostro scombinate in tipografia, ero molto fiero di questa cosa. 

A distanza qualcuno sospetterà che siamo ossessionati dal sesso tanto quanto nell'Alto Medioevo erano ossessionati dall'allegoria ecclesiologica, ma non è questa la vera differenza. I lettori professionisti come san Giusto erano portati ad accumulare più chiavi di lettura sugli stessi brani non perché fossero meno svegli di noi (anzi) o considerassero il sesso un tabù; ciò che faceva la differenza era un'oggettiva scarsità di risorse – basti pensare che all'inizio del commento, Giusto si scusa coi committenti di averlo fatto scrivere in una calligrafia molto piccola perché a Urgell non aveva abbastanza pergamena, e chiede per favore se glielo possono copiare più in grande. 

Oggi noi se volessimo leggere considerazioni teologiche sul rapporto tra Dio e la Chiesa – nel caso abbastanza remoto in cui volessimo farlo – potremmo attingere da biblioteche di volumi di teologia. Nel VI secolo no, nel VI secolo bisognava arrangiarsi con la Bibbia, e se nella Bibbia c'era un rotolino di poesie erotiche, ebbene anche quelle poesie dovevano rendersi utili e suggerire contenuti morali e allegorici – insomma se sono nella Bibbia un motivo ci sarà, no? Gli ebrei che l'hanno inserita avranno avuto un buon motivo. Dal suo angusto studio di Urgell Giusto non poteva saperlo, ma gli ebrei da secoli si facevano la stessa domanda: cosa ci fanno quei cerbiatti al pascolo nella Bibbia? Dobbiamo far finta che non siano tette? La conclusione a cui erano giunti era più o meno la stessa: dev'essere un'allegoria dell'amore di Dio per Israele. Questo ci lascia oggi molto perplessi perché sia Dio sia Israele, nel Cantico, sembrano davvero ingrifati – testualmente "ubriachi d'amore", ma può darsi che siamo traviati da secoli di letteratura che ci ha convinti che la sessualità sia una cosa scandalosa. Alla fine i due innamorati sono sposi, la loro ebrietà è del tutto legittima, per cui se Israele dice a Dio corri mio amore sui monti profumati, ebbene, può darsi che la prima cosa che vi venga in mente siano due natiche, ma subito dopo il Golgota e il Sion. 

Non mi sembrate convinti. 

Immaginate di dover ripristinare la civiltà umana da un solo disco rigido, e che in quel disco rigido ci siano quaranta libri e tre film, tra cui un porno. La cosa più saggia sarebbe cancellare il porno, ma non lo farete – insomma, è l'ultimo porno dell'umanità, ciò che resta di milioni di sforzi di registi e performer, il valore storico è incommensurabile – no, cancellarlo non si può. Quindi la gente lo guarderà. E può anche darsi che la gente ogni tanto senta la necessità di guardare un porno, ma in una situazione emergenziale ha più bisogno di insegnamenti, quindi forse è meglio corredare il porno di qualche commento che ne spieghi il senso. Dunque intanto bisogna precisare che quelle persone sono sincere, che la loro relazione è legittima e ufficiale, inoltre si amano davvero, di un amore non solo fisico ma anche intellettuale e morale; e che anche se ogni tanto sembrano perdersi o non capirsi anche questo ha un senso; non solo, ma la felicità che traspare da alcuni dei loro atteggiamenti è una figura della gioia che ci attende se ci comportiamo bene con il prossimo, anzi, nel legittimo trasporto amoroso è possibile intravedere la passione con cui l'Ente Supremo ama la comunità dei suoi fedeli, oh, ehm, sarà difficile raccontare questa cosa senza arrossire. Ma chi ci riesce va in paradiso, promesso.

giovedì 25 maggio 2023

Un disco embrione

(Discografia di Franco Battiato, #3)

Episodio precedente: Il periodo Polydor

Fetus (registrato entro il novembre 1971, pubblicato da Bla Bla nel gennaio 1972).

Il disco-embrione

Fetus è il disco con cui Franco Battiato decide di nascere: tutto quello che aveva tentato prima è rimosso, relegato in una condizione pre-natale. Altri artisti in quegli anni mutano bruscamente traiettoria, cambiando immagine pubblica e nome d'arte: Battiato mantiene il suo, ma cancella tutto quello che ha significato in quel momento. È difficile pensare che non ne fosse consapevole, ma la simbologia fetale che domina il disco sin dal titolo richiama questa sua condizione: l'artista è appena nato, è un embrione. In quanto tale contiene già tutte le potenzialità che svilupperà da lì in poi – l'elettronica, Bach, le ballate, la tarantella, i campionamenti – ma in una forma, va da sé, embrionale. Tra i solchi c'è anche qualche possibilità che Battiato scarterà subito: un po' d'improvvisazione quasi jazz e qualcosa che richiama il Bowie di quegli anni (convergenza evolutiva)?

Quando compone Fetus, Battiato ha alle spalle più di un lustro di esperienza da compositore e performer. Altri approfitterebbero della prima possibilità di incidere un 33 giri per mettere assieme un repertorio di canzoni accumulato negli anni. Battiato, che un po' di canzoni da parte ne aveva, con Fetus fa quasi tabula rasa. Il passato cantautoriale/canzonettistico non sparisce del tutto, ma è fatto a brandelli e riciclato in montaggi di mini-brani giustapposti. Fetus da questo punto di vista è il disco in cui la forma canzone viene sottoposta alle maggiori torsioni, al punto che nel secondo lato è davvero arbitrario decidere quando finisce un brano e ne comincia un altro. Il "concept" è ispirato al Mondo nuovo di Huxley, ma sviluppato in modo vago ed enigmatico, non dissimilmente a quanto succedeva nei concept album del periodo.  

Può darsi che Fetus sia invecchiato peggio di altri dischi di FB. Quando uscì, sorprese gli ascoltatori più smaliziati (tra cui a quanto pare Frank Zappa, a cui sarebbe sfuggito quel famoso "Battiato is a genius": la fonte però è Pino Massara). Persino negli anni più creativi del prog, Fetus suonava come qualcosa di strano e originale. Lo è tuttora, anche se forse come ascoltatori siamo meno disponibili a lasciarci sconvolgere dalle arcane incursioni del sintetizzatore VCS3, qualcosa che non si era ancora ascoltato neanche nei dischi inglesi e americani.

 

1972: Fetus (#98)

Non ero ancora nato che già sentivo il cuore che la mia vita nasceva senza amore. È abbastanza clamoroso che un autore apprezzato per le sue esuberanze lessicali esordisca proprio con la rima cuore / amore, e con una sintassi così incespicante – sarebbe stato sufficiente cantare "già sentivo in cuore" perché la frase filasse liscia: sì, ma Battiato non resiste, con la fatica che deve aver fatto a incidere su vinile nel 1972 un realistico battito di un cuore in anticipo su The Dark Side of the Moon, lui vuole proprio dirci che lo sente, sente "il" cuore (musicalmente la primissima frase somiglia già parecchio all'introduzione di Stranizza d'amuri).

Battiato, dicevamo, nasce con Fetus, e cioè con un'incertezza fondamentale: perché non si è mai capito con quale brano Fetus dovesse cominciare. Nella copertina della prima edizione si legge che il primo brano è l'omonimo Fetus: il disco inizierebbe dunque con il cuore pulsante. Si tratta però di un errore, perché a mettere il disco sul piatto si scopre che il primo brano è Energia, come è anche scritto sulla label: un inizio ancora più suggestivo, con le voci dei bambini di una scuola materna di Milano e le prime ipnotiche sequenze di note sintetizzate. La discrepanza tra la scaletta della copertina e quella del disco ci fa pensare che Battiato abbia cambiato idea all'ultimo momento, magari consigliato da un collaboratore che trovava l'attacco di Energia più appropriato. O forse ha prevalso la coerenza narrativa: Fetus racconta la storia di un embrione a cui comincia a battere il cuore, ma Energia risale a un livello ancora precedente: è una canzone, come dire, sulle emissioni spermatiche. La scelta di cominciare con Energia viene ribadita nella versione inglese, Foetus, che però resta inedita. Invece, quando nel 1998 Fetus viene finalmente ristampato su CD, la scaletta è di nuovo cambiata. Ora il primo brano è Fetus, il che farebbe pensare che chi ha curato la ristampa si sia sbrigativamente basato sulla scaletta della copertina del LP. Ma non è esattamente così, perché Energia, che sulla copertina stava al secondo posto, ora sta addirittura al quarto (tra Cariocinesi Fenomenologia), in una posizione che nella scaletta originale avrebbe potuto occupare l'ultimo brano del primo lato. Che Battiato avesse cambiato idea? A conoscerlo, è difficile immaginare che volesse ritoccare un disco per lui così remoto (e dal quale non attingeva più materiale nemmeno per i concerti). Nel frattempo, appunto, i suoni del VCS30 non sembravano più così fantascientifici, ma ormai modernariato, il che appannava un po' l'attacco di Energia; mentre il battito del cuore di Fetus faceva ancora il suo effetto – e Dark Side of the Moon continuava a vendere come il pane, per cui non è nemmeno impossibile che qualcuno abbia pensato di riconfezionare Fetus per renderlo un po' più pinkfloydiano. 

Nella seconda parte il brano diventa un campionario dei suoni che Battiato è riuscito a estrarre dal VCS3, il pioneristico sintetizzatore su cui era riuscito a mettere le mani, primo in Italia (e terzo nel mondo, a detta di Pino Massara). Sono suoni ancora molto suggestivi, anche se nel finale FB sembra dominato dalla volontà di stupire con effetti speciali. Entusiasmo puerile, più che comprensibile in un embrione. Prima dell'esplosione finale di suoni, compare il fraseggio che risentiremo più tardi in Energia.


