lingue che si perdono
Aghju dettu altre volte chì a più gran disgrazia per un populu hè di perde a so lingua, perdita ancu più irreparabile chè quella di a libertà. A libertà si ripiglia Error! Hyperlink reference not valid. volta, mentre chì a lingua persa una volta hè persa per sempre…
Santu Casanova, scrittore corso (1850-1936)
Perdere una lingua è fastidioso, è triste, ma non è una disgrazia. Noi acquistiamo e perdiamo le lingue tutti i giorni.
I miei genitori non parlano italiano fra loro.
I miei figli probabilmente non lo parleranno.
Una lingua che comincia a difendersi, ad arroccarsi nei dizionari, nelle grammatiche, è già una lingua in procinto di morire.
Una lingua petulante, che pretenda di essere la lingua ufficiale di tale regione o nazione, è peggio di una lingua morta.
La lingua viva è quella che si inventa tutti i giorni.
Stavo lavorando al portale di una compagnia di traduzioni (e mi pagavano!)
RispondiEliminaL'ideatore del progetto aveva ragionato così: processando tutti i testi in lingua che si trovavano su internet liberi da coyright, il portale avrebbe avuto un repertorio fraseologico enorme. In pratica, si trattava di scremare da Internet tutto quello che non era "letteratura" (col senno del poi, il progetto è stato ampiamente scavalcato da Google).
In pratica passavo mattine e pomeriggi a rubacchiare letteratura on line, in tutte le ligue possibili e immaginabili (uno degli asset del progetto era il fatto di avere testi in qualsiasi lingua, klingon compreso, naturalmente: proprio come adesso wikipedia). E avevo trovato questo splendido sito dedicato alla letteratura in lingua corsa.
La mia antipatia per le letterature residuali e i poeti dialettali, sempre con l'aria di chi salva letterature importantissime e moribonde, datava da ben prima. Ma adesso avevo un blog. Mi torturava questa idea che la "libertà" per questi signori corsi dovesse per forza coincidere con la lingua dei padri: come se ai figli non spettasse alcuna scelta, a parte la lealtà o al tradimento.
I miei genitori non hanno mai voluto insegnarmi il dialetto, tutto qui. A volte mi dispiace, ma credo che abbiano fatto bene. Mio fratello, di dieci anni più giovane, il dialetto lo aveva imparato: tirava già un'aria diversa, anche i miei genitori tra '80 e '90 lo parlavano più volentieri. Non avevamo più vergogna del nostro passato.
Invece io, sotto sotto, credo che dovremmo sempre vergognarci. Anche se è stato un buon passato, non c'entra. L'unico modo di sopravviversi e adattarsi è cambiare, cambiare sempre. Tradire tutti, strappare le radici e via. Negli anni 90 lo chiamavamo "nomadismo intellettuale". Era la ricetta per chi non si trovava bene coi dialetti.