Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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martedì 30 settembre 2003

Standby, quanti crimini in tuo nome

Fino a quindici, vent’anni fa, si trattava di un grattacapo abbastanza normale, e nessuno da noi si sognava di parlare di blackout. Quando le luci si spegnevano, si guardava alle finestre: se i lampioni erano spenti “avevano tolto la corrente”. Chi l’avesse tolta e perché non era argomento di discussione. Candele, pazienza, e se la cosa tirava per le lunghe, in officina c’era un generatore a nafta. Tutte le aziende probabilmente ne avevano uno: in particolare la bottega di fianco a noi, per fare andare i frigoriferi.
Questo accadeva più o meno una volta al mese, non sotto l'Albero degli Zoccoli, bensì nell’evoluta e operosa bassa padana dei primi anni Ottanta. E io credevo che le cose andassero così dappertutto.
Ma man mano che si andava avanti, e in casa arrivavano elettrodomestici di nuova generazione, la mancanza di corrente poneva nuovi problemi. Il primo vero fastidio fu il timer del VHS: ogni volta occorreva aggiornarlo, altrimenti lampeggiava, trasformando il salotto spento in una discoteca tecno (certe notti, alla ricerca di un bicchiere d’acqua, restavo ipnotizzato dal pulsare azzurro del vetro della porta).
L’inerzia ha sempre la meglio, per cui col tempo ci abituammo alla discoteca e abbandonammo ogni velleità di sfruttare il timer. Ma la sola idea che un vhs avesse un orologio progettato per registrare un programma a quindici giorni di distanza mi aveva messo un germe in testa: “Ma dove la fanno questa roba, in Germania? Ma in Germania la corrente non gli salta mai?” Evidentemente in Germania la corrente non saltava una volta al mese.

In seguito, in effetti, le interruzioni si sono fatte più rare. Ma io non ho mai pensato di potermi fidare di una radiosveglia con la spina (a differenza di molti, a quanto sento). Nel frattempo le mie camere si riempivano di simpatiche lucette: lo standby giallino del monitor, lo standby rosso dello stereo… addirittura nel corridoio della casa dei miei hanno messo due luci verde di emergenza. Ho scoperto molto tardi, sfogliando un opuscolo, che quelle lucette consumano un sacco di corrente.
Il fatto è che non sempre si possono spegnere.
Un anno fa ho comprato un nuovo stereo, ispirandomi a criteri di convenienza, sobrietà, praticità, scarso ingombro, e poi era la stessa marca del registratore che mi regalarono da bambino ed è sempre andato da Dio. Bene.
Questo stereo ha una lucetta rossa che non si spegne in nessun modo. A meno di staccare la spina… però se stacco (operazione brigosa, ma io sono un tipo sportivo) il timer, naturalmente, si cancella.
Se il timer si cancella, lo stereo è quasi inservibile. Per esempio: non va in standby. Lo stereo accetta di essere messo in standby soltanto se l’orologio è sincronizzato a una qualsiasi ora. Altrimenti si accende da solo e inizia a recitare sul sobrio display una dimostrazione di tutte le sue interessantissime funzioni. La stessa dimostrazione che continua a mostrarmi da un anno a questa parte, perché è inutile lottare.
E infatti mi sono arreso, ma continuo a farmi la domanda: perché? A chi giova uno stereo che rifiuta di spegnersi? Chi lo ha progettato, probabilmente, non ha mai sperimentato un’interruzione di corrente negli ultimi dieci, vent’anni. Ma da noi in fondo basta attaccare forno elettrico, scaldabagno e lavatrice, e la valvola scatta. In Germania non succede? Negli Usa? In Giappone?

Ma il massimo è quando gli stessi progettisti si convincono di essere eroi del risparmio energetico. I monitor dei PC, per esempio: non sono incredibili? Hanno inventato un sistema per cui il monitor si accorge quando nessuno lo guarda da dieci minuti (o un quarto d’ora, o il tempo che volete voi) e si spegne da solo. Fantastico, no?
Peccato che il medesimo monitor, quando la corrente vien meno, impazzisca completamente: anche se è spento, nel momento in cui torna la corrente si accende da solo per annunziare al mondo che ha perso il segnale, e non si spegne più. (I tre PC che frequento abitualmente, almeno, si comportano così).
Domenica sono andato a letto all’una e mi sono svegliato alle dieci, al luccichio della spia rossa dello stereo, del lampeggiante verde del cellulare e… della luce blu del mio monitor, che invadeva la stanza. Quanta energia ho buttato via la notte del black out?

domenica 28 settembre 2003

Dicono che il maschio è in crisi, e io ci credo, se in edicola espongono ancora Man’s Health.
Del resto lo so, c’è gente che crede ai marziani, perfino gente che crede a Igor Marini, ci saranno anche gonzi pronti a farsi convincere che l’Uomo è l’unico mammifero con l’addome concavo: ma io dico che se ci fossero in Italia almeno una cinquantina di uomini veri, non ci vorrebbe nulla a recarsi alla sede di Man’s Health, evacuare la redazione e appendere editore e direttore responsabile per i loro incongrui genitali. Il che in tre anni non è ancora accaduto, per cui mi arrendo: il maschio è in crisi. E un po’ mi manca.
È con un po’ di nostalgia, perciò, e senza alcuna pretesa di riscatto, che mi accingo a inaugurare la rubrica

Maschi che scompaiono (1) Bud Spencer

C’è una cosa che ho sempre saputo di Bud Spencer, senza mai accettarla veramente, tanto che ancora adesso mi rifiuto di verificarla: il suo passato nel nuoto agonistico. Spencer dividerebbe dunque il destino di Johnny Weissmuller e Raoul Bova, atleti riciclatisi in attori di cassetta. Ora: voi ce lo vedete Bud Spencer tra Weissmuller e Bova?

C’è davvero qualcosa che non va. Bud non può essere stato un atleta, tranne che in una vita precedente. Non ne ha, apparentemente, il fisico. Ma attenzione.
Bud Spencer non è grasso. Vi è mai sembrato grasso, quando eravate bambini? Potremmo definirlo, con più proprietà, corpulento. La quantità del suo corpo non è concentrata in un punto (la pancia), ma uniformemente presente in ogni parte di sé. Quando pensiamo alla grossezza di Bud Spencer ci vengono in mente le mani nodose, da operaio più che da natante; le braccia che un tempo si definivano “rubate all’agricoltura”; il piede senz’altro enorme, tant’è che diventa sineddoche del personaggio stesso, nel ciclo di Piedone; perfino il naso, in sé, riassume e concentra la corpulenza di Bud Spencer. E i peli. I nuotatori sono glabri, il pelo rallenta la bracciata, trattenendo inutili particelle di ossigeno. Bud Spencer è prima di tutto la sua barba nera, senza barba non ci sarebbe Bud Spencer.
Invece, quando pensiamo al corpo di Bud, non ci vengono in mente quelli che oggi sono la nostra quotidiana ossessione: i muscoli. Che Bud sia muscoloso è indubbio, ma non c’è nulla che si possa esibire. Il maschio è forte per quello che fa: Bud è forte perché riesce a spezzare una noce di cocco con una mano sola. Il maschio entra in crisi quando non ha più noci di cocco da spezzare, quando la sua forza fisica non ha più una destinazione d’uso. Solo allora comincerà a guardarsi affannato allo specchio alla ricerca dei muscoli. Ma Bud appartiene a quell’era in cui la forza fisica poteva essere associata a un corpo “grosso”, non atletico, corpulento. Il modello Obelix, che è tramontato durante la nostra infanzia, soppiantato dal modello He-Man.

Non è solo il corpo a denunciare l’inidoneità di Bud al nuoto agonistico: si tratta anche di psicologia. Bud non è un tipo competitivo, la sua reazione immediata di fronte a una difficoltà è: sbuffare (quel suo sbuffo così caratteristico, l’analogo del camera looking per Oliver Hardy). Del resto è Terence Hill che si caccia nei guai: è lui che cerca rogne nel saloon, lui che combina il guaio per il puro gusto di coinvolgere il compare.
“Non voltarti, ma ce n’è uno che ti sta fissando”.
“E cos’ha da fissarmi?”
“Non lo so. Forse non gli sei simpatico”.
“(sbuffa)”.
Terence Hill, biondo e di occhi azzurri come ogni bel bambino, è davvero il bambino che si infila in ogni rissa con la convinzione che il papà verrà a salvarlo. E Bud Spencer, grosso e nerboruto, è il papà di ogni bambino cercarogne, il papà che è il più forte di tutti, il più forte del mondo, basta raccontargli il torto e lui verrà a picchiare anche i vostri papà.
Difatti viene. Malvolentieri, certo, sennò che papà sarebbe. E picchia. Vediamo come picchia Bud Spencer.

Quando si critica la violenza televisiva, si tende a dimenticare che la violenza in tv c’è sempre stata; che uno dei motivi per cui si accende la tv (specie a una certa età) è per vedere un po’ di violenza, e che senza mettere in scena un po’ di violenza sarebbe molto difficile produrre intrattenimento. Dopodiché, è assolutamente vero: oggi in tv c’è molta più violenza di quella che serva.
Le “botte” dei film di Spencer e Hill sono un esempio di come si possa edulcorare la violenza al punto di trasformarla in un gioco rituale, uno spettacolo che forse non scarica nessuna tensione, ma nemmeno l’accumula. Questo era davanti ai nostri occhi sin dalle elementari. Quando la sera prima c’era stato un film di Bruce Lee, per il corridoio era tutto un coro di urla disumane e braccia tese in gesti innaturali. Alla fine qualcuno poteva anche farsi male. Ma nessuno è mai venuto a scuola dopo aver visto Bud Spencer con la voglia di scazzottarsi. Forse, se abbiamo la pazienza di studiare il perché, potremmo riuscire a capire come produrre intrattenimento di qualità per i nostri figli senza trasformarli in belve assetate di sangue.

Per prima cosa, Bud Spencer non odia nessuno. I cattivi dei suoi film sono sufficientemente antipatici da meritarsi una bella ripassata, e non un pugno di più. Per altro di solito Bud è alle prese con i tirapiedi, gente che le botte le prende per mestiere, senza coinvolgimento emotivo, antipatie, rancori. Ce n’è sempre uno che fa particolarmente il bullo: Bud lo sistema con pugno e passa ad altro. Il bullo, traballante, non si rassegna, cerca di ri-attirare l’attenzione di Bud, gli bussa alla schiena. Bud sbuffa e ripete l’operazione. La gag può riproporsi quattro, cinque volte: alla fine il bullo è la parodia di sé stesso, i vestiti eleganti si sono trasformati nel costume del clown. Questa era la sorte che desideravamo per i bulli della classe: non la violenza, ma il ridicolo. Papà Bud, sbuffando, ci accontentava.
C’è una bella convenzione, che i film di Bud Spencer dividono con opere molto più ambiziose, per cui il nemico si può temporaneamente neutralizzare con un pugno ben assestato (lo svenimento è una specie di stand-by, e su chi è a terra è vietato infierire). Convenzione ormai rigettata da Hollywood, probabilmente perché troppo irrealistica: oggi i nemici si sgozzano, si mitragliano, si buttano dal dirupo. Servono molti più nemici, un sacco di comparse. Bud Spencer girava sempre con gli stessi figuranti: all’inizio del film erano un mucchio selvaggio, alla fine una banda di pagliacci. Il suo pugno non neutralizzava soltanto: ridicolizzava.

Il pugno in sé, però, non aveva nulla di ridicolo. Al contrario di Terence Hill, che stordiva gli avversari con leziose acrobazie, Bud non ha nessuna velleità atletica: è un tipo serio che sta facendo il suo lavoro, senza nessun entusiasmo (il lavoro è una cosa seria, non ci si diverte). Bud non scappa mai, non si schermisce: se prende una botta, resta lì, sbuffa e la restituisce. Il suo colpo classico è il “martello”, un pugno in testa, quasi a voler conficcare l’avversario nel suolo (“statti fermo qua e non rompermi più”). Più che pugilato, sembra lavoro nei campi, o nelle officine: Bud non ha niente di personale con le sue vittime, al massimo la malagrazia di un fabbro coi suoi chiodi.

