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mercoledì 30 aprile 2025

Dalle stalle al sacro soglio

30 aprile: San Pio V (1504-1572), pontefice e inquisitore

C'è chi scambia la democrazia per una semplice questione di pari opportunità: ovvero l'importante è che a tutti sia data la possibilità di comandare, dopodiché vediamo chi se la merita – qualcuno ci crede davvero a questa cosa, non sono tutti lacchè del potente di turno (o impiegati nella sua Fondazione), qualcuno è in buona fede. A costoro bisogna purtroppo far notare che sono proprio gli umili, appena gli dai tutto il potere, a usarlo in modo più feroce: che se il Novecento è stato il secolo terribile che è stato, ciò è successo proprio perché una maggior mobilità sociale ha consentito di raggiungere posizioni di potere a gente che in altri periodi storici non avrebbe conosciuto altro destino che zappare la terra: i genitori di Stalin erano contadini, quelli di Mao pure (anche se forse se la cavavano un po' meglio), il padre di Mussolini era un fabbro, quello di Hitler un doganiere. In altri secoli il fenomeno era meno osservabile, ma già evidente: Pio V ad esempio (al secolo Antonio Ghislieri, nato a Bosco Marengo, oggi provincia di Alessandria) era di famiglia umilissima, anche se in seguito pensò di nobilitarsi acquisendo lo stemma nobiliare di un'omonima casata bolognese decaduta ma nobile: nel sedicesimo secolo nessuno ancora rivendicava di venire dalla campagna. Eppure furono soltanto le sue facoltà intellettuali e la sua voglia di studiare a consentirgli di trovare protettori e sponsor che gli permisero di fare carriera nei frati domenicani, all'università di Pavia e poi nell'Inquisizione: finché dopo aver patito qualche incomprensione col papa Pio IV che lo aveva mandato a fare il vescovo a Mondovì, non riuscì a farsi eleggere suo successore al conclave del 1566. 

Ghisleri partecipò al conclave quasi per caso: l'ostilità di Pio IV era ormai evidente. Forse a trattenerlo a Roma fu davvero la notizia che i mobili che aveva spedito a Mondovì erano andati perduti; inoltre lo stato di salute non era tale da raccomandargli di mettersi in strada, e così scelse di restare a Roma a suo rischio e pericolo: dopodiché ad ammalarsi e morire fu il papa, e Ghisleri entrò in conclave benché malaticcio: che molto spesso è un vantaggio. In quel momento gli tornò utile il dossier che da decenni stava raccogliendo su uno dei cardinali più papabili, il cardinal Morone, vescovo di Modena e più illustre rappresentante di una fazione che, se non cercava il dialogo coi protestanti, perlomeno non riteneva necessario imprigionarli e torturarli; e per questo motivo era stato lui stesso prima espulso dall'Inquisizione e poi imprigionato, durante il pontificato di Paolo IV – un papa talmente intransigente che anche Ghisileri in quel periodo aveva rischiato di cadere in disgrazia. Alla morte di Paolo IV Morone era stato riabilitato, al punto che Pio IV lo aveva inviato a Trento a dirigere le ultime sessioni del concilio. Si trattava dunque di un ottimo candidato al Soglio, che dopo due pontificati molto intransigenti avrebbe potuto dare una svolta dialogante, tanto più che il lungo processo intentato contro di lui si era risolto con una completa assoluzione che ne metteva nero su bianco la condotta integerrima, eppure... eppure in qualche armadio doveva esserci ancora uno scheletro; Ghisleri lo aveva trovato e al momento giusto probabilmente lo usò. (Non sappiamo di cosa si trattasse: a quel punto i conclave si facevano sul serio a porte chiuse, tuttora se ci sono verbali vengono bruciati). Un altro grande papabile era ovviamente Carlo Borromeo. Filippo di Spagna lo spingeva apertamente; ma Carlo preferiva regnare a Milano che diventare una pedina degli spagnoli a Roma; fu lui a proporre Ghisleri. Tra i due c'era stima e concordanza di vedute, eppure all'inizio la nomina sembrò un ripiego; il cardinale aveva una brutta cera, tipica dei papi di transizione. Dopo l'incoronazione, come a volte accade, la salute migliorò. Non fu comunque un papato lungo: appena otto anni. Ma si può dire che lasciarono il segno. 

Oltre a scomunicare la regina Elisabetta, spronare il re di Spagna e la regina di Scozia all'invasione dell'Inghilterra, il re di Francia a farla finita con gli Ugonotti, l'imperatore a una maggiore intransigenza coi luterani, il re di Sicilia a eliminare i Valdesi di Calabria, Pio V sciolse la confraternita degli Umiliati e decise di confinare gli ebrei di Roma in un quartiere che sul modello veneziano prese il nome di ghetto, obbligandoli ad ascoltare regolarmente le prediche dei suoi confratelli domenicani: una tortura che secondo i suoi disegni avrebbe presto portato alla conversione dell'intera comunità (e in effetti è difficile capire come non sia successo: se non è la prova dell'esistenza di un Dio, diciamo che è un forte indizio in tal senso). Ma il massimo successo nella sua carriera di fomentatore di stragi religiose è sicuramente la battaglia navale di Lepanto del 1571, da lui fortemente voluta anche se bisogna riconoscergli che l'espansionismo ottomano nel Mediterraneo era una minaccia reale. Siccome all'indomani della vittoria l'ammiraglio genovese Andrea Doria se ne attribuiva il merito grazie alla sua finta ritirata – mentre per i veneziani non era stata affatto una finta – Pio V risolse la questione attribuendo il merito della vittoria all'intercessione della Madonna e ai fedeli che l'avevano sollecitata in tal senso con la preghiera più efficace, forse perché la più assillante: la mitragliatrice delle preghiere, il Santo Rosario. Un po' di gloria ricadde comunque su di lui, tanto che quando morì, l'anno successivo, a causa di una prostatite che forse trovava indecente curarsi, cominciò a spargersi la voce che fosse un santo. Il che non era affatto scontato, anzi, dopo il secolo IX i papi venerati come santi erano piuttosto rari; il più recente, Celestino V, era morto quasi trecento anni prima ed era comunque un papa decisamente irregolare, morto dimissionario e probabilmente fatto ammazzare dal pontefice che gli era subentrato. Anche dopo Ghisleri, per trovare un papa canonizzato dobbiamo aspettare Pio X, già nel secolo scorso (Pio IX per ora è soltanto beato). Su di lui si raccontavano miracoli che gli agiografi moderni omettono, o registrano con un certo fastidio, eppure per secoli furono discretamente popolari. Il più famoso era il crocefisso avvelenato; un non precisato eretico infatti aveva ben pensato di avvelenare i piedi del crocefisso a cui Pio V rivolgeva le preghiere della sera, ben sapendo che dopo la preghiera era solito dargli un bacetto. Doveva trattarsi di un eretico veramente esperto della vita privata del papa, un eretico che aveva le chiavi di camera sua, insomma non è difficile capire perché la Bibliotheca Sanctorum, dopo aver dedicato a Pio V quattro fitte pagine, ammette l'episodio soltanto alla voce iconografia, senza spiegarci quando sia successo e chi sia il mandante. Comunque la leggenda dice che il crocefisso, piuttosto di avvelenare il Santo Padre, avrebbe spostato i piedi: e quindi se trovate un quadro in cui un pontefice cerca di dare un bacino a un crocefisso coi piedi storti, non potete sbagliarvi: anche il quadro che ho riportato qua sopra, che sembra fatto da un'AI, invece è un Giovanni Capretti originale, di inizio Settecento. 

