Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

martedì 31 maggio 2022

15. L'abisso non mi chiama, sto sul ciglio

[Benvenuti alla Gara, il più grande torneo di canzoni di Battiato mai disputato e mai disputabile, oggi con Brunelleschi, Rodolfo Graziani, Isidore Ducasse e Paolo Conte. Ma anche con Giusto Pio, Giuni Russo, Manlio Sgalambro e Caterina Caselli].

Si vota qui


1978: Su scale (per voce, coro e due pianoforti) (#233)

Su scale comincia con una cascata di scale pianistiche che ci ricordano due cose: (1) in quel periodo FB stava re-imparando la musica, nel senso che dopo l'incontro con Stockhausen aveva accettato di dover almeno capire come si legge uno spartito, farsi un minimo di cultura convenzionale e (2) Juke-box era nato come una colonna sonora di un film di Brunelleschi, per cui è inevitabile immaginare le "scale" non solo come quelle interminabili impartite agli studenti, ma come quelle delle ciclopiche impalcature di Santa Maria del Fiore, la prima sfida al cielo del Rinascimento. Nella seconda parte entrano le voci, e se quelle in sottofondo tutto sommato sembrano rispettare le convenzioni della musica occidentale, il solista è evidentemente in un altro mondo: si tratta forse del primo tentativo di Battiato di introdurre nella sua musica un tipo di vocalità orientale. 

FB non ha mai smesso di ricordare che Juke-box era da considerarsi una colonna sonora: persino nel suo sito internet, messo on line molti anni dopo, si legge a chiare lettere che l'album era nato per questo motivo. Qualcun altro avrebbe avuto tutto l'interesse a far passare il rifiuto sotto silenzio, ma per Battiato evidentemente l'unico senso dell'album era questo. 


1989: Lettera al governatore della Libia (con Giuni Russo, #105) 

Carico di lussuria si presentò l'autunno di Bengasi. La prima facciata di Giubbe rosse è anche un atlante del mondo battiatesco: al centro la Sicilia (Giubbe Rosse), a nord l'Europa (Alexander Platz), a est la Mesopotamia, al sud l'Africa coloniale che torna in tante canzoni di FB come una Sicilia aumentata, un luogo ambiguo di rimpianti e pulsioni inconfessabili. Sin dai tempi dell'autista dei camion in Abissinia di Aria di rivoluzione, figura evidentemente ispirata al padre, non è mai chiaro cosa voglia fare FB con questo album di ricordi non suoi, ricordi ereditati ai quali forse vorrebbe cambiare il significato. Lettera al governatore sembra il ricordo di una famiglia italiana che si trasferisce in un quartiere coloniale del capoluogo cirenaico aspirando al benessere della classe dominatrice, ma non può impedirsi di vedere la fragilità di tutto l'impianto. La versione di Giuni Russo del 1981 sprizza tuttora la vitalità di quel periodo particolare – la chitarra di Radius, il violino di Giusto Pio – la versione live del 1989 regge il confronto, anche perché la Russo è ancora dietro il microfono e può vocalizzare a piacere. 

1995: L'ombrello e la macchina da cucire (testo di Sgalambro, #152) 

Chiacchiero col vicino, lei non ha finezza: non sa sopportare l'ebbrezza. Sto riascoltando dopo anni L'ombrello e la macchina da cucire e devo dire che è una bella sorpresa, al tempo mi sembrava quasi  inascoltabile e invece le basi elettroniche hanno retto il tempo molto bene: anche l'impasto tipicamente battiatesco coi cori campionati da quell'opera (Il cavaliere dell'intelletto) che non ha mai voluto incidere. La nota dolente sono sempre i testi di Sgalambro, quell'insalata di riferimenti colti di seconda mano che in fondo anche Battiato sapeva fare, salvo che a Battiato riusciva meglio, va' a capire il perché: forse perché era chiaro sin dall'inizio che non faceva sul serio, laddove Sgalambro sembra persuaso che cominciare con una citazione del conte di Lautreamont e finire con Joyce sia una buona idea per realizzare un testo ispirato. E sono quasi tutti riferimenti di seconda mano, ovvero citazioni che sono già state citate da qualcuno e che il lettore midcult sapeva riconoscere anche prima dell'avvento di google: di solito era sufficiente una saltuaria frequentazione degli inserti culturali sui quotidiani. Invece "Che cena infame stasera, che pessimo vino" mi ricorda una frase molto simile che in Boris (il film) veniva usata come esempio di scuola di cattiva scrittura cinematografica – ecco, appunto. Devo capire se Battiato ha registrato anche una versione spagnola del disco perché probabilmente l'ascolterei con meno fastidio (ed è già la seconda volta dopo Piccolo pub che Manlio "filosofo" Sgalambro compare alticcio a un tavolino).


2002: Insieme a te non ci sto più (Conte-Pallavicini, #24) 


Chi se ne va, che male fa? Certe canzoni fanno giri lunghissimi, stancano tutti e non si sentono per anni interi per poi risorgere all'improvviso (e stancare tutti di nuovo). Questo per spiegare come Insieme a te non ci sto più nel 2002 fosse una scelta meno banale di adesso: certo, Nanni Moretti l'aveva già usata per due scene topiche sia in Bianca (dove si sentiva anche Scalo a Grado!) che nella Stanza del figlio, uscito appena un anno prima. Anche Arrivederci amore ciao, il romanzo di Massimo Carlotto, era fresco di stampa; il film omonimo sarebbe uscito solo cinque anni più tardi e solo a quel punto Caterina Caselli avrebbe vinto il David di Donatello per la migliore canzone originale. Quest'ultimo dettaglio non credo potesse impressionare più di tanto Paolo Conte, che però qualche anno dopo confessa a un giornalista che Insieme a te non ci sto più è la canzone di cui va più orgoglioso. Eppure non l'ha mai incisa; qualcuno sostiene di averlo sentito cantarla a un concerto ma non abbiamo prove. In compenso abbiamo una versione di Battiato che nel secondo volume di Fleurs (quello che si chiama Fleurs 3) sembra a volte tentato dall'operare in modo inverso: invece di trasformare ogni canzonaccia in musica da camera, prendere canzoni che sono già considerate classici e snellirle, modernizzarle, immaginarle adatte alla radiofonia contemporanea. È comunque un'operazione condotta con molto garbo e a volte a malapena percettibile (vedi qui le schitarrate di apertura, che ci fanno immaginare una versione molto più rock di quella che poi segue), ma è comunque meno interessante di quello che Battiato aveva tentato col primo volume di Fleurs, anche perché la sua idea di modernità radiofonica non è necessariamente la nostra e l'accenno di Ciao amore ciao ci lascia presagire un mash-up che per fortuna non si realizza. Detto questo, è bello che esista almeno una canzone di Battiato scritta da Paolo Conte (anche l'inverso non sarebbe male, ma è più difficile da immaginare). Dopo di lui l'hanno rifatta un po' tutti ma la sua resta la più ascoltabile – insieme con l'originale, incisa dalla Caselli con quella voce che Conte definiva "da lavandaia", la voce di una che ti lascia con un sorriso a trenta denti e devi anche essere contento che non ti morda. Non ti sto facendo male, vero? No, no, figurati, anzi.     

lunedì 30 maggio 2022

14. Io t'ho amato sempre non t'...

[Questa è la Gara, ovvero una gara di canzoni di Franco Battiato. Oggi in lizza quattro brani tra cui due di Fabrizio De André, uno degli artisti che ha più amato e interpretato].

Si vota qui


1995: Piccolo pub (testo di Manlio Sgalambro, #201)


"Nel '43, ero malato, vidi tutta la mia vita sudato, scorreva finita". Una cosa che tendo a dimenticare è che tra Sgalambro e Battiato c'erano pur sempre 21 anni di differenza, una generazione. Se la cosa si nota meno di quanto si potrebbe è anche perché dei due è spesso l'anziano a parlare più sboccato. È tipico associare Sgalambro a quel lessico barocco che però era un marchio di fabbrica del prodotto-Battiato molto prima che i due s'incontrassero – davvero, Battiato non aveva avuto bisogno di Sgalambro per cantare "codici di geometrie esistenziali" o "lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco". Né la lirica sgalambriana ha mai raggiunto quei livelli: in compenso dopo averlo incontrato Battiato ha incluso nel suo lessico termini come "puttana", oppure in questa canzone si è concesso una divagazione filosofica sulla pisciata nel bagno di un esercizio pubblico. "Birra e urina si scambiano le parti: la latrina è il tuo caveau. Liquido vitale scorre in entrambe". Sembrano veramente i pensieri sciolti di un filosofo alticcio alla terza pinta, che si congeda dagli amici dicendo "ci vedremo domani se la notte non fa il suo colpo stanotte": un po' ridondante ma espressivo – se FB non scegliesse di ripetere il verso tre volte nella canzone, dando una sensazione come di rincoglionimento (la musica però è buona). 


1999: Amore che vieni, amore che vai (De André, #56)



Il primo Fleurs è, tra le altre cose, un prodotto piazzato con un tempismo pauroso; certo, potrebbe anche essere successo per caso, ma è un fatto che le ceneri di Fabrizio De André erano ancora calde e milioni di italiani stavano giusto scoprendo di averlo sempre amato. Si erano messi a chiamarlo per nome, anzi "Faber", come l'amico-fragile che all'improvviso rimpiangevano. Terminava un processo di canonizzazione che era iniziato una decina d'anni prima, dalle Nuvole: perché fino a quel momento De André era sempre riuscito a eludere il passaggio da solito stronzo a venerato maestro. Pochi mesi dopo Battiato sceglie per il suo primo disco di cover due classici del De André più intimista (e meno controverso): giusto in tempo per prenotarne almeno uno per il concerto-tributo che si tiene a Genova il 12 marzo dell'anno successivo. Quando arriva sul palco Battiato insomma dovrebbe trovarsi in discesa: il brano lo conosce, lo ha appena inciso, e il pubblico lo ha già ascoltato nella sua versione: cosa può andare storto? Accade invece che a Battiato, un professionista con decenni di concerti alle spalle, si mozzi il fiato a metà di un verso, in un moto di commozione così spontaneo che il pubblico lo riconosce immediatamente (e applaude). Ed ecco un'altra ipotesi su Fleurs: invecchiando si diventa sentimentali, basta una vecchia canzone per spremerci una lacrima, la gente penserà che la colleghiamo a questo o quell'amore finito ma non è necessariamente così. A volte è la semplice verità del brano, così lucida che taglia: io ti ho amato sempre, non ti ho amato mai. L'amore è pensare per tutta la vita a una persona di cui non sai più niente da anni, a questo punto potresti persino telefonarle, non sarebbe certo molestia volerla sentire una volta in trent'anni ma ti rendi conto che no, in realtà tutto quello che vorresti dire a lei non lo vuoi dire alla lei di adesso, tutto questo amore che provi ha ormai ben poco a che fare con quella lei che risponderebbe al telefono, l'hai amata sempre, non l'hai amata mai, uno poi pensa che mentre piangiamo siamo buoni ma è il contrario, si è sempre soli con le proprie lacrime, è sempre e solo per noi stessi che piangiamo.   

