Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

venerdì 27 ottobre 2023

Perché non riusciamo a odiare i palestinesi?


C'è una discussione che sarebbe saggio rimandare a tempi più tranquilli, ma non è detto che ce ne saranno più, così comincio adesso. Parto da una domanda meno retorica di quanto potrebbe sembrare: perché non odiamo i palestinesi? Noi italiani, intendo. Persino in un momento come questo, in cui la pubblicistica di sinistra è ormai ridotta al lumicino, e i quotidiani del fu ceto moderato e riflessivo sono tutti a disposizione di Israele – certo, non li legge più nessuno, ma in parte proprio perché ormai se la cantano e se la suonano, senza preoccuparsi troppo di intercettare le opinioni di un pubblico così meno filoisraeliano di loro. 

(Il direttore di uno dei principali quotidiani italiani smentito dallo sgangherato strumento di fact-checking affidato alla peggiore comunità virtuale nella storia di Internet) pic.twitter.com/2TNTrDsze6


Poi c'è la stampa più becera, storicamente barcamenantesi tra antisemitismo e antislamismo, che dal 7 ottobre sembra decisamente aver optato per quest'ultimo. Almeno per quanto mi è dato di vedere (non è che mi soffermi molto). Ma quindi a questo punto chi potrebbe più intercedere per i palestinesi presso il pubblico italiano? Giusto qualche influencer che però se insiste rischia di essere malmenato. Eppure guardatevi intorno: abbiamo una stampa più filoisraeliana della stampa israeliana, opinionisti tv in servizio permanente che possono permettersi di accusare in serenità il segretario generale Onu di fiancheggiare Hamas, e malgrado tutto questo sforzo – che sarà anche costato parecchio denaro – gli italiani non odiano ancora i palestinesi: e parliamo di uno dei popoli più sfigati del mondo. Arabi di lingua, perlopiù musulmani di religione, insomma quel tipo di gente di cui siamo allenati da secoli a diffidare: ma ancora non li odiamo. Perché? 

Non hanno calciatori famosi, né ballerine o attrici disponibili a sposare i nostri; in effetti non hanno più niente, e quando avevano qualcosa erano limoni e olive e un po' di luoghi santi, insomma se avessero uno Stato e un minimo di economia dovremmo persino temere la loro concorrenza: e invece di ringraziare chi quotidianamente si adopera per evitare questa possibilità, noi ci ostiniamo a parlare di pace, di Due Popoli Due Eccetera, a tentare di capire le ragioni di chi non ha più un soldo per permettersele. Così empatici, noi, è possibile? Perché diciamolo, di altri popoli ci frega poco o nulla. Qualcuno ha la minima idea ad esempio di cosa stia succedendo in Libia? È una terra più vicina a noi, geograficamente e storicamente. C'è la guerra anche lì, in teoria, ma non ci scalda un decimo di quanto ci attizzi la causa palestinese, la più persa di tutte. Da cui un sospetto: forse non è tanto la simpatia per i palestinesi, che alla fine chi li conosce, quanto la diffidenza per la retorica filoisraeliana, che più martella più ci lascia diffidenti. Può essere il motivo, mutatis mutandis, per cui di putinisti ce n'è più qui che altrove. 

È abbastanza singolare che in un contesto sempre più globalizzato, dove ormai la gente in tutto il mondo guarda gli stessi programmi coi sottotitoli, l'italosfera dimostri una sua identità, o almeno un'immunità a messaggi costruiti appositamente per essere ripresi e amplificati da qualsiasi pubblico – e invece no, in Italia non passano. Così come ascoltiamo sempre meno musica in altre lingue (Kanye West l'avrebbe riempito sul serio Campovolo?), capiamo sempre meno certi discorsi, pure semplicissimi. Un anno e più fa gli ucraini cominciarono a spiegarci che non potevano assolutamente negoziare con Putin perché questo avrebbe comportato cessioni territoriali: chi mai cederebbe terreno in cambio di pace? A dire il vero è successo tante volte a tante nazioni, ma agli ucraini sembrava scandalosa la sola idea. Ricordo una serie di messaggi, ripresi anche da qualche volonteroso megafono italiano, tutte variazioni sul concetto: voi che regione del vostro Paese cedereste? È chiaro che una domanda così, se la fai a un americano, è retorica; ma noi italiani abbiamo una storia diversa, regioni ne abbiamo già cedute parecchie (ringraziando di non doverne cedere di più), e soprattutto passiamo il tempo a sfotterci da regione a regione, da provincia a provincia, ognuno a una domanda così ha già pronta una risposta scherzosa, ma fino a un certo punto. Non puoi convincerci con messaggi così, non devi neanche provarci se non vuoi dimostrarci di non conoscere né la nostra storia né la nostra psicologia. D'altro canto gli ucraini sono una nazione giovane, l'inesperienza va messa in conto. 

Una regione sola? Non possiamo darne un paio?

Gli israeliani viceversa queste battaglie mediatiche le combattono da sempre, con un'indiscussa professionalità, e sin dall'inizio hanno deciso di impostare la campagna autunno-inverno sull'equivalenza tra Hamas e l'Isis. Opzione assolutamente comprensibile, quasi obbligata, che negli USA e in molti Paesi europei farà senz'altro breccia. In Italia c'è questo problema, che dell'Isis non frega quasi più nulla a nessuno. Vagamente ricordiamo che si trattava di una specie di califfato che per un po' ha controllato certe zone desertiche poi riconquistate da potentati non molto più rispettabili, e non siamo del tutto sicuri (come in Libia) di non essere stati anche occasionalmente dalla stessa parte della barricata contro altri nemici, che in Medio Oriente si sa come vanno a finire tutte le guerre di civiltà (come vanno a finire? in guerriglie per il controllo di oasi e pozzi). 