L'episodio riecheggia alla lontana l'attentato di cui fu vittima Borromeo a Milano. E come nel caso di Borromeo, bisogna ammettere che isolare il mandante è abbastanza difficile. Avrebbe potuto essere chiunque, un protestante o un cardinale estromesso dai giochi o un ebreo inferocito perché costretto ad ascoltare le prediche dei domenicani. Un turco, un ugonotto, un umiliato, Pio V aveva nemici in tutte le direzioni, e non se ne curava. Era figlio di pastori piemontesi e non faceva sconti a nessuno.

martedì 29 aprile 2025

Il papa del buonsenso


Faccio un paio di esempi, che forse non vogliono dire nulla. Qualche anno fa, ve la ricorderete, ci fu una crisi pandemica. Molti intellettuali non erano progettati per capirla. Benché esistessero precedenti storici, non si erano dati la pena di studiarli, né avevano l'umiltà di ascoltare gli epidemiologi. Venutisi a trovare in una situazione di emergenza, senza avere nulla di interessante da dire, cominciarono a girare in tondo, che è una cosa che fanno anche le formiche quando perdono la pista. Nulla sapevano, se non di non sapere: ma a differenza del vecchio greco che lo considerava un punto di partenza, per molti si trattava di un arrivo. Avevano studiato tutta la vita, e costruito carriere prestigiose, per arrivare al punto in cui non ci stavano capendo nulla; ne conseguiva che il loro non-capir-nulla-nel-mondo doveva essere un faro per gli altri poveri mortali, che avrebbero dovuto seguire il loro esempio e capirne nulla come loro, mentre invece qualcosa lo capivano, ad esempio mettevano le mascherine. Ebbene, questo era molto sospetto, probabilmente l'indizio di una deriva totalitaria. La gente cominciava a morire, ma loro ne dubitavano, se non altro perché dubitare era l'unica cosa che gli riusciva bene. I governi cominciarono a varare misure di contenimento, che loro si misero a criticare: non perché avessero argomenti, ma per istinto: se il governo vara qualcosa, l'intellettuale avrà bene il dovere di criticarlo, no? Altrimenti che ci sta a fare, insomma. I cittadini accettavano quelle norme, ebbene questo era uno scandalo, il risultato di un indottrinamento, un vero regresso per un popolo che si riduceva a gregge. Il gregge in effetti stava salvando la vita anche a loro. Scuole e bar restavano chiusi, e gli industriali cominciarono a fremere proprio quando questi intellettuali si trovavano sulla pista adatta per dar voce al loro malcontento: le scuole andavano riaperte il prima possibile, non era vero che erano luoghi di contagio, una specialista mondiale lo aveva dimostrato con una lettera a una rivista scientifica ripresa dal Corriere ecc. ecc. E nel frattempo, il papa?

Il papa nel frattempo aveva celebrato una messa praticamente da solo, in una piazza deserta, in mondovisione. Il messaggio era passato forte e chiaro, e qualcuno ancora non glielo perdona: state a casa, manteniamo le distanze, portiamo pazienza. Il papa ne sapeva di più? In realtà no, il papa stava reagendo come reagì la maggior parte di noi, seguendo un buon senso abbastanza mediano: l'epidemia esisteva, le misure di contenimento avevano dimostrato di funzionare, e la maggior parte di noi le seguì. Il papa era con la maggior parte di noi. 

Poi arrivò il vaccino, così presto che di nuovo molti intellettuali restarono spiazzati. Il governo aveva fretta di riaprire, e quindi trovò il modo di forzare lavoratori e studenti a vaccinarsi. E si videro gli stessi intellettuali che avevano caldeggiato la riapertura delle scuole improvvisamente contrari a questi modi bruschi che ledevano la libertà individuale, ecc. ecc. Non erano contrari ai vaccini, ma finirono rapidamente sugli scudi dei novax. Il papa nel frattempo che diceva? Che vaccinarsi era un atto di amore – e qualcuno ancora non gliel'ha perdonato. La maggior parte delle persone si vaccinò, non certo perché glielo chiedeva il papa: ma perché la pensava come lui. Il papa era con la maggior parte di noi.

Una volta – tanto tempo fa – esisteva il cosiddetto centro moderato. Esisteva sul serio, non era quella terra di nessuno su cui si aggirano personaggi disperati coi loro partiti personali. Era una realtà solida, perlopiù democristiana, con un po' di laici ai bordi. Parlava attraverso quotidiani a grande tiratura, affidati a stimati opinionisti sempre molto compassati ed equidistanti, mai troppo polemici. Tutto questo è talmente finito che la maggior parte dei miei coetanei non sa nemmeno di rimpiangerlo. Oggi il centro è il luogo della radicalizzazione, della psicosi, della paranoia. Il pannellismo ha infettato il doroteismo, con risultati devastanti. Gente che sperava di continuare a intascare un po' di soldi semplicemente ripetendo per altri quarant'anni "Due popoli due Stati" ogni volta che un popolo massacrava l'altro, adesso si ritrova a dover difendere un genocidio: e in teoria sono i moderati. Gente che semplicemente si preoccupava di pensarla come gli americani, ora dovrebbe pensarla come Trump e non ha ancora capito come gestire la cosa. Alcuni si sono caricati a molla tre anni fa, quando la parola d'ordine era difendere i confini dell'Ucraina: nel frattempo questi confini sono completamente saltati, Putin non solo si è preso il Donbass ma anche un bel pezzo di Washington, ma loro sono ancora in una specie di jungla personale, convinti che l'anno prossimo si sfonda sul Dnepr, magari i carri armati ce li mette l'UE. 