1972: Energia (#130)

Più tardi Franco Battiato riuscirà ad accreditarsi presso il pubblico italiano come l'anti-macho, colui che non può essere sospettato non già di concupire, ma di consentire che qualche sua occasionale concupiscenza si tramuti in azione prevaricatrice o anche solo vagamente maliziosa nei confronti di una persona concupita. Proprio per questo è curioso che la sua carriera 'seria' cominci con un'affermazione incredibilmente bomberistica: "Ho avuto molte donne in vita mia, e in ogni camera ho lasciato qualche mia energia". Nientemeno. Ma appunto, solo a Franco Battiato poteva essere consentito di cantare una cosa del genere senza suggerire nessuna velleità da sex machine. 


Per Fetus provo qualcosa di molto particolare: è un disco del 1972, quando ero un feto anch'io, insomma siamo coetanei. Certi suoni di questo disco li sento in un modo particolare – solo certi dischi prog anni '70 mi danno questa sensazione, l'illusione di averli sentiti in un passato remotissimo e in bianco e nero. Potrebbe essere perfino successo, perché no? Potrei essere rimasto davanti al vecchio televisore con quattro tasti e senza telecomando mentre in Rai passava un'intervista al giovane Battiato inframezzata da suoni presi da Fetus. In particolare potrei avere ascoltato i primi secondi di Energia, che fino all'edizione in CD del 1998 era il primo brano del disco ed è qualcosa che a distanza di tanti anni mi dà ancora i brividi, il fraseggio ipnotico del sintetizzatore VCS3 che copre le voci dei "Bambini della Scuola Materna Istituto San Vincenzo di Milano". Nella mia memoria c'è appena l'ombra di un ricordo, è come se quei bambini che parlano li avessi visti giocare e guardare in camera mentre l'immagine si satura di luce come una foto troppo sviluppata. Potrei aver persino provato paura di fronte a una combinazione mai sentita prima di suoni e voci. 

La canzone vera e propria invece no, credo proprio di averla ascoltata già adulto. Tratta di un argomento che nel 1972 doveva suonare davvero scabroso – l'eiaculazione, e la vertigine che il maschio sperimenta quando ci riflette, cosa che avviene (quando avviene) sempre soltanto dopo, prima riflettere è impossibile. Ma dopo a volte ti coglie questo pensiero tremendo, che ti sei liberato in un colpo di migliaia di potenziali vite, diomio sono un mostro, ma che colpa ne ho, la natura è così. “Quanti figli dell’amore ho sprecato io / racchiusi in quattro mura ormai saranno spazzatura”. Di emissioni spermatiche metaforiche o reali Battiato continuerà a cantare per tutta la sua carriera, malgrado la rivendicata castità: in Mesopotamia "la prima goccia bianca che spavento", e come dimenticare l'incipit di Dieci stratagemmi, "eiacula precocemente l'impero" (viene il sospetto che persino il titolo del secondo album, Pollution, sia un tremendo gioco di parole). Ma già nel 1972 la sua concezione del liquido seminale come "energia" che non si dovrebbe sprecare si avvicina più alla trattatistica indù che al mondo morale cattolico. 


 

1971: Una cellula (#116)

Sarò una cellula tra i motori. Battiato ha inciso Fetus mentre era in servizio militare, anzi ricoverato all'ospedale militare perché fisicamente "incompatibile" alla vita in caserma (la sera evadeva saltando un cancello, probabilmente aveva corrotto una guardia o due). La cartolina lo ha sorpreso a metà di una delle sue metamorfosi più delicate, da aspirante cantautore ad artista di avanguardia. Il carattere peculiare di Fetus è proprio in questa natura stratificata: è un disco che vuole assolutamente essere un'opera prima, qualcosa di mai sentito e appena nato, eppure tra i motori smaglianti c'è ancora qualche cellula del vecchio organismo. Una cellula è uno dei brani che più somiglia a una canzone tradizionale: c'è la melodia accattivante, una progressione armonica ben riconoscibile, addirittura il ritornello. Poi, certo, il VCS3 suonato a tutto volume garantisce una carenatura sperimentale: ma dentro a cercare bene c'è ancora il vecchio Francesco Battiato. 

1972: Cariocinesi (#153)


Un nucleo si divide, l'errore lo interrompe. Il fascino particolare di certe opere prime risiede anche negli errori di percorso, in tutti gli esperimenti non riusciti e da lì in poi accantonati che ci fanno per un attimo immaginare che lo stesso artista avrebbe potuto prendere strade completamente diverse, ci è mancato pochissimo. Ad esempio Cariocinesi è un intermezzo jazz nel bel mezzo di Fetus – ok, è un jazz sui generis, una specie di swing con in evidenza il violino di Sergio Almangano, una batteria elettronica usata per la prima volta in un disco italiano e una chitarra ritmica forsennata. Non è certo il momento più innovativo di Fetus, ma è qualcosa di divertente che Battiato non tenterà (quasi) mai più: da lì in poi, pur percorrendo innumerevoli e apparentemente incompatibili universi musicali, dal jazz si terrà sempre a rispettosa distanza: anche nella fase della sua carriera più orientata all'improvvisazione, che sta per cominciare.

1972: Fenomenologia (#128)

Rispetto ai due dischi successivi, a Fetus manca un vero leitmotiv, ovvero ce n'è più di uno ma sono meno ricorrenti e riconoscibili. Del resto è un'opera prima, quel tipo di disco in cui ci sono sempre più idee del necessario: in seguito gli artisti imparano come economizzarle. E c'è ancora molta chitarra acustica, uno strumento che FB maneggia con più sicurezza del synth, per cui c'è questa curiosa inversione: quando si tratta di fare atmosfera, Battiato ricorre alla chitarra arpeggiata (qui all'inizio e alla fine del brano), mentre dal synth tira fuori i riff più rumorosi e in generale il baccano. Riflettendoci, forse una specie di leitmotiv sono le scale discendenti, suonate in momenti diversi sia con la chitarra (qui all'inizio) sia col synth. In Fenomenologia compare anche il primo ritornello mutuato dal lessico scientifico: qui FB mette in musica la formula geometrica della doppia spirale, ovvero "x1 = a*sen (ωt), x2 = a*sen (ωt + γ)".

1972: Meccanica (#126)


Nel secondo lato di Fetus distinguere le tracce comincia a essere complicato. Più di un brano è composto da movimenti diversi e giustapposti, che svelano l'aspetto più sperimentale nel puro senso della parola (FB sta veramente imparando a suonare il nuovissimo synth VCS3) tra cui si distinguono i primi tentativi di trovare un leitmotiv. In Meccanica debuttano alcuni stilemi del Battiato '70: ad esempio il momento in cui il riff elettronico si trasforma in una specie di tarantella. E soprattutto c'è il primo collage di oggetti trovati, anche questo ancora embrionale ma promettente: una discussione tra gli astronauti dell'Apollo 11 montata sul sottofondo dell'Aria sulla Quarta Corda di Bach, rallentata da Battiato (perché nella sua testa la sentiva "più lenta") appesantendo il disco con una peso. È un momento che doveva suonare particolarmente suggestivo agli ascoltatori del tempo, per una serie di effetti che forse oggi facciamo più fatica a percepire: non soltanto montaggi sonori di questo tipo sono diventati molto più semplici da realizzare e ascoltare, ma l'associazione tra spazio interplanetario e Aria sulla Quarta Corda è diventata un po' banale, dopo decenni di Quark e Superquark. A dire il vero quando Battiato incise Fetus, Piero Angela aveva già portato in tv la versione dell'Aria degli Swingle Singers da cui non si sarebbe mai più separato, in una trasmissione che non si chiamava ancora Quark ma Dimensione uomo (1971). È difficile che Battiato non conoscesse la trasmissione – ma magari l'aveva vista distrattamente, al bar, e il collegamento tra Bach e astronauti gli era rimasto impigliato nell'inconscio. E due anni prima, comunque, tutti sono andati al cinema a vedere e ascoltare 2001 Odissea nello spazio, con tutti quegli Strauss suonati nello spazio profondo.  

1972: Anafase  (#178)


In biologia l'anafase è "la terza fase della divisione del nucleo cellulare caratterizzata dalla scissione dei centromeri presenti nei cromosomi, dalla separazione dei due cromatidi che vi erano attaccati e dalla loro migrazione ai poli del fuso". Musicalmente, Anafase comincia come un brano cantautoriale per voce e chitarra che riprende sottilmente l'Aria sulla Quarta Corda che abbiamo intrasentito in Meccanica. È il momento più davidbowieano di tutto Fetus, anzi di tutta la carriera di Battiato: si respira la fragranza di quella miscela particolare tra ballata acustica e suggestioni cosmiche che ci obbligano a domandarci se non si tratti di una convergenza evolutiva: cioè Battiato stava per inventare Ziggy Stardust con qualche mese d'anticipo? o non piuttosto un'influenza diretta: possibile che Battiato conoscesse Bowie, negli anni in cui quest'ultimo, dopo il successo di Space Oddity, faticava a farsi conoscere anche in patria? Di Bowie, Battiato non aveva praticamente mai parlato: solo dopo la sua morte consegnò ai giornalisti un ricordo un po' confuso in cui ammetteva di aver amato "da pazzi" Space Oddity e non solo"Hunky Dory  i biondi capelli, una femminilità fotografica, alla Greta Garbo. Aveva già rinnegato il passato, per il futuro. Londra era una polveriera. La droga imperversava. Io volevo vedere e capire quello che capitava. La mia paura era di passare di fianco a una nuova moda che stava per arrivare. Non desideravo altro che locali..." Dunque Battiato potrebbe in effetti avere ascoltato già nel 1971 Hunky Dory, un disco che prima del successo di Ziggy Stardust (uscito sei mesi dopo Fetus) era sconosciuto anche a gran parte del pubblico inglese? Non so quanto questo sia compatibile col servizio militare che Battiato avrebbe assolto (faticosamente) proprio nel 1971. Del resto si tratta di un momento brevissimo, una strofa appena dopodiché la canzone prende una svolta completamente imprevista, lasciando spazio ai synth che stavolta dovrebbero suggerire una fase di quiete (forse l'ibernazione per un viaggio spaziale, dal testo si intuisce qualcosa del genere). È davvero come assistere alla terza fase della divisione del nucleo cellulare di FB: da un cantautore si separa l'avanguardista. Proprio nel momento in cui il cantautore poteva diventare il Bowie italiano... troppo tardi.  