Per questo il pugno di Bud è l’antitesi dell’atletismo ostentato di Bruce Lee. C’è una scena, di un film abbastanza tardo (Banana Joe), che non riesco a dimenticare. Nella giungla brasiliana Bud ha davanti a sé un piccolo giapponese incazzato. Assiste senza fiatare a tutta la manfrina marziale: le mosse, le contromosse, gli urletti, ecc.. Quando non ne può più, lo abbatte con un pugno solo. In quel pugno c’era uno stile di vita: non importa quanto cattivi fossero i nostri nemici, e quanto tempo impiegassero ad assumere le loro pose, a variarle, a studiarci, a impaurirci. Dentro di me ho sempre pensato che alla fine sarebbe bastato un solo colpo, non cattivo, ben assestato, per sistemarli per sempre e non pensarci più. Il pugno di Bud Spencer.

venerdì 26 settembre 2003

(e comunque ne ammazza più una bugia di Blair che venti di Gilligan, pecoroni).
Karaoke esistenziale, ciack! 1.

Io che non sono l’imperatore
io che non scendo a patti con te
io che fui espulso da tutte le scuole
pretendo il meglio di quello che c’è

La posta in gioco non vale la pena
ho fatto i conti e non tornano mai
ho fatto pure la prova del nove
e intanto nuoto in un mare di guai

I conti in banca li han fatti saltare
tutti in soffitta a pregare per tre
chi ha visto il piano regolatore
ha detto: “Bravo!”, ma ride di me

Sperequazioni tra lazzi privati
io sono il primo col pollice in giù
ma chi mi dice che è tutta una scena
e poi sono quello che imbroglia di più

Chi mi assicura che a un dato momento
scendo dal treno e ti dico di no
muovo gli scacchi a seconda del vento
non in funzione di quello che so

I capotasti li ho tutti provati
il tempo toglie più di quello che dà
sono a tre quarti e c’ho l’acqua alla gola
quell’altro quarto chissà che sarà

Quell’altro quarto mi spacca la mente
è un razzo bianco, son meglio di noi
fanno paura ai preti e alla gente
scappa al segnale, scappa! Più forte che puoi

Sono sicuro che c’era qualcuno
ho fatto carte false per te
ho già tentato anche un colpo di mano
ma qui il motto è: Ognuno per sé

A cosa serve un amico pompiere
di punto in bianco mi parli col tu
hai visto giusto, era un vecchio marpione:
salamelecchi, ma niente di più

Meglio lavarsi con acqua salata
se non ti basta l’affetto che dai
se i presupposti da cui sei partito
sono crollati per quello che fai

Se fossi certo del libero arbitrio
se fosse inverno e lei stesse già qui
se gli altri in coro facessero scudo
eviterei di parlare così

Se mi arrabatto a parlare latino
non è questione d’ingenuità
non sono certo che porti fortuna,
non sono certo – ma tanto che fa

Tanto il concetto non cambia colori
tanto il postino direbbe di no
e se bastasse soltanto una vita
e se bastasse soltanto una vita
sarei contento,
per quello che ho.

Edoardo Bennato, 1975.

giovedì 25 settembre 2003

L’anno prossimo a Ponte Alto

Terza e ultima

Settembre, a Modena, è l’unico mese che valga la pena. Poi ci saranno le nebbie, le piogge, qualche nevicata, e poi improvvisamente il sole, il sudore, i finestrini aperti su polline e micropolveri, le zanzare e l’afa, e tutti al mare. Non ci fosse questo terrazzino sull’autunno, dove vengono le ragazze vestite di bianco per meglio farsi valutare l’abbronzatura, e il lavoro di rassodamento ai fianchi, non ci fosse un po’ di Festival per farsi il riassunto su chi si è diventati, dove si abita, e con chi, e perché, e quanto al mese e per quanti mesi. Non ci fosse tutto questo si potrebbe anche piantar baracca e burattini e andare dovunque, ché la val Padana non sembra esser stata progettata per noi: per le zanzare, forse (o per le nutrie).
Io poi col secolo nuovo avevo un sacco di cose da dire a un sacco di gente: che adesso abitavo in centro a Modena, e lavoravo, lavoravo anche parecchio, con un contratto a tempo indeterminato, ch’è si raro. Così che improvvisamente il volontariato non mi interessava più. Oddio, il mio capo – che aveva uno stand al Festival – ci avrebbe anche tenuto.
“E poi potresti andare a fare qualche serata al Festival, no?”
“Al festival? Fino a mezzanotte?”
“Ma no, alle undici chiudi”.
“Ma poi il giorno dopo vengo a mezzogiorno?”
“Ehm, no, se fai così tu dopo anche tutti gli altri…”
“Ma allora è straordinario, me lo pagate?”
“No, sarebbe volontariato”.
Eeeh?”
“Volontariato!”
“Beh, qualche volta vi verrò a trovare”.

Il lavoro è lavoro e il volontariato non è lavoro, e a chi mi diceva rifacciamo una rivista un gruppo di studio, o semplicemente tiriam mattina con i massimi sistemi e con la birra io rispondevo non ho tempo vado a lavorar. Mi fermai a sentire Luttazzi, risi tutto il tempo e il giorno dopo non mi ricordavo una battuta sola (pare che a molti faccia questo effetto), vidi i Subsonica, gli Almamegretta, la gente che entrava a vedere i Blu Vertigo, con Morgan che tentava lo stage diving e picchiava per terra ingloriosamente (e la Sammi si incazzò col suo ragazzo perché Asia lo aveva inspiegabilmente salutato). Fu un anno di transizione, come tutti. Del resto a esser precisi il secolo iniziava l’anno successivo.

L’anno successivo, appunto.

L’anno successivo mi ritrovavo a sinistra del Partito, parecchio a sinistra del Partito, per uno che era partito da una parrocchia e non gli sembrava di essersi mosso granché. Allora forse si era spostato il Partito, no?
Tornare da Genova, con le sirene nei timpani, e trovare tra un paio di Megan Gale quel cartello pubblicitario fu come il colpo di grazia. Noi ci si faceva massacrare per strada e il partito restava in casa a fare marketing. Ero molto incazzato, e quando sono incazzato scrivo (riuscite a immaginarvi quanto io sia incazzato?)
Scrissi un pezzo che, a detta di chi se ne intende, è ancora uno dei migliori. La lesse pure mio fratello e rise molto. Un giorno eravamo in macchina assieme – stavamo andando al matrimonio di Virus (che non si ricorda più di essersi mai chiamato Virus) – e passammo sotto quel cartello. “Non dire niente”, mi disse. “So già la storia”. Scrivendo molto non mi restavano poi parecchie cose da dire.
Io sapevo che prima o poi mio fratello l’avrei visto, allo Spazio Giovani, stavo abituandomi all’idea. C’era abbastanza Spazio Giovani per tutti e due? Dovevo farmi da parte?

Per il momento andavo ai concerti (gli Stereolab! Ma l’acustica era pessima) e stavo dietro il banchetto di Attac. C’eravamo presi la nostra posizione e non la mollavamo. In un mese avevamo già stampato cinque quaderni di lavoro, vendevamo magliette, tessevamo una trama di studenti, insegnanti, operai più o meno specializzati. Chiesi al mio capo uno spazio dello stand per proiettare un paio di filmati di Genova, uno coi manifestanti pacifici e l’altro coi manifestanti tumefatti. Non facevamo che guardare spezzoni di Genova, e in sottofondo, onnipresente, Manu Chao, neanche più musica, fruscio. Dovevamo convertire il Partito che il 21 luglio ci aveva lasciati soli. Eravamo in tanti, l’assemblea era prevista per la sera dell’11.

Quando su un tavolo di biliardo una boccia colpisce un’altra, trasferisce su di lei gran parte della sua energia cinetica. La boccia che era immobile schizza via. La boccia che correva si ferma di colpo. Ma se potessimo rallentare come in un filmato, scopriremmo che c’è un istante in cui le due bocce sono ferme, immobili, e l’energia cinetica è trattenuta da qualche parte. La collisione c’è già stata, ma le reazione non ancora. L’11 settembre ci sentivamo così. Venivamo da Genova, andavamo forte, siamo andati a sbattere contro questa cosa enorme. E sapevamo già che non ci saremmo più mossi, e che anche questa cosa enorme in breve sarebbe schizzata via, per la sua rovinosa strada: ma intanto eravamo lì, a bocce ferme, disperati e impazienti. Allo Spazio Giovani avevano montato il maxischermo, così arrivando alla spicciolata sentimmo per la prima volta la voce di Bruno Vespa nel sacrario. E in un momento in cui non ci si capiva nulla, ma davvero nulla, e le stime sui morti variavano dai cinquecento ai cinquantamila, il Ministro Claudio Scajola seppe fornirne la cifra precisa, “da fonte certa, americana”. Quell’uomo era un fenomeno, anzi è.

Tornai a casa, misi su rai 3 e passai la notte sul divano. Nulla sarebbe stato come prima, come si dice in questi casi.

L’anno dopo c’era la guerra e io ero esausto. Cambiare lavoro, raccogliere tremila firme, protestare contro l’Afganistan e l’articolo 18, incontrare la donna della propria vita, sono cose che stancano. In libreria ci sono i soliti fumetti, è inutile che ristampino Moebius, lo so a memoria. C’è una mostra di Wharol, ma quanto tempo ci puoi mettere a guardare una mostra di Wharol? Dieci minuti per leggere la presentazione e tre minuti per un’occhiata ai vasetti Campbell. Al banchetto del Forum Sociale ci andavo per inerzia. Proiettavo l’ennesima videocassetta su Genova (e la gente continuava a fermarsi, sconvolta). Volevo prepararmi sul WTO, lessi tutto il libro di Susan George che in seguito, purtroppo, dimenticai.
Di fronte c’era l’Associazione Italia-Cuba, con le eterne magliette del Che. Il giorno della manifestazione per la pace, spuntò il cartello: magliette della pace.
Lì sotto, sulla riva del lago, c’era lo spazio Giovani, ma io non volevo più andarci, e avevo ragione. C’è gente davvero giovane lì sotto. Una sera stavamo facendo capannello quando non passa un fighetto totalmente stonato con un gavettone di birra? Ed eccoci qui, un architetto, un professore di italiano, un dottorando in filosofia e un avvocato, fradici di birra. Eravamo molto incazzati, in ispecie Johnny, che certe cose ai suoi amici non le può tollerare (lo tenemmo fermo in sei).
“Ti portiamo a casa, eh?”
Verso il parcheggio, sull’argine del laghetto artificiale, quasi inciampiamo in un culetto roseo, sbocciato da un paio di jeans sbottonati.
“Ehi, ma qui c’è un culo!”
“Se guardi bene, non è da solo”.
“Ma che ci fanno lì? Si sono addormentati?”
“Oppure se la prendono comoda”.
“Che roba però, ‘sti giovani”.
“Sfacciati, proprio, eh?”
“Ma figurati se noi alla loro età”.


Sulla strada di casa sorpassiamo il fighetto a piedi con la macchina, il suo fuoristrada ha spianato il guard-rail.

Quest’anno qualcosa è cambiato.
Hanno fermato Tom fuori dal parcheggio custodito: si era fatto un paio di birre. Palloncino, patente ritirata (da dieci giorni a sei mesi, vedremo), dieci punti in meno, mille euro di multa.
Ho la sensazione che nulla sarà come prima.

Per il resto, mi tengo la smorfia dell’anno scorso, ma non sono più esausto, sono solo scocciato. Non faccio banchetti, volontariato non mi ricordo più cosa sia, le ragazze carine sono tutte sistemate, ballare non se ne parla, birra è meglio berne poca. Giusto per vedere Cofferati, che l’anno prima non sarebbe mai entrato in politica, e quest’anno non desiderava altro che prender la cittadinanza a Bologna. La verità è che ho poca voglia di uscire, non sono più abituato a tanta gente nello stesso posto. E poi una volta ero solo, autonomo, parcheggiavo, bevevo qualcosa, un’occhiata in libreria e fine. Ora devo salutare cento persone e tutte mi chiederanno come va col lavoro, e qui dovrò iniziare cento discorsi un po’ complessi.
“Non sarà che comincia a starti stretta, Modena?”
“No, lo escludo. È che… Lo escludo”.
“Cosa prendi?”
“Una bud”.
“Ih, ih, ih”.
“Che c’è?”
“Si pronuncia bad, ignorante”.
“Lo so. Però io dico bud. Problemi?”
“Eeeeh, che carattere”.
“Sei tu che rompi le palle, scusa”.
“Com’è andata al mare?”
“Di merda. E te?”
“E il lavoro, come va?”
“A puttane grazie”.
“Ma quella rivista che facevi…”
“Chiuse tutte le riviste”.
“E quella brunetta che stava in casa con te, sai che a me piaceva…”
“Tornatataranto”.
“Ah… cambiando argomento”.
“Ecco”.
“Quest’anno è uno schifo, non c’è neanche un concerto”
“Ma non direi, stasera è pieno”
“Sì, Irene Grandi lo chiami un concerto. È roba da ragazzini”.
“Infatti”.
“Ma tu cosa ascolti, adesso?”
“Non lo so”.
“Io ho preso il live di Manu Chao, carichissimo! Te lo presto?”
“Magari un’altra volta”.