Nel frattempo, il papa? Il papa magari nell'occasione non trovò le parole più adatte. Devo dirlo: non era così bravo a trovarle, non credo passerà alla Storia per le sue doti oratorie. Del resto il concetto era spinoso: bisognava trovare un modo per dire, senza offendere i combattenti che difendevano il loro Paese, che in Ucraina era fallita una politica di logoramento della Nato: una politica probabilmente basata sull'assunto che i russi non avrebbero reagito militarmente a una situazione che pure percepivano come provocatoria. Invece hanno reagito, e il risultato è davanti agli occhi di tutti. Ora è la Nato ad aver dimostrato la propria impotenza, perché mentre i reparti russi oltrepassavano i confini, quelli Nato non si spostavano di un centimetro, limitandosi a... il papa usò il termine "abbaiare". La Nato era andata ad "abbaiare alla porta della Russia". Una metafora abbastanza cruda, e imprecisa. Ma efficace. Il papa ne sapeva più degli strateghi occidentali? Il papa ne sapeva quanto ciascuno di noi, e tutto sommato anche in quell'occasione diede voce a quello che pensa la maggioranza di noi. Qualcuno non gliel'ha perdonato: a una certa ora in tv vanno tanti vecchi opinionisti a masticare amaro su questo papa che non difendeva l'Occidente.  

Quanto a me, devo ammetterlo: non ho fatto i compiti – e sì che i segnali c'erano tutti, ma forse è un destino di noi cresciuti negli anni Ottanta: non riusciamo ad abituarci che ogni tot anni muoia ancora un papa. Non ho letto le encicliche, non sono nella posizione adatta per esaminare la sua eredità pastorale. Quello che posso notare, è che è stato un papa ragionevole: che in un qualche modo riusciva sempre a trovarsi con la maggior parte di noi. Quella che una volta si chiamava maggioranza silenziosa, e che lo sarebbe molto più oggi che i giornali sono in mano a vecchi arnesi impazziti che un anno tifano per la pandemia e l'anno dopo per il genocidio, vegliardi convinti di poter muovere guerra a chiunque e chissachì. Alfieri di un capitalismo sfrenato e paranoide che intravede nelle masse dei poveri una minaccia da reprimere, laddove Francesco li vede ancora come li vediamo noi: persone bisognose che la collettività ha il dovere di aiutare. Ho qualche motivo per ritenere che anche il prossimo papa resterà a presidiare il settore della ragionevolezza, se non altro perché è lì che c'è più spazio. Nemmeno Ratzinger è mai stato davvero il papa tradizionalista e occidentalista che molti stupidi amano pensare: e del resto, un papa tradizionalista e occidentalista che margini avrebbe? Si farebbe immediatamente rubare la scena da personaggi come aa presidente del consiglio e i suoi volonterosi portavoce. 

Poi certo, c'è sempre l'opzione "papa nero" (o asiatico, sarebbe comunque uno choc), che confonderebbe un sacco di osservatori, perché sarebbe allo stesso tempo più tradizionalista e meno occidentale. Il che ci fornirebbe almeno un'occasione di notare chi si inginocchierebbe perché prova davvero un attaccamento emotivo e intellettuale per l'universalismo della Chiesa cattolica, e chi davanti a una faccia di un altro colore proprio non ce la farebbe. Ma tutto sommato si vede già adesso. 

sabato 26 aprile 2025

Nessuno è necessario (nemmeno Pascasio)

26 aprile: San Pascasio Radberto, abate dimissionario di Corbie (790-860). 

Corbie qualche secolo dopo. 

San Pascasio un giorno si stancò di far l'abate. Si dimise, e lasciò il monastero benedettino di Corbie che lui stesso aveva fondato. Probabilmente fu a causa di Carlo il Calvo, re dei Franchi occidentali, che a questo punto aveva più di un motivo per non essere contento di quello che succedeva a Corbie. Era il monastero dove aveva deciso di rinchiudere un suo cugino omonimo: orbene, questo Carlo era scomparso, a Corbie nessuno l'aveva più visto, e l'abate Pascasio in tutto questo? L'abate Pascasio era uno dei più grandi intellettuali del secolo IX e preferiva discutere di eucarestia e mariologia in elaborati carteggi con gli abati suoi pari, invece di tener d'occhio i monaci coatti. Il Carlo che si era dato alla macchia era figlio di Pipino d'Aquitania, un nome che non vi dice niente perché a scuola vi hanno insegnato che Ludovico il Pio aveva diviso l'Impero in tre parti per tre figli: Lotario, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico. Ma indovinate: le cose sono un po' più complesse, Ludovico si sposò due volte ed ebbe quattro figli maschi (più altri illegittimi, perché per quanto Pio non disdegnava le concubine). Pipino d'Aquitania era addirittura il secondogenito e aveva regnato in Aquitania; ma una serie di liti con fratelli e fratellastri ne avevano di molto ridotto il regno a favore, appunto, del più giovane Carlo il Calvo. Il figlio che avrebbe dovuto restare confinato a Corbie aveva qualche titolo per rivendicare i territori del padre, e in effetti sappiamo che una volta scappato tentò davvero di organizzare una rivolta, che però non ebbe successo. Poi ci fu il caso di Ivo, un altro monaco di buona famiglia, che al contrario del Carlo fuggitivo, a Corbie voleva restarci: e quando Pascasio lo cacciò per indegnità, andò a lamentarsi dal re, che gli diede ragione: fu la goccia che ne fece traboccare la pazienza. Pascasio convocò i suoi monaci e li informò che l'indegno era lui, e per qualche tempo si ritirò in un altro monastero (St.-Riquier), dove finalmente poté dedicare il suo tempo agli amati studi, difendere la tesi della verginità di Maria post-partum e dimostrare la presenza della carne di Cristo nell'eucarestia: non i due argomenti che mi avvicinano di più a San Pascasio. Ma ho voluto lo stesso scrivere di lui: perché?