1972: Mutazione (#183)

Fetus era anche, in qualche modo, un concept album, con una storia che aveva a che fare con un feto (o più di uno) e un viaggio interstellare. Nell'ultimo brano il feto si risveglia appunto dopo migliaia di anni e avverte le vibrazioni di non ulteriormente specificati "corpi di pietra" che stanno per arrivare. Potrebbero essere anche i "motori" di cui parlava all'inizio dell'album ("sarò una cellula / tra i motori") e quindi la storia tratterebbe di un eterno ritorno. Anche da un punto di vista musicale Mutazione è più simile a una canzone tradizionale e termina con un coro cantato sull'ennesima scala discendente – FB le usa tantissimo su Fetus, per scelta o perché gli vengono spontanee. È una soluzione un po' naif, ma ricordiamo sempre che è ancora poco più che un embrione. 



martedì 23 maggio 2023

Non lo ucciderete neanche morto

Non sono più sicuro che mi piaccia Succession. Probabilmente capita a tutti di seguire una serie per inerzia, però questo mi sembra un caso più complicato. All'inizio c'erano gli intrighi di tre fratelli e altri parenti/cortigiani per succedere al padre; l'elemento di novità è che a turno tutti i protagonisti si rivelavano dei deficienti. Ogni volta che uno dei tre sembrava finalmente fare la mossa giusta, riscattarsi, diventare adulto, magari pure uccidendo il padre – niente da fare, subito dopo inciampava nei lacci di scarpe. È un meccanismo che distingue Succession da tanta altra fiction, dove bene o male un eroe c'è: avrà dei difetti e potrebbero anche essere terribili, e forse nemmeno si emenderà, ma a un certo punto la storia viene a coincidere con un suo percorso verso il riscatto, la maturità. Succession non esclude mai che questo prima o poi succeda – il caso più eclatante mi sembra il finale della seconda stagione, quando Kendall fa una mossa veramente arrischiata che ci lascia sospettare che possa essere il Successore, per un attimo, anzi per un anno: dopodiché quando riparte ci accorgiamo in pochi minuti che è il solito pirla, niente da fare.

Esiste sempre un punto in cui ogni fiction avrebbe dovuto fermarsi per non ripetersi, e probabilmente anche in Succession questo punto è stato superato: il meccanismo continua a ripetersi, episodio dopo episodio, in modo sempre più automatico: pensiamo che Kendall/Roman/Shiv finalmente abbia in pugno la situazione, ma nella puntata seguente, a volte ormai nella scena seguente, ha in mano un pugno di mosche: la situazione era più complessa, la situazione continua a complicarsi e quei tre a girare a vuoto. Succession si ripete come tutte le fiction, ma somiglia meno a una fiction e più alla vita, dove malgrado tutti i momenti topici in cui pensi di aver finalmente capito e di essere cambiato, ti svegli il giorno dopo e sei esattamente il pirla di prima, in affanno dietro a un progetto che cambia tutti i giorni, una volta si trattava di ereditare, poi di vendere, poi di comprare, anzi di vendere per comprare un'altra cosa che alla fine è la stessa cosa, ma forse è meglio non vendere e non comprare, e intanto il tempo passa, i vecchi muoiono o si ammucchiano sullo sfondo ma continuano a guardarti scuotendo la testa, you're not serious people. I love you, but you're not serious people.

lunedì 22 maggio 2023

Se l'Ucraina stesse perdendo, cosa ci racconteremmo?

Tra i libri che mi piacerebbe riuscire a salvare dalla muffa anche quest'anno (ma è sempre più difficile) c'è un classico dei mercatini dell'usato che potrebbe anche essere usato contro di me. S'intitola La nostra guerra ed è stato pubblicato nel 1942-XX dalla "Consociazione turistica italiana" (in seguito si sarebbe di nuovo chiamato Touring Club Italia).


Si tratta di un agile volumetto, dalla grafica razionale e pulitissima (c'è un font meraviglioso, il Semplicità) che spiega tutti i motivi per cui Italia Germania e Giappone, che proprio non avrebbero voluto fare la guerra, oh, alla fine si erano trovati praticamente costretti dal blocco plutodemobolscevico che li stritolava, e che comunque meglio così perché stavano vincendo tutto – l'Italia in particolare passava di trionfo in trionfo, con giusto qualche ripiego strategico in Africa – e che l'Eurasia del futuro sarebbe stata un luogo di pace e civile rispetto per i popoli. Un'ucronia, però non cupa e angosciosa alla Dick: una cosa molto istruttiva. La gente che la scrisse – e sapeva scrivere – viveva già in quell'eclissi della coscienza individuale descritta pochi anni dopo da Orwell: riuscivano a raccontare tutto come se tutto avesse un senso e mentre leggi per un attimo anche tu trovi che due più due faccia cinque. È solo un attimo, ma capisci che funziona, e che quindi può funzionare anche oggi: e che quindi ti conviene stare attento. Ho sempre avuto la tentazione di mostrarlo in classe, ho sempre avuto la paura di essere frainteso.

Ci ho ripensato un poco in queste ore, quando in capo a un mese in cui mi era capitato di leggere come i russi si fossero impantanati a Bakhmut, di come la Wagner si ritrovasse disperata senza più munizioni a Bakhmut, di come gli ucraini stavano eroicamente resistendo a Bakhmut, di come i russi con la loro economia devastata ormai non avessero più le risorse per prendere Bakhmhut e stessero abbandonando Bakhmut, ecco, sugli stessi organi di stampa ho letto per la prima volta che può darsi che gli ucraini si siano ritirati da Bakhmut – la quale Bakhmut poi, diciamolo, è un obiettivo assolutamente secondario che non senso intestardirsi a difendere, tanto più che è tutto macerie. 

Tutto questo è probabilmente vero; non voglio dare l'impressione di essere quello che la sa più lunga semplicemente perché diffida delle uniche informazioni che trova: è un atteggiamento che ho visto dilagare sui social e decisamente crea dei mostri. Non ho seri motivi per dubitare che a un certo punto la Wagner fosse in difficoltà, a Bakhmut, né che gli ucraini non vi abbiano resistito eroicamente, fino al momento in cui non restavano che macerie e non valeva la pena andare avanti. E che si trattasse di un obiettivo più simbolico che tattico ce lo diciamo da mesi, dopodiché magari ucraini e russi sanno cose che noi non sappiamo, ma se non le sappiamo è inutile fantasticarne. 

Prendiamo atto che anche sul fronte a vincere è per ora il pantano; l'offensiva russa è stata lenta e deludente, e quella ucraina per ora non si è vista: magari parte domani, capacissimo. Non posso comunque impedirmi di pensare – sono stato allenato a pensare – che se questa guerra la stessimo perdendo, le notizie che ci arriverebbero dal fronte non sarebbero molto diverse da quelle che leggiamo: i russi fanno fatica, i russi si ritirano, i russi non ce la fanno, i russi in effetti si sono presi una città ma era una città inutile, ormai sono spacciati. Significa che invece stiamo perdendo? Non necessariamente, ma nemmeno si può escludere. Zelensky è molto attivo in questi giorni, ha bisogno del nostro aiuto e non ha pudore a chiederne di più. Non è un fatto nuovo. È anche stato dal papa, e questo forse sì, è un fatto nuovo, perché Francesco in quest'anno è riuscito a mantenere, non senza fatica, una posizione terza che potrebbe tornare utile nel momento in cui si cominciasse a parlare di pace. Forse si sta cominciando a parlare di pace, il che però significa anche che non stiamo vincendo. 

Sulla guerra in Ucraina esistono sostanzialmente due narrazioni. Quella russa somiglia abbastanza a quella che troviamo sui vecchi libretti fascisti che conserviamo per capire come riuscivano a raccontarsela: è il solito imperialismo che quando è frustrato assume sempre tinte paranoiche. Gli ucraini erano russi, poi la Nato li ha corrotti, ma molti ancora vorrebbero essere russi, specie in Donbass, e i fascisti ucraini li hanno bombardati finché non siamo entrati per difenderli. È un copione che la Russia è pronta a recitare in tutti i Paesi confinanti e non vassalli: gli abcasi vorrebbero essere russi ma i georgiani glielo impediscono, i transnistriani vorrebbero essere russi ma i moldavi glielo impediscono, ecc. ecc. Giova ricordare che sia Abcasia sia Transnistria sono militarmente (non ufficialmente) occupate da militari russi. È il vittimismo tipico dei prepotenti sulla difensiva, in Italia lo conosciamo bene, lo abbiamo quasi inventato e continuiamo a praticarlo. Questa per quanto riguarda la narrazione russa.