2007: Stati di gioia  (#184)

"Era l'estate del '63, un pomeriggio assolato. Da un juke-box di un bar completamente vuoto: She loves you ye ye ye. Ommmm". È un tratto comune a molti della sua generazione: l'ascolto dei Beatles come uno choc primario, qualcosa che modifica per sempre la percezione. Succede a Bob Dylan (classe 1941) e succede a FB (1945). Il primo era già un folksinger affermato, il secondo un diciottenne che nella vita avrebbe suonato tutt'altro (ma lascia perplessi che i jukebox siciliani fossero già aggiornati alle novità inglesi). Eppure per entrambi – e tanti altri – i Beatles tracciano un solco. Posto che per apprezzare Stati di gioia conviene comunque ascoltare la versione studio del Vuoto, stavolta preferisco mostrare questo video di uno spettatore che è riuscito a inquadrare Battiato da vicino mentre la canta. Non per come la canta – il fiato cominciava a mancargli – ma perché, accidenti, è felice. È una persona che ha scoperto la gioia da ragazzino ed è riuscito a non dimenticarsene, a mettere insieme gli indizi finché non l'ha ritrovata, e quando l'ha ritrovata ha cercato di spiegare a tutti come si fa. Ha a che vedere con la meditazione ma anche con una canzoncina per teen-ager. Io non so nemmeno se mi piaccia, una canzone come Stati di gioia, e in generale sui suoi ultimi dischi sospendo il giudizio, era ancora bravo, ispirato? Era felice, questo importa. Forse a un certo punto non lo ascoltavamo nemmeno più: non importava cosa cantasse, l'importante era vederlo felice, saperlo felice. 


2009: Inverno (#73) 



Ma tu che vai, ma tu rimani. Negli anni Zero FB era diventato, a causa delle sue caratteristiche intrinseche, l'ospite ideale di Fabio Fazio: garantiva con la sua sola presenza uno spessore culturale, un'amabilità pop, e si teneva ancora molto lontano dalle polemiche politiche. A chi se non a lui quindi demandare il decennale della morte del solito Fabrizio De André – assurto nel frattempo all'empireo dei classici della letteratura. Battiato si presta al compito con generosità, confermando che l'unico De André che gli interessa interpretare è quello barocco delle collaborazioni con Gian Piero Reverberi e regalandoci una cover rispettosa ma non banale di un brano quasi dimenticato. Tutti morimmo a stento è un disco dallo strano destino: fu il LP più venduto in Italia nel 1968, probabilmente perché a quel tempo ascoltare pezzi di De André in radio era impossibile; in seguito snobbato anche dal suo autore. Battiato avrebbe potuto portare a casa la serata con la solita Amore che vieni, o La canzone dell'amore perduto: e invece sceglie una canzone che sotto la patina dell'orchestrazione nasconde una natura freddissima e inquietante: dopotutto è una visita a un cimitero, raccontata da un visitatore tentato di restarci. È perfetta per ricordare De André senza concessioni alla retorica, ed è perfetta per la voce ormai tremolante di FB che a quel cimitero si sente sempre più vicino. Una versione studio della sua interpretazione (meno tremolante) viene poi incisa in Inneres Auge

domenica 29 maggio 2022

13. Coatti nella convivenza affrontiamo il progresso

[Questa è La Gara, una competizione di canzoni di Battiato, cioè tipo che siete in cima a una torre con quattro canzoni di Battiato e dovete buttarne giù tre. Meno divertente di quel che sembra, in effetti] 

Si vota qui

1967: La torre (#248)


BATTIATO: Siete degli ipocriti.

CASELLI: Ma chi è questo?

GABER: Io l'ho già visto. Sembra me con la barba e i baffi.

CASELLI: Esatto!

GABER: Ma insomma, si può sapere cosa vuoi tu?

BATTIATO: Cosa voglio? Sbattervi giù dalla torre!

La storia è ormai nota: quella sera a Diamoci del tu Caterina Caselli presentava un artista promettente, relativamente conosciuto per le canzoni che aveva scritto per l'Equipe '84, di taglio cantautorale, molto riconoscibili rispetto al resto del loro repertorio: Auschwitz, Dio è morto (quando sente i titoli il pubblico applaude). Si chiamava semplicemente Francesco, come oggi i concorrenti a X Factor, e la Caselli spiega che il suo genere è la "folksong". Ma nella stessa puntata anche Gaber, il copresentatore, aveva una sua giovane promessa da presentare: un giovanotto dinoccolato che per l'occasione deve rinunciare al suo nome di battesimo, dato che si chiamava Francesco pure lui. Da lì in poi si chiamerà Franco Battiato, anche per sua madre. A differenza dell'altro Francesco, Battiato non ha nessun titolo con cui impressionare il pubblico: gli unici dischi che ha inciso sono un paio di 45 giri di cover per una rivista enigmistica che li acclude al numero in edicola; Gaber l'ha scovato in un'osteria dove cantava canzoni siciliane spacciandole per medievali. La torre è un brano molto acerbo, che declina un certo atteggiamento scostante di marca esistenziale con un ritmo trascinante da marcetta, alla Anthony: insomma due tendenze di segno opposto, ma entrambe di provenienza francese, mescolate assieme nella speranza che funzionino e col senno del poi sembra abbastanza chiaro che no, non possono funzionare le lagne e le marcette nello stesso brano. Era un esperimento, in quegli anni le si provavano un po' tutte e anche un buco dell'acqua non era una tragedia. Battiato avrebbe potuto scomparire di lì a poco come centinaia di altri. Persino l'altro Francesco (Guccini) avrebbe potuto scomparire: malgrado gli applausi, il suo primo album da folksinger (per la Voce del padrone!) vendette 500 copie, oggi ci vai in top100 ma ai tempi erano pochissime. Conteneva tra l'altro un brano che sembra la parodia del Battiato della Torre, l'Asociale: "sono un tipo antisociale / non m'importa mai di niente / non m'importa del giudizio della gente... in un'isola deserta / voglio andare ad abitare / e nessuno mi potrà più disturbare". Cioè è davvero la stessa cosa che canta Battiato, ma senza marcette fuori luogo e con tanta ironia in più. Però il brano era già uscito su un 45 giri l'anno prima, quindi no, Guccini non stava prendendo in giro Battiato. Al massimo stava canzonando un atteggiamento, un mood che al tempo di Battiato era già un luogo comune.  


1982: Radio Varsavia (#9) 

L'ultimo appello è da dimenticare. Nel 1982 Battiato è letteralmente la Voce del padrone. Ha osato tanto, ha vinto il banco, ha venduto più dischi di tutti e ora può fare quel che vuole. Quel che vuole è prendere immediatamente le distanze da quel tipo di successo: gli artisti a volte fanno questo tipo di cose, all'inizio sembra un impulso autodistruttivo ma sulla media-lunga distanza ti impedisce di diventare schiavo di un trend o legato a un singolo momento della storia del costume. Il nuovo disco deve assolutamente suonare diverso dalla Voce del padrone, anche se tutto questo tempo per inventarsi cose nuove non c'è e quelle vecchie continuano a vendere e a farsi sentire in radio. Tutto questo sin dai primi subliminali istanti: La voce cominciava con un rumore di onde, L'arca col fruscio del vento nel deserto su cui incombe per un magico istante un suono di fine del mondo, forse un campionamento orchestrale del Fairlight sovrapposto a un coro dei Madrigalisti di Milano. La voce ti sparava subito un 5/4 disorientante: L'arca inchioda l'ascoltatore a un più tetragono 4/4. La voce cominciava col miraggio di un'estate infinita, l'arca con le istantanee notturne di qualcosa di un colpo di Stato: i volontari laici scendevano in pigiama per le scale per aiutare i disertori. Questa non è la Mesopotamia o Atlantide, questo è il colpo di Stato di Jaruzelski del 1981, è cronaca ancora fresca di stampa: qualcosa che i cantautori di quel periodo avevano imparato a rifuggire come la peste perché allontanava sia i clienti moderati che quelli radicali. E malgrado nella terza strofa FB rimescoli le carte cianciando di commercianti punici e di Abissinia, il senso è molto più chiaro del solito ed è ribadito alla quarta stanza: la Cina era lontana, l'entusiasmo per il movimento operaio non è più sostenibile, il comunismo ha smarrito la sua spinta propulsiva, se non nell'economia almeno nell'immaginario. Questo nel 1982 non era poi così facile da accettare: qualche anno prima Battisti si era guadagnato una nomea di cantante di destra per molto meno. La stessa nomea, puntualmente, piombò su FB, che da un punto di vista ideologico sembrava già compromesso: un lettore di Gurdjieff e Guenon, un frequentatore di Calasso, nel 1982 non poteva che appartenere alla "nuova destra". Forse anche per questo motivo l'Arca incassò molto meno, e se oggi Radio Varsavia sembra una canzone molto meno ambigua, ed è una delle sue più apprezzate (su Spotify è la nona canzone di Battiato più ascoltata in assoluto) è perché abbiamo accettato che il comunismo reale negli anni '80 era davvero una grondaia arrugginita pronta a cadere di schianto, inoltre abbiamo fatto la pace con le ambiguità ideologiche dei cantautori, e soprattutto un certo modo di abbellire le canzoni evocando souvenir delle ideologie del passato dopo Radio Varsavia ha fatto scuola: nello stesso 1982 dell'Arca di Noè compare in qualche negozio di dischi un oggetto strano, non si capisce se il gruppo si chiama CCCP o Fedeli alla linea. 


1983: Gente in progresso  (musica di Battiato e G. Pio, #120) 

Secondo Giulia Cavaliere, Orizzonti perduti è "l’album più profondamente milanese della storia della musica italiana" e io le credo. È senz'altro un disco sospeso tra sede e fuorisede, tra "il nord" e "giù", un presente frenetico e un passato idealizzato. Alla pendolarità geografica corrisponde quella stagionale e non è un caso che Gente in progresso, la canzone più milanese del mazzo, cominci in settembre e finisca in primavera: è il calendario della gente "che lavora per avere un mese all'anno di ferie". Il mantra Hare Krishna che spunta tra un ritornello e la strofa non sconfigge quella sensazione asettica, ambulatoriale, evocata dall'arrangiamento elettronico: più di un canto di liberazione sembra la litania di qualcuno che "nelle fabbriche, nei negozi, dietro a scrivanie" cerca di lenire l'alienazione con la meditazione. In tanti altri momenti della carriera di Battiato, Gente in progresso sarebbe diventato un classico. Ma nell'83/84 non fa nemmeno uscire un singolo, e poi comunque in tv vanno i videoclip della Stagione dell'amore e di Mal d'Africa. Negletta anche dalle scalette dei concerti, Gente in progresso resta uno dei migliori risultati del Battiato elettropop che riesce a insufflarci una sottile nostalgia anche per quei settembri dolceamari in cui proviamo ogni volta a programmare un anno migliore, prima che la pioggia e la routine prendano il sopravvento.   


