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venerdì 30 giugno 2023

(Come ho iniziato a) capire Nerone

30 giugno: Primi martiri della Chiesa di Roma (64)


Col tempo purtroppo cominci a capire chiunque, perfino Nerone. Il quale Nerone, è possibilissimo che non abbia gestito al meglio il grande incendio del 64; del resto era fuori città quando fu appiccato, e anche una volta accorso non è che potesse fare miracoli. Il fuoco dilagava in dieci quartieri su quattordici, comportandosi in modi imprevisti che i Romani non avevano mai avuto occasione di osservare. Non c'era mai stato un incendio così grande in città, e la città stessa non era mai stata così grande. Col tempo ho cominciato a capire come reagiscono le persone di fronte a fenomeni che non hanno mai avuto occasione di osservare: improvvisano. Trasformano i sospetti in realtà indiscutibili, confondono i sintomi con le cause, se durante un'alluvione vedono il fiume in piena portare tanti tronchi decidono subito che l'alluvione è colpa dei tronchi, perché il Potere non pulisce i fiumi dai tronchi? È chiaro che il Potere è in combutta coi tronchi per causare alluvioni che poi costano un sacco di soldi allo stesso Potere, ma se lo fa ci sarà un motivo. Piove per mesi? È colpa degli aeroplani che lasciano le scie, chi li ha messi in cielo tutti quegli aeroplani, eh? Le epidemie sono sparse dal Potere in virtù del malvagio protocollo Tachipirina E Vigile Attesa. I terremoti si potrebbero prevedere, ma il Potere non lo vuole, insomma il Potere passerebbe il tempo a tramare alle nostre spalle, e non un complotto solo ma tanti complotti diversi, come se ogni mattina si svegliasse indeciso sulla sfiga da somministrarci: che faccio stavolta, gli mando un'inondazione, un terremoto, un'epidemia?

Tutte queste cazzate le ho sentite io nel XXI secolo; immaginate cosa potevano raccontarsi i Romani sfollati mentre si riparavano nei giardini privati di Nerone o in baracche costruite alla benemeglio dalle legioni di Nerone, con soldi che Nerone stava anticipando e che con molta fatica sarebbe riuscito a recuperare dalle casse delle province: è chiaro che l'incendio lo aveva causato lo stesso Nerone; non lo avete visto in cima alla torre? Pensavate che volesse semplicemente capire l'entità dei danni? Nooo, era lì a intonare un canto sull'incendio di Troia. Li avete ben visti i vigili demolire interi isolati – lo facevano per evitare che l'incendio si propagasse – eh, ma intanto saccheggiavano. Qualcuno avrà pure saccheggiato: anche a Messina nel 1908 i soldati che arrivarono a soccorrere gli abitanti dopo un po' non sapevano cosa mangiare, e cercavano tra le rovine. 



Nei mesi successivi Nerone avrebbe iniziato a ricostruire Roma non solo "più grande e più bella di pria" (in realtà ci vollero molti anni perché la popolazione superasse quella pre-incendio) ma soprattutto con standard di sicurezza mai visti fino a quel momento – strade più larghe, isolati più piccoli, divieto di pareti in comune tra fabbricati diversi, uso di pietre refrattarie, limite d'altezza per gli edifici, dislocazione di idranti collegati agli acquedotti. Nel frattempo doveva comunque affrontare un'opinione pubblica che sussurrava che l'incendio l'avesse appiccato lui, per rifare Roma a modo suo. Finché non decise di deviare l'attenzione su qualcun altro: e scelse i cristiani. Lo racconta Tacito negli Annali (scritti intorno al 110). Per Tacito i cristiani furono scelti "per soffocare ogni diceria", e perché "il volgo li detestava per le loro infamie". Questa "rovinosa superstizione" era dunque già arrivata a Roma, "in cui convergono da ogni dove e trovano adepti le pratiche e le brutture più tremende". Tacito sostiene che ne morì una "quantità enorme", e che più che la responsabilità dell'incendio veniva loro imputato l'"odio contro il genere umano". Quella ordinata da Nerone è la prima persecuzione di cristiani a Roma; i supplizi sono già quelli poi ripresi dalle leggende dei santi (del resto coerenti con i supplizi inflitti dai Romani agli schiavi ribelli): prigionieri "coperti di pelli di animali selvatici" per essere sbranati dai cani, o "crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da illuminazione notturna". Non c'era ancora il Colosseo e quindi Nerone dava questi spettacoli nei giardini del suo palazzo, "mescolandosi alla plebe in veste d'auriga". Tacito ammette che i cristiani così torturati destavano pietà, "perché vittime sacrificate non al pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo". Tutto questo si legge nel famosissimo paragrafo 44 del libro XV degli Annali, e quindi potrebbe anche non essere vero.

In effetti Tacito è un autore dalla fortuna abbastanza bizzarra. In epoca imperiale era molto stimato, vedi i complimenti di Plinio il Giovane. Ammiano Marcellino si considerava un suo continuatore. Ancora Girolamo lo ammira e ci lascia un indice delle sue opere. Dopodiché nel Medioevo sparisce completamente: nessuno lo legge più, nessuno lo cita più: e questo malgrado il valore pregevolissimo della sua opera, non solo documentario ma letterario. Una spiegazione è proprio la pessima figura che aveva fatto fare ai cristiani nel paragrafo 44, che Sulpicio Severo aveva ricopiato integralmente in una sua opera all'inizio del V secolo. Insomma siccome Tacito parlava male dei cristiani, i cristiani avrebbero deciso di non leggere più Tacito. Sappiamo che altre opere vennero censurate o rimaneggiate per lo stesso motivo (il Talmud, e probabilmente anche le Antiquitates di Giuseppe Flavio). E però l'importanza del paragrafo 44 era enorme: avrebbe dimostrato che i cristiani erano già numerosi e perseguitati a Roma nel 64, appena una trentina d'anni dopo la resurrezione di Gesù; avrebbe fornito una controprova importante alle agiografie che ambientavano nel 64 il martirio dei santi Pietro e Paolo. D'altro canto nel Medioevo di tutte queste controprove non si sentiva il bisogno: che Roma fosse la cattedra di Pietro era autoevidente. Non solo il paragrafo 44 dopo Sulpicio non viene più citato da nessuno, ma tutto Tacito scompare.


Una pagina del Laurenziano 68,2


Col Rinascimento la situazione si capovolge: Tacito diventa autore apprezzato e supercitato, anche perché la sua rassegnata adesione al regime degli imperatori suona molto congeniale agli umanisti perennemente in cerca di prìncipi da servire e riverire: è un Machiavelli prima di Machiavelli, questo Tacito, e però come fanno gli umanisti a conoscerlo e apprezzarlo, se per quasi mille anni nessuno ha conservato le sue opere? In effetti sembra che i riscopritori di Tacito siano arrivati giusto in tempo, perché se possiamo leggere qualcosa delle Historiae e degli Annales è solo grazie a due manoscritti: se avessimo perso anche quelli, niente Tacito. Forse a quel punto qualche falsario se lo sarebbe inventato: ce n'erano di bravissimi, tra gli umanisti. Da cui la doverosa domanda: siamo sicuri che nessuno se lo sia inventato? 