Ai tempi "Isis" fu anche l'etichetta che si scelse di appioppare all'ultima storica ondata di attentati di matrice islamica in Europa, che a riguardare i pezzi scritti al tempo ci terrorizzarono parecchio: ma sono passati anni, abbiamo avuto altri problemi, e a differenza che in Francia o in Belgio nessun processo ha mantenuto un po' di attenzione mediatica sugli attentatori perché, anche stavolta, nessun terrorista ha scelto l'Italia. Non è chiaro il perché, forse si tratta solo di fortuna, ma in questo caso è una fortuna incredibile, che dura da più di vent'anni: né Al Qaeda né l'Isis hanno mai considerato l'Italia come un campo di battaglia. Magari è tutto merito della nostra intelligence, ma consentitemi di diffidarne. Comunque sia, registro questo fenomeno: che all'ennesimo agit-prop filoisraeliano (non sempre consapevole di esserlo) che ti ripete che Hamas va trattato come l'Isis, l'italiano medio risponde: ok, ma come l'abbiamo trattato l'Isis? No, sul serio: lo abbiamo pagato? e nel caso, quanto? Perché da noi c'è questa idea, che un prezzo ci sia sempre. Non è un'idea giusta, ma neanche storicamente sbagliata. È senz'altro un'idea cinica, ma ormai si è capito che non siamo quel tipo di popolo che combatte fino all'ultimo uomo per un'idea. Meglio così, vista la nostra inclinazione per le idee sbagliate e perdenti.  

Può darsi che questa nostra riluttanza a odiare i palestinesi sia soltanto una resistenza del passato, come quando non volevamo andare nei fast-food perché era la fine della cucina italiana. Può darsi che dipenda da una serie di circostanze che stanno per sfumare: nei prossimi giorni, se il blocco di luce e acqua proseguirà, moriranno veramente molte persone e l'unico modo di resistere a questa informazione sarà autoconvincersi che non si tratta esattamente di persone, bensì "inhuman animals" o qualcosa del genere, in altri Paesi probabilmente sta già funzionando. Aggiungi che dicembre si sta avvicinando, e presto i nostri giornalisti scopriranno che nelle scuole di Gaza non fanno il presepe. Questo potrebbe essere il dettaglio cruciale. 

sabato 21 ottobre 2023

Karol W., santo e subito

[2013]. Quiz: Ha scritto poesie, commedie e millecinquecento pagine di filosofia, è stato fattorino, attore e minatore; a calcio giocava in porta ed è membro onorario del Barcellona FC. Chi è? Un aiutino: negli ultimi trent’anni di vita ha fatto anche il papa. Ah, vabbe’, ma così è troppo facile.

Si fa la barba verso il 1960.


22 ottobre – San Giovanni Paolo II, superpapa (1920-2005)

A un certo punto della mia, della sua vita, io devo aver pensato che Karol Wojtyla, in arte Giovanni Paolo II, non sarebbe morto mai. Forse per mancanza di fantasia, dopo vent’anni la prospettiva di un altro papa, con un nome diverso, un diverso numero, mi sfumava nell’inverosimile. Un altro dopo di lui, ma chi? E perché? Del resto, bastava notare i progressi della scienza medica per farmi intravedere la singolarità: la vita media si allungava sempre più, sempre più organi e tessuti diventavano rigenerabili, certo sarebbe servito denaro ma per uno come GPII il denaro non era un problema. Per un papa come lui il problema era piuttosto dire di no all’accanimento terapeutico: avrebbe potuto mai permettersi di dire una cosa semplice e terribile come “lasciatemi morire?” Non poteva, era GPII, le sue più profonde convinzioni lo condannavano a vivere per sempre. Sublime ironia: mentre la gente lo acclamava santo in vita, lui si sarebbe autoinflitto un esilio in terra; si sarebbe lasciato alimentare coi sondini finché tutto l’apparato nervoso non sarebbe diventato replicabile in laboratorio (ovviamente senza fare male a nessun embrione). Se poi col tempo fosse scivolato in una condizione di coma vigile, nessuno avrebbe potuto arrogarsi di scegliere per lui a ogni bivio tra la morte e una nuova terapia per conquistare qualche mese di vita: e così sarebbe sopravvissuto per millenni, ieratico e immortale vicario di Cristo, pronto a riaprire gli occhi e staccare le flebo nell’alba del giorno del giudizio. Alla Chiesa cattolica, raccolta in preghiera intorno al suo capezzale in terapia intensiva permanente, non sarebbe rimasto che nominare un vicario del vicario. A un certo punto io pensavo che sarebbe realmente finita così. Lo scrissi anche da qualche parte, per fortuna non mi lesse nessuno.

Chiunque altro renderebbe la foto ridicola.


Dato che ovviamente mi sbagliavo. Un giorno qualsiasi, GPII sussurrò davvero l’inimmaginabile frase “lasciatemi tornare alla casa del Padre”, e ci lasciò. La sua missione, abbracciata 35 anni prima – accompagnare la Chiesa nel terzo millennio – era abbondantemente compiuta. Ora magari verrà qualcuno esperto a spiegare, con dovizia di argomenti, perché quella sommessamente domandata da GPII e più recentemente dal cardinale Martini non sia da considerarsi un’eutanasia, mentre quella di Piergiorgio Welby sì. Mi si perdoni se qui la taglio un po’ più corta: un sovrano non è soggetto alle stesse leggi dei sudditi, e GPII è stato la cosa più vicina a un sovrano che abbiamo avuto in Italia dal Quarantasei in poi – ma forse anche da prima. La sensazione che sopra ogni confusione e disastro, ci fosse comunque Lui, il sole indifferente che anche quando è nuvolo c’è: basta aspettare e prima o poi farà capolino da qualche parte nel cielo, ci farà sapere cosa pensa, pubblicherà un’enciclica, beatificherà un reggimento, stringerà le mani a qualche leader politico discutibile, dirà due paroline dal balcone contro la guerra o la fame… Anche chi malsopportava la Chiesa, Wojtyla non riusciva a odiarlo. Senza mai diventare quel tipo di papa piacione collaudato da Giovanni XXIII, ritentato da Giovanni Paolo Primo e ora rispolverato da Papa Francesco, GPII da un certo punto in poi divenne semplicemente troppo grande perché ci si potessero appendere le nostre polemiche quotidiane. Quel punto fu probabilmente il 13 maggio 1981, l’attentato a Roma, festa della Madonna di Fatima.