1988: Zai saman (#137)

"Come una volta andiamo a visitare la famiglia, guarda com'è grande il ragazzo, guarda la gente come raccoglie i fiori" (traduzione del ritornello). In un disco complessivamente tranquillo e delicato come Fisiognomica (a un certo punto stava per chiamarsi L'Oceano di silenzio), Zai Saman è di gran lunga il momento più frastornante, quello in cui FB si alza dal tappeto di preghiera e ordina agli orchestrali: 1,2,3, casino. Gli orchestrali nel frattempo sono tutti cambiati e Zai Saman è forse il brano in cui più rimpiangiamo i vecchi, perché il nuovo casino non ha la brillantezza dei momenti più giocosi di Patriots o dell'Arca, e nemmeno di Mondi lontanissimi. Cambi di tempo, cambi di lingua, cori e chitarre in fiamme (ma i cori non sono più i Madrigalisti e si sente, le chitarre non sono più di Radius e si sente), ogni senso della misura è allegramento abolito e per almeno tre minuti sembriamo di nuovo in presenza del Battiato giocoso e scavezzacollo. Anche il testo non sa bene dove andare: un ricordo del passato, un ricordo dell'amore, o un compianto per la fine dell'occidente? E almeno stavolta lo ammette: sì, l'occidente soffocherà "per ingordigia e assurda sete di potere", ma dall'Oriente non aspettiamoci che "orde di fanatici".

Si vota qui

sabato 28 maggio 2022

12. Non si erano mai viste code tanto grandi, tanto lunghe

[Questa è La Gara, questo è un torneo di canzoni di Battiato. Qualcuno ne ha sentito il bisogno. Voi no? Cliccate altrove. Se invece volete votare, si vota qui]. 


1973: Beta (#40) 


Son felice di essere un Beta. Il mio giorno non è duro. Dentro il mare mi posso vestire, dai Gamma e dai Delta farmi ubbidire. Nel Mondo Nuovo Beta sono gli impiegati, il ceto medio che deve convincersi di essere felice (questa cosa che sia in Orwell sia in Huxley lo Stato sia totalitario nella misura in cui mesmerizza il ceto medio meriterebbe un ulteriore approfondimento, ma non è questa la sede). Per questo i Beta vengono condizionati sin dalla culla, anche mediante l'ascolto di nastri registrati che Battiato qui tenta di riprodurre – perché i Beta alla fine sono anche il target della musica leggera anni '70, una massa di sedicenti rivoluzionari che non vedono l'ora di infilarsi nella nicchia di un posto fisso. (Qualche anno più tardi, agli stessi Beta mezzi addormentati Battiato canterà, subdolamente: sei un essere speciale e io avrò cura di te). È interessante che la prima volta che Battiato mette per iscritto un mantra, questo consista in una serie di frasi mistificanti. Poi parte una improvvisazione intorno al tema di Areknames, con basso batteria e pianoforte e Battiato che fa versi inquietanti con l'eco, una cosa che potrebbe veramente stare in Ummagamma e nessuno noterebbe una grande differenza – nessuno è previsto che rimanga sveglio mentre ascolta Ummagamma e forse anche Beta era concepito da Battiato per addormentarci e continuare a ipnotizzarci subliminalmente. Fino al recitativo finale, una domanda che mi tormenta da ancora prima che l'ascoltassi: "Dentro di me vivono la mia identica vita dei microrganismi che non sanno di appartenere al mio corpo... Io a quale corpo appartengo?"


1982: L'esodo (testo di Tommaso Tramonti (Henri Thomasson) #89)

Fine dell'imperialismo degli invasori russi, e del colonialismo inglese e americano. Dalla prima volta che ho ascoltato quella canzone formarsi all'orizzonte del mio udito (attraverso le pareti che mi separavano dal ghettoblaster di mio cugino), spuntare come dalla nebbia di quell'accordo infinito di synth, L'esodo è stata la mia canzone. Di fini del mondo Battiato ne ha scritte tante, ma questa è la più precisa e contingente, questo è come il mondo potrebbe davvero finire: non con un bang ma con una coda immensa (moltitudini, moltitudini) che si perde nella polvere, nella nebbia, nell'accordo dell'armageddon. I madrigalisti di Milano sembrano sospesi sull'arrangiamento come gli angeli dell'apocalisse in un angolo del quadro. Mamma mia che festa. Mantengo la mia posizione: L'arca di Noè è il più grande disco di Franco Battiato. Non che questo avrà importanza, nel giorno della fine.


1996: Serial Killer (#168)

No non voglio farti del male, fratello mio, non credere perché ho un coltello in mano e tu mi vedi quest'arma a tracolla e le bombe che pendono dal mio vestito come bizzarri ornamenti, collane di scomparse tribù. Non avere paura perché porto il coltello tra i denti e agito il fucile come emblema virile. Non avere paura della mia trentotto che porto qui sul petto... Allora, Sgalambro, questo è ridicolo. Cioè lo so dove vuoi andare a parare, lo capisco, posso anche apprezzare l'idea complessiva, il finalino a sorpresa e a morale (Di questo invece devi avere paura: io sono un uomo come te), però questo personaggio di sogno col coltello, e le bombe che pendono, e il coltello tra i denti, e il fucile, se uno ha una fantasia un minimo visiva come se lo deve immaginare, se non come un bozzetto di Andrea Pazienza, ma di quelli disegnati col pennarello grosso per farsi una risata? Io veramente non ci riesco, non riesco a prenderti sul serio, e nemmeno a ridere quando scherzi, e tutti questi tuoi rimandi culturali che servono a far capire che non sei un signor nessuno, che hai studiato, a mettere in soggezione l'ascoltatore, cioè me? Cioè io dovrei nutrire soggezione perché se dici "sogno pomeridiano" soggiungi subito "di un fauno"? Ma per favore: e quel che mi fa più rabbia è che la musica qui c'è, Battiato sembra in forma, si capisce che vuole fare qualcosa di complesso ma popolare, tentare nuove strade ma ascoltabili, aggirare la dittatura contemporanea della dinamica schiacciata, cominciare piano, esplodere e smorzarsi, tutto molto interessante ma non riesco ad ascoltarlo, ti giuro, per vent'anni non sono riuscito ad ascoltare L'imboscata perché le tue poesie sono stuccatissimi specchietti per allodole e io non dico di essere un'aquila, neanche un falco, ma un'allodola no. Quanta musica buona ha buttato via FB cercando di musicare le tue cianfrusaglie, non ti perdonerò mai, non me lo spiegherò mai. Scusate.


2011: Svegliami domani (con Cinzia Fontana #217)

Uno degli episodi meno noti della carriera di Franco Battiato è questo featuring del 2011 con la cantautrice padovana Cinzia Fontana, che per l'occasione sfoggia nelle strofe un timbro rauco che non può ricordare quello di Alice. Più in generale siamo davanti a un caso da scuola di Battiato-exploitation, ovvero di un brano costruito per attirare l'ascoltatore di Battiato, con una serie di stilemi che lo faranno sentire a casa. È uno stratagemma a cui FB si presta con generosità ma la canzone ha comunque qualcosa che non va – un evidente sbilanciamento tra le strofe e il reiteratissimo ritornello. Sono canzoni che vale la pena di osservare, ogni tanto, per capire quant'è difficile ottenere quell'equilibrio che quando ascolti un Battiato sembra sempre così naturale e spontaneo. Dopodiché mi sono già pentito di averla inserita, ho scartato altre canzoni molto più battiatesche (anche se non attribuite ufficialmente a lui: niente Osage Tribe, niente Genco Puro); ho scartato Joe Patti perché pur essendo un esperimento interessante è troppo spesso un doppione di cose che Battiato aveva già fatto; ho scartato cose anche pregevoli che davvero era impossibile considerare canzoni: tutto Gilgamesh, tutta la Genesi, la Messa Arcaica, tutto Cellini, tutto Telesio, e però mi sono tenuto Campi magnetici e Juke Box e l'Egitto dopo le sabbie, perché? Non c'è un vero perché, bisognava arrivare a 256 pezzi, qualcosa è entrato qualcosa no. Svegliami domani non doveva entrare, siamo d'accordo, ma era su Spotify e se l'avessi tolta avrei dovuto ricalcolare le ultime 40 posizioni, rifare tutti i gironi, insomma è andata così. Tanto il turno non lo passa, no?

Si vota qui

venerdì 27 maggio 2022

11. Passano gli anni, i treni, i topi per le fogne, i pezzi in radio

[Questa è sempre La Gara, una competizione di canzoni di Franco Battiato. Oggi abbiamo un jazz sperimentale per chitarra e violino, un rock postmoderno con Eraclito in sottofondo, una canzone d'amore barocca e un tappeto di suoni elettronici per un balletto. Poi è vero che certe volte Battiato dava la sensazione di ripetersi un po', però insomma, ecco, dai]. 

Si vota qui

1972: Cariocinesi (#153)

Un nucleo si divide, l'errore lo interrompe. Il fascino particolare di certe opere prime risiede anche negli errori di percorso, in tutti gli esperimenti non riusciti e da lì in poi accantonati che ci fanno per un attimo immaginare che lo stesso artista avrebbe potuto prendere strade completamente diverse, ci è mancato pochissimo. Ad esempio Cariocinesi è un intermezzo jazz nel bel mezzo di Fetus – ok, è un jazz sui generis, una specie di swing con un violino in evidenza, e una chitarra ritmica forsennata. Non è certo il momento più innovativo di Fetus, ma è qualcosa di divertente che Battiato non tenterà (quasi) mai più: da lì in poi, pur percorrendo innumerevoli e apparentemente incompatibili universi musicali, dal jazz si terrà sempre a rispettosa distanza: anche nella fase della sua carriera più orientata all'improvvisazione, che sta per cominciare.

1996: Di passaggio (con Manlio Sgalambro, #104)

Passa la gioventù, non te ne fare un vanto. Devo confessare di avere ingiustamente detestato Di passaggio quando uscì, per un motivo abbastanza sciocco, ovvero quella citazione di Eraclito piazzata lì da Sgalambro con la mano leggera di un liceale che cerca un frontespizio ad effetto per la sua tesina di quinta. Quant'ero geloso, no? Battiato aveva sempre ficcato riferimenti culturali di seconda mano nelle sue canzoni, e non ci avevo mai trovato niente di male, avevo sempre pensato che fosse un procedimento ironico. Ma appena compare il vocione di Sgalambro, l'alibi dell'ironia sembra crollare. A riascoltarla Di passaggio è una canzone trascinante, soprattutto grazie all'epica chitarra di David Rhodes, che conferisce una credibilità rock a un riff che grida: ouverture! (davvero, immaginatelo orchestrato per violini). Il ritornello spostato di un semitono ("Siamo solo di passaggio") ci ricorda che sotto a tutto questo rock'n'roll c'è sempre il tappeto di preghiera di un guru: Di passaggio è una delle sue prime meditazioni sulla caducità dell'esistenza (ne seguiranno molte altre negli anni a venire).  

