[Titoli di coda]
"Beh che bello! due ore e mezza mi sono passate in un attimo".
"Eh, è un film d'azione".
"Ma di solito i film d'azione non mi piacciono".
"No, è che di solito non li guardi".
Credo che se si potessero trasformare tutte le nostre recensioni di One Battle in linee grigie, e si potessero sovrapporre tutte queste linee in un campo semantico, nella regione nerissima di questo campo potremmo estrapolare la frase "mi è piaciuto tantissimo, ma non è un capolavoro", il che è interessante – perché un film che ci piace tantissimo non dovrebbe essere un capolavoro? Cos'è poi un capolavoro? Per gli americani, che tendono a ragionare per generi in quanto compartimenti stagni, è un genere come un altro. Un giorno hai voglia di vedere un horror, un altro giorno una commedia, un giorno un Capolavoro. È un genere praticato da determinati cineasti che devono cospargere i loro film di elementi distintivi, affinché sia chiaro a tutti che è un film del genere artistico, del genere capolavoristico, Woody Allen per farla breve li chiamava "film europei", e mi domando se lo abbiano mai informato del fatto che anche il 90% della cinematografia europea è robaccia senza pretese. I film-capolavori ultimamente li fa Lanthimos, però fino a qualche anno fa li faceva anche P T Anderson. Stavolta però la Warner lo ha coperto di denaro per fare un film d'azione, e Anderson l'ha fatto senza grossi problemi perché lui, a pensarci, è sempre stato uno che crede che l'azione possa sostituire la parola (tutti i cineasti dovrebbero esserlo, ma lui più di altri).
Il film "non è un capolavoro", non ci prova nemmeno, non presenta quegli elementi stilistici che ci dovrebbero pensare Ok è Arte, o almeno Ok è P.T. Anderson, il geniale regista del Petroliere eccetera. No, è una storia, abbastanza semplice, raccontata per immagini in movimento. Il fatto che possa avere alla fine un decente riscontro commerciale è una buona notizia per Hollywood, perché la Warner – che più di altre produzioni è rimasta impastoiata nel filone superomistico, senza quasi mai tirarci fuori i soldi che avrebbe dovuto tirarci fuori – per una volta ha provato a fare qualcosa di diverso: niente omini in costume, niente Proprietà Intellettuali da rispolverare e mungere fino all'esaurimento, bensì ha preso un Autore e invece di chiedergli: fammi le tue cose da Autore, fammi le tue solite robine firmate che magari mettiamo in coda al botteghino il 70% dei nostalgici di Magnolia, gli ha chiesto: hai una storia? Vuoi farci un film con un grosso budget, ovvero attori importanti (ma tutti un po' stagionati, quelli che sono riusciti ad aggirare il medioevo supereroistico), però di cassetta, senza personalismi, con un grande movimento ma anche qualche spiegone qua e là perché la trama sia compresa anche dai deficienti o chi per metà del film ha intenzione di limonare? Benché con le poltroncine di adesso sia veramente complicato?
Se avesse floppato sarebbe stata non la fine ma quasi, altri vent'anni di gente che vola in pigiama di multiverso in multiverso, ma non ha floppato (non è nemmeno stato un grande successo; ma non ha floppato). E può essere un'occasione per rimettere in discussione certi compartimenti stagni, levare Lanthimos ai suoi lantimosismi, magari persino Tarantino potrebbe essere tentato di fare qualcosa di meno personale e più commerciabile. I critici se ne lamenteranno, ma avranno film più interessanti di cui lamentarsi. (Nel comparto "arty" potrebbe anche solo restare l'altro Anderson, quello che ha sempre fatto solo quello che voleva, che per qualche anno ai critici è piaciuto, e poi se ne sono stancati).
A House of Dynamite (Kathryn Bigelow, 2025)
A un certo punto Kathryn Bigelow è diventata la regista ufficiosa del Dipartimento della Difesa (che adesso ha cambiato nome) e non voglio dire che abbia smesso di essere una regista interessante ed efficace, ma proprio questa efficacia, messa al servizio di un organo che ha evidentemente bisogno di giustificare le sue scelte davanti ai propri finanziatori, può rendere un più complicata la ricezione dei suoi film per chi, come me, non è che vada in giro a sventolare stelle e strisce e hamburger al bacon, insomma Zero Dark Thirty era un efficacissimo film che riusciva quasi, ho detto quasi, a farmi stare simpatici i talebani. Siamo d'accordo che non è la Riefenstahl, così come la Casa Bianca non è il Pergamon, ai nazisti piacevano i corpi atletici scolpiti dalla luce solare, mentre ai patiti di film su Washington piace un certo tipo di ritmo sincopato, fatto di tanta gente competente ed esperta di sessi diversi e colori diversi che si coordina, si scontra e si confronta in uffici con molti vetri e schermi illuminati, sempre ricordandosi di avere una vita privata, degli affetti, che deve però sacrificare al Dovere, è la stessa retorica di West Wing (che tanti danni ha fatto all'immaginario di una generazione di filoamericani) che la Bigelow rispolvera senza apparente sforzo, in un film che vola via rapido come un missile (anche se un missile suborbitale fa in tempo a esplodere tre volte).Siamo militari, siamo coscienziosi e preoccupati, se vi stiamo per atomizzare è perché abbiamo vagliato con attenzione ogni altra possibilità e sappiamo quello che facciamo, ringraziateci.