Fino a quel momento Wojtyla era stato un papa simpatico, coi suoi errori di pronuncia, persino un po’ mondano, coi suoi voli transatlantici e la sua fissa per il nuoto in piscina. Un intellettuale, comunque, uno che ha studiato sul serio, e che si era ritrovato nel partito di Dio in uno dei pochi Paesi al mondo in cui era un partito d’opposizione, osteggiato dal regime. La più famosa vignetta di Andrea Pazienza fotografa quel momento particolare: un giovane papa a bordo piscina sorseggia un drink e si domanda: e se esistesse veramente? Ih! Mavvedi cosa vado a pensare. Qualche anno dopo una vignetta così sarebbe stata inimmaginabile. Il Wojtyla che avrebbe stretto la mano a Pinochet sarebbe stato vittima di scherzi anche più feroci, ma nessuno l’avrebbe più immaginato nell’atto di dubitare. 
Gli hanno appena sparato. Questa e le altre straordinarie foto provengono da https://www.ilpost.it/2011/05/02/foto-wojtyla/

Ali Ağca cambiò le cose per sempre, anche se non nel mondo che aveva voluto lui (ma non sapremo mai cosa voleva davvero Ali Ağca). Se il Novecento è la nuova Bibbia, e gli attentati suggellano la grandezza dei nuovi Martiri (i Kennedy, Gandhi, Martin Luther King), scampare a un attentato è la cosa più simile alla resurrezione che la postmodernità possa offrirci; e nel 1981 nel giro di tre mesi risorsero due dei protagonisti assoluti del decennio a venire: Ronald Reagan e Karol Wojtyla. Entrambi mediocri attori in gioventù e politici di razza; entrambi intimamente persuasi dell’esistenza del Male e della propria militanza nelle file del Bene; entrambi ormai convinti di essere stati scelti e salvati per qualcosa di grande, fosse anche la fine del mondo. È abbastanza buffo dire, come dicono molti, che Reagan e/o Wojtyla sconfissero il comunismo. Ma non c’è dubbio che si sentissero chiamati a farlo, e che nel 1981 non potevano immaginare quanto sarebbe stato relativamente semplice, quasi indolore. Nei suoi discorsi elettorali Reagan parlava di apocalisse nucleare e Impero del Male. Nell’anno dell’attentato, un papa Wojtyla ancora umano lasciava che da un’intervista con una rivista tedesca trapelassero dettagli inquietanti su quel famoso terzo segreto di Fatima:

Se c’è un messaggio in cui si dice che gli oceani annegheranno intere sezioni della terra, e che da un momento all’altro milioni di persone periranno… non c’è veramente nessun motivo di voler pubblicare questo messaggio. Molti vogliono conoscerlo per pura curiosità, o per il gusto del sensazionalismo, ma dimenticano che “sapere” implica anche per loro una responsabilità. È pericoloso soddisfare una curiosità se sei convinto che non possiamo fare nulla per una catastrofe che è stata predetta.



Il quinto da destra nella terza fila dietro l’obelisco è distratto, sta pensando al totocalcio.


In seguito GPII non si sarebbe più lasciato scappare rivelazioni del genere. Per molti anni i fotografi non avrebbero inquadrato che sorrisi, sempre più raggrinziti e ieratici, finché il parkinson glieli avrebbe consentiti; nel mentre che metteva a punto quella strategia comunicativa che sta tutta in una parola: speranza. Non Abbiate Paura. Varcate la Soglia della Speranza. Nel frattempo anche la retorica di Reagan si raddolciva, malgrado i vertici USA-URSS non stessero andando poi così bene. La storia gli avrebbe dato ragione. 

Rimane il dubbio: dietro tanti inviti alla speranza, perfettamente calibrati per una società globale che voleva lasciarsi dietro gli incubi della guerra fredda, GPII ci credeva alla fine del mondo, o no? Pensava davvero di essere il papa martirizzato su una montagna di martiri, descritto dalla veggente suor Lucia dos Santos? Preso atto che ogni cristiano dovrebbe vivere nell’attesa della fine dei tempi, quanto tempo pensava di avere davvero a disposizione il Papa-Venuto-da-Lontano? Perché tanti sue scelte – dalle conseguenze incalcolabili – tradiscono una fretta che l’attesa apocalittica spiegherebbe. Oltre ad aver pubblicato 14 encicliche e un nuovo Catechismo, Wojtyla ha nominato più santi di tutti i papi prima di lui messi assieme (482); ha fatto più chilometri di tutti i papi precedenti messi in fila: centoquattro viaggi apostolici, 146 visite pastorali, più di un milione di km di aereo (si può andare sulla luna tre volte). Un’urgenza insopprimibile di portare il vangelo dappertutto, a costo di farsi fotografare sul balcone di qualche dittatore. La necessità di aprire ai giovani senza guardar troppo per il sottile: se a loro piace l’ammucchiata con le tende diamogli l’ammucchiata, (le GMG sono un’invenzione sua, di fronte alla quale le varie Woodstock impallidiscono, se non per rilevanza culturale, almeno per dimensioni). Nessuna vera preoccupazione per la sovrappopolazione e le emergenze ambientali: tanto la fine è vicina. E la convinzione di doverci arrivare vivo, anche quando il fisico cominciava a tradirlo.



Dicono che ci ha una mossa segreta che dopo 30 giorni muori.


Wojtyla non aveva ancora vent’anni quando i tedeschi avevano invaso la Polonia. Col padre era fuggito da Cracovia verso est – soltanto per scoprire che da est arrivavano i sovietici. Tornato dalla parte tedesca, aveva trovato lavoro in una miniera: fu l’impiego che lo salvò dalla deportazione. Un giorno, aveva 24 anni, mentre tornava dalla miniera un camion tedesco lo investì. Trauma cranico acuto. Un minatore polacco, nelle province esterne del Reich, nel 1944, quante possibilità aveva di salvarsi?

Wojtyla la scampò. Maturò forse in quel momento l’idea di essere al mondo per qualcosa di grande. Una convinzione profonda, pre-logica, immune a tutta la filosofia e la cultura che stava immagazzinando. Quando sopravvivi al nazismo, e appena ti fai prete arrivano i sovietici, e invece di finire male diventi cardinale, e vai a un conclave e non ti fanno papa, ma il papa muore subito e tu diventi Giovanni Paolo II: qualche dubbio di essere l’uomo del destino ti viene. Se poi ti sparano al cuore, e sopravvivi, ed è proprio il giorno in cui si festeggia quella Madonna che aveva previsto tutto, beh, forse davvero la fine dei tempi è vicina. Forse negli ultimi anni Wojtyla stava aspettando qualcosa di più della sua semplice fine individuale. La sua contrarietà a un pensionamento che il braccio destro Ratzinger trovava già logico potrebbe avere avuto questo senso.

Finché un mattino non deve essersi arreso. Era primavera inoltrata, ormai, la ventisettesima che passava a Roma, e il mondo che pulsava alle finestre tutto dava l’impressione fuorché di voler finire. Vabbe’ mi sarò sbagliato, mò lasciatemi andare. Rip.

mercoledì 18 ottobre 2023

Le cavallette! (Non è stata colpa mia?)