Chissà se capita a volte anche a voi, di mettervi a scrivere qualcosa e di scoprire, dopo qualche minuto/ora, che è una cosa che avete scritto già. Ad esempio, questo pezzo comincia così: San Pascasio un giorno si stancò. Sono sicuro di avere già scritto qualcosa del genere. Magari non proprio le esatte parole: sicuramente non il nome del santo (auguri a tutti i Pascasio). Ma qualcosa vorrà pur dire, se tra migliaia di santi mi capita sempre più spesso di pescare quelli che si stancano. Quelli che abbandonano ruoli di responsabilità nelle abbazie, o non vogliono essere eletti vescovi, e non dev'essere sempre stata una manifestazione di falsa modestia: la storia della Chiesa è davvero molto ricca di personaggi così. Chissà se c'entra per qualcosa il fatto che si tratti di una grande gerarchia affidata per secoli a secondogeniti e terzogeniti. Gente che in famiglia non era stata abituata a comandare. Non è il caso di San Pascasio, che era stato trovato neonato sui gradini del monastero femminile di Soissons. Non è nemmeno il mio caso, eppure mi ci ritrovo sempre più spesso. Come dico ai miei colleghi, quando si comincia a parlare di pensione, io non credo di poterci arrivare sui miei piedi: non dico che la mia professione sia tra le più faticose, e allo stesso tempo non posso immaginare di fare le stesse cose che facci adesso tra quindici anni: o mi succede qualcosa (a tanti miei colleghi con qualche anno in più sta succedendo qualcosa), o devo cominciare in un qualche modo a tirare i remi in barca. Rifiutare gli incarichi nuovi (questo è facile), rinunciare a quelli che ho già (molto meno facile), convocare i colleghi e spiegare che non sono capace di fare quello che sto facendo, anche se magari non è del tutto vero: ma comunque tra qualche anno lo sarà. In fin dei conti nessuno è necessario, no?

Oggi seppelliscono papa Francesco, probabilmente il pontefice migliore che potevo attendermi in questi anni così complicati. Pure non posso impedirmi di pensare che avrebbe potuto avere una vita un po' più lunga e serena se invece di lavorare fino all'ultimo giorno della sua vita, avesse abdicato per tempo, come coraggiosamente fece il suo predecessore che tanto meno mi era simpatico. Perché non l'ha fatto? Come tutte le scelte che pertengono alla coscienza di un individuo, non lo sapremo veramente mai (può darsi non lo sapesse nemmeno lui). Credo che l'umana vanità di regnare fino alla fine di un Giubileo abbia giocato un ruolo molto relativo; inoltre Francesco non sembrava condividere l'attesa messianica di un Giovanni Paolo II. Può persino darsi che la manfrina dei sedevacantisti abbia suggerito alla Curia di evitare un ulteriore papa emerito, e questo sarebbe l'unico risultato che hanno ottenuto quei fanatici repellenti: costringere un brav'uomo, anziano e malato a lavorare fino alla morte. Ma nell'occasione ho scoperto che molti, non sono tra i cattolici, sono ancora molto legati all'idea wojtyliana del papa che deve restare papa a oltranza, fino all'ultimo respiro; e che il gesto coraggioso di Ratzinger (il più importante del suo papato, secondo me) non è stato affatto recepito. Eppure davvero nessuno è necessario, nemmeno il papa, anzi lui dovrebbe essere uno dei più sostituibili: non è un Profeta in stretto contatto con Dio; è un vicario, un facente funzione, non capisco che problema c'è se a un certo punto rimette il suo incarico e si ritira anche lui in un monastero più tranquillo. Il clero cattolico, a cui tanti addebitano la responsabilità di millenni di società patriarcale, è un'organizzazione che per sopravvivere ha dovuto stemperare la sua componente patriarcale al punto da rinunciare al primo orgoglio del maschio, che è la prole (o forse la virilità: in ogni caso il clero ha rinunciato a entrambe). È una gerarchia di anziani, ma a questo punto le possibilità che un papa anziano possa trascorrere mesi o anni in situazioni in cui non è più in grado di intendere e volere sono sempre più alte.

Di Pascasio, che le monache avevano battezzato Radberto, si racconta che da giovane "condusse una vita dissoluta" finché non rimase "disgustato dai piaceri mondani", e non decise di entrare in un monastero e assumere il nome latino di Pascasio, più adatto a intestare i trattati di teologia. Non si capisce però con quali fondi Radberto possa avere condotto quella vita dissoluta che in effetti è un topos di tante vite di santi e governanti – tutti però nobili o comunque di famiglia abbastanza facoltosa da potersi garantire di vivere un po' di rendita, laddove Radberto era un trovatello. Chi ha infilato il topos nell'agiografia di San Pascasio non si è posto il problema. Gli interessava evitare l'impressione che Radberto/Pascasio non avesse mai conosciuto, del mondo, altro che una manciata di chiostri: una giovinezza dissoluta rende sempre il santo un po' più interessante. E magari voleva suggerirci che i suoi problemi con Ivo, anche lui monaco gaudente e riottoso, siano i tipici problemi del padre che riconosce nei vizi del figlio i suoi: quelli con cui sta lottando da una vita, e magari proprio quando sembra vittorioso, ecco che li ritrova in una versione più giovane di sé stesso, a dimostrargli che una vita sola non basta. 

Magari un giorno qualcuno si metterà a leggere questo blog, che un minimo di valore come testimonianza storica lo avrà, no? Voglio dire, vent'anni di paginette qualche cosa l'avranno trattenuta. Questa persona non scoprirà molto di me, di quello che mi è successo per interi anni di vita. Non ne ho parlato mai molto e a un certo punto ho proprio smesso. Avrà lo stesso una forte sensazione di conoscermi, perché anche se ho scritto di Beatles o di San Pascasio, tutto quello che ho scritto in un qualche modo mi somiglia: e in particolare questi frati e monaci recalcitranti, che non vorrebbero più sorvegliare né giudicare, non perché sia faticoso (a volte è faticoso): ma perché non sono bravi, sul serio, non era il loro mestiere, non avrebbero mai dovuto nemmeno cominciare.

venerdì 25 aprile 2025

1945 – 1995 – 2025


Col tempo doveva succedere che i due anniversari si confondessero: che la memoria (vissuta) del 25 aprile 1995 si sovrapponesse a quella (ricostruita) del 25 aprile 1945, e che insomma a un certo punto per noi ricordare i partigiani coincidesse col ricordare Mara Redeghieri che canta i Ribelli della montagna sul palco di Materiale Resistente.