Per quanto riguarda i primi cinque libri delle Historiae sì, siamo abbastanza sicuri: il manoscritto che li riporta, rinvenuto in un monastero tedesco, ha tutta l'aria di una buona copia medievale dell'opera di uno storico latino che scrive "sine ira et studio" di cose avvenute non molti anni prima. E malgrado le Historiae comincino proprio dalla fine del regime di Nerone, e proseguano con un excursus sulla situazione a Gerusalemme in quel periodo (alla vigilia della distruzione del Tempio) qui Tacito ai cristiani non accenna, neanche di sfuggita. Anzi sostiene che in Giudea "tutto fu tranquillo sotto Tiberio", il che contraddice quanto leggiamo nel paragrafo 44.

Il discorso è un po' diverso per il manoscritto 68,2, oggi alla Biblioteca Laurenziana di Firenze, dove forse arrivò grazie a Giovanni Boccaccio. È un bel libro, scritto nella calligrafia tipica dei monaci di Montecassino: se fosse un falso, sarebbe un capolavoro anche in questa categoria. È il manoscritto più antico che contenga gli Annales che ci sono rimasti; lo stile somiglia a quello severo e franto delle Historiae nella prima parte, dopodiché diventa un po' più regolare, ma anche un po' sciatto verso gli ultimi libri, tra cui appunto il XV. Quest'ultimo contiene il preziosissimo paragrafo 44, già attestato in Sulpicio Severo. Che il manoscritto fosse un falso lo sospettavano già gli Illuministi nel Settecento (più per polemica anticristiana che per sensibilità filologica); nel 1878 uno studioso inglese, John Wilson Ross, sostiene di aver identificato il falsario: l'umanista quattrocentesco Poggio Bracciolini, che in effetti riscoprì e ricopiò il manoscritto 68,2. Per Ross non si limitò a riscoprirlo: lo avrebbe composto lui, su suggerimento di un cardinale che desiderava possedere un manoscritto unico e inestimabile – e lo avrebbe pagato molto bene. La ricostruzione di Ross è affascinante: spulciando nell'epistolario di Bracciolini, non solo si convince di aver trovato più di un'ammissione di colpevolezza, ma anche l'identità di un monaco tedesco invitato da Bracciolini a Firenze in quanto esperto di calligrafie medievali: la persona più adatta a ricopiare il falso Tacito. Tutto apparentemente plausibile, senonché gli strumenti che abbiamo oggi ci confermano che la pergamena del 68,2 è di qualche secolo più antica; certo, l'attenzione maniacale per i dettagli avrebbe potuto spingere Bracciolini a raschiare qualche codice medievale per scriverci sopra il suo falso d'autore, come se già immaginasse nel Quattrocento che cinque secoli dopo avremmo sottoposto i manoscritti a test col carbonio-14. È però più probabile che gli Annales siano autentici; che le oscillazioni di stile siano quelle normali di un autore; che la descrizione dell'incendio (tanto più realistica di quella degli autori successivi) sia basata su fonti scritte e orali cui solo Tacito, quarant'anni dopo l'incendio, poteva accedere. Nel suo Nerone, più verosimile proprio perché contraddittorio, è così facile riconoscere l'atteggiamento di un qualsiasi amministratore in un'emergenza: arriva magari un po' tardi, si fa prendere dal panico, poi finalmente prende decisioni anche dolorose ma sagge, le paga in termini di popolarità, cerca qualche capro espiatorio. Un ritratto tutto sommato realistico, che spiega anche come mai Nerone rimase dopo la morte un imperatore popolare e rimpianto da parte della popolazione. 

Quel che non torna, nel racconto di Tacito, sono i cristiani. Non somigliano veramente a quelli descritti negli Atti degli Apostoli; è difficile immaginare Paolo o addirittura Pietro a promuovere l'"odio per il genere umano", in una società che malgrado la svolta tradizionalista imposta dagli imperatori giulio-claudi era ancora abbastanza tollerante dal punto di vista religioso. Tacito ha idee stranamente definite sull'origine dei cristiani: "Derivavano il loro nome da Cresto, condannato al supplizio, sotto l'imperatore Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato". È curioso che Tacito ricordi il nome di Pilato – personaggio secondario – ma che lo definisca "procurator" e non "praefectus", anche perché prima di fare lo storico era stato avvocato e funzionario: la differenza tra un procuratore e un prefetto doveva conoscerla bene. Laddove un cristiano di quattro secoli dopo, ad esempio Sulpicio Severo, avrebbe avuto un'idea molto meno precisa del ruolo di Pilato, ma nessun dubbio sul nome, ormai eternato nei vangeli. Insomma c'è qualche argomento per sostenere che, se pure gli Annales in linea di massima fossero autentici, il paragrafo 44 sia un'interpolazione, un'aggiunta. Questa interpolazione avrebbe potuto essere effettuata in qualsiasi momento nel Medioevo, a Montecassino, in un periodo in cui il manoscritto di Tacito interessava a pochissimi lettori, e questi pochi magari si domandavano in buona fede come mai nel loro manoscritto mancava il paragrafo di Sulpicio, così importante per la Storia del cristianesimo: finché qualcuno mentre lo ricopiava avrebbe potuto essersi detto beh, se manca perché non aggiungerlo. Ricordiamo che in quel periodo Tacito non era più il grande Tacito, ma un cronista tra tanti, il valore della cui opera risiedeva nella quantità di informazioni storiche che conteneva, insomma per un monaco aggiungere il paragrafo aveva un po' lo stesso senso che ha per noi aggiungerne uno a una voce di Wikipedia; tanto più che era un paragrafo già attestato da un altro autore, e contenente verità indiscutibili. 

Ma la modifica avrebbe potuto essere anche più minimale, e magari operata da Sulpicio o da qualche autore precedente. Forse nell'originale Tacito non parlava veramente di cristiani, ma di un gruppo molto più oltranzista e arrabbiato, di cui non ci rimane più traccia perché... Nerone li ha fatti ammazzare tutti, appunto. Forse avevano davvero appiccato uno dei tanti focolai, o più facilmente intralciato gli interventi dei vigili. Oppure non erano affatto implicati nell'incendio, ma erano colpevoli di alimentare le dicerie sulla piromania di Nerone – finché quest'ultimo non avrebbe deciso di vendicarsi rovesciando l'infamia su di loro. Quest'ultima ipotesi fino a qualche anno fa non l'avrei mai presa in considerazione, mentre oggi mi sembra fin troppo convincente, perché? Perché più conosco gli uomini e più capisco Nerone. Ormai quando sento qualcuno parlare di scie chimiche, vorrei sciargliele addosso. E i negazionisti del riscaldamento globale, mi dispiace sinceramente vederli morire di vecchiaia, invece che disidratati. Tutti quelli che si immaginano un Potere malvagio deciso a rovinargli la felicità, mi fanno venir voglia di assumerlo io, quel Potere, e mandarli a dragare i fiumi finché non affogano. Meno male che non sono Nerone: ma comincio a capire come lo si diventa.

martedì 13 giugno 2023

"È morto", gridarono le galline

E così eccoci qui – no aspetta, ci siamo tutti?

Contiamoci.