Ora mi rendo conto che ho raccontato quindici anni di Festival dell’Unità di Modena senza quasi parlare del Partito. Che ha cambiato due nomi, due quotidiani e quattro segretari, due volte nella polvere e una volta al governo. Che a Roma ha perso soldi a palate, mentre qui la gente si dava da fare a friggere piadine e a bollire tortelloni, polverizzando record d’incasso, e poi buttando tutto via per quel lotto di terra a Ponte Alto che alla fine non valeva neanche la pena.
Allora spiegherò una cosa: per me, e forse non solo per me, il Partito è come la parrocchia. È un’istituzione che non va presa troppo sul serio, però allo stesso tempo non la si può prendere in giro, ci vuole rispetto. Non per i preti, che vanno e vengono e di solito non hanno niente di nuovo da dire, ma perché c’è gente che ci ha lavorato, e gratis, e non per un volontariato di un anno o due, ma per una vita.
Voi cosa sapete delle parrocchie? Quello che dice il Papa, o Ruini? Non ne sapete niente. Cosa sapete del Partito? Quel che dice Fassino? Fassino non è nessuno senza la gente che lo sta ad ascoltare. Ed è quella gente che monta gli stand e serve ai ristoranti, e si siede per due ore ad ascoltare il nuovo segretario, e ogni anno ce n’è qualcuno in meno. Quando non ce ne saranno più pianteremo baracca e burattini e ce ne andremo via, perché la val Padana non è degna di essere popolata. Io a quindici anni ero una tabula rasa, se qualcuno mi avesse detto: tiriamo sassi da un cavalcavia, ci sarei andato. Se mi avessero dato una mazza in mano, sarei entrato in uno stadio con quella mazza in mano. Ma c’era una parrocchia, c’erano festival all’aperto, città finte di compensato in cui la gente passeggiava tranquilla e nessuno mi chiedeva chi ero e da dove venivo. Voi l’avete un posto così, nelle vostre smaglianti città? A Modena un posto così c’è, e lo hanno fatto i comunisti, che adesso si chiamano diessini. Per questo andrebbero giudicati, non per le loro idee sballate o per le loro strategie ancora più sballate. Per il loro lavoro, per la loro serenità, per la loro accoglienza. C’erano librerie e i concerti, e banchi del bar, e qualcuno mi chiese di fare il Delegato Letteratura, e tutto è iniziato da lì. E tutto questo mi è stato dato gratis, e il meno che io possa fare è dire: grazie. Mi dispiace per chi non c’è più, ma io ci sono, e ci sono anche grazie a voi.

mercoledì 24 settembre 2003

Il problema non è se il ’68 sia stato importante o no. Il ’68 è stato importante. Ma c’è un modo di ricordarlo che non è più storia e non è nemmeno più nostalgia: è puro automatismo, sa di Alzheimer. Perché Bertolucci esprime il desiderio di tirare un sampietrino in conferenza stampa? Che gli hanno fatto i giornalisti? E loro, i giornalisti, perché applaudono? Cosa c’è di così poetico nel sampietrino in sé, da desiderare di tirarlo e da desiderare di riceverlo? Perché persone perfettamente integrate nello star-system (e dico: beati loro) sentono il bisogno di montare il teatrino della ribellione? Fischiateli almeno, i ribelli vogliono i fischi. E invece no, applausi.


Pasolini e l’alzheimer collettivo

Lo stesso automatismo, lo stessa coazione a ripetere riporta invariabilmente Pier Paolo Pasolini in prima pagina a ogni scontro tra poliziotto o manifestante o ultrà. Pasolini ha scritto migliaia di pagine, ma rischia di passare alla storia per una sola lunga orazione pubblicata su Nuovi Argomenti e poi sull’Espresso nel maggio 1968, ristampata poi in un libro relativamente poco conosciuto, Empirismo eretico. Per cui è lecito chiedersi in quanti l’abbiano riletta per intero, prima di ritirarla in ballo in occasione dei fatti di Avellino. Forse nessuno. Del resto ci ricordiamo tutti bene quel che diceva, no? O no?

In occasione degli scontri di Valle Giulia, Pasolini chiamò gli studenti contestatori “figli di papà”. Può darsi che sia stato il primo a dirlo, e a dirlo piuttosto brutalmente: non era certo il primo ad averlo pensato. A loro contrapponeva i poliziotti, “figli di poveri”, poveri essi stessi, (“e poi, guardateli come li vestono: come pagliacci / con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio / fureria e popolo”). Era una provocazione che coglieva nel segno: vorrà dire qualcosa il fatto che tutti se la ricordino quasi a memoria. Nel dibattito che ne seguiva, Pasolini confermava: “Questi nobilissimi Pierini non vogliono accettare pedissequamente il sistema, pretendono di dominarlo. E questo cosa significa? Significa che la borghesia si schiera nelle barricate contro sé stessa. […] sono dei borghesi, dei figli di papà rimasti tali e quali i loro padri, hanno un senso legalitario della vita, sono profondamente conformisti”.

Da parole come queste scopriamo quello che dovremmo sapere già, e cioè che Pasolini era un marxista: un marxista eretico, senz’altro, ma (parole sue, di due anni prima) “nient’affatto disposto a credere che il marxismo sia finito”. P. non ha niente in contrario con la lotta di classe: salvo che per lui Valle Giulia non è lotta di classe, ma semplice teatrino allestito dalla borghesia. Scrivendo il suo "vi odio" Pasolini non dava voce tanto alla famosa maggioranza silenziosa, quanto piuttosto ai vecchi militanti comunisti, non necessariamente eretici come lui. Un ortodosso come Marchais, in Francia, non avrebbe potuto spiegarsi meglio: “in generale sono figli di grandi borghesi che metteranno presto a riposo la loro fiamma rivoluzionaria per andare a dirigere l’impresa di papà e sfruttare i lavoratori”. Come a dire che per prevedere il famoso riflusso non serviva nemmeno un’intelligenza troppo acuta.

Andiamo a vedere cosa faceva Pasolini nel ’68, oltre a spernacchiare gli studenti (era uno che non stava fermo un attimo): presentando Teorema a Venezia, ha l’occasione di aderire alle proteste contro lo statuto della Biennale, che risaliva all’epoca fascista. Il film viene subito sequestrato per oscenità. Nello stesso anno viene messa in scena una sua tragedia, Orgia, mentre lui lavora a un nuovo film, Porcile, la storia di due personaggi che vengono divorati dai maiali, dove i maiali rappresentano “i fascisti”. Questo è il Pasolini che viene ricordato per aver difeso i poliziotti di Valle Giulia. Forse c’è qualcosa che non va nella nostra memoria collettiva.

Trentacinque anni dopo, che senso si vorrebbe dare alle sue parole?
Che un borghese non ha il diritto di pestare un proletario, mentre invece un proletario qualche diritto ce l’ha, specie se in divisa? Ma chi sono i proletari, adesso? Che i poliziotti non siano pagati abbastanza per i rischi che corrono, è un fatto. Però via, il tempo della “stoffa ruvida che puzza di rancio” è finito da un pezzo. Chi è stato a Genova si ricorderà di Robocop, che sfilava davanti ai blocchi con una tenuta a metà tra Rambo e il paninaro: certo che non sono tutti così, ma il proletariato è una scusa che non regge più. Certo non regge per le Diaz, o per Bolzaneto.

Quanto agli ultras di Napoli che hanno bastonato un vicequestore di sessant’anni, non so se ci sia qualcosa di più abissalmente lontano tra loro e gli studenti di Valle Giulia. Figli di papà? Borghesi? A sentirli un po’ parlare sembrano più simili a quei sottoproletari fascistoidi che Pasolini tanto amava – pochissimo ricambiato. Ma non è un po' fuorviante il voler contare i soldi in tasca a chi ha in mano un bastone? Si può essere sottoproletari in bomber o ray-ban? Neoproletariato, lo chiama Labranca. Siccome comunque non siamo marxisti, perlomeno non lo siamo a tempo pieno, potremmo semplicemente evitare di tirare in ballo la lotta di classe (che secondo me esiste, ma non si pratica in passamontagna, bensì in giacca e cravatta). Per me la discriminante non è la classe di appartenenza, ma il bastone. Chi ha il bastone in mano vuole far male a qualcuno: bisognerebbe fermarlo. È un poliziotto? È un ultrà? Vive in affitto o ha la seconda casa al mare? Non mi interessa. Come facciamo a fermarlo se lui ha un bastone e noi no? Questo sì che è un problema. Io non ho soluzioni, a parte quella, contingente, di darmela a gambe quando li vedo arrivare.

E mentre me la batto mi chiedo: ma cosa c’entra Pasolini? Perché continuate a parlarne? Per inerzia. In un primo momento si doveva dimostrare di saperla lunga su Genova, semplicemente perché si era reduci da qualche tumulto di piazza di trent’anni prima. Tutti ansiosi di mostrare quanto hanno imparato la lezione. E va bene. Ma poi qualcosa si è bloccato, come una placca nel nostro tessuto cerebrale collettivo: da Genova in poi Pasolini si è trasformato in un ritornello querulo da cantare in occasione di ogni tafferuglio: tanto che se domani una rivolta di Suore Orsoline fosse domata nel sangue dalle Guardie Svizzere, ad alcuni non parrebbe vero di poter ripetere quel che disse Pasolini a Valle Giulia.

Quel Pasolini che, ogni tanto giova ricordarlo, è stato ucciso. Da un proletario, o forse no. Ma è stato ucciso: questo è il problema. Di solito i pezzi di questo tipo finiscono sempre con una coda: “se oggi fosse tra noi…”. Ve la risparmio: Pasolini oggi non è tra noi, Pasolini è morto. E la morte non è nel non esser più compresi, ma nel non esserci proprio più, nel non poter dire più niente. Pochi hanno descritto la sua epoca con tanta lucidità e tanta sfacciataggine. Merita di essere letto e studiato, non ripetuto a memoria. Una pessima memoria, tra l’altro.

martedì 23 settembre 2003

L’anno prossimo a Ponte Alto
(2 – gli anni dell’Ulivo)

Prolisso, inconcludente, insomma saltate

Nel 1995 Gloria cominciò a dipingere i pannelli del ristorante tipico modenese, con quei trompe-l’oeil che erano la sua specialità. Ci chiese di aiutarla, più per la compagnia che per le nostre capacità.
A quel tempo noi due prendevamo molti treni assieme, perché la sua Accademia e la mia Facoltà erano nelle stessa città, anzi nello stesso spiazzo, e quindi l’accompagnavo fino all’ingresso, parlando dei vecchi tempi. Lei si era appena messa con Giorgio, e secondo me non poteva durare, ma non glielo dissi mai. Feci bene.
In quel periodo, del resto, ero pieno di amiche e confidenti, per le quali facevo cose ora difficilmente spiegabili, come quella volta che mi spinsi fino al Festival di Reggio a trovare la Simona che lavorava come cassiera (quella sera Capossela cantava Non è l’amore che va via), e magari dissi pure una frase del tipo “Passavo di qui per caso, vuoi uno strappo a tornare?” Anche lei era in una fase tormentata e una sera ci sbronzammo a brachetto.
Che fossero compagne di università, o ex compagne di liceo, oggettivamente io mi fermavo a salutare un sacco di ragazze carine, e, benché non battessi chiodo, intorno a me si stava creando un’aura leggendaria. Me la fece notare Giai una sera, mentre curiosavamo in uno stand. Giai aveva sentito parlare di una Banca Etica e voleva metterci dei soldi. Un signore con una grande barba bianca ci spiegò che la Banca non esisteva ancora, bisognava raccattare tot miliardi con una sottoscrizione. Giai sottoscrisse. Io non avevo un soldo.
Io studiavo, macinavo esami, e intanto scrivevo nel giornalino del Circolo, quello di Glauco e Ric. Ma quei due li vedevo sempre meno, si stavano preparando al progetto Erasmus. Come tutte le mie amiche carine, del resto: tutti non facevano che parlare di quando sarebbero partiti per l’erasmus, lasciandomi solo.

