Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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domenica 26 maggio 2024

Dante a scuola non è obbligatorio

L'insegnante di una scuola media trevigiana ha esentato due studenti musulmani dallo studio della Divina Commedia. In una riga, la notizia è questa. Sembra inventata apposta per discuterne, a lungo, e invano, in attesa di qualche altro spunto altrettanto pruriginoso. Quel che segue è un tentativo di segnalare i rami secchi della discussione, quelli che non porteranno da nessuna parte e che, se potessi farlo, andrei personalmente a segare ovunque spunteranno, sui media e sulle piattaforme sociali. 

– La scuola media (secondaria di primo grado) è un luogo che tutti crediamo di conoscere e che invece nessuno sa com'è fatta. Non lo so nemmeno io che ci lavoro dentro, per via che ogni scuola riflette una situazione molto particolare, che cambia in fretta. Faccio fatica a capire cosa succede in altri corsi della mia stessa scuola, per cui non credo di poter farmi facilmente un'idea di quale sia la situazione che ha portato in un altro quartiere di un'altra città un insegnante a porsi il problema, a confrontarsi coi genitori e a prendere una determinata decisione. Prima di esprimere un giudizio dovrei come minimo parlarne con lui, sentire il suo parere – e possibilmente anche quello di altri osservatori diretti. I giornalisti dovrebbero fare questo, secondo me: andare a cercare insegnanti, studenti, genitori in grado di restituirci almeno un pezzo del contesto; invece salta fuori che dal tavolino di casa devono aizzare le vostre paure e suggerirvi che l'occidente è minacciato da fanatici che non vogliono leggere l'Inferno di Dante (e in compenso a quanto pare leggeranno qualche pagina in più del Decameron, non esattamente un testo di propaganda islamica). 

– Una parte del contesto che ci sfugge, e che è cruciale, è il grado di alfabetizzazione degli studenti in questione. Ai giornalisti sembra sufficiente ricordare che sono musulmani, come se tutti gli studenti musulmani italiani (centinaia di migliaia) arrivassero allo stesso livello di conoscenza della lingua italiana nel medesimo momento: e invece no, abbiamo musulmani nati in Italia e perfettamente integrati già alla scuola primaria, abbiamo altri musulmani nati in Italia ma che non parlano italiano in casa, e altri appena arrivati che non parlano nemmeno la stessa lingua di altri musulmani nella stessa classe. L'Inferno è scritto in un italiano del Duecento che crea difficoltà anche agli italofoni laureati. Certo, puoi sostituirlo con una parafrasi. Se proprio t'interessa il contenuto, più della forma. Ma è da qualche secolo che abbiamo deciso esattamente il contrario: se togli il contenuto dalla forma, ti restano le elucubrazioni bassomedievali di un tizio che vagheggiava un Impero universale, che riteneva giusto che i non credenti fossero torturati per l'eternità, il cui poema consiste in una colossale lista dei Buoni e Cattivi stilata da lui, con tanto di premi per i buoni e torture per i Cattivi. Se proprio insisti a insegnare la Commedia a un ragazzino che non sa ancora bene l'italiano, devi semplificare di molto il messaggio, fino al punto che il messaggio potrebbe ridursi davvero a questo: se t'innamori vai all'inferno, se sei musulmano vai all'inferno, se mangi i tuoi figli vai all'inferno. A quel punto meglio leggere Boccaccio, davvero. O Baricco, e non lo dico da estimatore.

– Quello che ha fatto, l'insegnante aveva tutto il diritto di farlo. Dante alle medie non è obbligatorio; mi domando se lo sia mai stato. Ricorderemo ai lettori increduli, per l'ennesima volta, che "i programmi scolastici" non esistono; ove per "programmi scolastici" si voglia intendere un canone di testi e autori obbligatori nella scuola dell'obbligo. Non è che un canone italiano non esista, e non abbia contorni perfino troppo definiti (Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso, eccetera): ma non si è imposto per legge o circolare ministeriale. In caso contrario immaginatevi cosa starebbe succedendo oggi, con questo governo. 

– Non solo è possibile completare serenamente il primo ciclo di istruzione senza aver mai aperto una pagina di Dante, ma non è affatto escluso che sia meglio così: perlomeno se lo chiedi a un insegnante del secondo ciclo, in nove casi su dieci ti scongiurerà di lasciar perdere Dante, lasciar perdere Manzoni e tutta la Storia della letteratura; che insomma sarebbe meglio che a dodici anni i ragazzi imparassero l'italiano su testi più adatti alla loro età. È un punto di vista che sostanzialmente condivido, anche se poi nelle mie classi di solito apro Dante, persino Petrarca, persino Ariosto – ma sempre sentendomi un po' in colpa, come l'insegnante che preferisce parlare delle proprie passioni che delle cose che più appassionerebbero i ragazzi. Diciamo che per un'ora alla settimana preferisco parlare di cose che conosco e che frequento bene, piuttosto di cose che i ragazzi farebbero meglio a scoprire da soli. Diciamo anche che mi fido di me, della mia capacità di introdurre Dante senza correre il rischio che qualche ragazzino trattenga le informazioni sbagliate e racconti in casa che la terra è al centro dell'universo, e ancora più al centro c'è Lucifero che divora i peccatori. E che forse mi sbaglio, perché di ragazzini ne ho avuti tanti e mica tutti li ho capiti, mica tutti potevano capire me.