Gli antiberlusconiani estetici li riconosci perché non tacciono, sono ancora convinti di avere tantissime cose da dire, cose interessanti. Quanto è stato rilevante, quanti mondi ha cambiato, sì, sì. In sostanza stanno dicendo che Berlusconi era gli anni Ottanta, nei suoi aspetti più sgargianti come in quelli più oscuri – una dentiera smagliante che si chiude sui misteri degli anni di piombo. Questo è stato Berlusconi: ecco perché non lo sopportavano più negli anni Novanta, perché si sono accorti di trovarlo simpatico negli anni Zero, e ora, per forza, gli manca. Almeno lui, ti spiegano, "voleva piacerci". In effetti la maggior parte dei suoi successori sembra che si accontentino di farci incazzare. 

Gli antiberlusconiani esistenziali gemono a bassa voce mentre si tastano mentalmente alla ricerca di quel gran vuoto dentro che dovrebbero avere – erano quelli che temevano "il Berlusconi in sé", ecco, come sta quel Berlusconi adesso? Ma dov'è poi, nel cuore? nel cervello? Altri organi? Silenziosamente si domandano se non hanno sbagliato a chiamare "Berlusconi" una deriva morale che esisteva prima ed esisterà dopo il signore che ci ha lasciato ieri. Era un simbolo, è sempre stato solo un simbolo. Rappresentava tutte le cose che ci stavano rovinando, suonava falso e artificiale come gli spot dei suoi programmi, i giardinetti delle sue palazzine, le moine delle sue puttane. Se non ci fosse stato lui, ce ne sarebbe stato un altro. Ora lui non c'è più, qualcuno vuole prendere il posto? Perché dei simboli c'è sempre comunque bisogno. Gli antiberlusconiani esistenziali si guardano intorno, alla ricerca di qualche antiberlusconiano agonistico.

Gli antiberlusconiani agonistici si muovono impettiti, non dicono niente ma hanno già un discorso pronto appena qualcuno gli rivolgerà la parola (nessuno gli rivolge la parola). Sono venuti a onorare un Grande Avversario, quello era Berlusconi per loro: e siccome Berlusconi era Grande, in un qualche modo si sono convinti di esser grandi pure loro. Erano i politici che ci spiegavano che Berlusconi andava battuto "sul campo", erano quelli che pensavano che se un tizio con un impero mediatico che è quasi un monopolio ti fa la cortesia di partecipare a libere elezioni, tu ti candidi contro di lui e vinca il migliore!, è gente che ha accettato di giocare a calcio su un campo in salita, pendenza del 30%, e ancora chiede scusa perché non è riuscito a vincere, schema sbagliato, centravanti spompato, ma la prossima volta vedrete. Adesso però B. non c'è più, il che nella loro visione del mondo significa che si è ritirato dalla competizione, e quindi forse tocca a loro... gli antiberlusconiani agonistici li riconosci da quel folle brillìo negli occhi. Quel tipo di persona convinta che con qualche tweet sagace e il ghigno giusto puoi ereditare il consenso che un tycoon ha costruito procurandosi tre emittenti nazionali, concessionarie di pubblicità, giornali per venderla, e la Mondadori. Gli antiberlusconiani agonistici sperano che con una bella orazione funebre potrebbero tornare nelle grazie di una Barbara d'Urso, una Maria De Filippi, dai che alle prossime elezioni svoltiamo il 5%.

I funerali della volpe

Gli antiberlusconiani giudiziari controllano Wikipedia perché la precisione è importante, e di preciso per ora si può solo dire che B. è stato condannato per falso in bilancio. Tutti gli altri capi d'imputazione si sono estinti lungo la strada, o languono ancora in attesa della Cassazione o della prescrizione. È un bilancio piuttosto magro; del resto è complicato perseguire legalmente un tizio che ogni tanto va al governo e modifica le leggi a suo favore. Serviva probabilmente un'iniziativa extragiudiziaria, ma gli antiberlusconiani assiepati ai bordi del Palazzo di Giustizia non ragionano così. Anche loro probabilmente sono un po' smarriti, le loro manette come le braccia di Enea tre volte stringono il vuoto intorno ai polsi del fantasma del padre. 

Gli antiberlusconiani qualsiasi non sanno neanche da che parte cominciare. Io per esempio ho scritto così tante cose su di lui che è come se non avessi scritto niente; e da qualche parte credo anche di aver detto che nel momento della caduta non mi sarei fatto uscire una sola parola di scherno; quello lo meritano solo i potenti, ma probabilmente pensavo a una caduta da una posizione di potere. Qualcosa che non è mai veramente successo: Berlusconi è ancora potente, e potentemente in grado di danneggiarci. Quello che è scomparso ieri, l'involucro mortale, era di gran lunga la cosa meno pericolosa di lui. Tutto il resto è ancora in circolazione, Cologno non è forse più l'unica Torre Oscura da abbattere ma non è mai stata l'unica, è stato ingenuo da parte mia il pensarlo (se mai l'ho pensato). 

Così alla fine eccoci qui. È morto un tizio che in un qualche modo conoscevamo, da un sacco di tempo. Questo per forza ci dispiace, come di qualsiasi pezzo del nostro paesaggio che se ne va. È tempo che non ci verrà restituito, un danno che non ci sarà indennizzato, davvero non si capisce cosa dovremmo festeggiare. Dei morti non si dovrebbe mai parlare male, e quindi staremo zitti. 

lunedì 12 giugno 2023

Leone l'incoronatore

12 giugno: San Leone III Papa (dal 795 all'816), l'incoronatore di Carlo Magno

Sorpresa!

Non c'è aneddoto tramandato dai manuali scolastici che, a guardarlo un po' da vicino, non mostri qualcosa di completamente diverso. Può darsi che abbiate letto, al tempo, che Carlo Magno fu incoronato Sacro Romano Imperatore nella notte di Natale dell'anno 800, da un papa che in quell'occasione gli fece una sorpresa. Del resto che Carlo non fosse informato – e neanche troppo entusiasta – della nuova corona lo riferiscono sia le fonti pontificie che quelle carolinge, e quindi perché non crederci? 

Perché, semplicemente, non è realistico che un sovrano che è già l'uomo potente d'Europa, una notte di Natale, si lasci appoggiare un'altra corona in testa a sua insaputa. Certo, le fonti pontificie hanno tutto l'interesse a ribadire che fu un'iniziativa del papa, visto che da quel momento si stabilisce il principio che il Sacro Romano Imperatore sarà incoronato a Roma; e anche i cronisti di corte, da Eginardo in poi, avevano buon gioco a raccontare di un monarca poco interessato all'ennesima corona, magari pure infastidito di doversi sobbarcare anche il retaggio di quegli imperatori che benché si definissero romani, a Roma non si vedevano da quasi quattro secoli. Ma davvero possiamo credere che fosse una decisione autonoma del papa? E a proposito, che papa era, che margini di iniziativa poteva avere, rispetto al suo imperiale protettore?

Nessuno. Leone III, a quel punto della sua carriera, era una pedina di Carlo Magno, al quale doveva non solo la sua carica, ma anche la vita. Avrebbe fatto tutto quello che Carlo gli chiedeva; difficilmente gli avrebbe messo in testa una corona che Carlo non voleva. Facciamo un passo indietro. 