Invece l’anno dopo ero meno solo che mai. Era successo di tutto nel frattempo. L’Ulivo aveva vinto le elezioni, d’accordo. E il partito stava cambiando nome, ma questo non interessava veramente nessuno. La vera novità era la mia ragazza. Essa mi voleva bene. Essa veniva a trovarmi in gelateria. Essa amava me e le cose che scrivevo nel mio giornalino. Anche quando stroncavo questi scrittori giovani e minimalisti. Che pena, ‘sto minimalismo! Ma leggetevi Lauzier! (Lauzier l’avevo scoperto sugli scaffali del Festival, mi ero letto tutto il Ritratto di Artista senza pagare).
Devo dire, per puro amore di cronaca, che la mia ragazza non era la sola, che c’era un gruppetto di giovani che quel giornalino a mille lire lo comprava, e lo leggeva abbastanza volentieri. Non erano tante: alcune decine di persone che si conoscevano, quasi tutte per interposta persona e quasi nessuno per nome, e finivano per salutarsi a furia di vedersi sempre negli stessi posti, in particolare al Festival, nello Spazio Giovani. Tra questi c’era una banda di filosofi un po’ più giovani di me, come Johnny, che cantava hardcore melodico in un complesso, e Ivo, a cui una sera chiesi la differenza tra Jungle e Trip Hop (c’era molta differenza).
Il 1996 fu l’ultimo anno di Modena Nord, il Festival si trasferiva a Ponte Alto, quasi un’altra città. Io credevo che nulla sarebbe stato come prima.

Nel 1997 ero disperato. La mia ragazza mi aveva lasciato per un giovane scrittore minimalista. Non riuscivo a stare fermo, ero tarantolato. Andavo a Ponte Alto tutte le sere. Del resto da fare ce n’era.
Facevo volontariato nella piadineria della Pubblica Assistenza. Facevo volontariato nello stand del Commercio Equo e Solidale (dove avevo ritrovato il tale dalla barba bianca, Mario Cavani). Perfino nel bar del Florida, perché? Niente, qualcuno me l’aveva chiesto. Meglio stappar birre tra la salsa e il merengue che restare nel chiuso della mia stanza, con la tesi a mezzo, un virus nel pc e mille vermi nei pensieri.
“O, middai una bud?”
“Pronta la bud… la bad”.
Una sera, non so se sotto l’influsso del ritmo cubano o friggendo una salsiccia, ebbi nel mio piccolo l’equivalente della mela di Newton: i significanti visivi nelle tavole parolibere potevano essere distinti in fonogrammi, spaziogrammi e tassogrammi.
“Forse ci sono anche gli psicogrammi”, spiegai a Glauco che era lì vicino, “non so, ci devo pensare”.
“Gli psicodrammi?”
“No, niente a che vedere. PsicoGrammi, con la G”.
“Ma dove li hai trovati?”
“Da nessuna parte. Li sto inventando io”.
Funzionarono. Infine, a darmi pace, tornò dalla Calabria Giovanna che, con la scusa che non si trovava più a suo agio col fidanzato, l’undici settembre mi portò sopra l’argine del laghetto artificiale e ruzzolammo fino alle quattro del mattino, quando i custodi videro arrivare un ventiquattrenne con gli occhiali deformati e una scarpa sola.
“Scusate, non avreste una torcia elettrica? Perché ho perso una scarpa”.
Anche col loro aiuto la scarpa non si trovava, così tirai fino all’alba, pensando che Modena Nord, certo, era stata importante, ma anche Ponte Alto sarebbe andata benissimo.

Nel 1998 non avevo più voglia di fare volontariato, per una ragione banale: ero obiettore. Quello che fino a quel momento avevo fatto per amore, ora dovevo farlo per forza, e manco mi pagavano. Per giunta il Commercio Equo e Solidale batteva la fiacca. Tutti gli stand commerciali battevano la fiacca, intorno a noi c’era un gran brontolìo di esercenti. Io sedevo alla cassa e mi leggevo i libri in vendita, in particolare uno tedesco in cui si parlava di “società dei quattro quinti”: un quinto produce, gli altri quattro si passano il tempo come possono, vanno ai concerti, fanno volontariato, fondano riviste, complessi musicali, e intanto consumano. In un altro capitolo spiegava che il novanta e rotti per cento del commercio mondiale è pura speculazione, che per frenare questa speculazione basterebbero piccoli accorgimenti, come una minuscola imposta sulle transazioni di grande entità: un’idea che era già venuta a rispettabili economisti, come il professor Tobin.
In quel momento la radio stava diffondendo un pezzo ipnotico, un po’ curioso, con un chitarrista che sembrava assunto per suonare una sola nota in sordina, un doing! ogni quattro battute, e nient’altro. Era un pezzo del nuovo album di Manu Chao, spiegò il diggei, precisando subito: l’ex voce dei Mano Negra. Toh, pensai, chi non muore si risente.

Mama was king of the mambo
Papa was king of the jungle…


Alla piadineria della Pubblica Assistenza avevamo organizzato un incontro per presentare la nostra rivista, che si chiamava “Energie Nuove” in omaggio a Gobetti, aveva la copertina patinata in quadricromia ed era finanziata dalla Pubblica Assistenza, appunto. Purtroppo la stessa sera c’era la Melandri da una parte e Rigoberta Menchù da un’altra.
Giù allo Spazio Giovani scambiai due parole con un ragazzo francese, che lavorava al Comune. Mi spiegò che si trattava di un progetto chiamato Servizio Volontario Europeo. La parola “Volontario” ormai stava diventando onnicomprensiva, come qualche anno prima la parola “progetto”. Figuratevi un “progetto di volontariato europeo”: praticamente doveva includere tutto, il contrario di tutto e il contrario del contrario di tutto, e ci si poteva girare l’Europa…

Nei mesi successivi girai effettivamente un po’ di Europa, ma dovunque andassi, Manu Chao mi precedeva. Divenne un incubo. Tra l’altro io sono convinto che Clandestino sia un bel disco, ma, come dire, un po’ ripetitivo. E nel 1999 lo ascoltavano tutti: in Italia, in Francia, in Scozia, ovunque tornava di moda. La gente che non mi vedeva da mesi non vedeva l’ora di farmi sentire l’ultimissima novità:

King of the bongo
King of the bongo bong
Here me when I come


L’altra moda del 1999 erano i matrimoni. Si sposò Gloria, con Giorgio, e io tornai in Italia per fare il testimone; si sposò Simona, e come facevo a non tornare di nuovo. Al Festival ci andai un paio di sere, giusto per vedere gli Asiandubfoundation, e constatare che anche senza di me tutto sarebbe rimasto come prima.

Quando tornai nella mia cittadina in Francia, ci fu una specie di fiera, e io invitai fuori una mia collega danese.
C’erano due o tre stand, una lotteria, un tirassegno, l’autoscontro. C’era un concerto gratuito nel parco, e ai bordi del parco un sacco di gente poco rassicurante. Gli stessi ragazzi con cui avevamo a che fare di giorno, la sera ci mettevano soggezione.
Eppure lei era entusiasta. Diceva di non aver mai visto una festa di paese così, con tanta gente fuori, le famiglie, i bambini, e tutto all’aperto. Io facevo sì con la testa, anche se non ci trovavo niente di così straordinario. Poi capii qual era il problema.
Il problema è che sì, quella festa non era male, ma nella mia città, giù in Italia, sarebbe durata venti giorni, e tutti sarebbero potuti entrare, senza aver paura di nessuno. Infatti, in tanti anni non mi era mai capitato di vedere una rissa. Mai una. Ci feci caso, per la prima volta, a mille chilometri di distanza.

(Coraggio, continua)

lunedì 22 settembre 2003

In occasione del prestigioso Festival di Filosofia di Modena, la redazione di Leonardo è lieta di dare il peggio di sé con il
Basic Culture Simulator – Speciale Filosofia

Sartre, Jean-Paul
Esistenzialista francese del Novecento. L’utilità di Sartre, per il giovane studente o appassionato di Filosofia, è immensa.
Infatti, a chi vi fa notare che “la filosofia non serve a niente”, voi potete sempre additare l’esempio di Sartre: brutto come la fame, era pieno di donne. Altroché se serve, la filosofia, amici.
Nel dopoguerra la sua fama di intellettuale divenne in Francia un vero fatto di costume, una sartremania che precede la presleymania negli USA e la betlemania inglese. Il documento migliore di questo culto della personalità è il bellissimo romanzo di Boris Vian, L’écume des jours (La schiuma dei giorni).
Certo, anche lui aveva le sue frustrazioni, una volta in un locale mollò un pugno sul naso all’esistenzialista Albert Camus perché le ragazze stavano guardando lui (letta anni fa da qualche parte e troppo bella per essere verificata).

Parlando di Sartre, il pensiero corre subito a
De Beauvoir, Simone
Compagna del filosofo precedente, da numerose testimonianze emerge che a un certo punto si ridusse a procacciargli le ragazzine. Con tutto questo, fu un’importante teorica del femminismo. Una che andava dritta al sodo, mica come certi bloggatori prolissi ed egocentrici: scrisse un’autobiografia in quattro volumi più postille.

Marx, Karl
Una cosa assolutamente da sapere è che Marx era tedesco. Dopo cinquant’anni di strapotere culturale marxista c’è ancora gente che in sede d’esame universitario lo dà per russo. Invece no, era tedesco.
Si può essere marxista senza aver letto Marx, e senza dubbio in molti lo siamo stati. È comunque opportuno saper riconoscere e destreggiare i seguenti modi di dire (talmente usati e sdruciti che da tempo non vanno più in giro con le virgolette):

Uno spettro si aggira per l’Europa
Una risata vi seppellirà
I filosofi hanno descritto il mondo, ma ora si tratta di cambiarlo!
L'oppio dei popoli
(ormai si può riferire a qualsiasi cosa: per esempio, "la droga è l'oppio dei popoli").
Il Papa? Quante unità corazzate possiede?
Sovrastruttura!
(basta la parola, in qualsiasi contesto, per qualificarvi marxisti. Da non confondere con le infrastrutture di Lunardi).
La storia si ripete in farsa

(Indovinello: sapete dirmi quale di queste celebri frasi non è di Marx?)
Quando in Russia i comunisti presero il potere, Marx era già morto, e non sappiamo cosa avrebbe pensato. Secondo me non sarebbe stato d’accordo, ma se iniziamo a giocare coi sarebbe non ne usciamo più.

Foucault, Michel
Si pronuncia Fucò (è inutile che strascichiate delle “l” e delle “t”, quelle lettere non si leggono e basta. I francesi scrivono un sacco di lettere inutili). Gay del Novecento. Non c’entra niente con l’omonimo pendolo.
È anche un po’ il Marx del Novecento, nel senso che non occorre averlo letto per dirsi fucoltiani. In questo caso bastano tre parole: “coi nostri corpi”. Se nel bel mezzo di una lezione, un corteo, una battaglia, sentite qualcuno dire: “coi nostri corpi”, quello lì è un fucoltiano. Anche se Foucault non l’ha letto. (Va molto forte anche “coi nostri corpi, ostrega!”).
Stava scrivendo una storia della sessualità molto interessante, purtroppo ci ha lasciato quando era ancora agli antichi romani. Se oggi fosse tra noi forse tutto ci sarebbe più chiaro... ma appunto, non stiamo giocando a sarebbe.