– Malgrado l'infosfera faccia il possibile per convincerci che ogni notizia sia davvero "nuova", per tenerci in un eterno presente in cui il nostro stile di vita è perennemente minacciato, perennemente sul punto di cedere a un'improvvisa avanzata islamica e/o woke, noi dell'opportunità di studiare Dante discutiamo da decenni e non sto esagerando: ho in archivio un pezzo del 2012, scritto meglio di questo perché era per l'Unita.it. Piccola curiosità: a quel tempo a sollecitare la discussione era Gherush 92, un "Comitato per i diritti umani" di evidente ispirazione ebraica: e infatti in quel caso la Commedia era definita un testo antisemita. Invece qualche mese fa, durante la campagna femminista #unite #rompiamoilsilenzio, due scrittrici pensarono che fosse il caso di denunciare "il sessismo, i pregiudizi di genere" nei manuali di Storia della letteratura, ma anche nella Storia della letteratura tout court, Commedia inclusa. Un intervento che al tempo mi lasciò perplesso, se non altro perché a ogni capoverso le stesse autrici sembravano pregare di non essere prese troppo sul serio: "Certo" scrivevano proprio dopo aver accusato Dante di sessismo, "la realtà dei testi e del loro contesto sarebbe più complicata di così, ma quello che rimane..." ecco, il problema è sempre questo: io posso anche provare a introdurre la Commedia ai dodicenni come l'oggetto complesso che è, ma cosa rimane?

– Ogni volta che qualcuno vi stuzzica un senso di indignazione minacciando la cancellazione della Commedia, fate questo test: trovate irritante un musulmano che non vuole studiare Dante? E se fossero gli ebrei di Gherush 92, vi irriterebbe ugualmente? E se fosse un collettivo di femministe? Il test potrebbe aiutarvi a capire il vostro contesto: cosa sareste disposti a rinunciare pur di salvare il fondamentale studio di Dante? Nel 90% dei casi temo si tratti della convivenza con la comunità islamica, una delle minoranze numericamente più importanti in Italia, che non ha rappresentanza giuridica e fiscale, i cui membri vengono trattati da ospiti temporanei benché spesso siano cresciuti qui e la Costituzione preveda che abbiano gli stessi diritti di Ernesto Galli della Loggia che crede che difendere l'Occidente e lo sterminio di Gaza sia la stessa cosa. Perché non abbiamo un simile fanatico musulmano a scrivere fanatismi analoghi su un'altra colonnina dello stesso quotidiano? Lo so che è una domanda retorica, ma vi rendete conto che un musulmano avrebbe lo stesso diritto costituzionale di GdL di intrattenerci con analoghe scemenze, che magari intercetterebbero un pubblico più vasto dei liberaloidi fulminati sulla via di Gerusalemme? Ce la fate ad accettare che i musulmani non sono ospiti ingrati; che hanno lo stesso diritto di vivere qui che avete voi, e che ci resteranno? 


– Chi parla di cancel culture, nel 90% dei casi esagera. Non siamo negli USA, non stiamo togliendo Dante dalle biblioteche scolastiche – e anche negli USA, non stanno tutti togliendo Mark Twain dalle biblioteche scolastiche. Chi sollecita a turno queste discussioni non vuole cancellare: vuole modificare il contesto che per amor di polemica finge di ignorare. Gerush 92 non voleva impedirci di studiare Dante, ma chiedeva al ministero di "inserire i necessari commenti e chiarimenti", come se nei manuali non ci fossero già: in controluce si stava proponendo come autorità in grado di suggerire questi "commenti": stava lottando per conquistare una visibilità e un'autorità. Le femministe non smettono di ricordarci che non vogliono cancellare Dante o Ariosto: ma vogliono dettare le condizioni; non solo denunciare il contesto, ma metterci sopra una bandierina. "La cancel culture si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l'obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l'obiettivo".

– L'unico ramo probabilmente non secco di questa discussione è la domanda che lascia in sospeso. I musulmani non vogliono leggere Dante? Ok, non è che abbiano tutti i torti. Gli ebrei trovano Dante antisemita? Eh, dagli torto. Le femministe lo trovano discutibile? Hanno decine di motivi per farlo. E noi? Perché pensiamo che valga ancora la pena di leggerlo, a scuola e altrove? Io risposte qua e là ne ho già date: ovviamente riguardano me, e al massimo i miei poveri studenti. Ognuno deve trovare le sue. 

giovedì 23 maggio 2024

Il santo che perse la testa (e la raccolse)

23 maggio: Santo Desiderio di Langres (terzo secolo), che perse la testa e la raccolse.