Poi c'è la narrazione della Nato, che più o meno corrisponde a quella dell'Ucraina, e che per quanto possa avvicinarsi alla realtà in campo più di quella russa, non può per definizione essere la realtà oggettiva: questo per vari motivi. Il primo motivo che mi viene in mente è che l'oggettività non esiste, possiamo soltanto tirare una media di tante osservazioni soggettive, Pirandello, Heisenberg, e così via. Il secondo motivo è che la Nato ha i suoi interessi strategici, non è che appoggia le nazioni gratis et amore libertatis. Il terzo motivo è che nessuno in guerra dice solo la "verità". Se poi si passa ai giornali italiani, è molto improbabile che dicano la verità anche in tempo di pace, e quindi insomma è chiaro che non possiamo fidarci al 100% di Zelensky – che comunque, per tanti motivi, consideriamo assai più affidabile di Putin. Dobbiamo allenarci a fare la tara a tutto quello che sentiamo, senza scadere nel complottismo, e non è facile. Come facevano i nostri bisnonni? Ascoltavano l'Eiar, poi Radio Londra, e poi? Probabilmente stavano attenti soprattutto alle posizioni. A El Alamein, se avessimo vinto come titolavano i giornali, non ci saremmo ritirati. Allo stesso modo, a chi ci ripete che la guerra è necessaria e che la Russia va ricacciata dietro i confini del 1992, bisogna far presente con molto tatto che i russi oggi sono su posizioni più avanzate che un anno fa. Magari domattina comincia la controffensiva, magari Zelensky che oggi chiede armi a tutti dopodomani sarà a Mariupol e in giugno a Sebastopoli. Magari. Oggi no. L'economia russa che doveva cascare più di una volta, in un qualche modo tiene: se i cinesi si sfilano, gli indiani comprano di più e questo forse è sufficiente perché la situazione arrivi a uno stallo, uno stallo costosissimo sia in termini di risorse (russe e Nato) sia di vite umane (russe e ucraine). Uno stallo che potrebbe anche andare avanti fino all'autunno, cioè per un altro anno, e poi? È chiaro che noi avremo ancora per molto armi da buttare nel piatto – per qualcuno è anche un affare, teniamone conto. Anche i russi probabilmente avranno per molto tempo effettivi da mandare al fronte. Il primo serbatoio che potrebbe esaurirsi, a occhio, è quello degli ucraini: per quanto continuiamo ad armarli, non è che possano reggere all'infinito. 

A volte mi chiedo cosa succederà a molti attivisti pro-Nato quando all'improvviso la narrazione smetterà di dire "confini del '92" e si sposterà su "trattative di pace". È una domanda retorica: molte persone cominceranno non solo a chiedere la pace, ma anche a credere di averla sempre chiesta; perché è l'unica opzione logica, perché le vittime sono troppe, perché protrarre un conflitto di queste proporzioni sul suolo europeo è terribilmente pericoloso, e per tanti altri motivi che diventeranno improvvisamente ragionevoli tanto quanto era ragionevole, fino a poche ore fa, chiedere ai soldati ucraini di resistere tra le macerie di Bakhmut. Certo, è lecito cambiare le proprie opinioni. Spesso è indizio di spirito critico. A tal proposito, vorrei proporre a molti alfieri della Nato un esercizio: provate per una volta ad avere un'idea che non corrisponda a quella del Dipartimento di Stato USA. Anche solo per un istante, come in quei film di androidi in cui a un certo punto il protagonista umano si stagliuzza il braccio per essere sicuro di non essere, a sua insaputa, un androide; voi invece alla terza guerra che vi sembra giusto combatterla mentre i pacifisti sono tutti automaticamente Chamberlain; alla terza guerra che a un certo punto finisce in un mezzo disastro e non non se ne parla più, provate a formulare un'opinione su voi stessi, ci riuscite? I bot non è detto che ci riescano.

sabato 20 maggio 2023

Verso il Grande Ventilatore



Di due perturbazioni potrei parlare. La prima è qua fuori, la più inquietante a memoria d'uomo: ha allagato la Romagna e se ha risparmiato – fin qui – la mia terra è quasi per caso (il mio comune è appena uscito dalla zona rossa, forse ci rientra). L'altra è la tempesta di merda scatenata da un breve intervento di Christian Raimo. La prima mi angoscia, mi deprime, non so se ne parlerò mai; la seconda è quasi una sciocchezza, continuerò a parlare di sciocchezze mentre sprofondo in fango e muffa, ma uno deve parlare di quello che conosce. 

Una tempesta di merda è sempre interessante in quanto choc culturale: una persona scrive qualcosa che dal suo punto di vista non si discosta molto dalle cose che scrive abitualmente. Questa cosa, inserita nel contesto in cui la scrive, presentata al pubblico abituale, ha perfettamente senso e anche quando è controversa può suscitare al massimo un'animata discussione: che è poi il motivo per cui sui social non usiamo tutta la prudenza con cui ci difendiamo in altri ambiti pubblici. Un po' di pepe lo sai che è necessario, senza un po' di polemica non ti legge neanche la mamma (ciao mamma). La tempesta di merda, se ne avete viste, è un'altra cosa. Qualcosa che hai scritto improvvisamente sbalza fuori dal circolo abituale, attirata da un'energia oscura che la guida verso il Grande Ventilatore. Improvvisamente centinaia di perfetti sconosciuti vengono a insultarti: tra di loro c'è persino gente che ha argomenti sensati perché, alla fine il tuo piccolo contenuto, completamente ritagliato ed estrapolato dal suo contesto, è davvero discutibile. Che un'emergenza ambientale con morti e feriti e centinaia di case allagate si possa liquidare in tre righe è odioso. E allo stesso tempo, Raimo non stava liquidando un bel niente: le tre righe che ha scritto non sono diverse da quelle che ha scritto altre volte, con più tempo e più spazio, o che hanno scritto altri ideologicamente affini ma anche più competenti sull'argomento. Il motivo per cui ha scritto tre righe è proprio che nel suo contesto, di fronte al suo pubblico abituale, quelle righe bastavano. Chi leggeva sapeva già di cosa si parlava: esaltazione della motoristica, turistificazione selvaggia, allevamenti intensivi, sono tutte definizioni che rimandano a lunghi discorsi già fatti e dati per acquisiti, in un circolo neanche così ristretto. 


Il contenuto però è uscito dal circolo, e fuori dal circolo no, quel che scrive Raimo è scioccante e inaccettabile. Vale la pena filtrare gli insulti più o meno prevedibili, i Vai-a-spalare-il-fango (scritti da gente che, voglio sperare, aveva appena posato la pala per un rapido coffee break), il campanilismo bieco, quei discorsini sull'eccellenza regionale che chi ha vissuto il terremoto ricorda con un certo fastidio, eccetera. Al netto di tutto questo, un sacco di brava gente è semplicemente convinta di vivere nella migliore regione possibile. Abbiamo tante piste ciclabili, rispondono. Nessuno ne ha come noi. Questa tetragona convinzione di costituire un modello di sviluppo invidiabile e imitabile è purtroppo ancora considerata la soluzione, invece che il problema. Raimo forse avrebbe potuto aggiungere un cenno alla cementificazione che ha reso il territorio più friabile ed esposto alle alluvioni, e magari aggiungere qualche numero sulle oggettive responsabilità di chi ha amministrato comuni e province (mica soltanto il Pd). Lo avrebbero insultato lo stesso, ma valeva la pena. Le sue tre righe sono finite in prima pagina sul Giornale come esempio di sciacallaggio politico – a pochi centimetri da un articolo in cui si accusava il Pd di non aver fatto casse di espansione larghe come quelle che la Lega ha realizzato in Veneto, ma che c'entra, quello è sciacallaggio professionale, Raimo è un free rider, va abbattuto. Sempre in homepage sul Giornale c'è l'intervista a un climatologo: gli chiedono se l'economia green basterà a invertire il riscaldamento globale, lui che può rispondere? Ovviamente risponde di no, ormai nessun intervento umano potrà più di tanto riportare Groenlandia e Antartide ai livelli del 1980. E anche questa constatazione terribile e banale, estrapolata dal contesto dove io e te che la leggiamo sappiamo che significa "estinzione", in homepage sul Giornale significa: l'economia green è una perdita di tempo, cosa stai a comprare la macchina elettrica, facciamo piuttosto il ponte sullo Stretto, sì, c'è anche un'intervista a un onorevole leghista che vuole assolutamente farlo, pensate cosa sono diventati i leghisti col tempo. La pianura padana sprofonda e loro vogliono il ponte sullo Stretto di Messina (costruire una macchina del tempo, spiegarlo a Bossi nel 1986). 

Contro il coro mi raccomando tutti assieme Buuuu Raimo

La tempesta di Raimo me ne ha ricordato una molto più circoscritta che capitò a me, e alla fine a tutt'oggi è l'unico vero episodio che si possa catalogare come shitstorm. Fu tantissimo tempo fa (2010); anche in quel caso si parlava di alluvioni e mi capitò di scrivere (sull'Unità on line), un apologo abbastanza superficiale su un problema che però per me era cruciale. Il problema è questo: in democrazia, l'amministrazione emergenziale rende meglio di quella ordinaria. Chi si trova a governare un'emergenza riuscirà non solo a ottenere più fondi per rimediare, ma anche a conquistare il consenso degli elettori. Il che, portato nella realtà padana, significa che nel medio-lungo termine a un'amministrazione non conviene davvero costruire una cassa d'espansione quando il fiume è tranquillo e nessuno ha voglia di sborsare dei soldi. Persino l'amministratore avveduto potrebbe concludere che è meglio aspettare il disastro, e poi cavalcarlo: quando arriva il disastro è più facile non solo chiedere soldi a Roma e Bruxelles, ma anche ai concittadini – che in molti casi si metteranno pure a spalare fango gratis. È quello che secondo me stava succedendo in quel momento in Veneto, ma un po' di veneti si arrabbiò e me lo scrisse. In effetti, rileggendo il pezzo dal loro punto di vista, era abbastanza odioso: e addirittura autorizzava una lettura campanilista (in Emilia le casse di espansione funzionavano, in Veneto no?) che già allora mi sembrava fuori fuoco. Poi ci fu il terremoto, poi ruppe l'argine del Secchia, insomma anche se fossi stato un appassionato cantore delle amministrazioni emiliane, avrei avuto abbastanza tempo per ricredermi. Oggi proprio Libero e il Giornale ci informano che la pioggia caduta in Romagna, per quanto eccezionale, è inferiore a quella caduta qualche anno fa in Veneto, dove le casse di espansione (costruite dopo il disastro del 2010) hanno retto abbastanza bene. E quindi, insomma, avevo torto o ragione? A parte che non ha nessuna importanza, in mezzo a tutto questo fango, e che nessuna ragione mi solleverà quando sarà l'ora mia di sprofondare, probabilmente avevo torto a scrivere cose fastidiose su un giornale che veniva letto da gente che non mi conosceva, liberissima di fraintendermi: e avevo ragione, per fare delle buone casse di espansione in Veneto gli amministratori hanno dovuto aspettare l'emergenza che mostrasse a tutta la popolazione che le casse erano assolutamente necessarie. Tutta la brava gente che obietta a Raimo che non si può fare del moralismo in caso di eventi eccezionali, in generale ha ragione: il moralismo suona sempre fastidioso, e gli eventi di questi giorni sono davvero eccezionali. Ma ha anche torto, perché ciò che oggi è eccezionale diventerà la norma, e prima accettiamo questa cosa, meglio è. Raimo avrebbe dovuto spiegarsi meglio, cercare di trovare un modo simpatico di dire questa cosa, che il nostro stile di vita è insostenibile, che l'urbanizzazione romagnola (ed emiliana, e padana) è insostenibile, e che se al posto della primavera di qui in poi avremo un monsone, le piste ciclabili non ci salveranno. Ma esiste un modo simpatico di dire questa cosa? Chi lo trovasse, ce lo faccia sapere, ne abbiamo molto bisogno. 

giovedì 18 maggio 2023

Siamo tutti Salvini (e sprofondiamo)


Che Salvini troppo spesso twitti prima di pensare non lo scopriamo oggi – certo, un ministro che riesce a mettere insieme il Milan e una calamità naturale nello stesso messaggino segna comunque un record, qualcosa che vale la pena appuntarsi, anche solo per evitare che i posteri liquidino l'episodio come una leggenda: no, Maria Antonietta non disse mai quella cosa delle brioches ma sì, Salvini disse quella cosa del Milan. 