Leibniz, Gottfried Wilhelm
Forse non tutti sanno che il celebre blog porta il nome di un astruso pensatore tedesco del Seicento, Gottfried Wilhelm Leibniz perlappunto.
Il pensiero di Leibniz è a me completamente incomprensibile, ma le sue conclusioni sul perché stiamo al mondo mi sembrano condivisibili: “sta dunque all’uomo che ama Dio l’essere soddisfatto del passato e lo sforzare sé stesso a costruire il migliore futuro possibile” (dalla sua Confessione Filosofica del 1675). Poi Leibniz non si limitava a tirare conclusioni, ma si dava anche parecchio da fare per costruire questo futuro migliore. Ha dato una mano a inventare il calcolo infinitesimale; ha lottato per la riconciliazione delle litigiose chiese d’Europa (i cui fedeli si stavano scannando da 150 anni); stava quasi convincendo l’Imperatore a dotare di Vienna di un rivoluzionario sistema di illuminazione notturna. Per di più, in un mondo in cui i cinesi erano ancora marziani, si era messo in testa di integrare l’insegnamento di Confucio nel cristianesimo (se ci fosse riuscito, forse il Wto oggi sarebbe una cosa diversa). Insomma, era un filosofo a tutto tondo, e non si merita la fine che ha fatto.

Sì, perché tra noi simulatori di cultura, Leibniz è famoso unicamente per aver detto la seguente frase:
Viviamo nel migliore dei mondi possibili”…
…che, isolata dal contesto, presta al fianco a numerose obiezioni.

E infatti nel secolo successivo un francese maldicente, come filosofo praticamente nullo, ma grande frequentatore di salotti e ottimo scrittore, trasformò Leibniz in una macchietta comica, in un libro destinato ad avere un enorme successo, Candido. Il protagonista del libro è un ragazzo ingenuo al quale accadono disgrazie che neanche ai Malavoglia: terremoti, pestilenze, stragi. E durante tutte queste traversie, deve sopportare le sentenze di un pedante precettore che gli conferma che “tutto è bene nel migliore dei mondi possibili”.

La sfida tra Leibniz (grande pensatore che si spiegava con difficoltà) e Voltaire (filosofo da strapazzo ma grande scrittore) ci dimostra due cose:
1) Non importa quanto ti dai da fare per te stesso e per il prossimo, ci sarà sempre qualcuno che si appenderà a una tua singola frase e dimostrerà a tutto il mondo che sei un coglione.
2) In una polemica tra un filosofo e uno scrittore, vince sempre lo scrittore.

Per cui, amici, la filosofia è certo importante, ma volete mettere con la letteratura?

venerdì 19 settembre 2003

Questo è un blog di servizio

Davide,sei un genio! Ctrl F !
Mi presento subito: mi chiamo *** e sono uno studente di medicina alle prese con la tesi.
Devo mettere in archivio computerizzato le schede di vent'anni di mielomi (una specie di leucemia) ma sono impedito come l'esaminatore di cui hai raccontato sul blog.
[...]
Grazie ancora, se mi laureo é merito tuo!


Se permettete, son soddisfazioni.

giovedì 18 settembre 2003

L’anno prossimo a Ponte Alto

Non pretendo che tutto questo interessi a nessuno, ma

Ho sentito dire che una volta lo facessero al Parco Ferrari, il Festival: io non me ne ricordo.
Modena Nord, invece, sembra ieri. E invece sono secoli. Quando vennero gli Iron Maiden? Io non ero nell’età di comprendere e di volere. Gironzolavamo intorno alle transenne e dovevamo essere ben buffi, quando un tizio ci chiese se volevamo del fumo. Ci arrampicammo su un’impalcatura e salimmo sulla tettoia di un capannone, il palco da lassù era una lucina lontana. Ma avevamo dimostrato del coraggio. Nostro zio ci aspettava a casa di Gloria per la mezzanotte.
L’anno dopo Virus aveva preso una brutta piega, nel casotto del nonno stava mettendo a punto delle bottiglie Molotov. Virus non era arrivato al terrorismo attraverso un percorso politico, a 14 anni era un dinamitardo puro: il suo disegno strategico era: “quando vengono i Deep Purple al Festival, saliamo sul capannone dell’anno scorso e tiriamo la molotov sul pubblico!”. La leggenda nera del gruppo britannico (chitarristi incendiari che danno fuoco a tutto e scappano in elicottero, smoke on the water and fire in the sky) aveva eccitato le nostre giovani menti.
Oddio, “menti” era una grossa parola.
Probabilmente la molotov non sarebbe esplosa, ma probabilmente avrebbe potuto rompere la testa a un povero metallaro, e in cima a tutti questi probabilmente resta il fatto che tre giorni prima del concerto Ciano venne a dirci che avevano finito di riverniciare la canonica di San Possidonio: l’ipotesi di recarsi nottetempo con un paio di bombolette e scrivere un mucchio di cazzate vinse sull’opzione Deep Purple. Ne abbiamo fatti di danni a quindici anni, ma poteva andarci anche peggio.

Ci ha salvato, forse, l’aver messo su un complesso: l’idea iniziale mia era spaccare un sacco di chitarre, ma poi l’evidenza che le chitarre costano ci mise per la prima volta di fronte a un qualche principio di realtà.
A quel tempo non si può nemmeno dire che andassimo al Festival: ci fermavamo ai baracconi. (A Modena le giostre si chiamano “baracconi”, magari è così in tutta Italia, ma non ne sono sicuro e nessun dizionario mi può aiutare). Ricordo molto bene un aggeggio infernale a forma di pozzo petrolifero che faceva il giro della morte, e io rinchiuso lì dentro volevo davvero morire, sentivo dietro di me Giai che bestemmiava per la prima volta della sua vita, ma io dissi solo: “ora basta”, proprio come un bambino stanco, “ora basta”, e invece continuò.
Mi posso aiutare con la musica: Listen to the beat, the beat of the sun, sun. Mano Negra, 1989. Voi non lo direste, ma per me è una canzone da autoscontro.
In realtà non eravamo neanche ragazzi da baracconi, ma in tre o in quattro facevamo il filo alla Gloria che stava nell’ultima casa di campagna, di fianco all’Inceneritore. Il secondo live del complesso lo registrammo sotto il portico di casa sua. Ho ancora la cassetta. Io ero una specie di integralista della scala pentatonica.
(Se l’avessimo saputo, che nei pressi c’era il Circolo Anarchico la Scintilla, magari ci saremmo avventurati sulla riva del Naviglio per sentire la Paolino Paperino Band: oppure lo sapevamo benissimo e non ne avevamo il coraggio, possibile).

Quindi dev’essere proprio il 1989: l’anno dopo non uscivo più con Giai, mi aveva bruciato la chitarra in una stufa a legna. Passarono alcuni anni di intensa vita parrocchiale, e in quanto privo di patente non è che potessi dire: “ragazzi, dai, andiamo al Festival!”. Stavo nei sedili dietro e mi ciucciavo la cassetta di Ligabue, che so a memoria.

E così
un altro sabato è andato così…


Ligabue è un genio, anche se non tornerò mai a un suo concerto. Ne ho visti due nel 1991 e mi bastano. Il primo in giugno in una piazzetta di Nonantola (ci andai in bicicletta!), il secondo gratis in settembre al Festival dell’Unità, ma in mezzo era successo qualcosa: non avevo più voglia di vedere un concerto. Specie di Ligabue. Dopo due pezzi andai a leggere fumetti in libreria. Mi aveva stancato il rock, i cappelli da cowboy e le scale pentatoniche, stare in piedi pigiati per due ore o sopra una panchina mi sembrava un’idiozia, e Bar Mario era un pezzo da sedicenni (I was 17). Quando poi vennero gli Heroes do Silencio, l’ostilità si tramutò in cinico disprezzo. Io e Jan decidemmo che il biondo visigoto appollaiato su un amplificatore stesse declamando “Pulivapor”, e tutta sera continuammo a cantare “Pulivapor!, Pulivapor!” con cipiglio da gruppo hard rock iberico. Tuttora se ci incontriamo e ripensiamo agli Heroes do Silencio, torna l’irresistibile ritornello di quella sera (“Puuuuulivapor, puuulivapor!”), in cui voltammo pagina sui nostri gusti musicali.

L’anno dopo, la patente, che mi costò inenarrabili sforzi, mi diede l’autonomia che agognavo: fine delle serate sul sedile posteriore, era il tempo della libertà, della solitudine, dell’angoscia. Se hai appena imparato a guidare, parcheggiare intorno al Festival è un incubo. Ci misi due ore, sudai sette camice in retrosterzo, e al ritorno mi si gelò il sangue, vedendo il bianco di un biglietto sotto il tergicristallo. Non era una multa (sarebbe stata la prima): diciamo che era un consiglio da amico.

IMPARA-A-PARCHEGGIARE
FIGLIO-DI-PUTTANA


L’ultima goccia nel vaso della mia disperazione. Non so neanche che ci fossi andato a fare, al Festival. In realtà non conoscevo nessuno, non sapevo nulla, ero appena venuto al mondo con la mia Golf del ‘74. Mi accostai al bancone della Sinistra Giovanile e chiesi… chiesi una Bud (si pronuncia Bad)
“Io… ehm… una bad”.
“Eeeeeeh?”
“Sì, una birra in bottiglia, una…”
“Aaaaaah, una bbud!”
“Sì, ecco”.

Manco una birra, riuscivo a ordinare.
Le uniche persone che conoscevo erano Glauco e Ric, perché erano molto alte e nelle assemblee di Istituto svettavano. Dopo le occupazioni della Guerra del Golfo avevano deciso di mettere su un circolo, e volevano che io facessi il Delegato Letteratura. Non so il perché.
“Allora, quand’è che vieni a fare il Delegato Letteratura?”
Per quanto ridicola, questa richiesta era l’unica prova della mia esistenza a Modena. Il Liceo era finito, L’Università partiva in novembre, Giovanna era in Canada e non le mancavo. Che angoscia. Che solitudine. Che fatica parcheggiare. La vita cominciava sempre più a somigliare a una fregatura.

Al ’93 risale il mio interesse per la programmazione culturale, un recital di Riondino con le sue canzoni brasileire che mi avevano fatto ridere in tv cinque anni prima e mi avrebbero fatto ridere un po’ meno nello stesso posto tre anni dopo. A volte non vorresti avere tutta questa memoria. E poi una sua canzone seria, torrenziale, su Mani Pulite, perché nel 1993 eravamo nell’occhio del ciclone. Ma cosa dirò ai miei nipoti, quando mi chiederanno di Mani Pulite?
“Mah, la vita continuava, la gente andava al Festival ad applaudire Greganti, tutto regolare”.

Il terremoto venne piuttosto l’anno dopo.
In spiaggia, d’estate, si sentivano le cannonate da Spalato: un circolo di volontari di Camposanto era riuscito ad appaltare lo stand gelateria Sammontana, e i proventi andavano in Bosnia. Così, quando ci chiederanno: “tu dov’eri mentre bruciavano Sarajevo”, io e Jan potremmo anche rispondere “facevamo i coni al Festival dell’Unità”. Non era così facile come potrebbe sembrare: la nocciola, per esempio, era durissima, la vaniglia estremamente liquida, amalgamarle era impossibile, il cono ti crepava nelle mani.

“Mi fa nocciola e vaniglia, per favore?”
“La nocciola non c’è”.
“Come non c’è, e quella lì”.
“Quella… quella non è proprio nocciola, cioè… è ancora dura, vede… (la percuote con la spatola), bisognerebbe aspettare un po’. Con la vaniglia, se vuole un consiglio, ci sta bene la stracciatella”.
“Ma qui non c’è uno che sa fare i gelati?”
“Ci sono io, signora”.