Desiderio è uno dei santi cefalofori, ovvero "portatori di testa": quei martiri che, una volta decapitati, raccolgono il capo con le mani e lo conservano per qualche tempo, di solito per portarlo nel luogo della sepoltura. Di santi così ce n'è parecchi: quando un secolo fa il folklorista Émile Nourry provò a contarli, ne trovò 134 soltanto nella letteratura agiografica di ambito francese. E per quanto non manchino esempi italiani (Emidio d'Ascoli, Donnino di Fidenza, Giusto di Novalesa), il cefaloforo più famoso è senz'altro Dionigi, vescovo di Parigi, decapitato a Montmartre, che con la testa in mano arrivò fino all'isola di Saint Denis. In questo e in altri casi, la leggenda può servire a conciliare due storie ambientate in luoghi diversi; a spiegare come mai certe ossa si trovavano in un certo luogo piuttosto che in un altro; e a ribadire che dovevano restare per sempre lì.

Il caso di Desiderio sembra ricalcato su quello del vescovo parigino: nato a Bavari, che oggi è un municipio di Genova ma ai tempi era tutta campagna, Desiderio avrebbe fatto carriera a Langres, citta della Gallia lugdunense (la Francia orientale), diventandone il vescovo. Come tale gli spettava l'incombenza di cercare di trattare con il re vandalo che stava invadendo la Gallia, ma la trattativa non avrebbe avuto il successo sperato, e Desiderio sarebbe stato decapitato fuori dalle mura di Langres. Lui però intendeva essere sepolto dentro le mura, e quindi la leggenda ci racconta che raccolse la testa e rientrò, attraverso una fessura nella roccia che si aprì in quel momento (e che a Langres sarebbe tuttora esposta ai fedeli, anche se su internet non trovo niente).

La leggenda è poco attendibile, per una serie di motivi: ad esempio nel III secolo i Vandali erano già bellicosi sì, ma a centinaia di miglia più a est, sul Danubio; il loro supposto re, Croco, era in realtà re di altre tribù che effettivamente invasero la Gallia ma un po' più tardi; e infine è molto improbabile che un vescovo possa raccogliere la propria testa dopo la decapitazione. Siccome poi questo dettaglio è assente da una prima leggenda composta da un certo Varnacario nel VII secolo, il sospetto è che in questo come in altri casi la cefaloforia abbia un'origine per così dire didascalica, ovvero che si tratti di una storia nata per commentare un'immagine in cui il vescovo era ritratto con la testa in grembo: il che fino a un certo punto non significava che l'avesse raccolta davvero, ma che la mostrava ai fedeli e a Dio come segno del suo martirio, allo stesso modo in cui in certe raffigurazioni medievali e moderne i martiri esibiscono le loro mutilazioni, Lucia gli occhi, Agata i seni, Bartolomeo la pellaccia, eccetera: da questo punto di vista è coerente che un decapitato mostri la propria testa, anche se i più famosi (San Paolo, San Giovanni decollato) non lo fanno.

Queste raffigurazioni hanno un certo successo, più di pubblico che di critica, nel senso che nessun maestro del colore ha mai dipinto un cefaloforo interessante: è piuttosto quel tipo di immagine bizzarra che andava forte tra le guglie delle cattedrali gotiche, dove la gente cercava i mostri. A un certo punto qualche predicatore o guida turistica medievale deve aver cominciato a intrattenere i turisti/fedeli dando un significato storico a quella che in origine era un'immagine simbolica: non è un santo che mostra il suo martirio a Dio, ovvero sì, ma è anche un santo che davvero resse la sua testa in mano dopo che gliel'avevano tagliata.

Altre ipotesi sulla cefaloforia cercano di ricollegarla a miti precristiani, il che sarà pur vero per almeno qualche caso su centinaia; magari in Irlanda, dove le tribù celtiche avevano la sinistra fama di cacciatori di teste. Ma di teste tagliate che piangono e sussurrano ce n'è in tutte le mitologie, al punto che già Aristotele, nel suo trattato di zoologia (De partibus animalium) si sentiva in dovere di debunkare l'idea che una testa umana potesse continuare a parlare dopo essere stata mozzata – come pure si leggeva nell'Iliade, e nel mito di Orfeo. Probabilmente all'origine c'è un'immagine traumatica, uno shock ancestrale: una testa appena tagliata è soggetta a spasmi muscolari che danno l'impressione che sia ancora cosciente: le palpebre non si chiudono subito, e l'aria che entra dal foro della laringe può far vibrare le corde vocali e dare l'impressione che la testa voglia ancora dire qualcosa. E non è escluso che per qualche istante la testa voglia davvero dire qualcosa. Per tre, quattro secondi massimo. Poi basta.

domenica 19 maggio 2024

Sono sicuro che avete già condannato l'aggressione

Non posso davvero definirmi un estimatore di Gabriele "Chef Rubio" Rubini: in particolare ho sempre trovato il suo attivismo filopalestinese caricaturale e autolesionista. Detto questo, nessuno merita di essere pestato a sangue per le proprie idee; tutte le aggressioni si condannano, sempre. 