E potremmo andare avanti ancora un poco a prendercela con lui. Certo, potrebbe essere interpretato come un espediente per distogliere l'attenzione dalle responsabilità di una classe dirigente locale e sul suo ormai ottantennale modello di sviluppo, che in soldoni consisteva nel cementificare una palude sperando che andasse tutto bene. Non andrà tutto bene. Facile dirlo oggi – ma si poteva dire con una certa sicurezza vent'anni fa, e c'è invece ancora chi non vuole ammetterlo. Del resto in Emilia-Romagna lo sappiamo, sensibilità green e speculazione sui lotti edificabili vanno a braccetto, e Salvini non c'entra un granché: parliamo dell'avvoltoio che viene a vedere se nella catastrofe c'è qualcosa da guadagnarci, non dell'istrice che la catastrofe l'ha pazientemente scavata. 

Siccome comunque Salvini la gogna se la merita (non fosse altro perché dopo una settimana di alluvioni il governo non ha ancora varato lo stato di emergenza), propongo di farne almeno una figura sacrificale; di riconoscere nella sua colpa quella di tutti noi. Siamo tutti Salvini – certo, nessuno è Salvini quanto lui, ma siamo tutti un po' Salvini, ogni volta che commentiamo il disastro del giorno con una botta di benpensantismo e un colpetto di benaltrismo. Siamo tutti Salvini, sempre alla ricerca del primo facile colpevole, anche se non ci crediamo neanche noi: ma abbiamo un profilo pubblico, insomma non possiamo mica far finta di niente anche se non abbiamo niente da dire; vogliamo semplicemente far notare che ci siamo, ci preoccupiamo, invece di pensare ai fatti nostri o al Milan.  

Siamo tutti Salvini, nel senso che l'apocalisse ci troverà in mutande sul divano e contrariati perché insomma, certo, il settimo sigillo e i quattro cavalieri e tutto il resto, ma noi volevamo sapere chi vinceva la Champions. Siamo spettatori, da che siamo nati; da quando c'è internet siamo pure commentatori; di qualsiasi cosa succeda ci piacerebbe trovare un colpevole alla svelta, che sia un istrice o uno speculatore edilizio; così possiamo cambiare canale rapidamente e trovare un'altra cosa più interessante, le alluvioni non sono così interessanti. Siamo tutti Salvini perché, in definitiva, non tolleriamo che il mondo cambi. Benché il mondo cambi da sempre, e molti di noi vivano e lavorino da sempre immersi nelle correnti di questo movimento: lo stesso Salvini, in epoche più stabili si sarebbe ritrovato commesso viaggiatore. Proprio perché tutto cambia, in modi che per lo più non ci piacciono, S. si è ritrovato bello pronto il suo prodotto da smerciare, il suo malcontento quotidiano da assecondare. 

Siamo tutti Salvini ogni volta che ci guardiamo indietro come se indietro ci fosse un equilibrio che pensiamo di aver perso, un'età dell'oro che non tornerà mai, probabilmente a causa di un complotto di persone malvagie che ce l'hanno esattamente con noi. Siamo tutti Salvini, pronti a puntare il dito, verso chi? Non è così importante: l'essenziale è puntare, catalizzare l'attenzione e spostarla in un punto X che può cambiare a piacere – Putin può diventare in pochi mesi da alfiere dei valori tradizionali a orco assassino nemico dell'occidente. L'importante è puntare, magari non essere i primi a estrarre il dito perché poi tocca a te scegliere l'obiettivo e se non trovi il più adatto al momento rischi una brutta figura. Ma se calcoli bene i tempi, se sfoderi l'indice né troppo svelto né troppo tardi, qualche altro intorno a te ti avrà già suggerito una direzione, un obiettivo: a questo punto basta imitarlo, qualcun altro lo sta già imitando, e se in tanti puntano verso lo stesso obiettivo un motivo ci sarà: fino a quella volta, che prima o poi ci capita, quella volta in cui ti accorgi che tocca te, è su di te che stiamo tutti puntando. 

martedì 16 maggio 2023

Il santo che non sbatteva le uova

17 maggio: San Pasquale Baylon (1540-1592), che non inventò lo zabaion


La gloria degli uomini è in molti casi una sciocchezza, un equivoco, una parola capita male da gente che non capisce molto in generale. Avrete sentito di quella politica che ha dato un'intervista di quattro pagine su tanti temi, e alla fine le hanno chiesto come abbina i colori e ha detto mah, mi dà dei consigli un'armocromista, ecco, fine, l'unica cosa che la gente ha letto è armocromista, e continueranno a menarsela con l'armocromia finché non trovano qualcosa di più sciocco, uno dice vabbe', è la propaganda politica, un agone senza scrupoli – no macché, la gente fa così da sempre, capisce male una cosa, se la lega al dito e decide di ricordarsi quella singola cosa; non importa cosa abbiate fatto di bene o di male perché tanto si ricorderanno di voi per una cazzata che avete detto ma in realtà intendevate un'altra cosa, oppure nemmeno l'avete detta: così come Maria Antonietta non ha mai detto Che mangino brioches, Galileo non ha mai detto Eppur si muove, Voltaire potendo avrebbe ammazzato un sacco di gesuiti per le loro sciocche opinioni, e lo stesso Brecht, non cominciamo nemmeno con Brecht, se la gente sapesse cosa scriveva davvero ammutolirebbe di schianto – parliamo piuttosto di San Pasquale Baylon. 

Sapete per cosa è famoso? Ha dato il nome allo zabaione. 

Sul serio? No. La Treccani dà l'etimologia più probabile dal tardo latino "sabaia" ("bevanda d'orzo"), da cui per estensione sarebbe stato il nome a tutta una serie di zuppette, compresa quella con l'uovo e il marsala, magari attraverso il veneziano "zabaja". Un'altra ipotesi la ricollega a un capitano di ventura del quattrocento, Giampaolo ("Zan") Baglioni ("Baion"). In Piemonte a inizio Novecento si chiamava effettivamente "sambayon", in teoria in onore di San Pasquale Baylon patrono dei pasticcieri, ma sembra una classica inversione di causa ed effetto, ovvero perché un asceta come San Pasquale si è ritrovato patrono di chi sforna dolci tutte le mattine? Per via di una leggenda che lo voleva, appunto, inventore dello zabaione: ma è una leggenda sciocca come poche. 
Zabaione verrebbe da "San Baylonne", perché così si pronunciava il nome del santo a Trastevere nel Settecento, quando gli fu dedicata una chiesa che in precedenza si chiamava dei Quaranta martiri. Dunque abbiamo un termine a quo: il 1740. In precedenza Baylone, un frate alcantarino vissuto per lo più in Spagna, non doveva essere molto conosciuto a Roma. Nel settecento però gli alcantarini si espandono nei regni di Sicilia e anche nello Stato della Chiesa, e Pasquale Baylon entra in una litania popolare che più che nelle chiese probabilmente si recitava nei collegi: una filastrocca che appioppa a ogni santo un patronato a seconda della rima del cognome; per cui Ignazio di Loyola è il "protettore della scuola", mentre San Pasquale Baylonne si ritrova "protettore delle donne". Da qui la strofetta che le donne nubili reciterebbero per allontanare lo spettro dello zitellaggio:

A me più che bianco e rosso
sembra giallino
San Pasquale Baylonne 
protettore delle donne
deh, trovatemi un marito
bianco, rosso e colorito
ma di certo a voi uguale
o glorioso san Pasquale.

Le donne a dire il vero di protettrici ne hanno finché ne vogliono, ma l'idea audace che un frate possa essere d'aiuto alle fedeli dell'altro sesso deve aver solleticato la fantasia di qualche contafrottole, magari nei pressi di una pasticceria che doveva lanciare un prodotto. Insomma a un certo punto qualcuno si inventa la storia di una donna disperata perché il marito ha un problema di virilità; questa invoca San Pasquale, il quale a mo' di rimedio in sogno le propone la ricetta dello zabaione al marsala. Vero che sembra la trama di un film scritto da Castellano e Pipolo con Lando Buzzanca? Infatti lo è.