19 ottobre: Gioele, profeta (IX secolo o IV secolo aC)

Sesso con gli ortotteri!
Israele, la Palestina, come volete chiamarla, è una terra difficile. Che un Dio possa averla promessa a un popolo in cambio della sua fedeltà, è cosa che desta più di un sospetto. Ti promette fiumi di latte e miele, ti ritrovi con pietraie e laghi salati. Dev'esserci un errore, e non puoi che averlo commesso tu; forse non hai amato Dio abbastanza, dovresti impegnarti di più. Far fiorire il deserto – certo serve molta acqua, occorrerà occupare determinate oasi, scacciare determinati beduini, ma è Dio che ce lo chiede, implicitamente. Tra un pascolo e l'altro capita di imbattersi in rovine ciclopiche, i resti di antiche città che sembrano devastate da diluvi o da tempeste di fuoco – la ceramica si è fusa con le pietre – quel giorno Dio doveva essere molto arrabbiato e siccome ce n'è Uno solo, è lo stesso Dio che ti ha voluto esattamente qui. Meteore, inondazioni, guerre, e poi che altro? Beh, le locuste. Quegli insetti devastanti che Dio inflisse al Faraone per convincerlo a liberare il tuo popolo, ecco, a un certo punto lo stesso Dio le ha inviate a te. È quel che racconta il profeta Gioele nel suo breve libro, di datazione molto incerta: potrebbe essere stato scritto nell'800 come nel 300, un range di cinquecento anni nei quali la situazione più di tanto non cambia: accadono disgrazie, gli uomini domandano a Dio perché, Dio risponde che è colpa loro, ma che se si comporteranno meglio Lui li perdonerà. Questo però mediamente non accade e in breve arriva qualche nuova disgrazia. 

L'avanzo lasciato dal bruco l'ha mangiato il grillo;
l'avanzo lasciato dal grillo l'ha mangiato la cavalletta;
l'avanzo lasciato dalla cavalletta, l'ha mangiato la locusta.

In seguito i lettori poco famigliari con gli insetti migratori si sono ingegnati a considerare le locuste come una metafora, o anche solo l'allegoria di un esercito invasore; e però non è affatto improbabile che il profeta stesse documentando un fatto storico reale, una migrazione di cavallette della specie Schistocerca gregaria, dette volgarmente locuste del deserto, che da millenni infestano Nordafrica e Medio Oriente, creando gravi e periodici problemi a chi coltiva quelle terre così benedette da Dio. Addirittura Gioele potrebbe aver cercato di descrivere i quattro stadi della locusta: il "bruco" sarebbe la larva, il "grillo" la neanide, la "cavalletta" la ninfa e la "locusta" l'insetto adulto, in quella fase gregaria in cui abbiamo scoperto che la compagnia dei suoi simili gli dà una botta pazzesca di serotonina. Proprio così, aggregarsi per le locuste a un certo punto diventa una cosa piacevolissima, meglio del sesso. Non poteva inventarsi qualcosa del genere il Dio che ci ha creati? eh, ma ci ha creati a Sua immagine e così quando cominciamo a essere troppi in una terra che non ha abbastanza acqua, invece di provare piacere, ci ammazziamo. Forse è quello che Dio pretende da noi. Forse invece Dio si arrabbia in questi casi. Non è affatto chiaro. Molta gente al nostro posto impazzirebbe, noi no, non possiamo. Dio ci ha scelti per tutto questo, ci sta mettendo alla prova.

L'invasione delle locuste nel primo capitolo del libro di Gioele è davvero ben descritta, con toni più disperati che apocalittici; non è la solita minaccia di un profeta a un popolo che ha abbandonato il Signore. Tutto è già successo; il Signore è evocato soltanto in un secondo momento, quando Gioele sente la necessità di fornire ai suoi lettori una speranza. Se ci riaccostiamo a Lui, ci darà tutto (quello che ci ha tolto). Farà trionfare Israele su tutti i suoi nemici. Addirittura stenderà il suo Spirito su tutti noi, diventeremo tutti profeti (a causa di questa promessa inusuale, Gioele è considerato il profeta della Pentecoste). Può darsi che il libro di Gioele, per quanto piccolo, sia una collazione di testi diversi; una più antica lamentazione su un fatto storico (un'invasione di locuste) viene in seguito rimaneggiata da un profeta con una teleologia fin troppo chiara: ogni disgrazia è una prova che Dio ci manda affinché recuperiamo la fiducia in Lui. Il Quale un giorno verrà e risolverà ogni problema – nel frattempo ci manda le locuste.

martedì 17 ottobre 2023

Il profeta che andò a putt

Duccio di Buoninsegna
17 ottobre – Sant’Osea, profeta becco (VIII secolo avanti Cristo)

[2012]. Essere profeta del Dio di Israele non è proprio il massimo della vita – esistono datori di lavoro più ragionevoli, diciamo. Giona quando prova a mollare si ritrova per tre giorni nelle profondità dell’oceano all’interno del ventre di una balena; Ezechiele a un certo punto deve sdraiarsi su un fianco per un numero di giorni (390+40) corrispondenti agli anni dell’esilio babilonese, e nutrirsi di cibo cotto sopra feci umane. Al che persino Ez, uno che per il suo Dio avrebbe fatto qualsiasi cosa, esprime una perplessità: Signore, la cacca umana è impura, io non ho mai mangiato niente di impuro. Va bene, risponde Dio, puoi usare feci bovine. Allora lo vedi che non è così duro come raccontano, lo vedi che ci sono margini di trattativa? Ma forse il caso più interessante è Osea, profeta minore ingiustamente negletto, col quale il Signore va subito al dunque:

Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse:
«Va’, prenditi in moglie una prostituta
e abbi figli di prostituzione,
poiché il paese non fa che prostituirsi
allontanandosi dal Signore».