Leone a quel punto era papa da cinque anni, l'ultimo dei quali piuttosto turbolento. Era succeduto ad Adriano, il papa che alleandosi con i Franchi contro i Longobardi, e sollecitando l'intervento di Carlo nella penisola, aveva reso in sostanza quest'ultimo il signore di tutta l'Italia fino a Roma. I possedimenti longobardi in Italia settentrionale e centrale erano stati incamerati da Carlo; quanto a Roma, teoricamente era ancora un ducato dipendente dall'Impero Romano (quello con capitale Costantinopoli), ma in pratica era il papa a essere considerato la massima autorità in città. Più che normale che la carica facesse gola alle famiglie più importanti; e tuttavia questo non impedì l'elezione all'unanimità di Leone, un cardinale di origini umili o comunque oscure che aveva fatto carriera nella cancelleria del Laterano. Qualcuno evidentemente in città non era così contento, e così nell'aprile del 799, mentre si recava in un monastero per attendere a una funzione religiosa, Leone fu rapito da due patrizi. Uno dei due, Pascale, era nipote di Adriano, e con tutta probabilità credeva che il Soglio spettasse a lui; non voleva però uccidere per forza Leone, si sarebbe contentato di cavargli gli occhi o mozzargli la lingua, mutilazioni che forse pensava fossero sufficienti per far decadere un papa dal suo ruolo. A quanto pare però non ci riuscì e la scelta di non ucciderlo sul posto si sarebbe rivelata un grave errore, perché in un qualche modo Leone riuscì a evadere dalla cella dove era rinchiuso (calandosi con una corda), riparando prima in Vaticano e poi, scortato da un messo imperiale, a Paderborn, Sassonia, dove Carlo teneva corte in quel periodo. Una scelta arrischiata perché gli attentatori, per quanto dalle cronache non sembrassero così organizzati, erano comunque convinti di avere Carlo dalla loro, forse in forza del buon rapporto che quest'ultimo aveva avuto con Adriano. E se l'attentato fosse riuscito, se Leone fosse stato tolto di mezzo senza che Carlo avesse avuto da ridire, probabilmente Leone sarebbe stato liquidato come un usurpatore, un antipapa; radiato dal canone dei pontefici, e oggi non ne parleremmo più. Invece Leone ebbe la buona idea di recarsi direttamente da Carlo, e forse in quell'occasione fece conoscenza con l'eminenza grigia del re, Alcuino di York.  

Alcuino è il più probabile responsabile delle scelte che furono prese allora, e che portarono alla nascita di un nuovo impero. A Paderborn non era arrivato soltanto Leone, ma anche i congiurati erano riusciti a recapitare dei messaggi in cui cercavano di far sentire la loro campana. A Leone venivano attribuiti comportamenti scandalosi i cui dettagli sono stati poi omessi dalle cronache, per via che la Storia la scrive sempre il vincitore. Carlo si ritrovava insomma a dover giudicare la condotta di un pontefice, una grana che avrebbe preferito evitare. Alcuino nell'occasione gli raccomandò la massima prudenza: in quanto detentore di un potere che derivava direttamente da Dio, il papa non poteva essere giudicato da nessun'autorità superiore a lui, ovvero da nessuno se non da Dio. Liquidare il papa fuggitivo sarebbe sembrato un atto di prevaricazione; Carlo decise di scendere a Roma a dirimere la questione. 

A Roma si tenne un vero e proprio processo, che dimostra come il diritto romano aveva ormai ceduto il passo all'ordalia medievale. Gli accusatori del papa poterono riferire le loro accuse, ma non portarono prove; in compenso Leone giurò solennemente sul vangelo di essere innocente. Si trattava in sostanza di una versione ecclesiastica del giudizio di Dio; solo Dio aveva un'autorità superiore a quella di Leone, solo lui avrebbe potuto punirlo incenerendolo se giurava il falso. Leone giurò e non fu incenerito, quindi era innocente e poteva continuare a essere papa. I suoi rapitori invece furono condannati a morte; pena che Leone commutò subito in ergastolo perché avevano ancora troppi amici in città. Leone invece aveva un solo grande protettore: Carlo, che per rimetterlo sul Soglio era venuto fino a Roma, interrompendo chissà quale guerra di conquista o massacro di Avari. È abbastanza chiaro che Leone avrebbe fatto qualsiasi cosa gli chiedeva. 

Nel frattempo anche a Costantinopoli non è che stessero fermi ad aspettare; Irene d'Atene, la basilissa che per anni aveva regnato come reggente del figlio Costantino VI; quando questo aveva finalmente raggiunto la maggiore età, aveva tramato per prendergli il posto e siccome anche lei non era un mostro invece di ucciderlo si era accontentato di farlo accecare – senonché, come spesso succedeva in questi casi, Costantino era comunque morto poco dopo a causa delle ferite. A quel punto Irene si era proclamata basileus, avete capito bene, al maschile: le basilisse erano le mogli o le madri dell'imperatore, ma Irene non si considerava più né madre né vedova né reggente: l'imperatore era lei, punto, forse aa Meloni pensava a questo precedente quando ha chiesto di farsi chiamare Signor Presidente der Consiglio, ma non tergiversiamo. Un imperatore donna non si era ancora esattamente visto, e questo forse diede ad Alcuino o ad altri l'idea per il regalo da fare a Carlo nella notte di Natale dell'anno 800; facciamo proclamare dal tuo papa che d'ora in poi l'imperatore sei tu, che ne pensi? Se Carlo fosse stato contrario, difficilmente ne staremmo parlando oggi. Nella pratica si trattava di un escamotage per dichiarare che Roma non dipendeva più da Costantinopoli, bensì da un altro imperatore che di romano aveva ancora meno, ma che di fatto la controllava già da anni.

Anche nelle beghe teologiche, Leone si trovò a barcamenarsi in una situazione in cui la priorità dei nuovi padroni carolingi era isolare Roma da Costantinopoli. Per questo motivo Carlo aveva fatto penare non poco Adriano ai tempi della questione iconoclastica; ora invece la tensione tra oriente e occidente aveva messo a fuoco la questione che poi sarà quella dello scisma definitivo, duecento anni dopo: il filioque. In molte chiese occidentali (non a Roma) il Credo niceno veniva recitato durante la messa, il che dava l'occasione a tutti i fedeli di ribadire che lo Spirito procede "dal padre e dal figlio". Questo nella versione latina: quella greca è un po' diversa, manca una congiunzione, insomma sembra che lo Spirito proceda solo dal padre. Come ammetteranno diversi teologi nei secoli successivi, si tratta di una questione fondamentale soltanto se si ha molta voglia di litigare. I carolingi evidentemente ne avevano; Carlo convocò un sinodo ad Aquisgrana che stabilì che il Credo latino con il suo bel filioque andava recitato in tutte le messe. Leone ratificò il decreto, ma solo per le chiese di rito latino; non che i greci gli avrebbero dato retta, ma voleva evitare di rompere con loro: a Roma ancora per più di un secolo si continuò a omettere il filioque.