Questo episodio non solo è completamente apocrifo, ma smentisce tutto quello che sappiamo del santo vero, un asceta del XVI secolo particolarmente devoto al santissimo sacramento dell'eucarestia – tanto che durante una missione in Francia, malgrado i superiori gli avessero raccomandato un profilo basso, a Pasquale capitò di accapigliarsi sull'argomento con un gruppo di ugonotti e pare che ci abbia rischiato la pelle. Una cosa che può sfuggire è che fino al Vaticano II, l'eucarestia poteva essere somministrata ai fedeli solo dopo 12 ore di digiuno, il che comportava per i devoti che cercavamo di comunicarsi più volte a settimana un regime alimentare molto frugale e faticoso; le stesse fonti cattoliche ammettono che possono essere state le privazioni autoinferte ad accorciare la vita di Pascual Baylón Yubero, che morì a 52 anni lasciando qualche opuscolo con le sue massime e riflessioni sul sacramento e la pietà cristiana. Non devono essere dei capolavori (Pasquale si considerava un illetterato, e nessuno ci ha tenuto a smentirlo), ma ci mise l'anima: imparò a scrivere per cercare di spiegare le cose in cui credeva e che gli premevano al punto di digiunare e morirne.

Ma noi ci ricordiamo di lui per una filastrocca sulle donne in cerca di marito e una leggenda stupida sulle uova sbattute. Questa è la gloria degli uomini: una sciocchezza, un equivoco, una parola capita male da gente che non capisce molto in generale.

sabato 13 maggio 2023

Mattia è il tredicesimo

14 maggio: San Mattia, il tredicesimo apostolo

Paris Bordon, la Pentecoste

Secondo gli Atti degli Apostoli (il sequel del Vangelo di Luca), la prima decisione che Pietro prende da solo, immediatamente dopo l'Ascensione di Gesù, è ripristinare il numero degli apostoli: Gesù ne aveva scelti dodici, e siccome Giuda dopo aver tradito si era ammazzato, bisognava eleggere un suo sostituto. A voler essere pignoli, anche il tradimento di Giuda era stato voluto da Dio, ma Pietro non ha tutti i torti: undici è veramente un numero scomodo (un numero primo), laddove il dodici ha proprietà che lo hanno reso da sempre molto popolare; parliamo del numero più basso ad avere sei divisori, quattro dei quali sono anche i primi quattro numeri naturali. Non è un caso che sia le ore della parte solare del giorno, sia i mesi dell'anno, siano dodici in molte culture. È il primo numero che puoi dividere per due, per tre e per quattro, e ancora non hai a che fare con resti e con virgole.

Per gli ebrei 12 è soprattutto il numero dei figli di Giacobbe, ognuno capostipite di una tribù di Israele. Anche se al tempo di Gesù questa suddivisione si era ormai persa (al punto che dieci tribù su 12 al tempo di ritornare da Babilonia risultavano disperse) il solo richiamo al numero 12 evocava la rifondazione del popolo di Dio: lo si vedrà decenni dopo nell'Apocalisse dove il numero compare un po' dappertutto: le dodici stelle sulla corona della vergine (che è la Chiesa), e i 144000 "redenti della terra" (144, se vi era sfuggito, è il quadrato di 12). Dunque sì, era comprensibile che gli apostoli rimasti in undici sentissero l'esigenza di ripristinare un numero tanto simbolico. 

L'episodio è il primo in cui si manifesta il nuovo Pietro, non più il tremebondo interlocutore di Gesù, ma un personaggio improvvisamente sicuro del suo ruolo e delle sue idee, persino prima di ricevere lo Spirito Santo durante la Pentecoste (l'episodio deve succedere per forza prima, dal momento che lo Spirito deve scendere su dodici apostoli). È lui a informare una comunità di "120 persone" che Giuda si è ammazzato, è lui a spiegare che la sua sostituzione è necessaria, come se avesse già capito che si tratta di creare una struttura comunitaria con regole già rigide. Questo Pietro è un personaggio che compare soltanto in questo libro di Luca evangelista, ma lo stesso Luca è molto attento a definire le sue prerogative: Pietro può spiegare ai compagni che serve un nuovo apostolo, ma non può nominarlo direttamente. 

L'unica limitazione è che sia scelto tra "coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto con noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato assunto in cielo". Non sappiamo quanti fossero (in precedenza Luca aveva menzionato 72 discepoli), ma sappiamo che tra questi viene selezionata una rosa di due candidati: Barsabba "soprannominato il Giusto" e Mattia. La decisione finale viene presa mediante sorteggio: la sorte cade su Mattia, che prende così tra i Dodici il posto di Giuda. Malgrado un precedente così autorevole, in seguito la Chiesa non ricorrerà più al sorteggio per nominare vescovi o cardinali. 

Lo stesso Mattia negli Atti è poco più di un segnaposto e serve soprattutto per garantire al lettore che nella pagina seguente lo Spirito Santo sia sceso su dodici, e non undici apostoli. Il che può farci sospettare che Luca si sia inventato l'episodio per armonizzare due tradizioni che non si conciliavano: alcuni dicevano che lo Spirito Santo era sceso su dodici, altri che uno dei dodici aveva tradito Gesù... come si spiegava la cosa? Luca la spiega: il che può significare che è davvero stato l'evangelista sgobbone, quello che più si è preoccupato di illuminare diversi aspetti del Vangelo che potevano risultare ambigui od oscuri; oppure che quando non sapeva esattamente com'erano andate le cose, non aveva scrupolo a inventarsele un poco.
 
Mattia comunque è diventato patrono degli ingegneri, non so perché ma sono sicuro che molti ingegneri abbiano istintivamente approvato il ripristino del numero 12. Nelle Scritture è appena una comparsa, ma questo è vero anche per altri apostoli, di cui i Vangeli riportano appena una battuta o a volte nemmeno quella. Questo non ha impedito agli agiografi di inventare su di loro le storie più strampalate, anzi, più vuoto era il loro dossier, più spazio c'era per aggiungere vita morte e miracoli. 

Invece Mattia, forse per la sua posizione ambigua di apostolo-non-apostolo, non ha trovato quasi nessuno disposto a raccontarne gesta memorabili. Chi lo dice martire in Etiopia – destinazione tipica di chi aveva fatto perdere le sue tracce – chi in Cappadocia, chi a Gerusalemme trafitto da un'alabarda che almeno consente di riconoscerlo negli affreschi. Alcuni citano versetti di un suo vangelo che però già nel secondo secolo veniva rigettato come apocrifo. Nessuna città lo reclama come patrono; a Padova ne conservano parte del corpo, ma vuoi mettere con la lingua di Sant'Antonio? Altre sue reliquie sono a Treviri e in Santa Maria Maggiore a Roma, dono di Sant'Elena imperatrice, ma per i bollandisti sarebbero invece i resti di un omonimo patriarca di Gerusalemme del secondo secolo. Insomma se ai santi interessasse ancora la fama tra gli uomini, Mattia potrebbe lamentarsi di non aver lasciato molte tracce di sé – ma sempre meglio di Barsabba.

giovedì 11 maggio 2023

Gengolfo il magnifico

11 maggio: San Gengolfo martire (VIII secolo), patrono dei mariti traditi


Che elmo elegante,
benché le protuberanze non si capisce a cosa...
no, niente. 

Gengolfo è quel tipico santo che state dicendo ma dai, che razza di nome Gengolfo, è chiaro che se l'è inventato lui: e invece no. Magari qualche altro agiografo se l'è inventato, qualcuno con un debole per i Pipinidi e qualche difficoltà a elaborare i tradimenti coniugali. Io non sono quel tipo di agiografo.
I Pipinidi mi lasciano abbastanza indifferente. Ma qualcuno narra che una volta, tornando dalla guerra sulla strada per Varennes, Gengolfo si sia ritrovato assetato presso una fontana a Bassigny. Il proprietario della fonte, ignaro di avere davanti non un semplice cavaliere, ma un santo nonché compagno di tenda di Pipino il Breve, avrebbe fatto questa scandalosa proposta: se vuoi bere, devi comprare la fonte. No, non l'acqua: proprio la fonte. Dopo puoi bere finché vuoi. 
Va bene, avrebbe risposto san Gengolfo, che per fortuna aveva abbastanza contante con sé. Il proprietario deve essersi sentito come Totò quando riesce a piazzare la fontana di Trevi: immaginate però la sua disperazione quando qualche tempo dopo la fonte si estingue all'improvviso. Cos'era successo? Gengolfo era arrivato nel suo feudo a Varennes, aveva picchiato il suolo col bastone, e per miracolo la fonte si era trasferita lì, in ottemperanza al contratto, così impara la gente a tentare di fottere i santi. 
Gengolfo era un buon soldato e uno strettissimo collaboratore di Pipino, che di lì a poco avrebbe esautorato definitivamente l'ultimo re merovingio e forse concesso al santo un ulteriore feudo in Frisia. Parte dell'ascendente che Pipino provava per Gengolfo derivava da un miracolo a cui avevano assistito una volta nella tenda da campo in cui riposavano: durante la notte una torcia si era riaccesa da sola tre volte, un miracolo che trascrivo perché da bambino durante un ritiro spirituale vidi anch'io una luce che si riaccese tre volte, forse un mio compagno di camera era un santo ma siccome sospettavo che fosse uno scherzo mi voltai dall'altra parte e non lo saprò mai. 

Saint Gingolph è un ridente paesino diviso a metà 
dalla frontiera franco-svizzera,
dove almeno secondo Wikipedia
avviene questo incredibile fenomeno 
che il lago è in discesa. 

Benché Gengolfo abbia dedicato buona parte del tempo lasciato libero dal mestiere della guerra a evangelizzare la Frisia, non trovò il martirio a causa dei pagani, ma della moglie – e in effetti a rigore è discutibile che si possa considerare un martirio: non stava mica difendendo la fede, al massimo cercava di gestire con dignità un matrimonio scoppiato. La moglie lo tradiva da diverso tempo, addirittura con un prete, e a corte ormai sapevano, sicché lo stesso Gengolfo non poteva più far finta di niente perché agli occhi del re (e di Dio) ciò sarebbe risultato connivenza se non complicità. Le aveva anche fatto il test: metti la mano nella fonte, se mi dici la verità non ti succederà nulla. La moglie si era scottata. Siccome al marito ripugnava comunque denunciare ufficialmente la cosa (era l'ottavo secolo, un'adultera rischiava il patibolo), alla fine aveva piazzato la signora nel castello più lontano che aveva, sperando che col tempo si sarebbe un po' calmata e che riflettendo sulla generosità del marito avrebbe magari trovato una sua via alla santità. 