Non ho nessuna prova per sostenere che i picchiatori fossero filosionisti – come quelli un po' inquietanti che abbiamo visto sfilare e lanciare bombe carta a Roma il 25 aprile, infamando la memoria e la bandiera dietro la quale si nascondevano – sono sicuro comunque che le comunità ebraiche abbiano già preso pubblicamente le distanze da un fatto così grave, dando così anche un messaggio importante a certi fiancheggiatori, anche loro più dannosi che utili alla causa che sostengono di difendere. Questo è almeno quello che farebbe qualsiasi persona intelligente, in una situazione del genere, e quindi non vedo l'ora di pubblicare qui sopra queste prese di distanza, queste ferme condanne. Appena le trovo. Ma ripeto, sono sicuro che ci sono. 

Nel frattempo un educatore algerino che da dieci anni lavorava in un liceo privato a Roma ha ricevuto una visita dalla Digos che ne ha perquisito l'abitazione e lo ha rinchiuso presso il terribile CPR di Ponte Galeria (a proposito del quale consiglio a tutti l'ottimo reportage di Chiara Proietti d'Ambra per la trasmissione 100 minuti). Sembra di capire che verrà rimpatriato in Algeria, per quale motivo? Perché ha inneggiato a Hamas in una chat privata. Il che evidentemente viola una legge dello Stato italiano, anche se non si capisce bene chi l'abbia scritta. Forse nessuno, ma nei fatti funziona. In questi mesi ho visto sulle piattaforme che frequento gli sfoghi più diversi, compreso diverse esortazioni al genocidio, fatte da brave persone oneste e diciamolo, bianche, che nessun agente Digos andrà a perquisire, e che nessuno porterà in un recinto dove vengono sospesi i diritti umani e civili. Io nel mio piccolo, se provo a pubblicare su Fb un report sul genocidio a Gaza, steso da fior di giuristi, vengo un po' penalizzato perché a quanto pare sto divulgando "Contenuti forti e violenti". Ci resto un po' male, ma poi penso che domani continuerò a svegliarmi nel mio letto, e che nessuno per ora mi aspetta fuori casa per sprangarmi, né devo temere bombardamenti, insomma sono talmente fortunato che dovrei vergognarmene.

mercoledì 8 maggio 2024

La Madonna che veniva dal letame

8 maggio: Madonna di Pompei, immagine miracolosa

Le Madonne in giro per il mondo potrebbero dividersi in due fondamentali insiemi: le apparizioni e le raffigurazioni. Può essere difficile distinguerle perché il culto tende a eliminare la differenza: dove appare una Madonna, presto o tardi viene prodotta un'immagine, la quale in certi casi si lega all'apparizione al punto che i fedeli danno la sensazione di attribuire i miracoli più all'immagine che all'apparizione. Però in certi casi l'apparizione proprio non c'è, o viene inventata a posteriori (probabilmente è il caso della Vergine della Guadalupe): quello che all'inizio stimola il culto è una raffigurazione alla quale vengono attribuite proprietà miracolose. Una caratteristica peculiare di quasi tutte queste raffigurazioni è che sono in un qualche modo rovinate: a volte si tratta di relitti rinvenuti dal mare (come la Madonna Candelaria delle Canarie, o la Vergine dell'isola di Barbana). Si tratta di manufatti che sorprendono chi li trova, scolpiti o dipinti in stili sconosciuti che alludono a luoghi lontani e inimmaginabili – una madonna nera in Polonia, una bianca in Giappone. Il loro stesso rinvenimento ha qualcosa di miracoloso, un segno di Maria dallo spazio profondo. Questo spiega anche perché nell'età moderne questa tipologia di Madonne sia diventata più rara (senza sparire del tutto): man mano che il mondo si faceva più piccolo e interconnesso, scoprire madonne diverse e sconosciute diventava più difficile, tant'è che a partire dall'Ottocento Maria comincia a sentire l'esigenza di apparire direttamente ai fedeli. E però ogni tanto qualche Raffigurazione miracolosa continua a spuntare qua e là, sempre grazie ad avvenimenti fortuiti che scatenano un corto circuito: ad esempio a Sant'Anastasia (NA) un'immagine non molto riuscita della vergine si impone al culto dopo essere stata ammaccata da un giocatore di pallamaglio: un caso che sembra suggerirci che l'imperizia di un artista non basti. Perché un'immagine s'imponga alla venerazione deve intervenire qualche forma di danneggiamento più o meno volontario. Ed eccoci al caso della Madonna di Pompei. 