Una sera qualcuno mise in giro la voce che avremmo dovuto fare un cono a Bobo Maroni, Ministro degli Interni. Ma non venne mai.
Infine, quello fu l’anno di Montanelli, che radunò la folla che di solito è riservata al comizio del segretario.
Montanelli sul maxischermo del Festival di Modena è qualcosa che mi ha segnato profondamente. Cosa possiamo sapere del nostro futuro, se in quello di Montanelli c’era una folla di ex comunisti osannanti? Io avevo sempre litigato coi genitori democristiani, coi professori ciellini, con gli amici forzisti, ma soprattutto con la parte di me stesso che era cresciuta leggendo Montanelli. Ed ecco che io e mio padre ci trovavamo a far la croce sullo stesso simbolo, e Montanelli parlava al Festival tra applausi e ovazioni. Avevamo perso, ma avevamo perso tutti assieme. Non siamo mai più stati così uniti.
Sembrava che nulla sarebbe stato come prima. (Continua parecchio)

mercoledì 17 settembre 2003

Le tentazioni dell’ex cliccatore

“Ma comunque da qualche parte nella lista… ci sono anch’io, vero?”.
“Vuole vedere dove è? Aspetta. Come ha detto che si chiama?”
“Ognibene. Grazie mille”.
“Ognibene, Ognibene, Ognibene…”
(Sta scrollando un file excel da un mega. Non ci posso credere)"…Ehm, scusa, ma non è in ordine alfabetico?”
“Eh, no, magari”
(Basterebbe un clic… diglielo che basterebbe un clic! Diglielo!) “…Ma perché non fa Control più Effe, scusa?”.
“Eh?”
“Ha ragione, mi dispiace. È che una volta io lavoravo coi pc, e allora m’impiccio sempre… senta, mi farebbe una cortesia?”
“Prego”.
“Ha presente il tasto in basso a sinistra della tastiera?”
“Il citierreelle?”
“Quello lì. Lo terrebbe premuto per un momento?”
“Perché?”
“Intanto, con un altro dito, potrebbe premere il tasto effe”.
“Ma è sicuro? Guardi che se si blocca tutto, qui…”
“Le do la mia parola d’onore. Ma ora dovrebbe essere comparsa una piccola finestra”.
“Questa qui?”
“Ecco. Potrebbe digitare il mio cognome?”
“Maiuscolo o minuscolo?”
“Min… non importa. E premere il grande tasto a destra, quello col freccione”.
“Il tasto Invio”.
“Ha ragione, mi scusi”.
“Ehi, trovato!”
“Sì? E dove sto?”
“Ma è fantastico! L'ho trovata in dieci secondi, di solito ci metto sempre…”
“…dieci minuti”.
“Anche di più. Citierreelle effe. Aspetta che me lo scrivo. Ma sa che è proprio bravo lei? Ha fatto un corso?”

Ho fatto un corso, sì, a tredici anni al circolo Acli correvo dietro a flotte di astronavi: bang, ziip! Le facevo secche tutte. O pacman nel labirinto: col tempo impari quale percorso fare, ce n’è uno più breve degli altri e prima o poi lo trovi e non lo scordi più. I cliccatori imparano così, ma poi tanti si perdono per strada. Vanno a scuola e s’imbottiscono di nozioni inutili, latino, informatica, inglese, quando tutta la nostra sapienza è nelle dita. Le dita sanno dove andare. Le dita trovano il percorso giusto. Solo l’esercizio, e il sangue freddo: tutta la nostra sapienza è nelle dita.
O mi sbaglio? Se il tuo lavoro di dieci minuti io so farlo in dieci secondi, allora non sono del tutto un incapace. E che non sia questo, allora, il mio destino? La mia vocazione, la mia goccia nel Prodotto Interno Lordo? E io e te, se ci scambiassimo di posto? Vacci tu al corso, al colloquio, al concorso, prendi il mio cognome, è sulla lista, né troppo avanti né troppo indietro. E io verrò qui al posto tuo, farò un po’ di citierreelleeffe: non mi annoierò, no, è come sparare ai marziani. Rilassa.
E poi la sera torneremo ai rispettivi cognomi. Sarà il nostro segreto, non vuoi?

“Lei comunque sta al seicentosettantanove”.
“Un po’ in là, eh?”
“C’è di peggio, comunque”
“Eh, al peggio non c’è limite”.
“Ma la ringrazio per la dritta. Citierreelleeffe. Ma tu pensa. Lei dovrebbe lavorare coi computer, sa”.
“Ci penserò”.
“Ci pensi”.

martedì 16 settembre 2003

Dovrei forse cantare vittoria, ma non so le parole, mi spiace.

D'altro canto ho un po' di nausea. Sono salito per caso, non mi sono scelto il conducente. Ci ho messo un po' a capire che non sapeva nemmeno il suo mestiere: altri passeggeri mi hanno riferito che sembrava ubriaco, continuava a tornare sulle stesse strade senza dare l'impressione di ricordarsi l'itinerario. Sbandava e non accettava critiche, perché è vietato parlare con l'autista.

Adesso l'autista non c'è più (e sappiamo che i comandi non gli rispondevano da tempo). Bene. Però, cantare vittoria, non so, non mi sembra il caso, non mi sembra il momento.


Fine del sapido apologo. Poi, fuor di ironia, aggiungo che sono contento che Federico Rampini di Repubblica abbia aperto un blog, e che ci scriva da Cancun. Però le informazioni sul vertice continuo a trovarle solo su campagnawto.splinder.it. No, niente polemica, solo un appunto. Ognuno fa quello che crede coi mezzi che ha.

lunedì 15 settembre 2003

Toglieteci tutto, fateci andare in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educare (Luigi Giussani)


Vogliamo Don Giussani nudo.

“Buongiorno”.
“Buongiorno a lei, desidera?”
“Vorrei della scuola per mia figlia”.
“La vuole pubblica o privata?”
“Ecco… io non me ne intendo molto, sa? Mi spiegherebbe…”
“…la differenza? Son qui per questo. Dunque: la scuola pubblica è aperta a tutti. Gli insegnanti sono selezionati mediante concorsi di Stato o corsi specializzati. Le spese scolastiche (libri, mensa, trasporti) sono calmierati…”
“Uh, questo mi piace”.
“…Perciò la scuola pubblica tende a ridurre le distanze tra classi sociali e gruppi razziali: per sua natura è interclassista e multiculturale. Ricchi, poveri, bianchi e neri, tutti compagni di banco”.
“Ma funziona?”
“Dipende dalla società. In una società aperta, civile, con una robusta classe media, la scuola pubblica funziona a pieno regime. Per contro, se la classe media si svuota, se prevalgono spinte all’isolamento e i quartieri vengono recintati, inevitabilmente la scuola pubblica degenera in un ghetto”.
“Mmm, questo non mi piace tanto. E l’altra cos’è?”
“L’altra è una scuola di classe. Ci va chi può permetterselo. Insegnanti e dirigenti sono selezionati sul mercato del lavoro. Lo studente di una scuola privata è come un investimento: deve fruttare per forza. Conviene ai dirigenti, conviene agli insegnanti, conviene ai genitori”.
“Ma allora diventa una fabbrica di voti?”
“Dipende. Ci sono le scuole eccellenti e le scuole per finta: il mercato offre prodotti diversificati. Se sua figlia è indolente, può parcheggiarla in un votificio. Ma se sua figlia vuole sgobbare e diventare qualcuno, le consiglio una scuola privata di qualità”.
“Questo sì che è parlare! Ecco, voglio una scuola di quelle lì”.
“Bene. Fanno venti milioni”.
“Prego?”
“Forse non mi sono spiegato bene. La scuola privata costa molto di più di quella pubblica”.
“Ma io venti milioni non ce li ho!”
“Allora non se la può permettere, mi dispiace. È la legge del mercato”.
“Ma io ho diritto di scegliere!”
“Lei ha il diritto di scegliere una scuola pubblica. Ne abbiamo di ottime, sa?”
“Ma io voglio quella privata! Io ho il diritto di mandare mia figlia alla scuola privata!”
“Non è questione di diritti, è questione di soldi. Se non ha venti milioni non ce la può mandare”.
“E lo Stato, scusi?”
“Come?”
“E lo Stato dov’è? Lo Stato mi deve aiutare!”
“Lo Stato dovrebbe aiutarla a mandare sua figlia in una scuola privata?”
“Sì”.
“Senta, mi spieghi una cosa. Lei è un liberista o un assistenzialista?”
“Mah, liberista, direi”.
“Ed è sicuro di poterselo permettere?”
“Come sarebbe a dire? Essere un liberista è un mio diritto”.
“Tutelato dallo Stato, magari”.
“Precisamente”.
“Cioè, lei pensa che lo Stato debba garantirle il diritto di essere liberista”.
“Sì, perché?”
“Non se la prenda, ma temo che lei abbia le idee un po’ confuse”.
“Davvero?”
“Sì, credo che le manchino alcune nozioni fondamentali. Mi tolga una curiosità…”
“Dica”.
“…che scuola ha fatto, lei?”
“Io? Le suore, perché?”



***

Chi ha inventato i buoni scuola dovrebbe tornare a scuola. Semplicemente. Non si tratta di dover scegliere tra pubblico e privato; si tratta di non riuscire a capire la differenza. Ancora un poco e ci sarà chi chiede i buoni-benzina per andare al lavoro in macchina piuttosto che in autobus. Oppure, già, i buoni UPS per fare a meno del servizio postale.

Naturalmente, c’è anche chi fa il furbo. Ultimamente si sente spesso il nobile adagio attribuito a Don Giussani: “Toglieteci tutto, fateci andare in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educare”. Vecchia volpe, ma per chi ci ha preso? Ci rendiamo conto benissimo che l’unico modo di spogliare l’insigne prelato e i suoi amici, l’unico modo di restituire loro l’evangelica povertà (caldamente consigliata per la prova di ammissione al Regno dei Cieli) è privarli della loro principale fonte di reddito: la scuola cattolica assistita dallo Stato laico. Che di privato, ormai, ha solo il nome. Forse sarebbe ora di darle il nome che le spetta: Scuola Parastatale.

giovedì 11 settembre 2003

A un certo punto uno si stanca di fare il romantico ribelle. Sì, quando in giro ci sono modi così facili per guadagnarsi il pane.

Per esempio, potrei fare il Giornalista al Giornale. Certo, dovrei stare attento a non strafare, ma uno nelle mie condizioni è senz’altro in grado di diventare editorialista del Giornale. Del resto, anche il mio cane probabilmente sarebbe in grado di diventare editorialista del Giornale e guadagnare così di che vivere al suo padrone, ma siccome un cane non ce l’ho, non mi resta che indossare io stesso il collarino e il guinzaglio e andare a offrire i miei servigi.

Stamattina, per esempio, di che si tratta? Il solito, bisogna ammettere che Berlusconi ha esagerato ma però.
Benissimo, che ci vuole.

Titolo: Ma a Ventotene si stava da pascià
Sottotitolo: Quei soloni antifascisti che se la spassavano al confino

E adesso diranno un’altra volta che Berlusconi è matto, o un ignorante. Che non ha studiato la Storia. Pubblicheranno le foto di Gobetti, di Amendola: gente che comunque le bastonate se le era andate a cercare. O dei fratelli Rosselli, anche se uno storico del calibro di Pillitteri ha ormai provato che l’ordine di assassinarli partì da Togliatti. O – somma ipocrisia – di Gramsci: proprio quel Gramsci dalla salute cagionevole che al confino poté recuperare le sue forze e scrivere i deliziosi Quaderni del Carcere. Quel Gramsci che negli ultimi anni della sua vita era osteggiato dagli stessi compagni di partito, che gli tendevano (testimonianza di Pertini) insidiosi agguati a palle di neve.

Ma i comunisti sono così, li conosciamo. Non gli basta aver sostenuto i più feroci dittatori del secolo, Stalin, Pol Pot, Saddam Hussein; devono anche arruolare i morti altrui, per la loro trita propaganda. Non hanno ancora rimesso in formalina Salvador Allende che sono già pronti a scoperchiare il tombino del povero Matteotti, di cui del resto Mussolini non sapeva niente, anche se con un atto magnanimo se ne assunse la responsabilità (e qui un certo Mortadella, finanziatore di certi boia jugoslavi, avrebbe qualcosa da imparare).

E questa riesumazione continua, questo lezzo di morte che impregna i giornali e la tv, solo per uno scopo: attaccare Berlusconi, che ne ha detta un’altra delle sue. Certo, qui non difendiamo Berlusconi, (anche se farebbe bene a querelare quei bricconi dello Spectator che hanno pubblicato l’intervista senza prima fargli leggere la sbobinatura), lungi da noi prendere in un qualche modo le difese di Berlusconi. Anche se ha fatto quello che chiunque bravo italiano avrebbe fatto al suo posto: respingere un assurdo paragone tra un tiranno efferato come Saddam Hussein e uno statista autoritario, certo, ma italiano! “But no, but no”, ci sembra di sentirlo, nella suo rozzo e insieme geniale impasto anglo-italiano: non avremmo detto anche noi la stessa cosa?