Invece lei continuava a tradirlo in lungo e in largo e di lui diceva: fa miracoli come  il mio deretano canta le canzoni (questa dichiarazione, secondo una tarda leggenda, le causò dopo la morte del santo un grosso problema di aerofagia). Uno di questi amanti – forse lo stesso prete – fu da lei convinto ad ammazzare lo stesso Gengolfo; il che ci insegna che è più facile per un santo spostare una fonte d'acqua con la falda acquifera e tutto quanto che suscitare rimorso in chi ti fa le corna, amen.

mercoledì 10 maggio 2023

La più saggia lava i piatti

10 maggio – Santa Isidora la stolta, vergine in Egitto (quarto secolo)


[2013]. Capita a tutti i supplenti l’esperienza di una classe antipatica – entri e sono già lì che litigano, è tutto un alzare le mani per dimostrare di saperne di più, o un puntarla sul compagno perché È Stato Lui. In queste classi, tipicamente, c’è sempre una tizia in un angolino che si nasconde: non partecipa al chiasso, mostra di sentirsi a disagio quanto te, magari è molto brava, oppure non capisce nemmeno l’italiano, è quasi impossibile capirlo. Il più delle volte, se fai una domanda, non risponde; se lo fa è un miracolo, al supplente vien voglia di darle dieci sulla fiducia, non vedete che ha capito più cose lei di tutti quanti qui dentro? Siamo tutti un po’ individualisti noi supplenti, tra il branco e la pecora nera tifiamo sempre un po’ per la seconda; finché non ci affidano una classe vera e ci accorgiamo di quanto sia meno faticoso e più conveniente gestire un branco ordinato. Ma veniamo alla santa del giorno, Isidora o Isadora detta la Stolta; e a Pitrim, il suo scopritore.

Pitrim è il solito eremita nel solito deserto egiziano, che un giorno ha una visione: Pitrim, vuoi vedere una Santa? Una Santa seria? recati al monastero di Tabenna, là c’è una monaca che è un vero modello di perfezione: la riconoscerai perché ha uno straccio in testa. Pitrim si reca dunque a Tabenna, dove le monache lo ricevono con tutti gli onori, evidentemente era un asceta sopra ogni sospetto. Nessuna però sembra corrispondere al modello di perfezione previsto, al punto che Pitrim comincia a chiedersi se non gli stiano nascondendo qualcosa. Siete sicuri che non mi state nascondendo nessuna monaca? Ne sto cercando una che – mi ha detto la visione – si sta avvicinando con le sue azioni e soprattutto la sua pazienza alla Passione di Gesù. Me le avete mostrate proprio tutte? Fratello, sì, praticamente tutte. Come sarebbe a dire “praticamente”? Mah, ci sarebbero le minorate, o (come si dice in questo secolo) le indemoniate, adesso non ci dirai che ti vuoi mettere a ispezionare la virtù delle indemoniate… per esempio ce n’è una impiegata in cucina, Isidora si chiama, pensa, che non vuole nemmeno mettersi il velo, si copre i capelli con lo straccio per asciugare le pentole… Bingo! È lei! Portatemela subito! Ma fratello, abbi pazienza, è una matta… la chiamiamo Isidora la scema… Portatemela ho detto! Ma è magrissima, scoppierà uno scandalo, penseranno tutti che le trattiamo male e invece no, è lei che non vuol mangiare, l’unica cosa che ingerisce è la risciacquatura dei piatti, ci abbiamo provato in tutti i modi a nutrirla con la forza, ma niente da fare… Portatemela! È lei la più santa di tutti qua dentro! Non vedete sopra il suo straccio un’aureola? No, non vediamo niente, ma se lo dici tu…

Scoppia subito l’Isidoramania – il deserto egiziano è una polveriera di misticismo, basta una scintilla perché tutti si mettano in viaggio a vedere la nuova santa di riferimento. Isidora ha passato tutta la vita a nascondersi, e tutta questa popolarità la regge malissimo: dopo qualche tempo scompare. Nel deserto, dicono. Come dire: potrebbe essere dappertutto. La leggenda di Isidora è tutta qui, una specie di fiaba di Cenerentola formato collegio di monachelle. Magari è nata effettivamente così, un modo di riadattare la fiaba a un pubblico di bambine come la Gertrude dei promessi sposi – quelle già segnate dalla nascita, che giocavano con bambole vestite da suorine, le Barbie modello Badessa. Un asceta al posto del Principe, un’aureola d’oro al posto della scarpina di cristallo, perché no.

La leggenda mette a fuoco l’annosa polemica tra cenobitismo e ascetismo, vita comunitaria e vita solitaria; visti dal monastero, gli asceti sono tutti mezzi matti dediti a pratiche folli e devianti. Per l’asceta è l’esatto contrario: i monasteri sono luoghi di mediocrità e squallore dove la sguattera è più vicina a Cristo della madre badessa. La lotta tra asceti e cenobiti proseguirà sotterranea lungo tutta la storia della Chiesa: anche se in occidente sembra che i secondi si siano imposti da subito, gli asceti non sono mai veramente spariti. Si sono infiltrati: ma è facile riconoscerli, sono quelli che persino in un istituto concentrazionario come un monastero del Cinquecento si lamentano perché la cucina è troppo buona e le consorelle ricevono troppe visite: Teresa d’Avila che lotta per scalzare le carmelitane, Matteo da Bascio che si lamenta perché il saio dei frati minori non è abbastanza ruvido, eccetera.

Gente così è sempre esistita, il che ci porta a ipotizzare che anche un Pitrim possa essere esistito – magari non in Egitto, magari non nel quarto secolo – ma da qualche parte nascosta nelle pieghe del tempo. A immaginarsi la scena non ci vuole tantissima fantasia. Un ospite che arriva in un monastero: si aspetta di trovarci tanta ospitale santità nonché una certa pia deferenza, e invece sono tutte fredde e antipatiche, si credono tutte di essere chissachì, adesso ve lo faccio vedere io. Fatemi vedere la più malmessa di tutte – è lei? La sguattera? È una deficiente? Lo dite voi che è una deficiente, io ho le visioni e vi dico che è la più vicina a Gesù Cristo di tutte quante. E adesso me ne vado, ciao, è suonata la campanella.

E la povera Isidora resta lì, a gestirsi una santità appioppata all’improvviso. Magari soffriva di anoressia o di qualche altro disturbo alimentare più insolito (picacismo?) Le monache che prima la respingevano perché indemoniata ora la invidiano – non è necessariamente un progresso. Non sorprende che abbia fatto perdere le tracce, nel deserto o in un altro monastero. Ma potrebbero semplicemente averle cambiato nome e cella per difenderla dai curiosi. Nel frattempo qualche consorella si sarà messa a bere la risciacquatura dei piatti per mostrare di non essere da meno, e così via. Nel frattempo Pitrim è ancora in giro a scambiar matti per poeti, scemi per santi, anoressiche per modelle. Ogni tanto suona una campanella, magari la prossima è per voi.

martedì 9 maggio 2023

Ieri notte un selezionatore umano di canzoni artificiali mi ha salvato la vita


Da qualche parte leggo che un'Intelligenza Artificiale ha scritto un pezzo dei Beatles che fa piangere i fans. Ora io i fans li ho un po' bazzicati – avevo un libro da vendere – e pur trovandoci esperti dal gusto sopraffino come tu che stai leggendo, ho riscontrato una certa disponibilità alla lacrima. Comunque la curiosità ha facile gioco sulla voglia di lavorare: googlo il pezzo. Ne trovo uno che mi sembra familiare, il che avrebbe senso; le voci di McCartney e Lennon si alternano tra strofa e ritornello, come succedeva in Free as a Bird ma in pochissime altre canzoni del repertorio originale. Al netto delle voci, sembra un pezzo dei tardi XTC: ha un senso anche questo. Ho già in mente cosa scrivere: le AI non stanno facendo nulla che gli esseri umani non abbiano già realizzato dal 1970 in poi. Jeff Lynne, Andy Partridge, qualche Gallagher, che altro hanno ci hanno allestito per decenni se non falsi d'autore? E se tutti questi raffinati compositori non ci hanno soddisfatto, e neanche i Gallagher, che ci aspettiamo ora da un'AI? Una tale mancanza di personalità che le consentirebbe di non aggiungere assolutamente nulla di nuovo al blend degli unici ingredienti che desideriamo? È un desiderio che tradisce la natura maniacale di quello che ormai è un culto: la convinzione che ciò che hanno realizzato quattro, e solo loro, e solo tra il '62 e il '69 sia qualcosa di irripetibile e irripetuto. Un giudizio che è facile condividere se si ascolta solo il loro repertorio, magari ricomprandolo a ogni Natale reimpacchettato in un formato diverso. Il prezzo per alimentare il mito dei Beatles è ignorare quasi tutta la musica che sta attorno: quella che ascoltavano, che copiavano, e quella di chi li ascoltava e li copiava. Persino la musica che i Quattro hanno fatto poche settimane dopo essersi sciolti, ecco: abbiamo più voglia di ascoltare finta musica di un'AI che la musica vera che continua a fare, per dire Paul McCartney...

...E proprio mentre penso a questo, mi rendo conto che quella che sto ascoltando è, effettivamente, una canzone di McCartney, da uno di quei dischi degli ultimi anni che si ascoltano, si apprezzano e poi si dimenticano perché è uscito un altro cofanetto deluxe dei Beatles. L'AI in questo caso non c'entra un bel niente. L'unico aspetto artificiale è la contraffazione digitale della voce di Lennon, che lo sostituisce nel ritornello: insomma non si tratta di tecnologia AI ma di un ormai banale deepfake – ma il titolista che capitalizza sulla mia attenzione non può più scrivere "deepfake", nessuno clicca più i deepfake, adesso la parolina magica che tutti cliccano è "AI". Che è sempre meglio di quanto tutti dovevano dire metaverso. Sono stato vittima di un dirottatore di clic, la canzone 'alla Beatles' fatta da un'AI da qualche parte esiste davvero. 