Una delle più famose madonne dell'Italia (e quindi della cristianità), ma anche di quelle più documentate: proprio alle pendici del Vesuvio, che è il vulcano più studiato del mondo, troviamo questa raffigurazione miracolosa di cui sappiamo apparentemente tutto: quando arrivò in loco (13 novembre 1875) e chi ne fondò il culto: il possidente Bartolo Longo, benefattore dai trascorsi bizzarri. Da giovane, ci raccontano gli agiografi, avrebbe aderito a una vera e propria setta satanica (o almeno satanica gli era parsa dopo essersene allontanato), diventandone un sacerdote e rimediandone una depressione causata forse anche dalla dieta che gli adepti si autoimponevano – sì, di tutti i satanisti al mondo Longo era riuscito a trovare quelli che digiunavano invece di gozzovigliare: che senso ha, vi chiederete, e forse se l'era chiesto pure lui, prima di incontrare i domenicani che lo avevano rapidamente convertito. 

Dove scopriamo che il satanismo
faceva almeno dimagrire.
Anche le religioni si possono dividere in due fondamentali insiemi: quelle che ti apprezzano così come sei, e quelle che ti propongono un percorso di conversione. Ma cosa vuol dire convertirsi, chiede il fariseo Nicodemo a Gesù: devo forse rientrare nel grembo di mia madre e rinascere? (Giovanni 3,4). Gesù risponde tirando in ballo lo Spirito, per cui non è che sia molto chiaro, ma la parola "conversione" forse dice tutto: non si tratta di svegliarsi diversi, ma di cambiare direzione al getto di vita che portiamo con noi. Longo era stato un satanista spiritato (o uno spiritista assatanato), e nel Rosario forse trova la stessa fissità, la stessa ossessività: un mantra di 150 formule da ripetere sempre uguali. Mentre le reciti, la mente lascia il corpo e riflette sul suo destino. Cosa farà Longo ora che ha scoperto la Via, la Verità, la Vita, e inoltre ha ereditato una cospicua rendita? Si darà alla beneficienza: il napoletano è una terra feconda non solo di nobili esempi, ma anche di territori che di quegli esempi hanno ancora un disperato bisogno. Di lì a poco lo Spirito lo mette in contatto con una contessa appena rimasta vedova, Marianna Farnararo De Fusco, che condivide con lui la missione al punto che Longo la sposa: in questo modo evita di dare scandalo, ma si ritrova anche ad amministrare un latifondo ai bordi degli scavi pompeiani, di cui forse intuisce le potenzialità turistiche. Decide pertanto di costruirvi un santuario alla Madonna del Rosario, e l'intuizione è più che azzeccata:  il santuario diventa in breve una meta di pellegrini da tutt'Italia che possono avvalersi delle infrastrutture che stanno nascendo intorno al sito archeologico – o forse è il sito archeologico che aumenta il numero di visitatori grazie alle infrastrutture cresciute intorno al santuario? Insomma, nel 1901 a Pompei arriva una fermata della Circumvesuviana; non sono ancora così tanti i santuari religiosi raggiungibili in treno. Tutto qui, e forse è un po' poco, perché la Madonna di Pompei nasce proprio nel periodo più innovativo del marianesimo, il mezzo secolo tra Lourdes e Fatima in cui la Vergine si dà un sacco da fare, con apparizioni sparse per i pascoli di tutta l'Europa cattolica. Ma a Pompei no: rispetto alle altre Madonne coeve, quella pompeiana è molto più fedele al pattern delle raffigurazioni miracolose. Longo non assiste ad apparizioni mariane, bensì si imbatte in un quadro che si rivela ben presto in grado di effettuare prodigi. Ma perché ciò avvenga, occorre che sia stato rovinato e poi restaurato: almeno questa è la storia che gli agiografi raccontano. 