E del resto è vero: a differenza di Saddam Hussein, che sgozzava i suoi collaboratori, Mussolini, non ha mai ucciso nessuno con le sue mani. È questo che intendeva Berlusconi, come si deduce chiaramente dal testo integrale dell’intervista in inglese. Se pure gli è capitato di disfarsi di qualcuno, Mussolini lo ha sempre fatto per interposta persona, come si conviene a un capo di uno Stato moderno, civilizzato, in una parola: occidentale.

E comunque bisogna ammettere, con Berlusconi, che la dittatura made in Italy fu senz’altro la più tenera della Storia coi suoi perseguitati. Altro che Siberia, una bella isola mediterranea, oggi meta di turisti radical-chic e registi di sinistra: Ventotene. Oh, certo, faceva la faccia truce, il puzzone, parlando di Gramsci ordinava: “Bisogna impedire a questo cervello di funzionare”. La verità è che, alloggiati in pensione completa a spese del fascio, i dissidenti prendevano il sole, allevavano i conigli, discutevano di politica e cultura (invece di andare a salvare l’onore della Patria sul fronte), e il loro cervello funzionava sempre meglio.

Prendiamo il caso di Altiero Spinelli, il fondatore della moderna idea di Europa (recentemente onorato in loco dal governatore Storace): era il classico militante comunista, che sbarca a Ventotene dopo dieci anni di carcere. Quando arriva, ha l’occasione di studiare, ma soprattutto di sperimentare cos’è davvero il comunismo (sull’isola la colonia comunista è la più numerosa, 400 confinati agli ordini del truce Longo): fatto sta che in poco tempo Spinelli lascia il Partito e redige il Manifesto europeista di Ventotene. "Se Ventotene ha lasciato in me un segno indelebile, anch'io l'ho a mia volta segnata. Quel manifesto ha reso il nome dell'isola, prima oscuro, noto in tutta Europa". Sono parole di Spinelli. Ma chi ha in Italia, in Europa, nel mondo, l’onestà intellettuale di ammettere che il miracolo di Ventotene è avvenuto anche grazie a un dittatore un po’ autoritario, certo, ma che garantiva il vitto e l’alloggio a tutti questi ingrati padri della Repubblica? Chi, a parte l’ingenuo, l’incauto, l’intuitivo, l’inarrivabile Berlusconi?

Forse a scuola non ha studiato il Novecento, ma lo ha vissuto, questo signore, al contrario di tanti professorini che più di un santino di Gramsci o Matteotti non ti sanno mostrare. Gli stessi che naturalmente si straziano per i poveri reclusi di Guantanamo, che rischiano di suicidarsi senza corpetto esplosivo. Gente che non cambierà mai, neanche se confinata a Ventotene (dove comunque Berlusconi è troppo furbo per mandarli). Là c’era il sole tutto l’anno, c’erano perfino le donne (Camilla Ravera litigava con Scoccimarro), e Pertini ti raccontava le barzellette. Il grande amico di Spinelli, Ernesto Rossi, riesce perfino a passare la prima notte di nozze con sua moglie, che aspettava da otto anni. Con un piantone dietro la porta, certo.

"Dal letto", ricorderà Rossi, "udivamo i suoi sbadigli e quando si soffiava il naso. Era un modo piuttosto incompleto di sentirsi "finalmente soli"". E tuttavia Ernesto scrive a sua sorella: "Passo questi giorni con l'Ada facendo una vita da Pascià".

Una vita da Pascià, questo era il destino dei dissidenti sotto il Fascismo. È questo il regime che un malizioso giornalista britannico ha osato paragonare a Saddam Hussein? No, no, no. Qui non si cerca di dare ragione a Berlusconi. È che Berlusconi questa ragione se l’è già presa da sola, dicendo finalmente quello che pensa la stragrande maggioranza degli italiani (vedi sondaggio datamedia qui di fianco). E allora, in via del tutto eccezionale, sapete cosa vi dico? Viva Berlusconi! Viva Berlusconi! Viva Berlusconi!



Il finale è un po’ incerto, lo so, ma la stoffa c’è. E allora? So guaire, so latrare, se c’è da scodinzolare non mi tiro indietro, cosa ci faccio qui? Cosa ci fa Facci al Giornale?

(Alcuni spunti sono stati ricavati dai testi divulgativi del fondatore del Giornale, che nella sua tomba si rivolta su sé stesso in moto circolare uniforme da due anni).
E buonanotte al giorno


1) “Vai a vedere Buongiorno Notte?”
“Sì, per cui non mi raccontare il finale”.
“Maddai…”
“Ti ho detto: non mi raccontare il finale”.
“Sono state le Bierre!".
“Maledetto!”

2) Io non l'ho visto e tendo a credere che sia bello. Ma sono l'unico in Italia a trovare imbarazzanti i capricci del suo regista e del nazionalismo di quart'ordine che lo pretendeva premiato a Venezia?
(Tieni duro, Ludwig, arriviamo).

3) Premesso che mi è piaciuto;

4) Come film in costume, poi, è riuscitissimo, senza voler strafare. La scena del pranzo partigiano, le signore ingioiellate che battono le mani al ritmo di Fischia il Vento, i maglioncini, le camicette, il servizio di piatti nella prigione del popolo che in casa mia ne avevamo uno uguale; e quando parte la grafica del Tg1 viene un sussulto al cuore. Quello che per Pasolini erano le lucciole, per noi è il cielo a pecorelle della Fine delle Trasmissioni (sulle note del Guglielmo Tell): se n’è andato e non tornerà mai più.

5) Fermo restando che è una libera interpretazione, un sogno, un mix di cronaca e fantasia (una cosa che va sempre più di moda), con la sceneggiatura che compare e scompare sulla scena; dato tutto ciò per scontato (e per accettato), la cosa meno storica sono senza dubbio i dialoghi. Bellocchio ha fornito a tutti i protagonisti un italiano corretto e semplice, a distanze siderali dalla sintassi involuta e prolissa che aveva contagiato un po’ tutti negli anni ’70. Massimi esponenti di quel verbosismo pastoso erano appunto Aldo Moro e le BR, e non c’è da stupirsi che Moretti e lo statista siano stati a tu per tu per quaranta giorni senza capirsi. Ma è probabile che parlassero come fiumi in piena, di Stato Imperialista e di convergenze parallele, il tutto nell’ottica e nella misura in cui. Per contro le battute dei personaggi del film sono elementari, evangeliche.
“Sei davanti a un tribunale proletario”.
“Ma come funziona questo tribunale?”
“Funziona che alla fine ti ammazziamo”.
“Ah. Posso scrivere a mia moglie?”
I brigatisti non parlavano così. Men che meno i democristiani.
Anche il mantra “la classe operaia deve dirigere tutto”, recitato in coro davanti alla televisione, stona un poco: i terroristi erano ottusi, come no, ma era un’ottusità diversa, razionalisteggiante, logorroica. Invece Bellocchio non resiste alla tentazione di trasformarli in preti, come fa con tutti i suoi antagonisti: e lo dice anche, ché non passi inosservato (“In fondo la sua è una religione, come la mia”). Alla fine i quadretti più grotteschi sono proprio quelli che coinvolgono “Il Santo Padre”: comprese le immagini da repertorio (quel baldacchino altissimo, traballante).

6) Che in cinquanta giorni di sequestro a qualcuno possano saltare i nervi, concesso: ma che i brigatisti siano già così nervosi sei mesi prima, quando vanno ad acquistare la casa… Il modo in cui si guardano attorno: sembra che abbiano già i carabinieri alle costole. Ma se sei così impressionabile non fai il brigatista, perlomeno non nel gruppo di fuoco.
Poi alla fine succede quello che succede sempre nelle sceneggiature: la donna si commuove e all’uomo vien voglia di fare del sesso. L’eterno femminino e l’eterno mascolino, anche se nella cronaca la brigatista interpretata da Maya Sansa partecipò ad altri sequestri e ammazzamenti. Qualcuno (giovane?) inevitabilmente penserà che sotto sotto i brigatisti non erano cattivi, se ancora avevano voglia di fare l'amore; e peggio ancora, che una donna non può essere così cattiva da ammazzare un vecchio.
Invece può.

7) “Ma se tutti ci sforzassimo di fare qualcosa, il mondo cambierebbe all’improvviso…” e alla fine resta nell’aria la domanda: abbiamo davvero fatto qualcosa per salvare Moro? Non i politici (quelli hanno fatto poco, e si sa), ma noi? Uno sciopero (indetto dai sindacati), una seduta spiritica, tante parole. Non è che Moro, oltre ad avere tanti nemici nel suo stesso partito, fosse anche molto meno popolare di quanto vogliamo credere? Negli anni Novanta la “gente” scendeva spontaneamente nella piazza per chiedere allo Stato di patteggiare con l’Anonima sequestri. Vent’anni prima la “linea della fermezza” non faceva scendere in piazza nessuno.
Era anche un mondo meno emotivo, la società dello spettacolo agli albori. Io a dire il vero ricordo invece un tg1 molto concitato, con Frajese che irrompe nello studio di Vespa. Invece nel film il Tg2 edizione straordinaria è di una freddezza spaventosa (ed è autentico). In quel mezzobusto compassato c’è tutta l’ipocrisia di chi sta già raccontando una leggenda postuma. Da morto, Aldo Moro divenne lo statista più amato degli italiani. Avrebbe evitato tangentopoli, avrebbe traghettato Berlinguer nella socialdemocrazia, avrebbe portato un soffio di vita a quelle mummie che guardano sfilare il feretro alla fine, e non ce n’è una che pianga: a quei tempi le lacrime in tv erano indecenti.
Oggi siamo molto cambiati, non per forza in peggio. La società dello spettacolo forse avrebbe salvato Aldo Moro. Avremmo perso il grande statista morto e ci saremmo tenuti il politico verboso.

8) Perciò, dopo un’attenta analisi dei pro, dei contro, delle attenuanti e delle aggravanti, la Corte Suprema del Tribunale Rivoluzionario del Buon Gusto, qui autoconvocatasi, dichiara che The Great Gig In The Sky è lievemente kitsch; associarla a filmati di esecuzioni capitali, poi, è kitschissimo (in effetti ho sempre immaginato che stessero sgozzando la corista). Siamo consapevoli di quanto influisca, nel nostro giudizio, l’immagine di David Gilmour panzone che affonda Venezia tra laser e fuochi d’artificio; però non si può far finta che gli anni Ottanta non ci siano stati, e di canzoni struggenti e un po’ meno famose ce n’erano tante.
Su Shine on you sospendiamo il giudizio.

9) Lunedì prossimo si pensava alla Maledizione dell’ultima luna.


Sul caso Moro il migliore link è sempore Moro punto doc
E questa è una biografia come dico io

mercoledì 10 settembre 2003

Ritratto del precario come Eroe Romantico, vale a dire
Maestri di vita (9): Lev Myskin, Raphaël de Valentin, Chip Lambert

Avvertenza: questo pezzo è discretamente incomprensibile. Tuttavia, se riuscite a tirarne impressioni negative sulla mia vita professionale, e se la cosa vi fa sentire superiori, fate pure, servo vostro.

Potrei dare la colpa all’Ottocento, per esempio.
Fa molto Ottocento quel tipo di eroe giovane, spiantato, che a un certo punto del romanzo si ritrova in tasca una fortuna, di solito una lontana eredità. A diciannove anni avevo già qualche pelo rosso sul mento, per cui, è chiaro, ero il principe Myskin, (l’Idiota, cioè): “Nastasja, lei ha sofferto tanto, venga a vivere con me, se necessario lavorerò (risate dei presenti)…ma adesso che ci penso, cos’ho qui nel taschino? Ops, eredito da una zia svizzera un milione e mezzo di rubli”. Gli scherzi del destino, eh? Che poi non si riesce mai a capire quanto valgano, questi rubli (ma Nastasja era appena stata valutata intorno ai centomila). Cifre di fiaba, che si materializzano e scompaiono in un istante: Rogozin porta i centomila in un pacchetto, la bella capricciosa li getta nel camino.