Il libro del profeta Osea comincia così – e potrebbe cominciare meglio? Siamo più o meno a metà Bibbia e ormai dovremmo avere imparato che da questa entità ci si può aspettare qualsiasi cosa: magari ti chiede di sgozzare tuo figlio su un altare, magari poi cambia idea all’ultimo momento, è fatto così. Ciononostante, bisogna riconoscerlo, riesce sempre a mantenere l’attenzione del lettore, riesce sempre a stupirlo con qualche espediente nuovo. Ciao Osea! Sono il tuo d-i-o, ora sposa una puttana, perché mi serve una metafora. Ah, e facci almeno tre figli, ma preparati a dar loro dei nomi ridicoli:

La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea:
«Chiamala Non-amata,
perché non amerò più la casa d’Israele,
non ne avrò più compassione […]

Dopo aver divezzato Non-amata, Gomer concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea:
«Chiamalo Non-mio-popolo,
perché voi non siete mio popolo
e io non esisto per voi».

Insomma l’Entità è arrabbiata, molto, per via del solito problema, che il popolo di Israele non la ama. L’Entità lo ha chiamato dall’Egitto, ha fatto scaturire miele dalle rocce, quaglie dal cielo, per non parlare della manna e di tutti quei popoli che ha eliminato per far spazio, ma niente da fare: è un popolo poco serio, che tresca con gli altri dei, costruisce altarini e non si perita nemmeno più di nasconderli, ormai sono tresche dichiarate, all’aria aperta (sulle cime dei monti!), e l’Entità non ne può più. L’Entità è orribilmente gelosa, di una gelosia forse senza precedenti in letteratura. Un sentimento che prima della Bibbia non aveva nemmeno un nome, e che a partire dall’Esodo diventa attributo divino, ma che nel rotolo di Osea suona umano, terribilmente umano.



http://www.jaypinkerton.com/hosea.html

Chi lo ha scritto non necessariamente era ispirato da Dio, ma sicuramente era ispirato da una passione frustrata. Passa continuamente dalle maledizioni alle promesse, a volte fa come per accarezzarti, ma capisci che gli prudono le mani. Il Dio di Osea si esprime insomma come quel tipo di ex marito che sta per violare un’ordinanza restrittiva per portare un pacco infiocchettato al compleanno del figlio, ma in tasca comunque tiene il necessario qualora gli venisse l’ispirazione di tagliare la gola alla madre del bimbo. Come tanti libri profetici, non sappiamo se ci sia giunto in uno stato un po’ caotico o se il caos non sia caratteristico del modo di esprimersi dell’Oracolo del Signore. In ogni caso ovunque lo apri puoi imbatterti, alternativamente, in minacce di morte cruentissime e dichiarazioni d’amore appassionate, struggenti: c’è gente che si sposa, con letture del libro di Osea; se solo conoscessero la premessa…


Ad Efraim (una delle dodici tribù, ma anche tutto Israele per sineddoche)
io insegnavo a camminare tenendolo per mano,
ma essi non compresero che avevo cura di loro.
Io li traevo con legami di bontà,
con vincoli d’amore;
ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia;
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.


Hai letto quanto è tenero qui? Attenzione, ora salto un versetto:

La spada farà strage nelle loro città,
sterminerà i loro figli,
demolirà le loro fortezze.

Ne salto un altro:

Come potrei abbandonarti, Efraim,
come consegnarti ad altri, Israele?
Come potrei trattarti al pari di Admà,
ridurti allo stato di Zeboìm?
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Efraim,
perché sono Dio e non uomo;

Perdona, ma a me pare proprio il contrario. Mi sembri veramente, decisamente un uomo, un uomo che a un certo punto della vita forse si è messo con la donna sbagliata, o forse tutte le donne sono sbagliate per certi uomini, in certi momenti della vita, in ogni caso mi sembri un uomo che su questa cosa che tua moglie ha altri interessi ci deve ancora lavorare. E andare in giro dicendo che tua moglie è una puttana, e che l’hai sposata solo perché te l’ha ordinato il tuo dio, no, non ha l’aria di un progresso nella giusta direzione.

Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.

Ma perché si copre la tes

D’altro canto chi sono io per giudicare. Se Osea fosse stato semplicemente un marito becco in cerca di sfogo, i suoi rotoli si sarebbero persi da un pezzo. Per sopravvivere all’oblio, per consegnare al lettore del XXI secolo un documento vibrante sulla gelosia umana, Osea doveva fare il profeta, trasformare la sua frustrazione in metafora. Come lo pseudoSalomone a cui piacevano le more, e per mille anni abbiamo fatto finta che la moretta ben tornita del Cantico dei Cantici fosse un’allegoria della Chiesa; magari Osea voleva solo raccontarci come ci si sente quando si è furiosi per un tradimento. Di sicuro la furia sa esprimerla bene.

Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.

Magari è come certi che questa furia insanabile provano a trasferirla nella politica, o nella religione, nella prima rivendicazione identitaria che trovano sul loro cammino. In ogni caso è un uomo, di quasi tremila anni fa, ma già un uomo con sentimenti che riesco quasi a riconoscere, e a me gli umani interessano (Dio molto meno, cioè su Dio non saprei veramente che dire. Ma se è davvero lo stalker adombrato nel libro di Osea, siamo fottuti).

Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore.
E avverrà in quel giorno
– oracolo del Signore –
io risponderò al cielo
ed esso risponderà alla terra;
la terra risponderà con il grano,
il vino nuovo e l’olio
e questi risponderanno a Izreèl.
Io li seminerò di nuovo per me nel paese
e amerò Non-amata;
e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio,
ed egli mi dirà: Mio Dio.

lunedì 9 ottobre 2023

Farla finita con Gaza

Il Messaggero

Se scrivo qualcosa qui, non è che ce ne sia un motivo. Non ho informazioni da aggiungere, non ho previsioni da proporre, in sostanza non ho quasi idea di cosa stia succedendo e di perché succeda. Scrivo per abitudine – un'abitudine che sto perdendo, in realtà, e forse non è nemmeno un male. Scrivo per rendere a me stesso conto del fatto che mentre cominciavano ad arrivare le notizie dell'attacco di Hamas, ho scoperto covare da qualche parte in me un sentimento di speranza. Non certo di una vittoria di Hamas – credo che non ci contino nemmeno loro, la violenza che esprimono è proporzionale alla disperazione che li nutre; forse speravo anch'io in una rappresaglia massiccia delle forze militari israeliane. La quale rappresaglia porterebbe senz'altro al massacro di una popolazione in gran parte inerme, ma magari anche alla fine di quel laboratorio mostruoso che è diventata Gaza, e dello status quo che ha incancrenito la situazione a partire dal ritiro unilaterale degli israeliani dalla Striscia nel 2005

Se scrivo qualcosa è perché su quel ritiro che apparentemente poteva sembrare una buona notizia, ho maturato col tempo e qualche lettura un'opinione che i fatti successivi hanno sembrato confermare; dopodiché non è da escludere che da un certo momento in poi io abbia messo di notare altri fatti che la smentivano. A chi aveva la pazienza di passare di qui ho cercato di spiegare, coi miei limiti, che quello che il mondo intero continuava a vedere come un problema, per Israele era una soluzione; che Gaza avrebbe fornito da quel momento agli israeliani quella modica quantità di minaccia esterna necessaria a mantenere la società coesa e bellicosa, in un warfare di bassa intensità che era la cosa più vicina alla pace che Sharon o Netanyahu potevano concepire. 