A Longo nel 1875 non mancava certo la liquidità, e a Napoli avrebbe sicuramente potuto trovare pittori in grado di produrre madonne di ottima fattura; persino a Pompei, dove la fame di souvenir dei turisti cominciava a richiamare artisti da tutto il regno, specializzati nel riprodurre gli affreschi antichi. Invece il domenicano padre Radente spinge Longo a bussare al Conservatorio del Rosario di Portamedina, dove suor Maria Concetta De Litala custodisce un vecchio dipinto che si rivela una crosta impresentabile: tarme, strappi, e inoltre la santa a cui la Madonna porge il rosario non è la domenicana Caterina da Siena, ma Rosa da Lima. Longo vorrebbe lasciarla lì, ma suor Maria Concetta insiste e così finisce per caricarla sul carretto. Questo carretto, gli agiografi ci tengono a ricordarlo, di solito trasportava letame: probabilmente trasportava qualsiasi cosa ci fosse da trasportare, ma in un qualche modo è importante ai fini della leggenda ricordare che la Madonna è arrivata a Pompei su un carretto del letame, quella cosa da cui nascono i fiori, comprese le rose (mentre dai diamanti non nasce niente). Una volta giunta a destinazione, Longo la fa restaurare da più specialisti: se ne avesse fatta fare una nuova gli sarebbe sicuramente costata meno, ma a questo punto abbiamo capito che è fondamentale che la Madonna venga da lontano, e abbia trascorsi misteriosi. Rosa da Lima diventa Caterina, e in breve la corona della Madonna comincia ad adornarsi di gioielli veri, donati dai pellegrini per grazia ricevuta. Nel secondo dopoguerra sono stati rimossi, perché contribuivano a deteriorare un dipinto che ormai è un palinsesto. Ma insomma: dal letame le rose, dalle rose i diamanti.

Intorno al volto incoronato della vergine compare un'aureola di dodici stelle, ripresa dal celebre passo dell'Apocalisse ("una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle"). Probabilmente l'autore dell'Apocalisse intendeva alludere alla Chiesa dei dodici apostoli o a Israele e alle sue dodici tribù; nel 1955 però una corona di dodici stelle viene proposta tra i bozzetti per il simbolo del Consiglio d'Europa: l'autore, Arsène Heitz, si dichiarerà in seguito fedele alla Madonna, ma probabilmente il richiamo alle dodici stelle era stato fortuito, se non pescato dall'inconscio. I membri del Consiglio d'Europa che approvarono il bozzetto ne ignoravano il riferimento mariano: e però per una coincidenza che delizia i commentatori cattolici, il bozzetto fu approvato proprio l'otto dicembre, festa dell'Immacolata Concezione. Invece domani è il 9 maggio, festa dell'Unione Europea, che dal Consiglio d'Europa riprese la bandiera.

lunedì 6 maggio 2024

Le classi differenziali esistono già


Le classi differenziali, vedo che se ne riparla. Se ne riparla per nessun motivo, o perché un tizio qualsiasi (un generale in congedo, ma poteva essere un doganiere in pensione, una commessa di tezenis in pausa pranzo) doveva trovare qualcosa da dire in campagna elettorale. Non che nessuno abbia veramente intenzione di spenderci qualcosa, che è l'unica cosa che dovremmo chiedergli, sempre: ah, vuoi istituire classi differenziali? E quanto ci costerebbero? Un po' brutale, mi rendo conto, ma è una domanda sufficiente a capire se chi chiacchiera ha intenzione di fare sul serio. Per cui in effetti è una domanda retorica: nessuno ha intenzione di fare sul serio. 

Le classi differenziali, uno di quegli argomenti che su questa pagina si ripropone sempre uguale – a riprova che nulla cambia, tranne me, e di sicuro non in meglio. Era uno dei punti su cui mi piaceva aprire fronti interni coi progressisti; poi siamo diventati così pochi che ho lasciato perdere, e tuttavia.

La gente ha sempre questo problema quando pensa alla scuola, che di solito pensa alla scuola che ha fatto lui. E in Italia siamo tutti vecchi, per cui pensiamo alla scuola che abbiamo fatto 40 anni fa. Era una scuola con tanti difetti, studiavamo "le guerre puniche tre volte", ma era già molto inclusiva, una delle scuola più inclusive al mondo, le classi differenziali erano state abolite, i ragazzi con disabilità erano integrati nelle classi e sostenuti da opportune figure di sostegno, e tutti eravamo sostanzialmente d'accordo che non solo riuscivano a integrarsi ma portavano alle classi qualcosa di più. Non era un modello perfetto ma era un modello per tutti i versi preferibile alle scuole differenziali.

Poi sono successe cose e molti non ne sono accorti, o hanno fatto finta di.

La cosa più importante è che sono arrivati molti bambini da famiglie di origine straniera che in casa non parlavano italiano. È stato un processo graduale ma rapido, e non uniforme ma a macchie di leopardo: per cui in certe zone no e in altre sì, in certi quartieri no e in altri sì. La scuola pubblica come ha reagito al problema? La scuola pubblica si è messa a cercare dappertutto risorse per l'alfabetizzazione, e un po' ne ha trovate, soprattutto presso gli enti locali che erano abbastanza vicini al problema da porselo anche loro. Al ministero invece no, non hanno proprio capito la cosa. L'importante era non creare classi differenziali perché le classi differenziali erano brutte, fine. Quando si faceva notare che una classe media col 50% di studenti ancora da alfabetizzare era, nei fatti, una classe differenziale, la risposta illuminata del ministero era: caliamo la quota, d'ora in poi non si possono fare più classi sopra il 20%, massimo 30%. Che è letteralmente proporre brioches a chi non ha il pane, una cosa che Maria Antonietta non ha mai fatto, ma Maria Stella Gelmini sì, e tutti i ministri successivi. Non ci hanno mai spiegato come restare in quota (fare più classi? Dove? Con chi? eliminare fisicamente gli alunni in eccesso? Produrne altri?): la mia scuola è in deroga da allora. 