In seguito mi trovavo bene anche nei panni del tipico giovinastro balzacchiano, che in ventiquattrore passa dall’ascesi alla deboscia. Ogni volta che finivo a una premiazione o a una presentazione, insomma, a un buffet, mi sentivo come Raphaël de Valentin (la Pelle di Zigrino), che va per salotti senza un soldo, e si nutre a the e pasticcini. Con la differenza che nei salotti-Ottocento i pasticcini erano “si parcimonieusement offerts”, mentre io m’ingozzavo come un cappone. A un premio di poesia, stavo dedicandomi ai crodini avanzati, quando mi si avvicina un tale: “ecco da cosa si distinguono i poeti veri: sono quelli che mangiano di più”. Annuii ruttando: avevo vinto io, dopotutto.
Era il periodo in cui gonfiavo il curriculum, mi infilavo in treni notturni alla caccia di esotiche borse di dottorato; c’era senz’altro del romanticismo in tutto questo, e io lo sentivo (sentivo anche le risate in sottofondo, se è per questo, e tuttora). A un certo punto però Raphaël si sveglia nei postumi di un festino, e scopre di aver ereditato dal parente di Calcutta sei milioni di franchi. Da quel momento il romanzo prende una piega filosofica, ma io quella piega lì non la presi mai.

Semplicemente diventai impiegato (la qualifica in inglese era assai più fantasiosa, ma insomma, ero un impiegato). Gli impiegati non sognano l’Ottocento, si considerano tutti dei piccoli Kafka. Tranne quelli proprio colti, che leggono i libri Adelphi: loro si sentono molto Bartleby lo scrivano (quello che a qualsiasi richiesta risponde “Preferirei di no”). Per me l’enigma di Bartleby è molto semplice: è un imbecille. O un impiegato ministeriale (le due cariche sono cumulabili).
Ci sono state molte traversie, in seguito, e non mi dilungo, ma nulla forse è stato più kafkiano della Graduatoria alle Supplenze, una lista dalla quale a un certo punto ero stato perfino cancellato, reo di aver consegnato in tempo tutti i documenti con le crocette giuste al posto giusto. In quella occasione ho scoperto che poche sono le differenze tra il mondo di Kafka e quello reale, e una di queste è il Sindacato, l’intermediario metà umano metà burocratico tra noi e il Castello (non si chiama più provveditorato). Mi dissero che si sarebbe tutto risolto con una lettera di scuse, da parte mia. Io non avevo fatto nessun errore, quindi l’errore dovevano averlo fatto al Castello, ma comunque implorai perdono per le mie orribili sviste, e fui perdonato. Temporaneamente.

Sì, perché i giudici del Processo, riuniti in conciliabolo, decisero che ero colpevole di varie cose. In ultima analisi, ero colpevole di essermi laureato troppo presto. Se avessi partecipato a qualche bisboccia in più, se mi fossi goduto la vita dello studente, avrei perso l’occasione di partecipare all’Ultimo Concorso di abilitazione all’insegnamento prima della fine dei tempi. Così avrei dovuto sborsare molti soldi in più, e impiegare altri due anni di vita in una Scuola per l’Insegnamento, detta SISS. Ma ahimè, avevo avuto fretta, avevo avuto paura di invecchiare, di pesare sulla mia povera madre. Colpevole! Diciotto punti in meno! Verrai calpestato sulla graduatoria da cento giovani Sissine, tutte indubbiamente più preparate di te! Fannullone, parassita, precario! La gente come te, non capiamo dove trovi il coraggio di rispondere al telefono.

Beh, io quest’estate ho fatto di peggio: sono andato al mare con la mia ragazza, neanche fossi una persona normale. E mi sono tenuto lontano dai romanzi Ottocento: non m’ingannano più. Non c’è nessuna eredità da Calcutta, per me. Io sono l’artefice del mio destino, ma d’altronde il destino non esiste, dal che si deduce che sono l’artefice di niente, un buono a nulla. Come volevasi.

A un certo punto sono dovuto tornare a Modena, perché c’era la Chiamata. La Chiamata è una cerimonia complessa, in cui, sostanzialmente, offrono supplenze a destra e a manca ma a te no, e dura in media sei-sette ore. Io non ho i nervi per reggere la cosa (o sarà che mi manca la vocazione), per cui di solito mi porto da leggere. Ma niente Ottocento, stavolta.
Bene, ero lì seduto da tre-quattro ore, ormai, in posizione panoramica: sotto di me il popolo dei supplenti, un po’ più avvenenti del solito (le sissine hanno abbassato di molto l’età media). Ogni tanto scendevo ad aggiornarmi da una mia collega sicula.
“A che punto siamo?”
“Quaranta”.
Noi siamo sprofondati dopo il 170.
“Potevamo farcela. Se non ci toglievano i punti ce l'avremmo fatta”.
“È andata così”.

Siccome non ho preso un volo da Palermo, io, mi ostento tetragono ai colpi di sventura.
“Cosa leggi di bello?”
“Uh, Le correzioni”.
“Jonathan Franzen. Com’è?”
“Non so. Me l’ha prestato la mia ragazza [perché sto cercando di smettere con l’Ottocento, sai]”.
“Lei è rimasta al mare?”
“Già”.

Insomma, me ne stavo appollaiato sulla scala, e leggevo le avventure di Chip Lambert, docente universitario caduto in disgrazia, che spende gli ultimi spiccioli in mance ai tassisti, sotto la pioggia. Pensando a quando ero una giovane promessa dell’italianistica, e uscivano certi articoli miei che adesso non riuscirei neanche a leggere. Certo, il mondo è pieno di giovani promesse dell’italianistica (non lo sapevate? Ora sì), c’è una vera inflazione, bisognerebbe fondare più riviste, più cattedre, fare qualcosa per tutte queste giovani promesse.
Al limite, abbatterle.
Quanto a Chip, lui corregge bozze (quello che farò la settimana prossima, e il cameriere alla Festa del Lambrusco) e ripone le ultime speranze in una patetica sceneggiatura. Ma quando si mette in tasca i dollari delle mance sul bancone di un cocktail bar, sembra Raphaël redivivo che fa a pezzi il mobilio della sua povera mansarda per trovare, dal profondo della miseria, un biglietto da cento per uscire con la Gran Dama.

E infatti poche pagine più tardi (stavano assegnando la supplenza n. 60), non salta fuori anche per Chip una specie di eredità? Questa volta è un tizio dalla Lituania. Non è parente, ma gli è straordinariamente somigliante. Gli propone un risky business nel Paese baltico, mille $ al mese, gliene infila tremila in tasca in acconto. Ehi, fanno sei milioni di lire! Chip esce nella strade di New York con sei milioni in tasca, wow! (chissà quanto veniva in dollari, Nastasja).

“Hanno finito di chiamare, allora?”
“Sì, hanno finito”.
“Bene. Cioè, bene per niente. Torni giù?”
“Sì. Tu ce l’avresti fatta, comunque”.
“Sei sicura?”
“Sì, con i diciotto punti ce la facevi”.
“E vabbè, magari ora ci chiamano i presidi”.
“Devono chiamarne settanta, prima di noi”.
“Magari rifiutano tutti”.
“Sì, magari. È bello il libro?”
“Sì”.

Il libro di Franzen è molto bello, il mio lascia assai a desiderare. Non fa che avvitarsi su sé stesso, si ripete, per esempio questa cosa della Chiamata è già capitata due anni fa, c’era la neve. E dire che basterebbe così poco. Un telegramma da Calcutta, o Bogotà, uno zio nel traffico d’armi, qualcosa di assolutamente illogico e imprevisto. Nella realtà non succede, ma nessun romanzo vuol essere noioso come la realtà. E gli eroi romantici e spiantati annoiano, alla lunga.

lunedì 8 settembre 2003

Il re senza giullare

O let me not be mad, not mad, sweet heaven!
Keep me in temper; I would not be mad


Sì, capisco che del Controvertice di Riva si sia sentito parlare poco, con quel che aveva detto Berlusconi… epperò, questo Berlusconi, cosa farebbe pur di attirare l’attenzione: sarebbe disposto a inventarsi perfino che sua moglie gli mette le corna (anzi, aspetta, questo lo ha già fatto)…

Che stanchezza, però.
No, perché diciamo la verità, Berlusconi è da un pezzo che non ci diverte più. Qualche gaffe ogni tanto, senz’altro, era simpatica: oserei dire che lo umanizzava, ci impediva di odiarlo. Ma l’escalation degli ultimi mesi è qualcosa di diverso, non può essere liquidata con qualche battuta di circostanza. Chi ha avuto l’occasione di crescere a contatto con persone anziane conosce questo graduale passaggio dalla comica alla tragedia. E in fondo siamo tutti un po’ cresciuti con Berlusconi: volendo o no, fa parte della famiglia. Lo abbiamo detestato, lo abbiamo temuto, lo abbiamo sbeffeggiato e ora è tempo di provarne pietà. Ma non è giusto.
Tutto si può dire, di Berlusconi, tranne che non abbia mostrato nel corso della sua vita un’intelligenza brillante: vederlo ridotto a un pagliaccio ci imbarazza. Se continuiamo a scherzarne, è un po’ per inerzia, un po’ per non piangere. Dalle parole di quest’uomo (che non sta bene) dipende l’immagine dell’Italia all’estero, il coinvolgimento del nostro Paese in un paio di conflitti, l’equilibrio dell’Europa, i rapporti con la Russia e gli Usa. Quanti problemi può provocare quest’uomo, nel breve tempo di una battuta?

Per chi vede in Berlusconi l’eterno nemico, questa pazzia è perfino sleale: Berlusconi doveva essere affrontato e sconfitto nel pieno delle sue capacità, con la sola forza delle idee. Rischia invece di dover cedere la mano per semplice consunzione. Il problema del conflitto di interessi viene definitivamente messo in ombra dal problema, più stringente, della sanità mentale. In tutto questo c’è qualcosa di ingiusto.

Ma, allo stesso tempo, c’è anche qualcosa di tragicamente necessario. La pazzia di Berlusconi non è una curiosa casualità della Storia. Si tratta della conseguenza di una serie di premesse, qualcosa che si poteva perfino prevedere. La pazzia di B. è precisamente uno dei modi (forse il peggiore) con cui si risolve il conflitto di interessi: un uomo non può concentrare in sé tanto potere, tanta attenzione, tanta simpatia e tanta ostilità senza venirne, alla lunga, consumato. Forse un uomo sano può reggere a tutto questo, ma B. non ha quella salute che si ostina a rappresentare sul suo corpo. È un Re Lear senza nemmeno la possibilità di spartire il potere con tre figlie: alla sua corte non c’è mai stato nessuno in grado di dividere con lui la scena. Ed è un Re Lear senza Fool, senza un giullare disposto a mettergli la verità davanti alla faccia. I suoi cortigiani in parlamento, nelle televisioni, sui giornali, sanno di aver legato a lui il loro destino e di dipendere da lui per tutto; non hanno nessun interesse a dirgli la verità, anzi si dedicano furiosamente a giustificare qualsiasi sua uscita stravagante: a questo punto sono più un peso che un effettivo aiuto. Berlusconi impazzisce anche grazie a loro. Anche grazie al berlusconismo-chic di giornalisti alla Facci, che ‘certo, in questo caso B. ha sbagliato, però la pazzia dei giudici è davvero un problema’. Per loro è uno sport, l’arrampicata sugli specchi. Se domani il capo metterà il sale nel caffè, loro loderanno la sua fama d’intenditore. E il capo continuerà a bere caffè salato, tra applausi e risatine.

Tutto questo non è una novità: è la storia di tanti imperatori romani acclamati dal popolo e adulati dai cortigiani, che oggi sono ricordati per le loro pazzie e stravaganze. Berlusconi è davvero il Piccolo Cesare di Giorgio Bocca: il suo regime, che troppo spesso si è paragonato al fascismo, è piuttosto assimilabile a un più morbido cesarismo, col suo panem e soprattutto coi suoi circenses, il suo Senato esautorato, la sua rete clientelare diffusa in ogni angolo dell’Impero. Il cesarismo funziona, ma ha un tragico punto debole: il potere accentrato nelle mani del Cesare lo consuma, senza lasciare alla fine nessuno in grado di assumerlo al suo posto. Dopo Nerone, non c’è che il vuoto, la guerra tra bande, l’anarchia.

Il che comunque non dimostra niente. Berlusconi è esaurito, questo sì, ma anche a Lear è stata data un’occasione di rinsavire. A patto di trovare qualcuno che sappia forare quella membrana tra lui e il mondo, che sappia dirgli la verità, per una volta. Ma c’è una persona così, tra i suoi collaboratori, i suoi tirapiedi, i suoi clienti? Ce n’è almeno una tra i suoi sostenitori?

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