1999: La canzone dell'amore perduto (Fabrizio De André, Georg Philipp Telemann, #25) 

Ricordi? Sbocciavano le viole. La canzone dell'amore perduto sembra fatta apposta per Fleurs – e questo magari è un suo limite, in una raccolta che funziona in parte anche grazie all'effetto sorpresa. In ognuno di queste canzoni, Battiato cerca qualcosa di fuori del tempo, la classicità: ma è più curioso vederlo mentre le trova in brani del repertorio pop o rock piuttosto che in una canzone che alla musica classica si rifaceva già in partenza. E in effetti qui la cura di Battiato sta nell'attenuare per quanto possibile il riferimento barocco dell'originale (l'originale era arrangiato da Gian Piero Reverberi, che più tardi avrebbe inventato il Rondò Veneziano, ovvero un altro esempio di commistione tra musica classica e pop che partì proprio nello stesso periodo in cui Battiato portava il violino di Giusto Pio in classifica, e che non poteva non avere presente, se non altro per scansarlo come la peste).   

2000: La corrente delle stelle (#232)

Campi Magnetici è un'uscita di Battiato che potreste esservi persi. Secondo Onda Rock è il suo "lavoro più inascoltabile", giudizio apparentemente ingeneroso se si pensa a quante cose davvero poco ascoltabili aveva realizzato nel suo periodo più oltranzista. Non solo Campi Magnetici non è una tortura per l'orecchio come Oriental Effects o Juke-box, ma in queste sere afose lo sto ascoltando più volentieri dei suoi dischi cantautorali dello stesso periodo: non dico sia migliore di Gommalacca o Ferro battuto, ma mi imbarazza meno tenerlo acceso mentre faccio altre cose. Il che ci pone più di un problema: è ancora musica d'avanguardia se la fruisco come muzak di sottofondo? E cosa è successo alle mie orecchie, quale bomba sonora li ha devastati nella jungla triphoppara degli anni Novanta perché esse possano trovare rassicurante un collage di suoni e rumori inquietanti? 

Si vota qui

giovedì 26 maggio 2022

10. E cominci a detestare i processi meccanici e i tuoi comportamenti

[Non vorrei che pensaste che questo non è l'ennesimo episodio della Gara, un torneo di canzoni di Battiato, oggi tutte comprese in 12 intensi anni in cui Battiato ha cantato qualsiasi cosa, da Fleur Jaggey a Salvatore Di Giacomo al rai]. 



1993: Atlantide (testo di Carlotta Wieck, #72)

 
"Il suo re Atlante conosceva la dottrina della sfera gli astri la geometria, la cabala e l'alchimia". Cos'è questa roba? Di solito Fleur Jaeggy non si vergognava a prestare le sue liriche a Battiato, firmandole col suo vero nome (sì, Fleur Calasso Jaeggy è il suo vero nome). Il fatto che stavolta preferisca nascondersi dietro uno pseudonimo non promette molto bene, e in effetti il testo di Atlantide è poco più di una finta leggenda – se mi ricorda la caduta di Numenor è perché ho più dimestichezza con Tolkien che con altri pompierismi di area Adelphi. Però insomma questi Dei che si dividono il mondo, queste kitschissime cabale e alchimie mi ricordano inevitabilmente quel pezzo di Labranca su Calasso e il suo mondo: "Vede, vuole fare il raffinato e poi cade nella trappola del peggior Barocco brianzolo. Angeli, sindoni, mercuri alati… bleah. Prima o poi rischierà di scegliere qualche pagliaccio triste o qualche marina di Camogli all’alba". Anche a Battiato alla fine è capitato qualcosa del genere, che di raffinatezza in raffinatezza si è ritrovato a cantare canzonette da pianobar (ed è comunque un motivo per cui lo amiamo, avercene di pianobaristi come lui). Musicalmente Atlantide è meno banale ma non così memorabile: per sua ammissione c'è un po' di Stockhausen, un coro armeno, un soprano bulgaro "tutto mischiato insieme".   


 1999: Era de maggio (#57)



Battiato nella sua vita da performer non è che si sia tirato indietro. Ha suonato ai festival di Re Nudo, tenendo una nota sola per minuti e minuti in mezzo ai freak, ha suonato in Iraq e all'Eurovision ma se dovessi dire la cosa più coraggiosa che gli è capitato di fare, secondo me ha duettato in tv con Massimo Ranieri. E non una canzone qualsiasi, ma un classico della canzone napoletana, Era de maggio, già incisa in Fleurs. Il duetto in sé va come era prevedibile che andasse: Battiato non era nemmeno troppo in forma e Ranieri appena entra lo distrugge, che altro può fare Massimo Ranieri? Ma il contrasto può servire per farci capire cosa stava cercando di fare in Fleurs: essiccare le canzoni, strapparle al loro contesto specifico e metterle sotto vetro; nel caso di Era de maggio denapoletanizzarle, eliminando quell'enfasi teatrale che ha senso quando una canzone deve difendersi nei vichi, ma che rischia di distrarci dalla pura bellezza di un testo e una musica, che io in effetti senza Battiato probabilmente non avrei ascoltato. È in effetti lo stesso procedimento che porta Battiato a cantare Lied con la sua voce educata ma non impostata: i puristi non ci troveranno niente di interessante; chi non si era mai interessato scopre un mondo. 

2001: Personalità empirica (#185)

 

Quando non coincide più l'immagine che hai dite con quello che realmente sei. Prendiamo, non lo so, Personalità empirica: parte la drum machine e poi in una botta un Ciaikovskij da pianobar, i vocalizzi moreschi di Natacha Atlas e Sgalambro che sgalambra pensoso in sottofondo e in francese. E tutto questo in qualche modo suona credibile, suona Battiato, ma forse questo è proprio il problema: ormai possiamo aspettarci di tutto, se la seconda strofa la cantasse il Gatto Silvestro o Jim Kerr per noi sarebbe uguale, sarebbe comunque tipico Battiato. Se a partire da Clic il giovane B. aveva iniziato a constatare l'impossibilità di fare musica, a tagliarsi tutti i ponti alle spalle e a ritrovarsi davanti solo il Silenzio del rumore, un quarto di secolo dopo il problema è l'inverso: pezzo dopo pezzo, esperimento dopo esperimento, Battiato ormai si è creato un mondo in cui può fare letteralmente tutto quello che gli passa per la testa, un universo di possibilità: e paradossalmente è proprio questa possibilità infinita a non consentirgli più di evadere da sé stesso, perché tutto quello che tocca diventa comunque Battiato, un brand inconfondibile, una gabbia di ferro battuto. Sgalambro dice che vorrebbe abbandonare la propria personalità e lo capiamo, succede a tutti di non sopportare più le persone con cui si vive, succede anche a chi vive da solo e forse più spesso. Gli anni Zero sono stati disorientanti per tutti: tutto era diventato immediatamente disponibile, la musica del passato parcellizzata in mp3 suonava più smagliante che mai e anche campionarla non richiedeva più nessuna particolare abilità o gusto. Battiato può fare quello che vuole e quindi non sa più cosa fare: il rischio di farsi il verso da solo è fortissimo e lui lo vede pure, ma non può farci niente. 

2004: 23 coppie di cromosomi (#200)



L'inflazione che caccia nelle mani dell'individuo, in un gesto solo, miliardi di marchi, lasciandolo più
miserabile di prima, dimostra punto per punto che il denaro è un'allucinazione collettiva. Trent'anni e più dopo Sirena, Battiato e Maurizio Arcieri si ritrovano per Dieci stratagemmi: sono entrambi molto cambiati. Le loro collaborazioni in questo disco del 2004 non riescono a scrollarsi di dosso una sensazione di déja vu, come se per entrambi la priorità fosse mantenere una propria riconoscibilità: per esempio 23 coppie di cromosomi è un brano perlopiù elettronico che suonerebbe per qualche motivo un po' più Chrisma che Battiato (forse saranno i quattro quarti ben scanditi), non fosse per gli sgalambrismi declamati dallo stesso Battiato al microfono, che richiamano immediatamente Campi magnetici, o purtroppo ci fanno sentire quanto poco sia necessario riproporre tutto questo dopo l'exploit di Campi magnetici.

mercoledì 25 maggio 2022

9. Ne abbiamo avute di occasioni, perdendole

[Benvenute e benvenuti alla Gara, questa interminabile competizione di canzoni di Battiato, con quattro tioli da quattro decenni diversi]

Si vota qui  

1967: Le reazioni (#249)


Il lato B del singolo La torre, con cui il giovane Battiato si getta nella mischia del mercato musicale, forte di un contratto con la Jolly e di un amico in paradiso come Giorgio Gaber. È una delle prime canzoni di cui Battiato scrive testi e musiche (anche se alla Siae non risulta perché non era ancora iscritto), ma la sensazione è che più dei testi e delle musiche – non troppo memorabili – gli interessi costruire un personaggio, un ragazzo tormentato e scostante che vive l'amore come un'esperienza destabilizzante e forse preferirebbe farne a meno. Tutto questo non è soltanto autobiografico e anticipatore di tanta poetica battiatesca nei decenni a venire, ma nei secondi anni Sessanta si sposa a un'estetica esistenzialista che forse non era la più apprezzata dai giovani acquirenti di dischi, ma un suo mercato lo aveva: il campione di questo mood era Luigi Tenco, che proprio nel 1967 aveva deciso di chiamarsi fuori nel modo più assurdo possibile. Battiato ripartirebbe da lì, con arrangiamenti più aggiornati alle novità del rock inglese (non ho capito se c'è già Logiri alla chitarra, ma qualcuno comunque deve aver ascoltato se non Jimi Hendrix almeno gli Yardbirds). Il tutto ovviamente solo nel caso che al pubblico questo Giovane Arrabbiato piacesse, il che non accadde, anche se è difficile capire il motivo: quel che è sicuro è che persino Battiato accettò di ripiegare su tematiche più amorose e meno arrabbiate. 

1974: No U Turn (#136)


“Uomini di una certa età che la sera vanno in cerca di affetto nei parchi. Soffrono ansie e paure per false morali e ai loro figli le insegnano uguali. Egregio signor ministro, sei sicuro che i tuoi problemi sono uguali ai miei? Io so che la vita come nasce muore. A che ti serve l’abuso del potere?” Queste parole nascoste canta Battiato nella prima parte di No U Turn: un embrione di canzone che nel 1974 suonava ai concerti e che in Clic è incisa a rovescio: contiene, come si vede, due immagini che torneranno più volte nella sua produzione successiva: gli uomini che cercano l'amore nei parchi e gli "abusi di potere". Nella seconda parte, la prima seria introspezione della sua carriera, la confessione di una crisi esistenziale: "Per conoscere me e le mie verità io ho combattuto fantasmi di angosce con perdite di io. Per distruggere vecchie realtà ho galleggiato su mari di irrazionalità. Ho dormito per non morire buttando i miei miti di carta su cieli di schizofrenia". No U Turn è l'unica vera "canzone" di quel difficile lavoro che è il disco del 1974, Clic, e sarà l'ultima cantata da Battiato prima dell'Era del cinghiale bianco, cinque anni dopo. Di tutti i cavalli di battaglia del periodo Bla-Bla, è quella che si fa più fatica a catalogare: manca il riff orecchiabile di Areknames, manca l'incanto sospeso di Sequenze e frequenze, ma in generale tutte le concessioni all'orecchiabilità strappate con Aries sono qui rinnegate. Del resto non si torna indietro, No U Turn vuol dire questo (oppure vuol dire: non rovesciate il nastro, ahi, troppo tardi).