Quando i bombardamenti reciproci tra Gaza e Israele cominciarono ad assumere un ritmo stagionale, a chi periodicamente gridava che Israele era minacciata nella sua stessa esistenza obiettavo che no, Israele aveva di fatto già vinto, e come ogni vincitore aveva avuto la possibilità di scegliersi il suo nemico, selezionarlo, tagliargli gambe e/o testa ogni volta che ne intravedeva la necessità. Non volete sentirvi dire che Israele ha creato Hamas? Va bene, e del resto non ci sono le prove, ma dopo tanti anni non ha nemmeno più molta importanza chi l'abbia creato: qualcuno comunque ha consentito che prendesse il potere in una striscia di terreno sovrappopolata e recintata da ogni lato, e di certo non è stata l'ANP. Qualcuno ha pensato che piuttosto di cercare una pacificazione coi palestinesi, attraverso una strada che a nessuno è mai sembrata facile, si poteva invece dividerli e lasciare che in certe sacche i più radicalizzati e indifendibili prendessero il sopravvento. Questo non avrebbe mai garantito agli israeliani l'incolumità che si godono i cittadini di un Paese in tempo di pace, ma li avrebbe confortati nell'idea che la guerra che era necessario protrarre in eterno era una guerra giusta, combattuta dall'esercito più morale del mondo per difendere lo Stato che vince sempre ma che ogni razzo artigianale minaccia nella sua stessa esistenza. E poi dicevo un'altra cosa, che a distanza mi colpisce: che la Striscia era un esperimento, e che se avesse avuto successo – e stava avendo successo – non sarebbe passato molto tempo prima di ritrovarcelo in altre situazioni. Il che non significa che Kossovo e Donbass, per fare due esempi europei, non siano situazioni dove la guerra a bassa intensità può diventare lo status quo; ma che può succedere e in parte dipende da noi, dalla nostra attenzione, dalla nostra consapevolezza. 

Ora, quello che sta succedendo è atroce, ed è difficile immaginare che non porti nei tempi brevi ad atrocità ancora peggiori. Ma se per la prima volta dal 2005 i miliziani di Hamas danno l'impressione di avere davvero fatto qualcosa che Israele non si aspettava, forse almeno tante vittime significano che l'esperimento Gaza è fallito. La violenza che ha prodotto, la crudeltà che ha partorito, è qualcosa che Israele non riesce più a contenere: per farlo dovrebbe superare il nemico in crudeltà e forse non può farlo, perché Hamas prende ostaggi e perché Israele, malgrado tutto, è ancora una democrazia. I falchi nel 2005 hanno avuto un'idea; per qualche tempo è sembrata funzionare, e chi ne parlava male un pericoloso antisemita. Dopo quasi vent'anni, l'idea si svela per il congegno aberrante che è: chi l'ha voluta è morto, chi l'ha portata avanti è vecchio è odioso; Israele è uno Stato di giovani, e i giovani se una cosa non funziona di solito la cambiano, non ci si intestardiscono fino a morirne. Forse sto sperando in questo.

domenica 8 ottobre 2023

Tre Pelagie intorno al cuore

 8 ottobre: Sante Pelagie di Antiochia, di Gerusalemme, facciamo anche di Tarso


Per carità, non voglio insegnarvi il mestiere,
ma io avrei inserito il condannato a morte
prima di accendere il fuoco.

A volte è tutta una questione di nomi. Qualcuno decide che ti chiami in un modo, ad esempio Pelagia, e tempo un paio di secoli finisci sul calendario in un tal giorno, un giorno che non dice nulla della tua vita, ma è il giorno in cui hanno ucciso un'altra Pelagia e chi scrive i calendari le ha confuse, o semplicemente ha deciso che quello è il giorno in cui si festeggiano tutte le Pelagie e amen. Oggi appunto è il giorno delle tre Pelagie, anche se i lettori più sgamati ci aspettano già al varco per ricordarci che no, Pelagia di Tarso non si festeggia l'otto ottobre, bensì il 4 maggio. In effetti in Occidente è così, ma nei sinassari bizantini era ricordata anche lei nella data di oggi, come la piacente fidanzata del figlio di Diocleziano che convertendosi repentinamente al cristianesimo ne causa il suicidio; al che l'imperatore, divorato dalla rabbia, avrebbe dichiarato guerra a tutti i cristiani. Come ben sappiamo ne fu infatti il principale sterminatore: e lo sterminio sarebbe cominciato dalla stessa Pelagia di Tarso, che Diocleziano avrebbe fatta chiudere in un toro di Falaride. Cosa sia il toro di Falaride non devo certo spiegarlo a voi, egregi lettori ed ex studenti dei licei che il mondo intero ci invidia – fermi lì, non googlate, stavo scherzando, ve lo racconto in breve: è un leggendario strumento di supplizio, una delle idee più orrorifiche che ci siano arrivate dai cronisti antichi, tale da aver impressionato lo stesso Dante che lo menziona nell'Inferno. Ne parla per primo Diodoro Siculo: Falaride è il tiranno di Agrigento a cui l'inventore Perillo o Perileo sottopone il progetto di questo grande toro di bronzo in cui inserire i condannati a morte per arrostirli. Perileo ha pensato a tutto, compreso un sistema interno di amplificatori per trasformare le grida dei suppliziati nei versi di un toro, e un incensiere per evitare che l'odore di barbecue diventi eccessivamente acre. Falaride sembra intrigato dall'idea e dà a Perillo il via libera per costruirlo, ma quando il toro è pronto ordina che sia lo stesso Perillo a entrarci per il collaudo. Al termine del supplizio, disgustato da tanta crudeltà, fa gettare il toro in mare: ma ormai è troppo tardi, l'idea del toro ci è rimasta in testa e se ne resterà per sempre in qualche angolo, tra le storie d'orrore che non riusciamo dimenticare. Da quell'angolo la deve avere ripescata l'anonimo autore della passione di Pelagia di Tarso, per terminare una leggenda che sembra voler mettere assieme frammenti delle altre due Pelagie che si festeggiano oggi: una vergine suicida e una ballerina pentita.