Così il 25/4 è diventato qualcosa di cui abbiamo sinceramente nostalgia, un momento eccezionale in cui avevano senso cose che non l'avrebbero avuto né un momento prima né un momento dopo. Fatte le dovute proporzioni, cinquant'anni prima aveva un senso nascondersi in montagna e poi sparare ai tedeschi, prendere un municipio su una collina e proclamare una repubblica provvisoria; cinquant'anni dopo diventava improvvisamente naturale che le migliori basi trip-hop italiane arrivassero dall'Appennino reggiano, e sopra ci cantasse una ragazza un po' fuori chiave, con una dizzione tutta sua ma irresistibile.

Materiale Resistente è un disco che serviva a celebrare, e ora si celebra da solo. Quanto ad ascoltarlo, era già abbastanza faticoso nel 1995, ed è molto difficile che col tempo sia migliorato (non ho voglia di controllare). Per alcuni partecipanti era un punto d'arrivo, per altri una partenza o ripartenza; qualcuno era sui monti perché ci credeva, qualcuno ancora non si era spiegato bene ma avrebbe voluto fondare una repubblica nel senso medievale del termine, coi castelli merlati e i cavalieri e soprattutto tanti cavalli; qualcuno era comunista, qualcuno non voleva restare indietro, qualcuno non si rendeva conto, qualcuno cercava di limitare i danni: qualcuno infine era Freak Antoni, ora e sempre contro tutto e contro tutti. Il gioco poteva avere un senso solo se durava poco e impediva alla miscela di esplodere: un po' come cinquant'anni prima (fatte le dovute proporzioni). Era tutto molto ingenuo, decisamente puerile, un po' troppo retorico, e non abbiamo mai più avuto niente di meglio.

giovedì 24 aprile 2025

La terza Maria

Niccolò dell'Arco,
Compianto del Cristo Morto
Di Stefano Maioli - Opera propria, CC BY-SA 4.0
24 aprile: Santa Maria di Cleofa, madre dei fratelli di Gesù, per quanto strano ciò possa sembrare

Maria di Cleofa mi fa girare la testa, ogni volta che provo a raccapezzarmici. Forse era la zia di Gesù, forse la cognata, forse entrambe le cose? E come poteva essere madre di eventuali fratelli di Cristo, senza essere la madre del Cristo medesimo? Sono quei classici problemi che nell'antichità coinvolgevano chi cercava di recuperare un minimo di coerenza nei miti greci (in particolare nei rapporti di parentela tra gli Dei), un affanno simile a quello che oggi patiscono quelli che pretendono che funzioni la continuity nei fumetti dei supereroi. 

Nei vangeli la situazione è più circoscritta: a compatire Gesù sotto la croce c'è un gruppo di donne, un dettaglio che da subito sembrò verosimile ma forse anche consono a una sensibilità greco-romana in cui il cristianesimo fu immediatamente trapiantato: non si dà tragedia senza coro. E il coro dev'essere un personaggio collettivo, per cui ha persino un senso che queste donne non abbiano un nome o ne condividano uno che al tempo, ci informano gli archeologi, era davvero diffusissimo, benché nella Bibbia fino a quel momento solo la sorella di Mosè si chiamasse così: una donna su quattro si chiamava Maria, stando alle iscrizioni funerarie. Per cui non è così improbabile che due o tre donne ai piedi della croce si chiamassero Maria. Una sarebbe la madre di Gesù; un'altra è Maria di Magdala, che a sua volta racchiude altri personaggi: la peccatrice che aveva unto Gesù, l'invasata da cui lo stesso Gesù aveva scacciato ben sette demoni, la sorella di Marta e di Lazzaro. C'è poi, ai piedi della croce, una terza Maria, sulla quale gli evangelisti non riescono a mettersi d'accordo: Luca, che di solito è il più completista, si limita a definirla "di Giacomo". Per Marco e Matteo è la madre di Giacomo e Giuseppe, che quindi sono fratelli; Matteo definisce Giacomo "il minore" per distinguerlo dall'altro apostolo che porta lo stesso nome. In tutti i sinottici Giacomo il minore viene chiamato anche Giacomo d'Alfeo. In Matteo, poi, "Giacomo e Giuseppe" sono i primi nomi di una lista di fratelli di Gesù nominati dalla folla. ("Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?") Questa circostanza ha portato molti lettori a identificare Giacomo il minore con il Giacomo che San Paolo nella lettera ai Galati definisce "fratello del Signore", leader della comunità cristiano-ebraica di Gerusalemme. Ora, se si accetta l'idea che Gesù possa avere avuto fratelli di sangue (e alcune confessioni protestanti la accettano), Maria di Cleofa non potrebbe che essere la stessa Maria di Nazareth: e allora perché gli evangelisti nominerebbero due Marie diverse? Per i cattolici l'idea è da escludere: la madre di Dio sarebbe rimasta vergine anche dopo la nascita di Gesù. La presenza di entrambe le Marie davanti alla croce esclude anche la possibilità che Gesù avesse dei fratellastri, perché per sposare una delle due Giuseppe avrebbe dovuto rimanere vedovo dell'altra. 