1983: La stagione dell'amore (#8)
 
I desideri non invecchiano quasi mai con l'età (quel "quasi" l'ho sempre trovato tremendo). Cosa ci si aspetta da un cantante pop, cosa deve fare se non soffrire con noi, farci capire che ha perso le stesse occasioni che abbiamo perduto noi, e ricordarci che comunque ci sarà sempre un altro entusiasmo che ci farà pulsare il cuore? Sulla carta, La stagione dell'amore è la canzone pop perfetta, non c'è una parola di troppo (forse quel "quasi"). Lo è anche dal vivo: è una di quelle manciate di canzoni che da subito il pubblico cominciò a cantare all'unisono, l'Albachiara di FB. Quanto alla versione da studio, riascoltarla è sempre un lieve choc, dato che tutta la distanza ironica che Battiato nel 1983 voleva mettere tra sé e la popstar che il pubblico vedeva in lui sta nell'arrangiamento elettronico, volutamente minimale e asettico, che già al tempo lasciava perplessi e oggi suona proprio pacchiano. Lo si capisce meglio dal video, dove FB ci delizia con una delle sue danze goffe che chiariscono che almeno per i discografici lui era il David Byrne italiano e ci si aspettava che facesse il matto più o meno nello stesso modo. Quei due sciocchi accordi in levare del Roland che ci perseguitano per tutta la canzone sono il messaggio di un artista sequestrato: aiutatemi, lo capite che io non voglio veramente cantare questa roba, che è tutta una farsa, sì? La EMI mi tiene prigioniero, fate qualcosa, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso. Dieci anni dopo, nel live Unprotected, l'arrangiamento originale è completamente sconfessato: La stagione è diventato un Lied per orchestra. Altri dieci anni dopo, in Last Summer Dance (2003) finalmente ascoltiamo il pubblico cantare con Battiato dal primo all'ultimo verso. È sparita l'ironia, è sparito il postmoderno, è abbastanza sparita anche la necessità di nobilitare il brano con un'orchestrazione da camera. Quel che è rimasto è il capolavoro pop di un grande maestro e cantautore. Quindi è successo: qualcuno è riuscito a uscire vivo dagli anni Ottanta. Buon per lui.  

2002: Se mai (musica di Charlie Chaplin! testo in italiano di Calabrese, Gramitto Ricci, #121)

Quando approda nel canzoniere battiatesco, Se mai ha già avuto diverse vite. La musica è tra quelle che il regista Charlie Chaplin nella sua vasca da bagno canticchia al giovane collaboratore David Raksin, incaricato di trasformarla in uno score per il finale del suo film del 1936. Siccome il film è Tempi moderni, potrebbe anche averci messo il becco l'arrangiatore Alfred Newman, col quale però in quel periodo Chaplin stava litigando e alla fine nei titoli l'unico autore delle musiche risulta lui. Chaplin non è che avesse molte velleità da compositore, il che è ben strano, perché se sei il tipo di persona che si inventa un motivetto come Smile nella vasca forse a una carriera musicale ci dovresti pensare, d'accordo che sei già un grande regista e attore ma insomma da quel momento non abbiamo più smesso di canticchiare lo stesso motivetto, che vent'anni più tardi diventa una canzone confidenziale per Nat King Cole, con un testo in inglese che si ispira proprio allo struggente finale di Tempi Moderni: sei rimasta senza casa e previdenza sociale? Non hai prospettive e l'unico a darti una mano è un vagabondo matto? Vabbe', sorridi, stringi i denti e guarda l'avvenire. Ok. In Italia il brano non è ben chiaro quando sbarchi (forse già all'altezza di Bruno Martino, ma non ho prove), in realtà lo conosciamo già perché oltre ad aver visto e rivisto Tempi moderni in qualsiasi cinema parrocchiale, il tema era diventato ubiquo in radio e più tardi in tv. La versione che si fa notare è molto tarda, addirittura del 1967 e interpretata da Nicola Di Bari con quel furore soul che avevano certi interpreti italiani del periodo, in un tentativo interessante di svecchiare il brano che però fa un po' a pugni col ritmo del brano stesso. Il testo non c'entra quasi più nulla con l'originale (che poi originale non era), perché un paroliere, dovendo tradurre "Smile", ha deciso che quello che gli interessava davvero era il suono di quella S impura e ha optato per un "Se mai" che peraltro era anche già il titolo di un brano di Adamo (cantante che Battiato coverizza nello stesso disco), mettendo il dito su una delle più insanabili piaghe del parolismo italiano, ovvero l'inflazione di rime in -ai, comode ma come dire, tutti questi sai e dai e casomai oramai erano già un po' banali prima che Mogol li rendesse obbligatori. Trentacinque anni dopo, cosa vuole fare Battiato con questa canzone? Un omaggio a Chaplin o a Nat King Cole, o vuole emendare la foga fuori luogo di Nicola Di Bari? Quest'ultima in effetti è completamente cancellata, ma se state attenti credo che potreste sentire che Battiato attacca come attacca lui, in anticipo – salmodiando invece che vocalizzando, ma è la sua versione che ha in mente, non quella americana. E siccome aveva ragione quello scrittore che diceva che la vita è più simile alle canzonette che alla musica seria, il goffo testo italiano di Se mai mette a fuoco come pochi una certa poetica della distanza sentimentale che è quella che a Battiato interessa: anche se / c'è da troppo tempo ormai / il silenzio tra di noi / io ti penso ancora (sai).

martedì 24 maggio 2022

8. L'Etica è una vittima incosciente della Storia...

[Questa, se vi eravate distratti, è La Gara: una competizione senza senso tra (quasi) tutte le canzoni di Franco Battiato. Stavolta c'è un invito pop-rock alla terza guerra mondiale, un brano scritto per Gianni Morandi, un Lied di Wagner, un quartetto di Haydn. Ma se si impegnava sapeva fare anche cose più diverse].

Si vota qui

1980: Venezia-Istanbul (#48)


...Ieri ho visto due [uomini(*)] che si tenevano abbracciati in un cinemino di periferia... e penso a come cambia in fretta la morale: un tempo si uccidevano i cristiani e poi questi ultimi con la scusa delle streghe ammazzavano i pagani. Ave Maria. Io poi mi sono sempre chiesto: ma non sarà un po' colpa di Battiato se sono poi cresciuto così, il germe del relativismo culturale non me l'avrà installato lui mentre cercava semplicemente di infilare qualche intellettualismo in una canzone pop, ché in quegli anni queste cose funzionavano? Ho trovato questo spezzone di programma tv (discoring?) in cui Battiato in giacca grigia la canta ieratico come il mosaico bizantino da cui sembra essere stato staccato a forza. Merita di essere visto per capire quanto potesse sembrare appena arrivato da un altro pianeta, da un pubblico che applaude il pianista quando partono chitarra e batteria, e soprattutto per quel secondo di completo imbarazzo dopo l'ultimo distico: E perché il sol dell'avvenire splenda ancora sulla terra facciamo un po' di largo con un'altra guerra. Era qui che bisognava applaudire, ma ci mettono un po' ad accettarlo. Venezia-Istanbul è meno famosa di Prospettiva Nevskij o Up Patriots, ma è il vero nucleo di quella pazza cometa che fu Patriots: una musica che combina assieme Lied e rock con disinvoltura, una lirica che è un capolavoro di Taglia e Incolla, uno dei rari casi in cui si avvera la profezia di Tristan Tzara: la lirica dadaista ottenuta estraendo ritagli di parole da un sacchetto "vi rassomiglierà". In questo caso Battiato mescola luoghi comuni del giornalese e del culturese ("D'Annunzio montò a cavallo con fanatismo futurista"), ancora intercettazioni radiofoniche ("una punta attacca verticalizzando l'area di rigore"), e appunti sparsi su Socrate e la Storia. Se è un gioco, è uno dei più sofisticati che FB abbia giocato. 

(*) sullo spartito c'è proprio scritto "uomini" tra parentesi, me lo ricordo benissimo, ce l'aveva mio cugino. 


1988: Mesopotamia (#81)

 

Nella discografia battiatese Mesopotamia rappresenta un unicum per vari motivi: è (credo) l'unica canzone incisa in spagnolo prima che in italiano (compare nella versione spagnola di Fisiognomica), ed è forse il solo caso in cui per capire esattamente che canzone avesse in testa bisogna proprio ascoltarlo cantare in spagnolo: quella incisa in italiano in Giubbe rosse è una buona versione live, ma la chitarra nel ritornello smarmella un po' la complessità ritmica del brano. Ah, e stavo dimenticando: è la canzone di Battiato che Gianni Morandi ha inciso in italiano prima di Battiato, sempre nel 1988 col titolo Cosa resterà di me e senza più i riferimenti ai tre fari della scostanza battiatesca, Majorana Landolfi e Benedetti Michelangeli, perché per quanto l'interpretazione di Morandi sia credibile, davvero quei tre nomi in bocca a lui sarebbero suonati strani. Al loro posto Battiato o chi per lui decide di farcire la canzone con quei due etti di battuto di lardo emiliano, "Mi piacciono le scelte passionali, quella saggezza pratica che si tramanda il popolo... quell'atmosfera che ritrovo ritornando qui in Emilia, figlio di un pensiero rosso e partigiano". Tutto questo succedeva in effetti in un disco veramente patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna, quel Dalla Morandi che costituisce quindi il momento di massima vicinanza tra i due grandi innovatori della stagione più creativa della canzone d'autore in Italia: la stagione è il 1978-1984, i due innovatori sono (ovviamente) Battiato e Dalla, e il fatto che nemmeno l'uomo più conciliante dell'universo, Gianni Morandi, sia riuscito a farli lavorare assieme lascia capire quanto una collaborazione del genere fosse una specie di impossibilità fisica: i due si stimavano, addirittura a Milo divennero vicini di casa, ma non hanno mai pensato di incidere niente assieme. Forse l'universo sarebbe collassato. Forse più semplicemente sapevano che il risultato sarebbe stato deludente.  