Di tutta questa abbondanza di Pelagie l'ultima edizione del Martirologio Romano ricorda soltanto quella "ad Antiochia in Siria, vergine e martire, che san Giovanni Crisostomo esaltò con grandi lodi": riferimento più elusivo del solito, dal momento che l'omelia del Crisostomo descrive un vero e proprio suicidio volontario. Pelagia, quindicenne di nobili natali, riceve la visita di una pattuglia di soldati che sono venuti ad arrestarla su ordine del procuratore, con l'accusa di cristianesimo; li accoglie con la cortesia tipica dei martiri che stanno per essere tratti in carcere, chiedendo soltanto qualche minuto per cambiarsi d'abito; ma è solo un pretesto per salire al piano di sopra e buttarsi. Ecco, è precisamente il tipo di storia che il Martirologio Romano contemporaneo preferisce non riportare. Nei secoli successivi gli agiografi sentiranno sempre più l'esigenza di distinguere tra volontà di martirio e azioni suicidarie, evitando il più possibile di menzionare casi in cui è il santo stesso l'esecutore materiale del proprio martirio; la morte, per quanto invocata e desiderata, deve sempre giungere dalle mani di un nemico della fede. Il Crisostomo si fa meno problemi: dà per scontato che le torture in cui sarebbe incorsa la giovinetta ne avrebbero compromesso la verginità, e di fronte a un'eventualità del genere trova non solo giustificabile ma eroico il gesto di gettarsi da un terrazzo. E benché la situazione di partenza sia quella che abbiamo trovato in centinaia di leggende medievali (i miei lettori più sgamati avendo già compulsato centinaia di leggende medievali), l'episodio tratteggiato è molto più crudo e dà l'impressione di essere stato ispirato a un reale fatto di cronaca; il Crisostomo avrebbe potuto inventarsi le avventure di una di quelle sante infrangibili, che resistono a ogni tipo di tortura, e che non vengono violentate neanche quando le si getta in un bordello di marinai, ma non lo fa. Pelagia di Antiochia è solo una ragazza che se la vede brutta e compie un gesto disperato. 

Pelagia di Gerusalemme, viceversa, è un personaggio leggendario, se non già romanzesco. Anche di lei ci parla per la prima volta il Crisostomo (il che può aver causato la confusione), ma in un'altra predica e senza mai chiamarla per nome. La definisce senza mezzi termini una poco di buono, ballerina o commediante, insomma un'entraineuse che rovinava le famiglie e viveva con dissolutezza, pure lei ad Antiochia benché fosse di origine fenicia: del resto ormai abbiamo capito che la metropoli siriana era la Las Vegas del periodo: non sorprende che attirasse le artiste e performer più notevoli. Costei a un certo punto si era convertita, diventando una campionessa della fede e della penitenza quanto prima lo era del vizio, e aveva finito i suoi giorni in un umile monastero. Da questo soggetto, uno scrittore più tardo, tale Giacomo di cui non conosciamo nient'altro se non il nome (e anche di quello dubitiamo), compone una leggenda più movimentata in cui l'entraineuse viene convertita da un vescovo, Nonno, e si ritira in un eremo a Gerusalemme, nei pressi del Monte degli Ulivi, travestendosi da monaco per non attirare l'attenzione. Lo Pseudogiacomo chiama la sua eroina Pelagia, benché la sua storia difficilmente potesse conciliarsi con quella della vergine precipitata; è più probabile che avesse in mente la leggenda di Marina di Bitinia, che si era travestita anche lei da uomo per entrare in un monastero; del resto "Pelagia" in greco significa proprio "marina". 

Il personaggio più memorabile è il vescovo Nonno, persona di rinomata santità, che converte la meretrice. Era un vescovo di passaggio, ad Antiochia per un sinodo, e quando in mezzo a tanti pii colleghi la vede passare a cavallo di un asino "vestita d'oro soltanto" (ma nemmeno così tanto), è l'unico della compagnia a non nascondere la testa tra le mani o nel breviario. Nonno la ballerina la guarda, eccome: sia mentre sta passando, sia quando è già passata. Dopodiché, con l'innocenza dei santi, chiede ai colleghi: ma avete visto che roba? Gli altri vescovi non sanno cosa rispondere (anche perché in effetti non hanno visto molto). Nonno invece è talmente santo da poter guardare la ballerina senza indulgere nella concupiscenza ("ego valde delectatus sum, et placuit mihi pulchritudo ejus"); a colpirlo è soprattutto l'impegno con cui la professionista si trucca e si veste per piacere al suo pubblico ("quantas horas fecit in cubiculo suo haec mulier, lavans et componens se, cum omni sollicitudine animi et intentione ad spectaculum ornans se, ut corporali pulchritudini et ornatui nihil deesset"). E noi ministri della fede, si domanda Nonno, ci impegniamo altrettanto per raggiungere la sposa immortale che ci è promessa nell'Aldilà? Non è una domanda retorica, Nonno si chiede sinceramente se si impegna nell'apostolato tanto quanto Pelagia si impegna nel meretricio. Il narratore è testimone diretto di una notte di tormenti e preghiere, che culmina in un sogno; Nonno racconta di aver sognato una colomba nera di fuliggine appollaiata sull'angolo dell'altare maggiore. Dopo averla presa nelle sue mani, Nonno riesce a riportarla al candore originale. Convinto che il sogno sia di buon auspicio, Nonno arriva in chiesa e attacca con la migliore predica della sua vita. Quella domenica è talmente ispirato che convertirebbe i sassi, anzi converte la stessa Pelagia che si ferma fuori dalla porta ad ascoltarlo, e poi manda i suoi servitori a chiedere udienza. Nonno, abbiamo visto, è privo di ogni malizia ma non è stupido, e accetta di vederla soltanto davanti ai suoi colleghi, che testimonieranno della sincerità del pentimento. Una volta battezzata, Pelagia dona le sue ricchezze alla Chiesa e poi scompare; l'autore sostiene di averla ritrovata anni dopo in un eremo a Gerusalemme, nei pressi dell'orto degli Ulivi, riverita e rispettata dai locali che però la chiamano Pelagio e non sospettano minimamente che si tratti di una donna. In effetti è come se avesse smesso di esserlo. Come nel caso di Marina, lo svelamento avviene soltanto dopo la morte, quando altri monaci vengono a trattare il corpo con la mirra. Pelagia è patrona di tutte le donne bellissime che prima ci fanno perdere la testa e poi la mettono a posto prima di noi, sicché ci precedono pure nel Regno dei Cieli dove, se mai risulteremo nella lista per entrare, possiamo essere sicuri che non ci fileranno di striscio; Nonno invece è il patrono di quel tipo di persona che quando vede una trave nell'occhio del prossimo, pensa: però guarda com'è bravo lui a tenere la sua trave, che stile, che personalità, mentre io con la mia pagliuzza non mi so proprio gestire, son sempre lì che mi stropiccio gli occhi – And I have known the eyes already, known them all.