Alla morte di Carlo, nell'814, forse Leone rischiò di essere vittima di un secondo attentato; stavolta non ebbe bisogno di sollecitare i messi del nuovo imperatore (Ludovico), che quando arrivarono trovarono la situazione già normalizzata. Leone sarebbe morto due anni dopo Carlo; in generale non è ricordato come un grande papa. Fu beatificato solo nel Seicento, e canonizzato nel secolo successivo. Addirittura negli anni Sessanta il suo nome era stato espunto dal Martirologio romano; poi è stato reinserito. Non è considerato patrono di nulla in particolare, ma se quando cercano di farvi fuori voi scappate dal vostro boss, Leone sa come vi sentite in quel momento.

domenica 11 giugno 2023

L'apostolo dietro le quinte

11 giugno: San Barnaba, apostolo e fundraiser (I secolo)

Paolo e Barnaba a Listra vengono scambiati per Hermes e Zeus (Nicolaes Pietersz) 

Barnaba potrebbe essere il santo più importante di cui non avete mai sentito parlare. Potrebbe persino aver inventato la Chiesa, così come di Paolo di Tarso si dice che abbia fondato il cristianesimo: ma del resto chi è che ha scoperto Paolo, chi è che ha garantito per lui presso gli apostoli, chi è che lo è andato a riprendere quando si era ritirato a vita privata, e lo ha gettato in quel calderone che era Antiochia, la metropoli del Medio Oriente dove appunto i seguaci di Paolo e Barnaba furono chiamati per la prima volta cristiani? È stato Barnaba. Che Chiesa avremmo avuto, senza Barnaba? Probabilmente nessuna Chiesa. Oppure saremmo tutti circoncisi. Difficile da dire. 

Barnaba è quel tipo di personaggio che vive tra le righe: in un libro non vengono quasi mai nominati, eppure senza di loro la trama non andrebbe avanti. Il libro in questo caso sono gli Atti degli Apostoli di Luca evangelista, in cui Barnaba viene nominato una ventina di volte, che non sono poi così poche. È uno dei rari personaggi che compare sia nella prima parte (ambientata a Gerusalemme, racconta la nascita di una setta basata sulla fede negli insegnamenti e nella resurrezione di Gesù di Nazareth), sia nella seconda, quella che racconta dei viaggi e della predicazione di Paolo di Tarso. Barnaba è il trait d'union: fu uno dei primi aderenti (e contribuenti) della comunità di Gerusalemme, e poi fu il mentore e il compagno di Paolo nei suoi primi viaggi. Di lui non viene riportato nessun discorso diretto: a differenza di Pietro e di Paolo, non è davvero importante quello che dice. L'importante è sempre quello che fa: le persone e le comunità che sceglie di appoggiare, nonché i soldi; sin dalla prima volta in cui compare, Barnaba si trova coinvolto in questioni di soldi. L'ipotesi è che l'economia fosse il suo campo specifico: altri parlavano, Barnaba decideva quanti soldi raccogliere, quanti soldi riscuotere. Pietro e Paolo erano star, Barnaba il loro procuratore? È solo un'ipotesi perché Luca, quando si parla di soldi, si muove sempre un po' a disagio e tende a riportare ricostruzioni improbabili. Altri avrebbero semplicemente rimosso l'argomento; in fondo se stai raccontando la nascita di un culto a chi vuoi che interessi l'economia? E invece a noi, duemila anni dopo, un po' interessa. 


Barnaba, ci spiega Luca, si chiamava Giuseppe (il soprannome Barnaba significherebbe "figlio dell'esortazione") ed era un levita originario di Cipro. Già in questi succinti dettagli possiamo immaginare una tensione fra tradizione e cosmopolitismo: i leviti erano l'antica casta sacerdotale ebraica, ma a Cipro senz'altro vivevano mescolati a greci e ad altri gentili. Può darsi che Barnaba si sia accostato al cristianesimo quando aveva già una profonda conoscenza delle tradizioni ebraiche che in seguito avrebbe cercato di superare; oppure può darsi di no, non tutti i leviti facevano più i sacerdoti, e di Barnaba sappiamo che aveva dei possedimenti, magari una rendita. Il fatto che in seguito abbia dimostrato insofferenza nei confronti di chi chiedeva di imporre i precetti levitici anche ai gentili convertiti al cristianesimo, mi ricorda irresistibilmente un altro personaggio che in sua presenza non viene mai nominato: Matteo-Levi, il pubblicano, autore del vangelo più polemico nei confronti degli ebrei. Per una interessante coincidenza, è anche il vangelo più attento alle questioni economiche, e si capisce subito che chi lo ha scritto ha un'esperienza sul campo molto più pratica e sgamata di quella di Luca. E quindi: potrebbe Barnaba essere Matteo-Levi? Che io sappia nessuno l'ha proposto, anche solo perché Matteo-Levi dev'essere per forza uno dei Dodici, mentre di Barnaba si legge chiaramente che si è aggregato al gruppo in seguito. È pur vero, come si dice, che nessuno li ha mai visti nella stessa stanza, ovvero mentre si parla di Barnaba e Paolo, Barnaba e Marco, Barnaba e Pietro... non si parla mai di Barnaba e Matteo. Una leggenda di molto successiva agli Atti racconta che secoli dopo il suo martirio, a Cipro, il corpo di Barnaba sarebbe stato trovato con in mano una copia del vangelo di Matteo. Dettaglio suggestivo, anche perché sarebbe stato molto più verosimile che Barnaba si portasse nella tomba il vangelo di Marco, che forse era addirittura suo cugino. O al limite quello di Luca, che negli Atti parla tanto di lui. Invece no: a Barnaba trovano in mano il vangelo di Matteo. È curioso, ma mille curiosità non fanno una prova.

Nel primo passo in cui compare, Barnaba sembra incarnare il seguace ideale di Gesù, quello che "vende tutto quello che ha e lo dà ai poveri" (Mc 10, 21): nel suo caso Barnaba possiede appunto un podere, lo vende e depone il ricavato "ai piedi degli apostoli". È il requisito richiesto a tutti gli adepti del nuovo culto (e somiglia sinistramente a quello che succede anche oggi a chi aderisce a un culto), ma Barnaba è l'unico di cui Luca fornisce nome e soprannome. Al suo esempio positivo segue immediatamente nel testo quello negativo: due coniugi, Anania e Saffira, dopo aver liquidato le loro proprietà, tentano di frodare gli apostoli tenendo per sé una parte del ricavato, ma Pietro in questa fase degli Atti è praticamente onnisciente e abbastanza terribile: al termine di due brevi colloqui in cui li accusa del loro misfatto, sia Anania che la moglie cadono morti. Questa è l'aria che tira in quella comunità che pochi versetti prima Luca ha definito "un cuore solo e un'anima sola".

Barnaba insomma il titolo di apostolo lo guadagna non con le parole, ma investendo tutto quello che possiede in una setta dove c'è gente che non si lascia sfuggire un centesimo. Il titolo comunque se lo meriterà coi fatti, anzi sin dall'inizio sembra uno degli apostoli più attivi: quando a Gerusalemme arriva la notizia che a Damasco si è messo a predicare il vangelo un certo Paolo (chiamato ancora col nome ebraico, Saulo), i capi della comunità decidono di mandare qualcuno fidato a indagare e scelgono proprio Barnaba. È un altro momento cruciale, perché Saulo sin dall'inizio è un predicatore sensibilmente diverso dagli apostoli originali: ha un approccio più ecumenico, una cultura diversa; non ha mai conosciuto Gesù, e fino a poco tempo prima i cristiani li perseguitava per ordine del Sommo Sinedrio. Inoltre, è improbabile che avesse venduto tutto quello che possedeva (anche in seguito si vanterà di vivere del proprio lavoro, forse di produttore di tendaggi). Barnaba avrebbe avuto più di un motivo per considerarlo un eretico, una minaccia alla purezza della Chiesa primigenia: e invece, dopo aver investito tutto quello che aveva in quella Chiesa, ora investe tutta la sua credibilità in questo nuovo eccentrico predicatore. Non solo garantisce per lui, ma sarà Barnaba a trovare lo spazio più adatto alle sue idee: Antiochia di Siria. 