1991: Schmerzen (Richard Wagner, Mathilde Wesendonck #176)

 

Come allora potrei lamentarmi: come, mio cuore, avvertirti pesante, se il sole stesso deve disperare, se anche a lui tocca tramontare? A cavallo tra Ottanta e Novanta, Battiato ha già più volte annunciato il suo ritiro dalla musica leggera. La sua scelta di completare il disco del 1991 con quattro Lied sembra confermare la decisione di astrarsi dalla contemporaneità musicale. E però guarda come è diabolico lo Zeitgeist: proprio in quello stesso 1991 Luciano Pavarotti collabora per la prima volta con un artista pop, Zucchero Fornaciari, onorando con la sua corpulenta voce il singolo Miserere. Mentre Pavarotti tenta di trovare una credibilità pop per la sua voce lirica (con risultati detestabili), Battiato va nella direzione inversa e decide di incidere dei Lied con la sua voce microfonata. Suppongo che per chi ha una cultura musicale classica si tratti di una mossa ancora più assurda di Pavarotti (che almeno distrugge il pop, non i classici del romanticismo). E però si vede che questa esigenza di mescolare ciò che era (considerato) Alto a ciò che era (considerato) Basso era sentita a entrambi i livelli – si sentiva che il mercato era pronto per un artista che unisse i due mondi e che presto si sarebbe incarnato in quel cantante di servizio che aveva inciso la prova di Miserere per farla sentire a Pavarotti, un tale Andrea Bocelli. E comunque dai, meglio un Lied cantato da Battiato che un intermezzo pavarottiano o bocelliano in un brano pop. Cioè è una bella lotta ma vince FB, dai.



1995: Un vecchio cameriere (testo di Battiato e Sgalambro, #209)


Un giorno amò: ora si fa il bucato, sognando il re che sarebbe stato. Battiato, lo abbiamo visto, per tutta la sua carriera non ha mai disdegnato di attingere al repertorio classico. Per affetto o per dileggio, con citazioni vistose o sotterranee, e in altri casi interpretazioni rigorose: le ha provate tutte ma fino al 1995 non si era mai spinto all'estremo di Un vecchio cameriere, che è copiato di pacca dall'Adagio del Quartetto per archi op. 64 n. 5 di Haydn: al punto che viene il sospetto che il testo di Sgalambro, qua e là perfino comprensibile, non sia che una serie di parole messe assieme con lo scopo di trasformare l'Adagio in una canzone. Il risultato lascia un po' perplessi, ma devo ammettere che è l'unico pezzo di Haydn che mi è rimasto in testa: come se il trucco per farmi capire e ricordare un po' di musica decente fosse registrarci sopra una lirica confusa sull'assurdità dell'esistenza. E chissà quante altre volte Battiato ha fatto lo stesso trucchetto senza avvertirci, chissà quanta musica del passato ha contrabbandato nei suoi dischi senza il minimo sospetto da parte dei critici musicali (vabbe' quella è gente convinta che l'intervallo di quinta sia il momento in cui i bambini dalle aule si riversano in cortile). 

lunedì 23 maggio 2022

7. In quest'epoca di bassa fedeltà e altissimo volume

[Questa è sempre La Cura, un infinito torneo di canzoni di Franco Battiato. Oggi che abbiamo? Una sonata per violino su una nota sola, un brano elettropop che demolisce l'elettropop, un lato B dei Rolling Stones, un lato B di Dalida]. 


1978: Telegrafi (per violino solo) (#240)  
Di cose ostiche all'ascolto Battiato ne ha incise parecchie e per vari motivi, ma qui siamo forse tra le prime dieci. Telegrafi consiste in sei minuti di Giusto Pio che maltratta il suo violino; comincia con una cascata di note che ricorda l'attacco a effetto di Adieu, ma abbastanza presto si fissa su una nota sola, com'è opportuno trattandosi di telegrafi. Il brano faceva parte di quella colonna sonora per il film tv Brunelleschi che fu rifiutata dai produttori Rai, e riascoltando Telegrafi non è difficile capire il perché. Ma non è neanche difficile immaginare un sottofondo così dissonante sulle immagini in bianco e nero di uno di quegli sceneggiati in costume anni Settanta sempre un po' sperimentali e inquietanti.

1983: La musica è stanca (#145) (testo di FB e Tommaso Tramonti)  
E quante cantanti di bella presenza che starebbero meglio a fare compagnia... in quegli ironici '80 bastava grattare appena un po' la patina postmoderna per scoprire in Battiato un arcigno castigatore dei costumi; dopodiché ci precipitavamo a rispalmargli la patina postmoderna che insomma era il vero motivo per cui lo amavamo. Orizzonti perduti disorientò parte dei fan di Battiato a causa degli arrangiamenti completamente elettronici – il che non sarebbe stato nemmeno una novità, se non fossero stati affidati a un sequencer (il Roland MC-4 microcomposer) che già in quegli anni era facile accostare all'europop da classifica più superficiale e danzereccio. Col tempo questo è diventato il segreto del fascino di Orizzoni perduti, un disco in cui la voce di Battiato è l'unico residuo di umanità in un paesaggio sintetico, ma in quel momento la mossa poteva lasciare perplessi: tanto più che nella più ritmata delle otto tracce FB se la prendeva proprio con la stupidità della musica contemporanea. "Brutta produzione, altissimo consumo, la musica è stanca, non ce la fa più". Con tanto di coretti accelerati "disco disco! telegatti!", contro cui si invoca un raga già probabilmente mongolico. È il brano più pazzoide di tutto il disco, una presa di distanze dalla soffusa malinconia degli altri sette, e contiene una sotterranea ammissione: più che la musica, è FB che è stanco di farla in questo modo. La EMI lo ha trasformato in un animale da alta classifica, ma lui non vede l'ora di cambiare pelle, di nuovo.  


1999: Ruby Tuesday (Jagger/Richards, #17)  
Dying all the time. La leggenda, raccontata per lo più da Marianne Faithfull, racconta che Keith Richards per comporre Ruby Tuesday non si fece aiutare da Mick Jagger (che pure è accreditato), ma dalla meteora degli Stones, Brian Jones. Che quindi nella sua breve esistenza avrebbe scritto una sola canzone, e che canzone. È solo una leggenda, ma forse serve a spiegare la stranezza di un brano che c'entra poco con tutto quello che gli Stones facevano e avrebbero fatto, e allo stesso tempo cattura molto bene una certa tristezza e un senso di vuoto che sta al centro del loro mito. Ruby Tuesday è quel tipo di brano che si presta molto bene a cover mediocri: comunque vada sarà sempre un'ottima canzone, ma è impossibile battere l'incanto dell'incompiutezza della versione originale, con quel coretto lievemente fuori di chiave. Battiato forse ci riesce, ed è uno dei risultati più notevoli di tutti i suoi Fleurs. In un certo senso la sua Ruby è il manifesto dei Fleurs: prendere una canzoncina di un gruppo di finti teppisti su una groupie poco seria e leggerla come un testo sacro, interpretarla come un Lied, con intensità, serietà, rispetto, trasporto, senza timore che la canzone non riesca a reggere tutta questa intensità religiosa, questo rispetto che è dovuto a una cosa sacra, perché in ogni cosa c'è qualcosa di sacro, forse – sicuramente c'è in Ruby Tuesday e Battiato ce l'ha mostrato. Persino il suo inglese, meno atroce che in passato ma comunque ingessato, stavolta ha un senso, sembra una di quelle lingue liturgiche uguali in tutto il mondo salvo per l'accento del sacerdote officiante. Alfonso Cuarón la scelse per una delle scene più toccanti di Children of Men


2008: Il venait d'avoir 18 ans (#112)
Fleurs è un bel gioco che forse è durato troppo. Il primo disco è un capolavoro, il secondo non lo è, il terzo boh, c'è sempre questo pericoloso effetto karaoke nell'aria. Ha a che vedere anche con la scelta delle canzoni: quelle del primo disco, s'intuiva, narravano un'educazione sentimentale ancor prima che musicale e non oltrepassavano gli anni Sessanta. Quando arriva al terzo volume (che s'intitola Fleurs2), Battiato sta sempre più sconfinando nei Settanta e raccontandoci qualcosa di meno chiaro: eravamo convinti che quegli anni li avesse passati a esplorare le potenzialità dei sintetizzatori e a registrare e montare rumori; ma ora salta fuori che ascoltava pure Dalida? è buffo. Il brano, certo, da un punto di vista musicale è senza tempo: come tutti i migliori fleurs battiateschi esiste indipendentemente dalla storia della musica che gli scorreva intorno. Ma è anche un brano eccezionalmente autobiografico, un parziale coming out per la cantante più famosa di Francia che a 40 anni racconta di avere avuto a 36 anni una relazione sessuale con un ragazzo diciottenne. Probabilmente le date non tornano, magari lei ne aveva un po' di meno e il ragazzo un po' di più, ma insomma l'età dell'innocenza è finita, qui c'è un'artista che fa spettacolo della propria vulnerabilità sessuale sottoponendosi al giudizio del pubblico (che solo in seguito avrebbe scoperto i lati più tragici della vicenda: Dalida era rimasta incinta, aveva abortito, le complicazioni dell'aborto l'avevano resa sterile). Tutto questo rende particolarmente drammatica la versione originale, e... abbastanza dimenticabile la versione battiatesca, che racconta la storia in terza persona. Verso la fine compare una cantante iraniana (Sepideh Raissadat) che riporta quella spezia mediorientale che Battiato sapeva dosare con estrema cura.     

domenica 22 maggio 2022

6. Gli orchestrali sono uguali in tutto il mondo, simili ai segnali orari delle radio

[Benvenuti alLa Gara, un effimero torneo di canzoni di Battiato, che Battiato non avrebbe mai autorizzato ma così impara a lasciare questa ruota dolorosa che è l'esistenza sulla terra, tie'! no scusa maestro è che certe volte mi manchi così tanto].

Clicca qui per votare


1980: Arabian Song (#80)

   

L'uomo è l'animale più domestico e più stupido che c'è. Battiato tra il 1980 e il 1982 è in stato di grazia. Dopo tanto penare in cerca di musiche inascoltabili, all'improvviso ha scoperto una formula che sulla carta non potrebbe mai funzionare, e invece gira che è un piacere – a volte persino a dispetto dello stesso artista, che le prova tutte per renderla meno orecchiabile: ad esempio ci canta un ritornello nella lingua meno pop che si possa nel 1980 immaginare, l'arabo (parole quasi a caso, lo stava appena imparando), mentre le strofe sono un collage di ricordi di un'infanzia in provincia ormai completamente strappati al contesto della nostalgia, ricopiati e assemblati a caso come i frammenti di poesie scolastiche e luoghi comuni che compongono gli altri testi di Patriots. L'insieme dovrebbe risultare freddo e cervellotico, non è escluso che Battiato avesse in testa una musica più astratta e impassibile tra Krautrock Nowave e Stockhausen, ma finché alla chitarra c'è Alberto Radius che si diverte così il risultato è completamente l'opposto: una musica felice, che proietta lampi di luce sia sul grigiore del passato grigio sia sulle inquietudini del futuro. Sarà anche così stupido l'uomo, ma che musica gli scappa, a volte.

1993: Ricerca sul terzo (177)

 

"Mi siedo alla maniera degli antichi Egizi". Parlare di meditazione non è facile. Si dà per scontato che serva molta pratica, e di conseguenza un linguaggio iniziatico. Battiato, che quando vuole sa nascondersi dietro miraggi lessicali, qui sceglie la via inversa e cerca di spiegare come fa lui, a meditare, nel modo più semplice possibile, con le parole più chiare a disposizione. Se è stato un guru, è stato il più simpatico, quello che si è fatto pagare meno e che ha saputo disfarsi di un orpello forse non previsto dai manuali orientali: lo snobismo. Hai veramente la sensazione che potresti sederti vicino a lui e imparare qualcosa. Nel mio caso non può funzionare perché la strumentazione (il sitar, la tabla) che dovrebbe evocare l'India, non può che farmi venire in mente... George Harrison. Ricerca sul terzo sembra veramente un omaggio a Within You Without You.    