martedì 3 ottobre 2023

Petronio, un patrono insoddisfacente

4 ottobre: San Petronio (V secolo), deludente patrono di Bologna

Oh ma vi sembra una roba da mostrare ai turisti,
ma ripigliatevi.

Si sa che alle ossa di un santo possono capitare le cose più strane, ad esempio quelle di San Petronio furono testate come parafulmine: siccome la Torre degli Asinelli sembrava particolarmente bersagliata  dalle scariche elettriche del cielo – il che poteva riflettere una certa insofferenza di Nostro Signore per la città universitaria – i bolognesi provarono a mettere un po' di resti di Petronio in cima alla torre, sperando che Domineddio avrebbe usato da quel momento in poi un po' più di riguardo. Sì, se uno ci riflette non ha senso neanche dal punto di vista di un credente, cioè se Domineddio è arrabbiato con una città, mica gliela fate passare con le reliquie – però oh, ci hanno provato, i bolognesi con l'elettricità non lasciano nulla di intentato, le rane di Galvani ne sanno qualcosa. 

Funzionò? Ovviamente no. Del resto Petronio, come santo patrono, ha sempre lasciato a desiderare: questa cosa i bolognesi non ve la diranno mai, non ne parlano volentieri, hanno tutta una reputazione razionalista da difendere. Tuttavia è un'evidenza che trasuda dai fatti: Petronio è il santo che si sono scelti, rintracciandone i resti e plasmandone la storia, nella speranza che intorno alla sua augusta figura la città potesse trovare una sua autonomia, magari addirittura un'indipendenza. Ha funzionato? Decisamente no. Dal medioevo, Bologna è la più grande città italiana che non è mai stata capitale di nessuno Stato o signoria, nemmeno di sé stessa. Di Petronio, ottavo vescovo della città, si conosceva quasi soltanto il nome quando i suoi resti furono rinvenuti dai monaci benedettini nel complesso di Santo Stefano. Ma il ritrovamento avvenne in un periodo cruciale, a metà del Millecento: ogni città italiana si stava costituendo in Libero Comune e il ritrovamento di Petronio offriva ai bolognesi l'opportunità di stringersi intorno a un santo autoctono, ancorché probabilmente originario delle Gallie. 

Questo è un "videomapping" e forse ci fornisce una chiave:
se i bolognesi la finissero, dovrebbero poi ammettere che non è la più bella,
che in giro ce n'è di migliori.

Qualche volenteroso scrittore senza troppe preoccupazioni per le fonti, a Bologna non ne mancano, ne scrive un'agiografia che lo rende il rifondatore della città: cognato dell'imperatore Teodosio, nominato vescovo di Bologna da papa Celestino, Petronio avrebbe trovato la città distrutta dalle invasioni barbariche e si sarebbe dedicato alla sua ricostruzione; non solo edificando Santo Stefano come "Santa Gerusalemme", sul modello del Santo Sepolcro, ma ampliando le mura e ottenendo dal cognato imperatore una larga autonomia amministrativa e addirittura il permesso per costituire uno Studium, cioè l'università – insomma non era ancora il Milleduecento e già i bolognesi smaniavano di sostenere che la loro università fosse la più antica del mondo.

Petronio sta già iniziando a incarnare un certo orgoglio cittadino, quando a metà del Duecento il Comune di Bologna lo nomina patrono ufficiale. Potrebbe sembrare una mossa scontata – insomma è il vescovo più antico di cui si sono trovate le ossa, nientemeno che a Santo Stefano – e tuttavia fino a quel momento il patrono di Bologna era San Pietro, a ricordare perpetuamente ai bolognesi che la città non era che una dipendenza di Roma. Benché al tempo fosse più grande, più ricca, più dinamica, ma niente da fare: Bologna è sotto Roma, fine delle discussioni. Ai bolognesi viceversa piace discutere, così proprio quando la stagione dei comuni è agli sgoccioli decidono di erigere in onore di Petronio la più grande basilica del mondo, qualcosa che faccia impallidire non soltanto la cattedrale di San Pietro a Bologna – che resterà la chiesa vescovile – ma la stessa San Pietro di Roma, del resto al tempo parecchio malandata. Una mossa sfrontata: funzionò? 

Il modellino di Arriguzzi, ovvero come se l'immaginavano nel Cinquecento
(quando comunque non avevano i soldi per finire il pezzo già costruito).

Assolutamente no: del resto è molto difficile costruire la più grande cattedrale del mondo in una città dove comandano i legati papali, che ogni tanto ti sequestrano marmo e legname e lo rivendono; oppure fanno costruire l'Archiginnasio dove il progetto iniziale faceva passare il transetto. San Petronio non è l'unica cattedrale che ha richiesto secoli per essere terminata, ma a differenza mettiamo di Milano, che sfoggia  una facciata gotica fatta nell'Ottocento, e sul retro certe guglie tagliate col laser, San Petronio è rimasta bloccata, vittima della sua stessa arroganza: doveva essere la più grande chiesa del mondo, non c'è riuscita manco per sogno, e si è irrigidita nel suo ruolo di più grande incompiuta, con quella facciata che tira un pugno nell'occhio di qualsiasi turista abbastanza sincero con sé stesso per ammetterlo, una roba che ti fa pensare beh facciamo una colletta: quanto costerà finirla? Ma no, i bolognesi dicono di preferirla così, fotografata nel momento esatto in cui finì il marmo. San Petronio non sarebbe stato d'accordo, a leggere le agiografie era uno che le costruzioni preferiva finirle... Ma già, le agiografie sono tutte inventate.

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