La lettera agli Ebrei,
attribuita da Tertulliano
a Barnaba
Nel primo secolo è la città più grande di tutta l'Asia romana. Anche ad Antiochia, Barnaba giunge in missione per conto dei capi gerosolimitani: deve verificare se è vero che qualcuno si è di nuovo messo a parlare di Gesù Cristo in quella grande città senza prima chiedere il loro permesso, e cominciamo a capire che è un permesso che si paga. Barnaba scopre che è proprio così, ad Antiochia c'è già un gruppo di seguaci di Gesù, e come gli è già successo con Paolo, reagisce con entusiasmo: quell'entusiasmo che forse ha fatto tutta la differenza. Altri culti si sono ripiegati su sé stessi, temendo di snaturarsi di fronte a situazioni nuove; Barnaba ha convinto i seguaci di Gesù ad aprirsi a Paolo e poi ad aprirsi ad Antiochia, ma dopo Paolo e dopo Antiochia il culto di Gesù non sarebbe più stato lo stesso. Molti nuovi adepti non sono di origine ebraica e se anche volessero rispettare i precetti della Legge ebraica, probabilmente non li conoscono; però qualche tempo prima a Gerusalemme lo stesso Pietro apostolo ha iniziato a convertire i pagani, cominciando dal centurione Cornelio, e questo forse è quanto basta a consentire a Barnaba di dare il via libera alla nascita di questa nuova Chiesa che, date le dimensioni di Antiochia, è destinata a eclissare quella gerosolimitana. Qualcun altro al suo posto avrebbe almeno chiesto rinforzi dalla casa base; Barnaba invece decide di scomodare Saulo, che nel frattempo era tornato a casa sua, a Tarso: c'è bisogno di un predicatore dalla lingua pronta ma anche dalle idee aperte, qualcuno che non si formalizzi troppo sui precetti rituali. E poi c'è la profezia di Agabo, di cui abbiamo già parlato: in breve, proprio mentre Barnaba e Saulo/Paolo ad Antiochia stanno contribuendo a formare una comunità che è destinata a modificare per sempre le forme del cristianesimo (e sarà la prima al mondo a essere chiamata "cristiana") ecco spuntare dal nulla questo profeta che informa i membri della comunità di un'incipiente carestia "su tutta la terra". È abbastanza chiaro che si tratta di un pretesto, perché la raccolta fondi che viene organizzata su stimolo di Agabo non è destinata a tutta la terra, ma "ai fratelli abitanti nella Giudea", cioè ai membri della Chiesa gerosolimitana. È solo la prima di una serie di collette che verranno periodicamente organizzate in tutte le Chiese fondate da Paolo e Barnaba, il che ci fa sospettare che la comunità di Gerusalemme ormai fosse diventata la detentrice di una specie di copyright. Proprio come Barnaba per ottenere il titolo di apostolo aveva dovuto cedere il suo podere, anche le nuove comunità, per considerarsi Chiese ufficiali, dovevano autotassarsi e inviare generose offerte alla Chiesa originale 

Gli utilizzatori finali dei fondi raccolti dovrebbero sempre essere "i poveri", senonché il termine nasconde una certa ambiguità: non c'è dubbio che sin dall'inizio la comunità di Gerusalemme si fosse data anche una missione socio-assistenziale (molto presto erano stati nominati i primi diaconi, tra le cui mansioni c'era la distribuzione di pasti alle vedove), però potevano essere considerati "poveri" anche gli apostoli, predicatori di professione che per campare probabilmente attingevano dalla cassa comune. È possibile che col tempo i membri più anziani fossero visti dalle altre Chiese come un patrimonio da difendere – e da mantenere: erano i testimoni oculari della vita di Gesù. In attesa che qualcuno cominciasse a scrivere i vangeli, il Vangelo erano loro e valeva senz'altro la pena di autotassarsi per il loro mantenimento. Però non tutti gli apostoli pensavano di dover vivere di elemosina. Paolo, ad esempio, no: ci teneva molto a ribadire di aver sempre lavorato, e almeno una volta, scrivendo ai Corinti, domanda polemicamente se solo a lui e Barnaba non è riconosciuto "il diritto di non lavorare" (1Co 9,6). 

Quando nelle sue lettere Paolo parla di queste raccolte fondi, lo fa con un certo disagio – più che comprensibile in un teologo che preferirebbe parlare di argomenti più alti. Si capisce che le ritiene necessarie, che non può esimersi dal sollecitarle, ma anche che non vorrebbe essere preso per il destinatario delle offerte o peggio, per un mero riscossore. Può darsi che a occuparsi più concretamente delle collette fosse il suo collega Barnaba, e questo spiegherebbe il senso del suo soprannome: l'"esortazione" riguarderebbe l'invito evangelico a donare tutto ai poveri, o almeno qualcosa (a proposito: ricordate che mestiere faceva Matteo-Levi prima di incontrare Gesù? Il riscossore, esatto). 

Da Antiochia, Paolo/Saulo e Barnaba intraprendono una serie di viaggi che rivelano una concezione ormai ecumenica del loro apostolato. Passano anche da Cipro, la terra d'origine di Barnaba, dove sono ospiti del proconsole Sergio Paolo. Quest'ultimo potrebbe avere addirittura adottato Saulo, visto che è a partire da questo incontro che negli Atti l'apostolo viene chiamato Paolo. Qui e altrove, sembra chiaro che Barnaba preferisce far parlare il collega, il quale è anche talvolta in grado di fare veri e propri miracoli – o di convincere il suo pubblico di averli fatti. Il che non significa che Barnaba risulti meno autorevole: quando passano dalla città anatolica di Listra, Paolo guarisce un paralitico e gli abitanti lo prendono per Hermes, il dio messaggero (e quindi quello con la parlantina più sciolta). Siccome nel mito di Filemone e Bauci, Hermes visitava il mondo in incognito e in compagnia di Zeus, Barnaba viene acclamato come Zeus; dopodiché Paolo deve con molta energia dissuadere gli abitanti dal sacrificare animali in loro onore.