Un'altra ipotesi, molto apprezzata dai cattolici, è che "fratelli" (adelphoi nell'originale greco) significhi "cugini": nel qual caso le due Marie potrebbero essere sorelle, e complimenti ai genitori per la fantasia. Qui interviene il quarto evangelista, quello che scrive per ultimo e che forse voleva proprio chiarire la questione: senonché finisce per confonderla ancor di più. Giovanni scrive che "Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre Maria di Cleofa e Maria di Magdala". Viene per la prima volta nominata una "Maria di Cleofa" (una variante di Alfeo?), un nome che fin qui era associato soltanto al discepolo che secondo Luca aveva riconosciuto Gesù a Emmaus. A parte questo, è da duemila anni che ci chiediamo se Giovanni abbia elencato tre donne o addirittura quattro. A quel tempo, si sa, non si mettevano le virgole, per cui sta a noi decidere se "la sorella di sua madre" e "Maria di Cleofa" siano una persona soltanto o addirittura due. Alcuni storici trovano inverosimile che due sorelle si chiamino entrambe "Maria" – io per contro insegno alle medie e mi è capitato di avere sorelle che si chiamavano Miriam e Meriem, per cui non trovo più inverosimile nulla. Tra l'altro Giovanni, che pure sostiene di essere l'apostolo più vicino alla madre di Gesù, non la chiama mai per nome. Un'altra ipotesi è che "sorella" qui significhi "cognata", e perché no? Maria di Cleofa potrebbe essere sorella di Giuseppe il falegname e moglie di Alfeo/Cleofa o viceversa: a quel punto gli apostoli Giacomo e Giuseppe sarebbero davvero cugini di Gesù. 

Una cosa interessante di questa tortuosa ricostruzione, è che è del tutto irrilevante da un punto di vista dottrinale. Lo chiarisce Gesù stesso, in un passo riportato dai tre sinottici: quando gli dicono che sono venuti a trovarlo sua madre e i suoi fratelli, lui risponde platealmente che "sua madre" e i "suoi fratelli" sono i suoi discepoli, e "chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio" (Matteo 12,50). Che sia zia, cognata o semplice conoscente, Maria è una delle donne che il terzo giorno dopo la deposizione vanno a visitare la tomba di Gesù (secondo Marco intendevano imbalsamarlo), ma trovano la tomba vuota. Un angelo le avvisa che il Salvatore è risorto. Corrono ad avvertire gli apostoli, i quali almeno secondo Luca restano piuttosto increduli. Lo stesso Paolo, quando raccontava la resurrezione, preferiva omettere il dettaglio della prima apparizione alle pie donne: probabilmente temeva che le testimonianze femminili non fossero abbastanza credibili. Matteo e Luca, viceversa, sembrano dare una certa importanza al fatto che le prime a essere informate della resurrezione siano le donne. È uno dei tanti indizi che ci suggeriscono che Paolo e i sinottici si rivolgessero a pubblici diversi, con sensibilità diverse.

martedì 22 aprile 2025

Il padre (più santo) di Origene

22 aprile: San Leonida martire, padre di Origene (✝204)

Di Leonida, padre di Origene, sappiamo poco, quasi solo un aneddoto: la notte, mentre Origene dormiva, Leonida gli baciava il petto, "quasi fosse un sacrario dello Spirito Santo". Così almeno secondo il solito Eusebio da Cesarea, ma c'è un problema: come faceva Eusebio a saperlo, se l'unico testimone sveglio era appunto Leonida, morto mezzo secolo prima che Eusebio nascesse, durante le persecuzioni di Settimio Severo? Escludiamo che prima delle persecuzioni, Leonida andasse in giro a raccontare dei bacini notturni che dava al suo figlio prediletto, di cui intuiva le doti intellettuali che considerava un dono dello Spirito Santo. È più probabile che a ricordare di questi bacini fosse Origene stesso, il quale evidentemente non dormiva davvero; a volte magari faceva finta. In età adulta avrebbe poi citato l'episodio in qualche omelia andata perduta, perché in quelle che abbiamo, l'autore parla pochissimo di sé. Ma anche in questo caso, come faceva il piccolo Origene a sapere che Leonida considerava il suo petto "un sacrario dello Spirito Santo"? Forse un giorno gliel'avrà chiesto e avrà ottenuto una sincera risposta; non è impossibile; ma secoli di relazioni tra padri e figli ci fanno sospettare che Origene non abbia mai svelato di essere sveglio e il padre non gli abbia mai davvero spiegato perché gli dava un bacino della buona notte sul cuore. È Origene a essersi convinto di essere uno speciale custode dello Spirito; di avere una potenzialità, un dono, qualcosa di cui il padre era orgoglioso. Cosa pensasse davvero il padre non possiamo saperlo, ma in generale cosa desiderano i padri? In generale il meglio per i figli; poi fortunatamente si tolgono di mezzo prima di verificare se il meglio arrivi o no. 

Leonida fu martirizzato ad Alessandria d'Egitto verso il 204. Quando lo arrestarono, Origene aveva diciassette anni e avrebbe voluto seguirlo, ma la madre gli nascose i vestiti, o almeno così ci racconta sempre Eusebio. Origene scrisse allora una lettera al padre per esortarlo al martirio. Il martirio ci fu, ma anche la confisca dei beni, e Origene si ritrovò sul groppone sei fratelli minori più la vedova. Era comunque un ragazzo promettente e grazie al sostegno di una matrona cristiana in un qualche modo riuscì a cavarsela: si mise a insegnare retorica, a copiare manoscritti, e nei ritagli di tempo divenne uno degli intellettuali più importanti del secolo III. Santo no, però, perché in quel periodo era complicato: la dottrina non era ancora del tutto fissata, il che lasciava agli intellettuali ampi margini di speculazione. Origene ad esempio non credeva che le pene infernali potessero durare in eterno, ma soprattutto pensava che il figlio fosse subordinato al padre, il che sarebbe stato recisamente escluso dal concilio di Nicea; così si ritrovò eretico, per quanto stimato da tanti contemporanei, compresi un paio di padri della Chiesa. Nel secolo successivo poi su di lui si impigliarono voci sempre più infamanti, così che il primo ad aver dichiarato che "Non c'è salvezza al di fuori della Chiesa"... è tuttora considerato al di fuori della Chiesa. Al tempo del padre le cose erano più semplici: bastava morire da martiri, e nessuno sarebbe andato a controllare se morivi per le idee giuste. Così insomma per quel che ne sappiamo, Leonida è in paradiso e il figlio fuori. Ma che paradiso può essere per un padre, se il figlio resta fuori. 