1995: Tao (#208)  

250 milioni di spermatozoi! In un solo orgasmo! Un solo uomo può popolare la terra! Questa cosa che per i taoisti è fondamentale eiaculare il meno possibile io la scoprii molto prima che Battiato mi ragguagliasse, su un volume che si chiamava Tao dell'amore che in qualche modo riuscii a rintracciare in casa mia benché i miei genitori lo avessero nascosto ben bene. Non so che dire, mi sembra che la civiltà occidentale abbia preso la direzione opposta: nel dubbio eiaculiamo, e dopo le cose per un attimo ci sembrano più chiare, più distanti (ma dura pochissimo). L'ombrello e la macchina da cucire è un disco difficile da apprezzare. Il ritorno all'elettronica – in relativa sintonia coi trend internazionali del periodo – avviene attraverso un linguaggio così personale e solipsistico che a volte l'ascoltatore può sentirsi di troppo, cioè forse Battiato queste canzoni le ha scritte per essere lasciato solo (solo con Sgalambro?) Sono anche brani che sfiorano pericolosamente l'autoparodia; in effetti c'è molto del Battiato che ci piace canzonare. E il video, se è davvero il video ufficiale, non ha retto l'ingiuria del tempo, mettiamola così.

2019: Torneremo ancora (#49)

Finché non saremo liberi torneremo ancora, e ancora. L'ultima canzone incisa da Franco Battiato (e cantata con una fatica percepibile, e straziante) ha un titolo solo apparentemente di buon augurio – da un punto di vista buddista, "tornare ancora" è una maledizione: occorrerebbe liberarsi, sottrarsi da questo loop infernale che è l'esistenza, ma come si fa? Battiato ci ha provato per buona parte della sua vita, complicata dal fatto che per vivere doveva comunque fare il cantante e l'autore. Anche Torneremo ancora era stata scritta pensando ad Andrea Bocelli (su istigazione di Caterina Caselli), ma non è difficile capire perché la canzone fu respinta – perlomeno è più facile di immaginare il vocione di Bocelli scandire "La luce sta nell'essere luminosi, irraggia il cosmo intero" senza farlo sembrare un recitativo. Scritta con Juri Camisasca, incisa con la Royal Philarmonic Concert Orchestra durante il breve tour che Battiato fece con loro nel giugno 2017 (ma la canzone uscì due anni più tardi), Torneremo ancora chiude la traiettoria artistica di Battiato con l'ambiguità con cui si era aperta, quel dubbio sospeso tra Occidente e Oriente: è meglio vivere o togliere il disturbo? Battiato in teoria preferiva la seconda cosa: ce lo ha scritto tante volte, lo ribadisce anche qui, ma appunto, se era così ansioso di lasciarci perché ci ha messo così tanto? perché ha continuato a fare concerti finché non si è rotto un femore a 71 anni, perché ha continuato a incidere canzoni con l'ultimo filo di voce che gli era rimasto? E quindi ce l'ha fatta a liberarsi da ogni desiderio, a raggiungere il nirvana, o anche lui tornerà ancora?

Clicca qui per votare

sabato 21 maggio 2022

5. Vuoto di senso, senso di vuoto

[Benvenuti alLa Gara, un torneo di canzoni di Battiato. Oggi per puro caso si scontrano tre canzoni di apertura di tre dischi diversi, più un singolo che Battiato non ha nemmeno firmato].

Si vota qui

1973: Sequenze e frequenze (#144) 

Ogni tanto passava una nave. Sequenze e frequenze tra breve compirà cinquant'anni ed è ancora un brano meraviglioso che comincia con una splendida lirica, semplice ed evocativa. Nella storia artistica di Battiato rappresenta una pietra miliare meno visibile di altre ma più profonda: la scoperta del proprio passato. Fin qui il Battiato '70 era un artista completamente proiettato in un futuro di suoni sintetizzati e inquietudini fantascientifiche. Per il suo pubblico deve essere stato un certo choc ascoltare le prime parole, scandite con un timbro insolitamente opaco: "La maestra in estate ci dava ripetizioni nel suo cortile. Io stavo sempre seduto sopra un muretto a guardare il mare". Maestre, ripetizioni, cortili, muretti, tutto un crepuscolarismo di ritorno che si manifesta qui per la prima volta e da cui Battiato non si separerà più. Da un punto di vista strumentale, si sviluppa l'intuizione intravista già in Plancton: sovrapporre agli strumenti moderni (synth e chitarre elettroniche preparate) altri tradizionali se non arcaici: vibrafono, tabla, mandolino, che dialogano assieme in una coda lunghissima (16 minuti, tutto il primo lato di Sulle corde di Aries).


1978: Adieu (#241)

Mon métier, faire le musicien. Di cose strane e non del tutto spiegabili Franco Battiato & Giusto Pio ne hanno fatte tante, ma forse nessuna eguaglia quella volta che si inventarono una popstar a tavolino, "Astra", e siccome nessuno dei due intendeva impersonarla... mandarono in tv a cantare e suonare in playback il figlio di Giusto, Stefano Pio. Come ricorda quest'ultimo, più che di nepotismo fu una questione di massima resa con minima spesa, "non costavo nulla: come figlio infatti, non era contemplato un mio pagamento". Il brano è interessantissimo per vari motivi: è l'anello di congiunzione tra dischi così apparentemente diversi come Juke-box e L'era del cinghiale bianco; è la conferma che Giusto Pio aveva preso nella vita di Battiato lo stesso posto che qualche anno prima aveva il sintetizzatore VCS3, un giocattolo da maltrattare fino alle estreme conseguenze: qui Pio suona 13 note al secondo (per la disperazione di suo figlio che davanti alla telecamera avrebbe dovuto mimare una prestazione del genere). È un tappeto di note a cascata che ricorda proprio i vecchi frequenziometri di Aries e Clic, a cui Battiato fa da contrappeso con un basso ostinatamente mononota e una melodia semplice e accattivante che in seguito si sarebbe pentito di avere sprecato per un progetto tanto estemporaneo: non solo gli capitò di riciclarla due volte per due interpreti diverse, Catherine Spaak (Canterai se canterò) e Milva (Una storia inventata), ma tutto sommato la vera erede di Adieu, quella che riprende anche l'accompagnamento frenetico del violino, è Le aquile, uno dei pezzi più forti di Patriots.

 

2007: Il vuoto (feat. MAB, #113) 

Il Battiato degli ultimi dieci anni di carriera è un commovente paradosso: tanto brontolone e querulo nei contenuti, quanto bonario e disponibile alle collaborazioni più improbabili. In questo caso per incidere l'ennesima variazione sul tema "alienazione urbana" si avvale del quartetto anglo-cagliaritano delle MAB: loro provvedono al rock (che per Battiato è la musica urbana), FB si lagna dei tempi che corrono, e a un certo punto salta anche fuori un tenore ad avvisare l'arrivo di nuovi dei non meglio specificati, insomma un pastrocchio di cose che se funzionano, se sono ascoltabili, è proprio perché a dispetto di tutto il suo orrore per i tempi che corrono Battiato nel 2007 si diverte ancora un mondo a cantare, a suonare e a far cantare e suonare la gente che ha intorno. Anche se in platea fosse rimasto solo il povero Sgalambro, vale sempre la pena di salire su quel palco, vale sempre la pena di abbracciarsi.  


2008: Tutto l'universo obbedisce all'amore (con Carmen Consoli, #16) 


Rara la vita in due, fatta di lievi gesti e affetti di giornata: consistenti o no, bisogna muoversi come ospiti pieni di premure, con delicata attenzione per non disturbare. Tutto l'universo obbedisce all'amore è l'ultimo grande pezzo pop di Franco Battiato. Al tempo passò quasi inosservato (ma potrei sbagliarmi, visto che su Spotify è il sedicesimo brano più ascoltato). Forse perché inaugurava l'ennesimo disco di cover – e in effetti Tutto l'universo dà la sensazione di essere in qualche modo una cover, anche se non è facile capire di cosa (Battiato ha ammesso che c'è qualcosa di Scarlatti). C'è un'aria barocca che è uno degli elementi ricorrenti di tutta la trilogia dei Fleurs: c'è una guest star, Carmen Consoli, che in quanto catanese un brano col Maestro Battiato prima o poi doveva inciderlo. Purtroppo le convenzioni dei featuring contemporanei richiedono un duetto, una situazione in cui la voce ospite sia riconoscibile e dialoghi con quella dell'ospitato: è molto più interessante invece sentirli cantare assieme, sulla stessa nota, un androgino asessuato che ragiona sul mistero e sulla tirannia universale dell'amore. 

venerdì 20 maggio 2022

4. Un rumore di swing provenire dal Neolitico

[Questa è sempre La Gara, un torneo di canzoni di Battiato di cui pochi (ma buoni) sentivano il bisogno. Che poi cos'è una canzone? Non è che Battiato abbia scritto solo canzoni. Per anni interi non ci cantava nemmeno. A un certo punto si era messo a fare collage di rumori ambientali, come fai a chiamarle canzoni? Come fai a metterle in gara contro melodie tradizionali del Medio Oriente? Così:]


1975: Goutez et comparez (#224)  
Goutez è la seconda suite di musica concreta battiatesca, dopo l'exploit di Ethika Fon Ethica dell'anno precedente. In quanto suite occupa tutto il primo lato di Mlle "le Gladiator", il disco del 1975, anche se alla fine non è così lunga – e addormenta meno dei pezzi sul secondo lato. Cos'è la musica concreta per Battiato? Lui a dire il vero questa definizione non l'ha mai usata, ma insomma è un collage di registrazioni per lo più radiofoniche o ambientali; come in Ethika, Battiato per tutto il tempo dà l'impressione di muovere l'enorme rotella argentata delle radio del tempo, catapultando l'ascoltatore senza diaframmi in mondi familiari e lontanissimi. C'è un brano di Marinetti, presentato da una presentatrice come un "operatore culturale, freak perduto". C'è Battiato che recita la spigolatrice di Sapri e ci prova con la presentatrice: dai, qui nessuno ci vede. ("Ma sei impazzito?") C'è musica di ogni età: un pezzo di Sanremo anni '50, la Gazza ladra e il Va' Pensiero, l'Internazionale, un coro alpino; c'è lo stesso Battiato tastierista verso la fine che irrompe improvvisando sull'organo della cattedrale di Monreale; non c'è niente di casuale nel collage, accostamenti e giustapposizioni sono tutte studiate a tavolino. In particolare FB si affida all'effetto spiazzante del silenzio che segue improvviso a un'esplosione di rumore – un silenzio nel quale l'improvviso affiorare di una voce ce la fa sembrare particolarmente vicina. Trucchetti che erano ben noti alle generazioni che giocavano con la rotella del tuner e che adesso si fa anche fatica a spiegare    