Verso il 50 dC, Barnaba e Paolo tornano a Gerusalemme, non (solo) per riportare il denaro delle collette, ma perché bisogna decidere una volta per tutte come comportarsi coi neoconvertiti gentili, che erano sempre di più, ad Antiochia e altrove. Fino a quel momento a Gerusalemme avevano chiuso un occhio sul fatto che i neobattezzati non rispettassero i precetti del Levitico, e volte più per ignoranza che per scelta, ma la situazione andava normalizzata. I gerosolimitani si consideravano ancora ebrei a tutti gli effetti: il loro leader era Giacomo detto il Giusto, "fratello del signore". Tra di loro vi erano molti farisei, alcuni dei quali ad Antiochia avevano sparso la voce che per essere veri cristiani bisognava circoncidersi. Ora, per Paolo (e Barnaba) questo avrebbe significato semplicemente chiudere bottega. Ormai il loro target erano i greci e gli abitanti delle città ellenizzate tra Siria e Asia Minore: gente storicamente ostile alla pratica della circoncisione. Sopravviveva in effetti nella nuova comunità una diatriba che aveva insanguinato la regione sin dall'invasione di Alessandro Macedone, ormai cinque secoli prima: i sovrani ellenistici avevano cercato di abolire la circoncisione, gli ebrei avevano reagito radicalizzandosi e riscoprendo le antiche tradizioni della Torah. Cinque secoli dopo, la circoncisione era ancora la pratica che in ogni città del Medio Oriente differenziava gli ebrei, e aveva consentito loro di mantenere un'identità etnico-culturale nel melting-pot prima ellenistico e poi romano. In ogni caso, a Paolo (e Barnaba) era chiaro che se gli ebrei non avrebbero mai smesso di circoncidersi, ugualmente i gentili non avrebbero mai accettato di farlo. Escludere dalla Chiesa i non circoncisi significava decretare uno scisma, e nessuna delle due parti se lo poteva permettere. A Paolo e Barnaba serviva l'investitura della Chiesa di Gerusalemme tanto quanto alla Chiesa di Gerusalemme serviva il denaro delle collette. Per cui alla fine toccò allo stesso Giacomo il Giusto trovare una formula di compromesso: ai gentili veniva richiesta l'astensione "dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia"; niente asportazione del prepuzio, il cristianesimo era salvo. Paolo e Barnaba avevano vinto, senonché pochi versetti dopo si separano, forse per sempre, perché?


Abbiamo due spiegazioni diverse, proprio come succede quando la separazione è reale e non inventata a tavolino da un cronista successivo; è ovvio che due litiganti vedono le cose in un modo diverso. Per Luca, che probabilmente viaggiò con Paolo ma ci teneva a consultare fonti diverse, il disaccordo verteva su Giovanni-Marco, il presunto autore del Vangelo più breve. Quest'ultimo è definito da Paolo nella lettera dei Colossesi "cugino di Barnaba" (ma si sa che i termini di parentela sono sempre ambigui nel Nuovo Testamento), e in precedenza aveva accompagnato i due apostoli in un viaggio, anche se non aveva voluto seguirli fino in Panfilia. Quando, dopo il concilio di Gerusalemme, Paolo propone a Barnaba di tornare sui suoi passi per controllare come stanno le comunità da loro fondate, Barnaba gli propone di prendere con loro anche Marco, ma Paolo dopo la Panfilia non si fida più e parte da solo; Barnaba invece se ne torna nella sua Cipro. Nella Lettera ai Galati però Paolo racconta di un litigio diverso, che magari non coincide con la separazione raccontata da Luca – in fondo capita a tanti colleghi e amici di litigare, riappacificarsi, litigare di nuovo. In questo caso però più che con Barnaba, Paolo se la prende con lo stesso Pietro, che ormai si è trasferito ad Antiochia e non ha più niente del Pietro terribile e infallibile della prima parte degli Atti; sembra tornato quello evangelico, sempre un po' oscillante tra il dire e il fare. Ad Antiochia, Pietro avrebbe smesso di seguire i precetti del Levitico, il che lo collocherebbe in una posizione più avanzata anche rispetto alle risoluzioni del Concilio di Gerusalemme: se ai gentili era concesso di non rispettare tutti i precetti del Levitico, questi però valevano ancora per i cristiani circoncisi come Pietro. In effetti, quando ad Antiochia arriva qualche vecchio cristiano da Gerusalemme, Pietro si ritrova a cena con loro e si rimette platealmente a rispettare i vecchi precetti. Ora, probabilmente stava cercando di non scandalizzare nessuno: tutti i leader hanno bisogno ogni tanto di tenere i piedi in più scarpe. Ma Paolo evidentemente ormai è in una posizione di forza che gli consente di polemizzare pubblicamente persino col primo tra gli apostoli: "Se tu, che sei giudeo, vivi alla maniera degli stranieri e non dei Giudei, come mai costringi gli stranieri a vivere come i Giudei?" Lo stesso Barnaba, scrive Paolo ai Galati, si era lasciato trascinare nell'ipocrisia di Pietro; insomma tra un Pietro forse addolcito dagli anni e preoccupato di non offendere nessuno, e un Paolo sempre più intransigente, Barnaba per una volta aveva scelto di stare col vecchio maestro; tanto il nuovo ormai non aveva più bisogno di sostegno. 

In seguito può darsi che il dissenso tra i due si fosse dissolto; scrivendo da Roma ai Colossesi, Paolo raccomanda loro di ricevere sia Marco sia Barnaba. Leggende successive attribuiscono a Barnaba una morte per martirio, inflitto a Cipro da ebrei innervositi dalla sua predicazione. Qualcuno già nell'antichità lo aveva proposto come autore della Lettera agli Ebrei, un testo che rivela una profonda conoscenza dell'ebraismo e già allora sembrava un po' troppo infiorettato perché lo avesse scritto Paolo. Così la pensava ad esempio Tertulliano, ma è difficile immaginare che il compagno taciturno di Paolo fosse uno scrittore più bravo di lui. A Milano sono convinti che Barnaba sia arrivato fin lì, e vi abbia fondato la prima Chiesa milanese; probabilmente si confondono con un discepolo omonimo. Sempre a Milano i chierici dell'ordine di San Paolo hanno iniziato a chiamarsi barnabiti verso la metà del Cinquecento, perché officiavano nella chiesa dedicata ai Santi Paolo e Barnaba.

venerdì 9 giugno 2023

Astrud Gilberto, punk prima di te


La leggenda è talmente famosa che mi vergogno quasi a ripeterla, insomma nel 1963 Stan Getz vola a Rio perché ha sentito dire che laggiù è stato scoperto tutto un nuovo filone di musica che potrebbe essere quella del futuro (di tutti gli anni in cui ciò poteva succedere, è esattamente il 1963: i Beatles atterreranno negli USA l'anno dopo). Getz è un sax di buone speranze che si muove già in un mondo saturo di proposte musicali; qualche collega probabilmente si stava già lamentando che ormai tutta la musica buona era stata già composta e incisa, insomma alla fine le note sono sette, ecc. E in effetti quello che Getz trova a Rio è una musica strana e dissonante, anche se al nostro orecchio oggi non suona più così; ma se oggi noi non troviamo più così dissonante la bossanova è proprio perché Stan Getz ce l'ha portata, dopo essere andato a prenderla direttamente dalla spiaggia di Ipanema e dalla chitarra di Joao Gilberto che suonava quegli accordi che la prima volta che li vedi dici no, dev'esserci un errore di stampa, non si possono suonare queste corde insieme, ecco: anche la prima volta che i nostri nonni hanno ascoltato Garota de Ipanema avranno detto no, c'è qualcosa che non va, qualcuno sta stonando; probabilmente la ragazza. Invece per noi è normale. 