domenica 20 aprile 2025

Se una santa alza un piede per te

20 aprile: Sant'Agnese di Montepulciano (1274-1314), mistica


Agnese era talmente famosa per i miracoli che diventò badessa a quindici anni; nella sua Leggenda, Raimondo di Capua racconta che cominciò a guarire i malati quando era ancora una bambina. Ma il più famoso è postumo e piuttosto macabro: quando nel probabile centenario della sua nascita, Caterina di Siena si recò in visita nel suo sacrario, vi trovò un corpo che a quanto pare era ancora incorrotto, e si chinò per baciarle un piede in segno di devozione. Il piede, dicono i testimoni, si sollevò per accorciare la fatica di Caterina. Bisogna però avvertire che il biografo di Agnese, Raimondo, era anche il padre spirituale che i domenicani avevano procurato a Caterina, il quale si trovava dunque in una posizione privilegiata per orchestrare un prodigio come questo, dal significato palese: Caterina era l'erede di Agnese, in quanto domenicana, mistica e santa. Raimondo, accettando la direzione spirituale di un personaggio irregolare come Caterina, era probabilmente conscio di giocarsi la carriera: la ragazza destava scalpore per le lettere che scriveva e inviava ai potenti della Terra, ma come tutti i mistici tra Due e Trecento si muoveva sulla lama sottile che separava l'eresia della santità. Il compito di Raimondo era farne una santa; il precedente di Agnese forniva sia al maestro sia all’allieva un canovaccio da seguire. Possiamo immaginare che Caterina abbia imparato come comportarsi da santa sul libro di Raimondo: anche se il gusto per le privazioni e i digiuni eroici lo aveva già sperimentato ben prima di incontrarlo, leggendo di Agnese aveva scoperto che si poteva vivere per quindici anni a pane e acqua, e che una santa seria al posto del cuscino usa una pietra. 

Il problema è che mentre Agnese era già una leggenda, Caterina viveva ancora nel mondo complicato dei viventi ed è probabile che abbia un poco invidiato la relativa facilità con cui la consorella Agnese era riuscita a farsi spedire bambina in un convento, mentre Caterina per convincere i suoi che non avrebbe sposato il cognato rimasto vedovo dovette fare più di uno sciopero della fame. Anche per farsi accettare come religiosa Caterina aveva faticato non poco, mentre Agnese che viveva in un secolo dove le confraternite religiose erano meno strutturate, aveva trovato immediatamente posto in una comunità quasi spontanea, le cosiddette Suore del Sacco, dette così dal vestito molto ruvido che portavano. Agnese, dappertutto riverita e onorata, a quindici anni era già superiora a Proceno (oggi provincia di Viterbo), e in seguito avrebbe ceduto al desiderio dei compaesani di Montepulciano di fondarne un altro nel suo luogo di nascita, aderendo alla regola domenicana. Caterina invece avrebbe viaggiato in lungo e in largo senza mai trovare pace, impiegata in missioni diplomatiche che la esposero almeno una volta a un attentato, a Firenze. Agnese, come conviene a una santa protagonista di una leggenda, faceva tanti miracoli: dove passava scendeva una manna, un pulviscolo bianco fatto di tante minuscole croci. Anche Caterina qualche miracolo avrebbe voluto farlo: tutti in particolare le chiedevano di riportare il papa da Avignone a Roma e lei in teoria ci riuscì; ma poi scoppiò la guerra, il papa morì subito, i cardinali italiani ne elessero uno e i francesi un altro, tutta una confusione che Caterina cercò di risolvere digiunando, finché ne morì, nove giorni dopo la festa della sua santa modello. Qualche anno dopo Raimondo diventò maestro generale dell'Ordine, come Caterina aveva previsto. Il corpo di Agnese è ancora custodito in una teca, a Montepulciano, anche se i piedi sono piuttosto incartapecoriti e da quella volta nessuno ha più visto muoverli. 

sabato 19 aprile 2025

Il papa verso lo scisma

19 aprile: Leone IX (1002-1054)

Lo scisma più annoso, quello che non si è ricomposto ancora dopo secoli di tentativi, ha motivi più storici che dogmatici: cristiani di rito latino e cristiani di riti orientali (greco o slavo) hanno sempre avuto qualche difficoltà a capirsi, ma questo non aveva impedito loro di sentirsi parte di una stessa Chiesa... fino a quando? Sui libri di Storia trovate di solito una data, 1054 (a volte 1055). Ma cosa successe in quell'anno, di così irreparabile, tra Roma e Costantinopoli? Chi sono insomma i responsabili di questo strappo che non si è più ricucito, e che tuttora sanguina ogni volta che si riapre un fronte in Europa, nei Balcani come in Ucraina? Il patriarca di Costantinopoli nel 1054 era Michele Cerulario: e a Roma chi c'era? In teoria Leone IX, ma ecco: è difficile capire come siano andate le cose. È molto più facile notare come generazioni di storici e agiografi abbiano tentato di sminuire le responsabilità di questo papa che è venerato come un santo e ammirato come un grande riformatore; per cui attribuirgli uno scisma sembrava forse indelicato.  

Quando un papa sceglie, tra tanti nomi, Leone, di solito ci si aspetta che dia battaglia, e Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg ci provò, anche se alla fine non si può dire che ne vinse. Parente neanche troppo lontano dell'imperatore Corrado II, Brunone in quanto terzogenito era destinato alla carriera ecclesiastica, che non significava necessariamente passare la vita sui breviari. Ad esempio: per conquistarsi il titolo di vescovo della sua Toul, in Lorena, Brunone si mise a 24 anni a capo di un contingente di cavalieri teutonici che accompagnarono Corrado in una campagna in alta Italia. La responsabilità della missione sarebbe spettata al vescovo in carica, troppo anziano: Brunone era già il suo vice e se ne prese carico, in attesa di sostituirlo anche sulla cattedra. Questo precoce successo militare avrebbe segnato il suo destino, per più di un motivo. È probabile che Brunone nell'occasione si sia fatto un'opinione di sé che non sarebbe riuscito nei fatti a dimostrare: per prima cosa, un condottiero vincente – ma è destino dei condottieri continuare a vincere finché non perdono. Nell'occasione potrebbe anche essersi infiltrata nella sua coscienza quell'idea che noi postmoderni chiamiamo meritocrazia: la convinzione che ai posti di comando dovrebbero starci quelli che se lo meritano. Il che sarebbe ineccepibile, senonché molto spesso a parlare di meritocrazia è gente, fateci caso, con un cognome illustre: e arciconvinta di meritarselo. Brunone era figlio di conti (che gli avevano dato un nome che richiamasse quello di altri famosi prelati), parente di imperatori: se non avesse combattuto qualche battaglia a 24 anni sarebbe diventato vescovo comunque; magari un po' più tardi, ma lo richiedeva il suo lignaggio. E però era convinto di esserselo conquistato sul campo, non come certi vescovi a cui la cattedra gliela pagava papà perché si sistemassero, seguendo una pratica che la Chiesa ufficialmente denigrava. Tale pratica era chiamata “simonia”,  dal nome di quel Simone Mago che negli Atti degli Apostoli, invidioso dei miracoli praticati dai cristiani, aveva offerto denaro a Pietro affinché lo ammettesse tra gli apostoli. 