1982: La torre (#96)  
Da non confondere, mi raccomando, con La torre del 1967, una delle prime canzoni scritte e incise da Battiato, di cui comunque condivide e accentua quell'atteggiamento brontolone che negli anni della contestazione serviva a creare un personaggio anticonformista. Se è rimasto uno dei brani più noti dell'Arca di Noè (ho in mente ad esempio l'interpretazione dal vivo di Capossela), probabilmente è proprio perché prosegue quel tipo di invettiva che con Bandiera bianca aveva ottenuto uno straordinario successo. Un'altra cosa in comune con i pezzi della Voce del padrone è la sperimentazione ritmica, qualcosa che il Battiato successivo accantonerà, forse perché per inserire quelle maledette battute in più servono percussionisti umani, i sequencer non sono molto adatti. Anche il synth che squilla come trombetta di guerra rievoca le sperimentazioni dei '70. La torre è l'ultima tentazione della popstar Battiato, a cui il successo clamoroso della Voce del Padrone aveva dato la possibilità di ergersi a severo censore dei costumi. FB sembra già abusarne, additando alla pubblica indignazione "i presentatori, specie quelli creativi che giocano ai quiz elettronici", gli attori (a partire da "Nostra Signora dei Turchi"), e così via, ma il margine per non suonare un trombone comincia ad assottigliarsi pericolosamente. Avrebbe potuto continuare a scrivere roba del genere per altri vent'anni e gliel'avremmo comprata: avrebbe finito per scrivere moralismi paraculi alla Gabbani e ce lo saremmo fatto piacere. Invece si è stancato della cosa immediatamente, proprio in mezzo a questo pezzo, quando la strofa cede al ritornello e le percussioni si interrompono all'improvviso. "Si salverà chi non ha voglia di far niente..." Alla fine dalla torre si è gettato lui. 

1993: Fogh in Nakhal (canzone tradizionale irachena; #161)  
Sulle palme, lassù, non so se è la tua guancia che brilla o la luna. Io non voglio, ma la pena mi tormenta. L'insolente mi chiede: "Perché giallastro è il tuo viso?" Non ho nessuna malattia: soffro per quella persona bruna che m'imprigiona con i suoi dolci occhi. Nessuno sa chi ha scritto Fog el Nakhal: Battiato comincia a eseguirla nel suo tour mediorientale del 1992 e la porta anche al concerto di Bagdad. Il grosso vantaggio rispetto ad altre sue cover in lingue straniere è che non abbiamo la possibilità di valutare quanto sia approssimativo il suo accento (e a Bagdad erano troppo ospitali per lamentarsene). Malgrado sia un brano tradizionale, arrangiato con cautela e senza vistosi anacronismi, Fogh è il brano più orecchiabile di Caffè de la Paix, o perlomeno questa è sempre stata la mia sensazione. Se fossi un arabo forse la penserei diversamente. Ci penserò quando rinascerò arabo.  


1996: Strani giorni (#33)

Strani giorni è il singolo che anticipando di qualche giorno l'uscita dell'Imboscata, annunciò al mondo che Battiato aveva cambiato pelle, un'altra volta. L'effetto sorpresa stava soprattutto nelle chitarre di David Rhodes: giunto quasi alla vigilia dei suoi cinquant'anni (come avverte lui, "In 1949 I came to this planet"), il nuovo Franco Battiato si rimette all'improvviso a rockeggiare, cita i Doors, si circonda di giovinastri, commissiona un videoclip a Enrico Ghezzi che è caotico tanto quanto la canzone. I Novanta sono stati anche questo, un incessante rimescolamento di qualsiasi cosa venisse in mente a chiunque, swing e neolitico, Sgalambro e Jim Morrison, la parola d'ordine era contaminare (sì, ai tempi era una bella parola). Battiato, che tra confusione e silenzio ha oscillato durante tutta la sua carriera e che per la prima metà del decennio si era fatto sostanzialmente i fatti suoi, nel 1996 si risveglia e si accorge che sono tempi perfetti per quel che ha voglia di fare, e quel che ha voglia di fare è un po' di frastuono. Nel brano la sua voce e quella di Nicola Walker Smith si disturbano a vicenda, l'ascoltatore non riesce a concentrarsi. Nel singolo di vinile c'erano remix di Madaski e Casino Royale. Strani giorni, davvero. 

giovedì 19 maggio 2022

3. Le pareti del cervello non hanno più finestre

[Benvenuti alLa Gara, un innocuo e facondo torneo di canzoni di Franco Battiato. I quattro titoli di oggi sono in quattro lingue diverse, e non sarà nemmeno l'unica volta]. 

Clicca qui per votare


1981: Chan-son egocentrique (#32) 

Chi sono, dove sono, quando sono assente di me? Nei primi '80 la ditta Battiato/Pio non fa prigionieri. Con Alice sbarca a Sanremo, vede, vince. Se serve un tormentone estivo c'è Un'estate al mare: se bisogna rilanciare un'interprete di vaga allure mitteleuropea, c'è Alexanderplatz. Alcuni di questi brani poi Battiato li ha reincisi, li ha fatti suoi: non tutti però, ad esempio Un'estate no, Per Elisa No, la Chanson egocentrique invece sì. È anche uno dei rari casi in cui l'autocover di Battiato (incisa in Mondi Lontanissimi) sembra superiore all'originale che Alice portava in tv nei pomeriggi estivi di quattro anni prima: più eterea, più elettronica, più egocentrica. Mi sembra di ricordare che nel 1985, quando uscì Mondi, cominciava a suonare anche un po' fuori moda, ma i fan di Battiato sono superiori a queste cose. Invece nel 1981 quell'antifona in inglese parlato colpiva nel segno – il rap cominciava a segnare il nostro immaginario musicale e sin dall'inizio non aveva nessuna importanza cosa dicessero i rappanti, l'anno dopo per dire la classifica italiana fu scalata fino al numero uno da un rap in tedesco, Der Kommissar. Mi immagino Battiato nell'occasione mordersi le labbra perché rappare in tedesco non era venuto in mente nemmeno a lui. In Chanson aveva semplicemente messo quell'idioletto inglese che in quegli anni usava nelle canzoni per creare un'aura di sintomatico mistero e consisteva in talmente poche parole (perlopiù versi di altre canzoni), che in questo caso gli capita di riciclare Prehistoric Sound, la versione inglese di Un falco nel cielo che anni prima aveva inciso con gli Osage Tribe. Tutto questo, stavo dicendo, nel 1985 cominciava già a suonare un po' fuori di moda, dopodiché l'anno seguente i Cameo sbancarono con Word Up e non voglio dire che somigli a Chanson Egocéntrique, ma... un po' sì, dai.  


1982: New Frontiers (#97) 

Ciao, mi chiamo Leonardo e sto facendo questa cosa assurda e inutile che è un torneo delle canzoni di Battiato; per questo motivo cercherò finché posso di essere imparziale ma devo confessarlo: L'arca di Noè (1982) è il primo suo disco che ho ascoltato e dopo tanti anni non riesco a levarmi dalla testa l'idea che sia il migliore. C'è un meraviglioso equilibrio tra tante anime di Battiato e qualcosa di geniale in ogni pezzo, anche in quelli secondari, ma ora che mi accorgo che New Frontiers ha un video, forse non era considerato un brano secondario. Sia come sia, per me è fantastico sentirlo inneggiare alla liberazione dell'immaginazione sensoriale in cinque quarti coi madrigalisti che gli fanno coro ma gli fanno anche un po' il verso. Non ci posso fare niente, se Radius suona la chitarra così e se i synth partono così, le pareti del mio cervello si spalancano. 

2001: Öde (#225)

Da cosa puoi accorgerti che un album non è riuscito? Ad esempio, quando la ghost track finale è il pezzo migliore. Öde è il maestoso finale di Ferro Battuto; sette minuti di deriva elettronica che meriterebbero di terminare un disco migliore e che sembrano appartenere piuttosto al balletto per il Maggio fiorentino che Battiato aveva composto pochi mesi prima, Campi magnetici. Stavolta non c'è Sgalambro a infamare "i numeri", ma Fleur Jaeggy a declamare qualcosa in tedesco, vabbe', ma l'effetto d'insieme è potente, e ci conferma la sensazione che nei primi Duemila Battiato si sentisse a suo agio in queste composizioni astratte ed elettroniche che nelle canzonette che incideva negli album. Vero è che le composizioni astratte ed elettroniche non gliele avrebbe ascoltate (quasi) nessuno, e che già da anni FB aveva deciso che suonava soprattutto per farsi ascoltare dal prossimo. Vero ma fino a un certo punto, perché se FB non avesse sfondato negli Ottanta come un cantautore postmoderno, magari negli anni Novanta avrebbe potuto salire sul treno dell'Intelligent Dance Music e diventare una specie di Papa italiano dell'elettronica, un Moroder più credibile; e oggi magari se lo filerebbero più a Londra che in Ispagna... vabbe' ma probabilmente è stato molto meglio per lui sfondare negli 80 come cantautore postmoderno. 


2002. Sigillata con un bacio (Sealed with a Kiss, Udell/Geld, 1960; #160)

Alzi la mano chi la prima volta che si è accinto ad ascoltare Sigillata con un bacio non ha pensato, allo scoccare del primo secondo: mio dio, ma è The Sound of Silence! Ok, grazie, spero che l'abbiate alzato in tanti. Sealed with a Kiss in realtà è un brano di due autori industriali di successi americani degli anni '50, inciso da una pletora di interpreti, nessuno dei quali veramente memorabile. Persino in Italia lo incise più di un artista, ad esempio i Quelli (che poi sarebbero diventati la PFM) e Luigi Fiumicelli, la cui versione Battiato ha voluto includere nella colonna sonora del film sui suoi anni Sessanta, Perdutoamor. Nella colonna sonora però c'è una versione rimixata che trasforma Fiumicelli in un alter-ego di Battiato (tra l'altro è rimasta l'unica attribuita a Fiumicelli che si riesce a recepire su Youtube, per cui magari tra vent'anni la gente considererà Fiumicelli un geniale precursore degli arrangiamenti elettronici). Sigillata con un bacio è un esempio di scuola di come funzionavano i testi delle canzoni per adolescenti, basate sull'unica tragedia esistenziale che era lecito presumere vivibile in quegli anni: (A) oddio devo lasciarti per andare in vacanza, e (B) oddio devo lasciarti perché è finita la vacanza. Se Vento caldo rientrava perfettamente nel tipo B, Sigillata è una canzone di tipo A e possiamo immaginare il giovane Francesco destreggiarsi con le sue conquiste alternando un brano all'altro. Sì, ma è vero che assomiglia un po' a The Sound of Silence? È possibile che Paul Simon, nel 1963, mentre arpeggiava nel bagno di casa sua, abbia sviluppato The Sound partendo dalla melodia dell'attacco di Sealed with a Kiss? Sì, è possibile. Ed è anche possibile che Battiato avrebbe inciso The Sound of Silence, fosse vissuto un po' di più. Era il suo tipo di canzone, secondo me (molto più di Bridge Over Troubled Water).

Clicca qui per votare

Altri pezzi