Noi bisogna dire che ormai ascoltiamo di tutto senza più battere ciglio; quando ci imbattiamo in un oggetto che suona più dissonante del solito, alziamo le spalle e pensiamo che sia roba dei giovani, e ci difendiamo ricordando che comunque abbiamo ascoltato anche di peggio, in certi casi continuiamo a farlo. Ultimamente in Italia c'è un ritorno della melodia ma camuffata da rap di strada (davvero, non hanno vergogna, ormai gli basta cominciare con eh, eh oh, uh, poi parte la base e potrebbero essere i Ricchi e Poveri). Il brano di Sanremo che si è ascoltato più in giro quest'anno lo ha scritto un rapper di Carpenedolo (BS) in pieno ritorno del rimosso, che nel caso suo e dei suoi ascoltatori è lo Zecchino d'Oro; era abbastanza prevedibile, per parecchi anni lo Zecchino ha prodotto musica migliore di Sanremo e chi ha avuto la fortuna di essere cresciuto in quegli anni probabilmente manterrà un certo debole per le melodie molto cantabili e i cori bianchi; però quand'è successo che abbiamo accettato le voci dei bambini nella musica leggera? Ogni luogo comune ci proviene da una tradizione, ogni tradizione ha iniziato con un'innovazione, e forse la madrina di tutti i bambini che fanno tenerezza perché suonano quasi stonato è stata Astrud Gilberto. La leggenda dice che Astrud cantò Garota de Ipanema quasi per caso, siccome Getz voleva inciderne una strofa in inglese e l'unica che sapesse l'inglese quel giorno, in sala d'incisione, era la moglie di Joao. Quest'ultimo, secondo la leggenda, non era affatto entusiasta dell'idea che Astrud impallasse la sua melodia con quella vocina simpatica ma non troppo educata. Oggi siamo abituati a considerare la lieve dissonanza della voce di Astrud una parte integrante di quell'universo musicale che chiamiamo bossanova; il fatto che Joao Gilberto non la pensasse così lo troviamo deliziosamente ironico, del resto capita a molti rivoluzionari di venire travolti dalla rivoluzione che scatenano; questo ci impedisce di credere ad altre versioni, come a quella della stessa Astrud secondo la quale fu proprio Joao a suggerire a Getz di farle cantare la parte inglese. In effetti è più probabile che la contrarietà di Joao fosse di natura economica, perché la versione di Garota che alla fine fu promossa negli USA era quella che ometteva la sua parte di cantato (in portoghese). Quindi meno royalties per lui; quanto ad Astrud, sappiamo che per la sua prestazione fu pagata 120$, e poteva andarle peggio, poteva incontrare i Pink Floyd. A quanto pare Getz continuò ad abusare di lei sia economicamente sia umanamente anche durante il successivo tour nordamericano, una circostanza che ogni tanto riscopro e ridimentico perché forse non mi piace sapere queste cose quando ascolto Garota de Ipanema. 

Gran parte delle leggende nascono per spiegare com'è nato qualcosa che prima non c'era. Quelle che funzionano di solito ci confortano sulla natura fortuita delle innovazioni. È abbastanza improbabile che Oldham si sia imbattuto per caso nei Beatles proprio mentre usciva dalla sala di registrazione dove gli Stones annaspavano senza trovare una canzone da incidere – proprio mentre Lennon e McCartney avevano in canna I Wanna Be Your Man. Ma è una bella storia, funziona, significa che gli Stones sono diventati famosi per un puro colpo di fortuna (e l'ha messa in giro il loro manager!) Così, a rifletterci bene, anche la leggenda di Garota è un po' sospetta. Io ho sempre voluto crederci, ho sempre dato per scontato che Astrud Gilberto sia stata la prima vera voce dissonante della musica brasiliana, ma in effetti che ne so? magari ce n'erano delle altre. Senz'altro lei ha cambiato tutto. Un po' prima dei Beatles (che erano dissonanti in un modo molto diverso), un po' dopo Dylan (più gracchiante che dissonante, ma comunque un prodotto di nicchia), ha mostrato agli americani che si poteva cantare in un modo diverso, meno formale, più familiare. Possiamo dire che è stata punk, Astrud Gilberto, in un momento in cui era punk sfondare nelle frequenze AM con una vocina. E osservare ancora una volta quanto rapidamente il punk si trasforma in maniera, in stereotipo: quanto presto le frequenze AM e FM si sono riempite di vocine che oggi non consideriamo nemmeno più dissonanti, non abbiamo più l'orecchio abbastanza allenato per farci caso. Se ogni innovazione è uno steccato che cede, col tempo ormai non dovrebbe più esserne rimasto uno solo, insomma già da una ventina d'anni dovremmo trovare ascoltabile e gradevole qualsiasi sequenza di rumori – e non è detto che non sia così, probabilmente è quello che penserebbe Mozart di noi se potesse ascoltarci, insomma che differenza c'è tra un pezzo noise e un frullatore in funzione, tra una base hip hop e un muratore col trapano, tra un pezzo trap e un ubriaco sotto casa stanotte che urla al telefono. Ma non è proprio così, quasi per ogni steccato che cede ce n'è un altro che rispunta un po' più dietro, spesso oltre l'orizzonte, per cui abbiamo sempre la sensazione che ormai si possa fare di tutto ma anche che alla fine si facciano sempre le solite cose. Non abbiamo idea di che regalo ci abbia fatto Astrud Gilberto, cantando quella canzone e tante altre. Per capire quanto sia stata punk, dobbiamo smettere di esserlo, ovvero farci una cultura musicale, approfondire il contesto, capire quanto era diverso il mondo in cui si è ritrovata per caso o per calcolo davanti a quel microfono. Poi certo, ci sarà sempre qualcuno che ti dice che la vera musica oltrepassa i generi, gli stili, le generazioni, se ne va dritta nell'iperuranio o tra le pure idee di Benedetto Croce. Non escludo che sia così, alla fine a chi è che non piace Garota de Ipanema? Ma trovo più conveniente illudermi del contrario, pensare che tanti anni passati ad ascoltare e a studiare abbiano fatto di me una persona più raffinata. Anche se questa raffinatezza mi serve per apprezzare l'esatto contrario; per capire quanto siano stati rivoluzionari dei ragazzini che il più delle volte non sapevano cosa stavano facendo, cosa stavano suonando, cosa stavano cantando. 

Perché poi alla fine la musica leggera è stata questa cosa, un mondo a parte in cui comandano i giovani. Non è che se invecchi sei per forza fuori; ma devi accettare che comandano loro. Astrud Gilberto ha continuato a far musica di ottimo livello, ma è rimasta per sempre legata a quel momento primigenio in cui ha insegnato al mondo come si canta la bossanova. È assolutamente normale: tutti gli artisti di quel settore hanno una carriera che comincia con un picco e poi una lenta discesa; quando hanno dato il Nobel a Dylan per la carriera, lui ha mandato Patti Smith a cantare una canzone scritta quando aveva vent'anni. Ne aveva già settanta e non ha mai smesso di scriverne; eppure ha scelto quella giusta. La musica leggera è un mondo alla rovescia, per viverci bisogna accettarlo. Oppure morire giovani. Io preferisco accettarlo.

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