Il messaggio è sempre la cosa un po' più imbarazzante, perché alla fine è il messaggio di chi ci ha evidentemente messo i soldi, la Bigelow se potesse stamparseli girerebbe probabilmente altre cose e più interessanti (Detroit com'era? non l'ho visto), ma insomma il messaggio di Zero era che Bin Laden l'aveva assolutamente trovato la CIA con una lunga e testarda inchiesta culminata in un blitz militare, e nessuno doveva farsi venire in mente altre e meno improbabili storie. Il messaggio di A House of Dynamite, se l'ho ben compreso, per carità potrei sbagliarmi, ma è: stiamo galleggiando in un mare di merda e chiunque, in un qualsiasi momento, anche solo per uno sbaglio, provocherà una piccola onda. Quindi ci servono soldi! Tantissimi soldi! Moltissimi più missili intercettatori, non importa se hanno il 50% di possibilità di fallire, anzi proprio perché hanno il 50% dobbiamo almeno raddoppiarli, ehi, ci sentite? Soldi, stampate soldi, perché ormai il mondo può esplodere anche solo se a un tizio a Pyongyang scappa uno starnuto. Questo è il messaggio, e cosa gli vuoi dire. Roger. Copy. Amen. Da bambino un pomeriggio vidi A prova di errore e credo di non essermi ancora ripreso, per cui con me sfondi una porta aperta, Kathryn. Però non lo so, mi sembra davvero un lungo smagliantissimo spot, Lumet e Kubrick non mi davano questa sensazione.
Cinque secondi (Paolo Virzì, 2025)
Un altro casolare in Toscana, proprio così. Intorno a uno dei luoghi comuni più slabbrati e sputtanati del cinema italiano, Virzì pianta la sua troupe e gira un film secco, tragico, con pochissime (e necessarie) concessioni alla commedia. Se solo esistesse un mercato per i mediometraggi, o i film a episodi – perché a volte il problema è tutto lì, uno scrittore se vuole può scrivere un racconto, il regista 90 minuti almeno li deve fare e Valeria Bruni Tedeschi sembra scritturata apposta per far salire il minutaggio. Non dà fastidio, non strafà, è solo in una specie di film a parte, ma va bene anche così.
Zootropolis 2 (Jared Bush, Byron Howard, 2025)
C'è qualcosa di inquietante nel modo in cui la Disney gioca col mio cervello, e forse anche con quello di altri. Qualche anno fa, mentre Luca veniva salutato da esponenti della comunità Lgbt come il primo film Pixar a tematica scopertamente Lgbt, io mi guardavo intorno perplesso, perché tutta questa tematica proprio facevo fatica a trovarla: ehi (avrei voluto dire), guardate che è solo un film piacione che vi strizza l'occhio di nascosto ma se poi le cose si mettono male negherà di averlo fatto – ma forse adesso capisco come si sentivano i Lgbt. Lo capisco dopo aver visto Zootropolis 2, un film che ai miei occhi grida Palestina Libera! From the River to the Sea! Eppure mi guardo intorno e niente, nessuno se la prende, nessuno ci fa caso, tutto ok. Se poi sul piatto ci metti Andor, ci metti una stagione di Daredevil Contro Donald Trump, ebbene, c'è qualcosa di inquietante nel modo in cui di fronte a un potere costituito sempre più arcigno e opprimente, la Disney ci titilla mettendo in scena rivolte giuste, sacrosante e coronate dal successo.
Lawrence d'Arabia (David Lean, 1962)
Sono un po' deluso, di me stesso e dei miei lettori. Quando mesi fa notai che ultimamente le trame dei blockbuster ricalcavano sempre più spesso quella di Dune (protagonista viene creduto il Prescelto; anche lui si crede il Prescelto; scopre troppo tardi di non essere il Prescelto) non mi avete fatto notare l'ovvio, ovvero che Dune è semplicemente quello che succede se guardi Lawrence d'Arabia dopo aver ingerito qualche funghetto serio. A quel punto mi è tornato in mente un altro filmone in costumi coloniali, L'uomo che volle farsi re di Huston, tratto da un romanzo di Kipling; e dopo Kipling il romanzo che di film ne ha ispirati a dozzine, Cuore di tenebra. Insomma la struttura "alla Dune" è in pratica la riproposizione di un intreccio tipico della migliore letteratura anglosassone coloniale: e il fatto che stia riaffiorando qua e là oggi al cinema (anche Anora alla fine è la storia di una che si crede che i mafiosi russi la renderanno Cenerentola) dimostra quanto il colonialismo segni ancora l'immaginario occidentale.
Sono deluso di me stesso perché, malgrado il mio feticismo per il Dottor Zivago, con Lawrence ho un rapporto difficile: l'ho sempre trovato molto bello (persino una volta su un televisorino in bianco e nero) ma ricamato intorno a un protagonista che m'infastidiva a pelle. Riguardarlo sulla piattaforma, in 16:9 e in lingua originale, è stato una vera illuminazione. Lawrence come biopic so che lascia molto a desiderare, ma è davvero il film del colonialismo, e in quanto tale è invecchiato benissimo. La prossima volta che vi trovate davanti a un video con un Mentana o un Mieli che tentano di spiegarvi Netanyahu, andate sulla piattaforma e guardatevi un pezzo di Lawrence, magari la rappresaglia prima dell'ingresso a Damasco. Non ci sono personaggi positivi (non ci sono donne), nessuno impara niente, la classica storia del freak che si trova a disagio nella società occidentale e dovrebbe trovare sé stesso in un mondo selvaggio si ribalta nella sua parodia, perché il sé stesso che trova è la parodia di un beduino assetato di sangue. O'Toole è di un'antipatia sublime, come se Bolt o Lean gli avessero detto: facci un Charlton Heston gay, e lui non una piega, che idea! Un Ben Hur gay.
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