Non è altrettanto orecchiabile. Somiglia un po' meno agli XTC, un po' più forse agli ELO; le voci di Lennon e McCartney non ripartiscono strofe e ritornelli perché davvero dal punto di vista statistico non avrebbe senso; una volta feci il conto, succede in cinque canzoni su duecento. Il che mi fa riflettere: se chiedi a un'AI di scrivere un pezzo di Lennon/McCartney, gli stai chiedendo di restare in un range di possibilità. L'AI si ascolta il repertorio e comincia a mettere in fila i suoni che si ascoltano più spesso; è chiaro che a cadere è la coda lunga dei suoni meno ricorrenti. Via il timpano, perché c'è solo in Every Little Thing; via probabilmente anche l'armonica dei primi singoli e l'hammond di Billy Preston; sono iconiche ma l'AI a questo livello ancora non lo sa. E l'accordo iniziale di A Hard Day's? Quello finale di A Day in the Life? Sono hapax, compaiono una volta sola in tutto il canone; se ragiona in banali termini di frequenza statistica, l'AI non li includerà. Così come certe progressioni bislacche che appaiono in una canzone sola di tutto il repertorio, per dire, Yesterday. È abbastanza facile obiettare che quello ci piaceva dei Beatles erano viceversa queste sorprese impreviste, e che quei singoli accordi e certi assoli completamente incongrui (In My Life! Penny Lane!) sono più importanti di dozzine di altre canzoni incise un po' a macchinetta – per dire è molto più probabile che l'AI indulga in sonorità country che non associamo così tanto ai Beatles, perché Beatles for Sale non lo ascoltiamo poi così spesso. Insomma alla fine anche da un'AI più competente, e un giorno lo sarà, non potremo che aspettarci un brano più banale dell'originale, mediocre nel senso più preciso del termine: e questo non perché l'automa non abbia un'"anima", ma perché la banalità, la mediocrità, era nelle istruzioni che gli abbiamo fornito. Il punto è che noi non vogliamo davvero che l'AI continui l'opera dei Beatles; noi vogliamo piuttosto che ci confermi che l'opera dei Beatles è insuperabile, anche dai computer con potenza di calcolo infinitamente superiore a quella che serviva per battere a scacchi Kasparov. 

A questo punto un ingegnere (che non amasse particolarmente i Beatles) potrebbe suggerirci una soluzione: la mediocrità sta nel fatto che avete infilato duecentocinquanta canzoni in un computer e gli avete chiesto di comporne una sola: è chiaro che l'abbia pescata nel mezzo. Ma fategliene scrivere un migliaio: a quel punto cosa succederebbe? La maggior parte sarebbero senz'altro mediocri; ma da qualche parte magari c'è una variazione di Blackbird col campanaccio di Drive My Car che supera gli originali. A questa soluzione obietto che... niente, non mi viene niente di sensato da obiettare. Potrebbe davvero funzionare, un sacco di capolavori non sono che variazioni di altre opere a cui aggiungono un imprevisto non-so-che. In effetti non so perché non abbiano già iniziato a produrre variazioni Goldberg a manetta. Ascoltandole, è chiaro che non le troverei superiori a quelle di Bach, ma semplicemente perché le ho già ascoltate e mi ci sono affezionato: è quel senso di familiarità che l'ascoltatore troppo spesso confonde col senso estetico. Qualcun altro potrebbe far notare che comunque, essendo finito il numero di informazioni che abbiamo fornito all'AI, non si potrebbe fare niente di veramente nuovo, ma questo non è vero per tutti i compositori in carne e ossa? Non partivano tutti da una cultura relativamente limitata, eppure in qualche modo non sono riusciti quasi tutti ad aggiungervi qualcosa? E questo 'qualcosa' quante volte non è stato un frutto del caso, un glitch, uno scherzo che il compositore non prendeva sul serio? Questi glitch, siamo sicuri che non potrebbe farli anche un'AI? Se gli diamo tutto Bach e aggiungiamo, che so, un pezzo di Afrika Bambaataa e una sirena dei pompieri, siamo sicuri che il risultato sarà al 100% derivativo, e che non troveremo almeno un 5% innovativo? Il problema forse in futuro sarà filtrare quel 5%.



Insomma il creativo del futuro me lo immagino molto meno operativo – ma è una tendenza che è cominciata secoli fa, una volta dovevi saper tenere pennello e scalpello in mano, oggi c'è gente che non sa dove si accende il computer con cui pure lavora. Suonerà sempre meno, di scolpire e dipingere ha già smesso. Quel che farà è guardare, ascoltare, filtrare. Il creativo del futuro sarà un critico: gli dai diecimila canzoni in stile Beatles+IntiIllimani e gli dici: hai un mese per trovare la prossima hit per il mercato peruviano. Ehi, potrebbe persino funzionare, voglio dire, ascoltare tutti i giorni canzoni su canzoni (perlopiù brutte) sembra davvero un mestiere. Noioso, ripetitivo, faticoso, relativamente remunerativo. Non è un mestiere che farei (ci metto anni per capire se una canzone mi piace), mi sembra quasi l'inferno in terra perché, tra le altre cose, mentre fai un lavoro del genere non puoi neanche metter su un disco decente; però potrebbe consentire a una contenuta classe di persone un reddito ed è quello che ci interessa, ne siete consapevoli? Che quando ci domandiamo se la tale cosa è Arte, la vera domanda che ci stiamo facendo è: riusciremo a farne un prodotto sostenibile, senza far crollare la domanda con un'esplosione dell'offerta? Che dietro a una questione estetica abbastanza oziosa c'è una ben più pressante questione economica? Perché se si trattasse semplicemente di valutare se il prodotto X è bello o no, la questione dell'autorialità sarebbe secondaria come lo era nel Medioevo. Un quadro è bello sia che lo dipinga un essere umano, sia che lo dipinga un'AI, no? In teoria sì, ma così come non vogliamo davvero altre canzoni dei Beatles, probabilmente non vogliamo nemmeno altri Caravaggio; e la prova è che chi è bravo come Caravaggio oggi si ritrova a disegnare sui marciapiedi coi pastelli. Può darsi che i motivi per cui adoriamo i Beatles e/o Caravaggio non siano prettamente estetici, ma abbiano più a che vedere con le narrazioni che abbiamo costruito intorno a determinati manufatti – il motivo per cui i brani incisi da Lennon e McCartney nel 1969 ci sembrano geniali, e quelli incisi dalle stesse persone nel 1971 quasi trascurabili. Così oltre ad ascoltare un sacco di robaccia tutta uguale per trovare il brano tra mille che ha quel quid imponderabile, l'artista del futuro probabilmente dovrà preoccuparsi di costruirci sopra una narrazione. All'inizio saranno storie simili a quelle che già ci raccontiamo – avremo qualche boyband che in teoria si scrive le canzoni da sola, può darsi che in Corea ci siano arrivati dieci anni fa. E poi pian piano accetteremo che l'artista ormai è diventato un filtro, e qualcuno ci racconterà che stava guidando a fari spenti nella notte quando bang! la centoventireesima variazione di God Only Knows ibridata con la Quinta di Mahler lo ha dissuaso dal suicidio.


Qualcuno potrebbe ulteriormente obiettare che anche questo mestiere di filtro lo saprebbe fare un'AI: probabilmente alla lunga sì, probabilmente qualsiasi cosa noi facciamo lo può fare una macchina, e meglio. Del resto non stiamo già usando algoritmi che ci suggeriscono le canzoni nuove da ascoltare, in base ai nostri gusti? Quindi sì, in linea di massima puoi prima dire a una macchina: scrivimi ottocento canzoni dei Beatles, e poi a un'altra macchina (ma magari alla stessa): ascoltale e seleziona quella che piacerà la prossima settimana ai boomer della Cornovaglia in base al meteo e all'andamento della borsa. In prospettiva, non vedo perché non dovrebbe andare a finire così. Potrei obiettare (ma quante obiezioni ci sono in questo pezzo) che la macchina tenderà sempre a scegliere il risultato mediocre, mentre quello che davvero vogliamo è la sorpresa, il glitch, la progressione di Happiness is a Warm Gun, l'accordo di A Hard Day's Night. Cioè che per quanto le macchine potranno diventare brave a capire cosa ci piace, noi riusciremo sempre a deluderle e a cambiare gusti all'improvviso, come i gatti con le crocchette, forse ci evolveremo nei gatti dei nostri appartamenti iperaccessoriati, i maggiordomi digitali passeranno il tempo a chiederci se vogliamo entrare o uscire e noi li faremo impazzire. La nostra spinta a costruire macchine che ci sostituiscano è pari alla nostra necessità di sentirci diversi da loro, originali, imprevedibili, indecifrabili. 

Nel 1956 su un giornaletto di fantascienza uscì un racconto di James Blish, A Work of Art. Racconta la seconda vita di Richard Strauss, che (spoiler alert) un giorno si sveglia in una clinica, in un corpo che non è il suo. Gli spiegano rapidamente che non è lo Strauss che crede di essere, ma una copia il più fedele possibile all'originale, realizzata da due "scultori della mente" nel 2161. Il nuovo Strauss trova naturale rimettersi a scrivere musica, e viene incoraggiato in tal senso. In capo a pochi mesi realizza un'opera che gli sembra la naturale evoluzione del suo stile. Ma la sera della prima, riascoltandosi, si rende conto che in quello che ha scritto non c'è nulla davvero di nuovo: sono solo vecchie soluzioni di Richard Strauss, rimescolate in una forma diversa. Però la gente applaude. Guardando meglio, Strauss si accorge che non applaudono lui, ma i due scultori della mente: l'opera che stanno apprezzando non è la musica, è lui. Quanto alla musica, non hanno il senso estetico necessario per capire quanto sia derivativa e deludente: è l'ultimo consolante pensiero dell'AI di Strauss, prima di essere spenta. 

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