Il risultato di tutto ciò è che il ragazzo disabile che oggi entra in una classe, a volte non entra in una classe che può trarre giovamento nel rapportarsi con la sua diversità, ma in un circo di fenomeni che sono già diversi per i fatti loro. Non irrelatamente, nel frattempo è esploso il fenomeno dei Disagio Scolastico Certificato: ovvero una serie di disagi che possono (non necessariamente) essere certificati da uno specialista e che per quanto Galli della Loggia ne sia ormai convinto, non prevedono l'assistenza di un insegnante di sostegno (altrimenti ne avremmo ormai 4 per classe), ma un piano di studio personalizzato. 

Quindi ora un insegnante, non dappertutto, soltanto in certe realtà, più facilmente urbane e settentrionali, si trova in una classe con 5-6 studenti che necessitano di un piano di studio personalizzato, 1-2 studenti disabili con sostegno e altri 5-6 studenti che non è che capiscano sempre quando parli in italiano. Tutto questo solo nella scuola pubblica, perché appena vai in una privata il problema scompare: non sono tenuti a ricevere quote di stranieri o disabili o disagiati. Il che significa che nel quartiere con la scuola privata il disagio si concentrerà ulteriormente nelle scuole pubbliche limitrofe, e se lo fai presente al ministro lui dice ok, diminuiamo la quota disagio, l'avete diminuita? No? Va bene allora diciamo che siete in deroga.

In mezzo a tutto questo un generale, ma potrebbe anche essere un capitano dei pompieri, un incantatore di serpenti, una pornocasalinga, si sveglia che è primavera e dice: servirebbero classi differenziali. E tutti a dire boooooh, ma come ti permetti, la scuola dell'inclusione, cosa direbbe Don Milani. Don Milani, che non brillava per diplomazia, temo che vi avrebbe mandato a cagare non più tardi del 2010. Gli unici a non booooohare sono guarda un po', i genitori, che la scuola la stanno vedendo un po' più da vicino e senza le lenti rosa della nostalgia. Tra loro anche i genitori di origine straniera che ci terrebbero al fatto che i loro ragazzi l'italiano lo imparassero un po', o al limite l'inglese, la matematica: ma in certe situazioni non è previsto, in certe situazioni è previsto che loro figlio fissi la parete per cinque ore senza nessun sostegno o nessuna risorsa per l'alfabetizzazione. Questa è la diversità che portano alla classe, questo è il prezzo che devono pagare per la vostra ipocrisia. 

Le classi differenziali esistono già: sono le classi dei quartieri difficili. E a questo punto ci starebbe bene una di quelle formule da youtuber o telegrammista impazzito, del tipo: lo Stato non vuole farvelo sapere. Tranne che non è vero: lo Stato ci tiene molto a farcelo sapere; lo Stato che non ha fondi da devolvere nel recupero degli studenti in difficoltà, ne getta a pioggia in strumenti come l'Invalsi che servono semplicemente a ricordarci che esistono scuole di serie A, B e Zeta. L'insegnante curriculare deve essere educato a considerare gli alunni disagiati come un disturbo, un ostacolo insormontabile tra l'Eccellenza che dovrebbe perseguire e la realtà in cui dovrebbe sbrigarsi a cercare una professione meglio remunerata. Negli ultimi anni siamo riusciti a mettere insieme il peggio della cultura cattolica (una generale diffidenza verso la cultura e le iniziative individuali) col peggio del calvinismo (un culto dell'élite che si autovaluta e si trova sempre molto meritocratica). L'idea ancora non esplicitata, ma tra un po' ci arriveremo, è che la scuola non serve a formare, ma a separare chi ha talento da chi proprio non ce la deve fare e dev'essere scaricato il prima possibile. In mezzo a tutto questo, un tizio si presenta le elezioni e invece di proporre qualche altra sciocchezza come legalizzare la prostituzione (è già legale), si fa venire in mente l'idea delle classi differenziali: che esistono già. È più furbo degli altri, o è solo meno ipocrita? Non lo so, non ha nessuna importanza. 

Potessi replicargli, gli chiederei semplicemente quali risorse ha intenzione di gettare sul piatto perché è l'unica cosa che mi interessa ormai, la vita mi ha reso cinico e venale: i soldi: intendi costruire scuole in più, aule in più, risorse per le classi differenziali? Docenti opportunamente formati, e come, e con che fondi? Dicci quanti soldi ci dai o stattene zitto finché non ti viene in mente una cifra, grazie.

mercoledì 1 maggio 2024

Il primo maggio è di Giuseppe

1° maggio: San Giuseppe Artigiano

Il primo maggio lo hanno inventato i lavoratori, non è chiaro quando ma più probabilmente nell'Ottocento e negli USA, durante le battaglie sindacali per le otto ore. Anche i lavoratori italiani cominciarono a festeggiarlo a fine secolo. La repubblica lo riconobbe come festa nazionale nel 1949, e a quel punto la Chiesa si pose il problema: cosa festeggiare? 

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Che non era affatto un problema futile od originale, anzi. Reinventare le feste è quello che la Chiesa ha fatto sin dall'inizio, prendendo una celebrazione ebraica (la Pasqua) e cambiandone il senso. Più tardi è successo con la festa del Sole Vincitore sulle tenebre, tre giorni dopo il solstizio d'inverno, divenuta il Natale di Gesù. Nel giro di qualche secolo quasi tutte le feste precristiane sono state trasformate in un qualche modo: si è salvato solo il Carnevale. Gli studiosi la chiamano inculturazione, ed è interessante notare che comporta sempre un compromesso con il rito pre-esistente: se nel tal giorno gli allevatori erano soliti sacrificare a un qualche dio gli agnelli che non aveva senso lasciar crescere, non valeva la pena di interrompere bruscamente l'abitudine: meglio insistere sul concetto che Gesù Cristo era l'agnello di Dio. Se i fedeli erano soliti inchinarsi al sole sorgente prima di entrare in Chiesa, inutile mettersi a litigare contro l'usanza pagana: meglio costruire le chiese orientate a oriente, così l'inchino l'avrebbero fatto davanti a Dio. Una fontana sacra poteva restare sacra: bastava consacrarla a Dio o a un santo che si degnava di apparire al pastore assetato. E così via. (Questo spiega anche l'aggressività della gerarchia cattolica nei confronti di Halloween, che in teoria sarebbe sempre Ognissanti: ma nel successo delle ritualità consumistiche che arrivano dal mondo anglosassone, i preti non possono non riconoscere un tentativo molto efficace di inculturazione. Hanno antenne lunghe per queste cose, che a noi laici sembrano sciocchezze ma che in effetti lasciano segni secolari e millenari).    

Come il Natale, come la Pasqua, anche il Primo Maggio doveva in un qualche modo venire assorbito dal cristianesimo: o meglio, la Chiesa doveva opporre alla liturgia socialista qualcosa di non troppo diverso, ma decisamente cattolico. Così San Giuseppe, che aveva già la sua giornata di rappresentanza il 19 marzo, fu convocato per la prima volta da Pio XII nel 1955, per un turno straordinario, in quanto San Giuseppe Artigiano. E pensare che non sappiamo neanche esattamente che lavoro facesse: il termine greco che compare nei Vangeli, tekton, poteva indicare un umile falegname ma anche un carpentiere o addirittura un impresario edile. La scelta di definirlo "artigiano", in un discorso pronunciato davanti ai rappresentanti delle ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), indicava una precisa scelta di campo: più che alla classe operaia, Pio XII guardava ai professionisti, al tessuto di quella che oggi chiamiamo Piccola-Media-Impresa: un manto di orgogliosi imprenditori presso sé stessi, la maggior parte dei quali nel 1955 dovevano ancora estinguere il mutuo sulla casa e le rate sulla macchina, dopodiché sarebbero definitivamente divenuti refrattari a qualsiasi scossa rivoluzionaria.

Giuseppe non è l'unico né il primo santo del martirologio a essere ricordato come lavoratore. In Spagna per esempio ha un certo seguito Sant'Isidro, contadino: il quale però è famoso proprio perché, fermandosi ogni tanto a pregare, lavorava un po' meno degli altri (senza che il datore di lavoro riscontrasse un calo di prestazioni). Si trattava comunque di figure di secondo piano: Giuseppe era l'unico personaggio universalmente noto, che potesse meritarsi una giornata di astensione dal lavoro. Ma proprio mentre scrivo questa cosa mi viene in mente San Paolo di Tarso, che oltre a predicare si considerava un gran lavoratore (aveva probabilmente ereditato un'attività di produzione di tende dai genitori, che forse erano fornitori dell'esercito romano). Paolo, quello che ai Tessalonicesi che aspettando il ritorno di Gesù da un momento all'altro avevano smesso ogni attività, scrisse seccamente: Chi non lavora non mangia. Anche lui sarebbe stato un buon patrono dei lavoratori, ma Pio XII scelse Giuseppe. Tra tanti santi, proprio quello noto per non aver mai detto una parola: almeno nei vangeli, dove il datore di lavoro gli impone un matrimonio e poi un trasferimento in Egitto, insomma dispone di lui come un vero padreterno, e del resto lo è.

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