Per Brunone, che apparteneva a un movimento di riforma della Chiesa che si irradiava soprattutto dai monasteri cluniacensi, la simonia era uno scandalo che andava rimosso ad ogni costo, e non è nemmeno così necessario calarsi nella mentalità rigorista di un vescovo del secolo XI per condividerne i motivi: una Chiesa che metteva all’asta i ruoli apicali sarebbe stata inevitabilmente gestita da figli di papà solo raramente, e casualmente, competenti e meritevoli. E allo stesso tempo, non era la simonia un fenomeno inevitabile, in una società che considerava la carriera ecclesiastica come appannaggio delle famiglie più nobili, un modo di tenere impegnati i secondi o terzogeniti senza frazionare più di tanto l’asse ereditario? Da questi rampolli delle grandi famiglie ci si aspettava comunque che contribuissero alla gloria delle loro diocesi con donazioni di beni immobili, terre in beneficio e chiese monumentali, per cui davvero: c’era così tanta differenza tra Brunone e certi vescovi che per diventarlo cominciavano a pagare in anticipo? A distanza di secoli io non ci vedo tantissima differenza, ma capisco quanto fosse vitale per Brunone notarla e farla notare. Ad esempio, quando il vecchio vescovo di Toul passò a miglior vita, l'imperatore voleva investire Brunone senza tanti complimenti, ma quest'ultimo obiettò che la diocesi di Toul era soggetta a quella di Treviri, e che quindi la nomina spettava all'arcivescovo di colà. Giunto a Treviri, però Brunone scoprì che l'arcivescovo lo avrebbe nominato soltanto in seguito a un giuramento di fedeltà che non era previsto dal diritto canonico, sicché alla fine B. riuscì nell'impresa di litigare sia con l'imperatore sia con l'arcivescovo – ovvero con entrambe le autorità che dovevano designarlo. Così almeno scriveva il biografo ufficiale di Leone, mentre il papa era ancora in vita, ma guardando alle date qualcosa non va: tutto questo doppio braccio di ferro tra imperatore e arcivescovo dovrebbe essersi risolto (a favore di Brunone) in meno di due mesi, che in un secolo in cui le informazioni viaggiavano a cavallo passavano in un soffio. È probabile che le resistenze di Brunone siano state ingigantite dal biografo per dimostrare l’alto senso che aveva il futuro Papa per l’autonomia della Chiesa e le prerogative della sua carica, nonché per mascherare un’evidenza: nel giro di cinquanta giorni il vescovo designato dall’imperatore era già in cattedra, con tanti saluti all’autonomia della Chiesa e le prerogative eccetera. Da cui un sospetto: forse tutta la retorica antisimoniaca era funzionale all’affermazione di una nuova gerarchia selezionata direttamente dall’imperatore.

Vent’anni dopo la manfrina si ripeté, stavolta intorno al Soglio di Roma. Alla morte di papà Damaso II, l’imperatore (che ora era Enrico III, figlio di Corrado) non si diede nemmeno la pena di scendere in Italia: convocò una dieta a Worms e nominò Brunone. Brunone obiettò ovviamente che non era degno, ma soprattutto che la nomina spettava al clero romano e persino al popolo: dopodiché arrivò a Roma, vestito da umile pellegrino – ma accompagnato dal fior fiore dei riformisti, tra cui Ugo di Cluny e un giovane Ildebrando di Soana che da qui in poi sarebbe stato l’eminenza grigia dei pontefici riformisti, finché non sarebbe diventato papa lui stesso col nome di Gregorio VII. L’elezione fu una semplice ratifica della designazione imperiale, dopodiché Brunone (da qui in poi Leone) procedette a sorprendere i romani con atteggiamenti che ricordano, alla lontana, quelli di un’altro Papa venuto da lontano, Giovanni Paolo II: considerandosi, più che vescovo dell’Urbe, capo della Chiesa universale (o almeno imperiale), Leone si mise in viaggio e in sei anni di pontificato, si è calcolato che a Roma abbia trascorso soltanto qualche manciata di mesi. Ovunque andava, Leone convocava sinodi che servivano soprattutto a sollevare dai loro incarico i vescovi simoniaci – da sostituire ovviamente con uomini di fiducia di Leone e dell’imperatore. Ma forse perché la simonia non era sempre così facile da dimostrare, sempre più spesso nell’obiettivo di Leone e dei suoi collaboratori c’era un altro fenomeno, il Nicolaismo: l’abitudine di molti prelati a convivere con donne, dalle quali avevano persino bambini. Una plateale violazione dei voti sacerdotali (che però ci avevano messo secoli a essere formalizzati: e a Oriente i sacerdoti si sposavano tranquillamente) ma anche una seria minaccia all’unità patrimoniale della Chiesa. Non sempre le cose andavano lisce: a Mantova durante il sinodo del 1053 scoppiò un tumulto, animato a quanto pare dai servi dei vescovi convocati: vescovi evidentemente molto legati ai loro comportamenti simoniaci e alle loro concubine, sicché Leone dovette lasciare la città senza riuscire a punire nemmeno i colpevoli. 

Ma i veri problemi – che gli furono fatali – Leone li incontrò nel Meridione, dove nell'equilibrio già molto relativo tra ducati longobardi, arabi di Sicilia e Bizantini si erano inseriti con una certa prepotenza i Normanni. I papi li avevano appoggiati – in funzione antiaraba – ma ora cominciavano a temere il loro espansionismo. Leone IX decise di contrastarli proprio nel momento in cui, sul piano dottrinale, era ai ferri corti con i loro avversari: i Bizantini. Da questi ultimi Leone pretendeva, oltre al riconoscimento del primato di Roma (che in linea teorica il patriarca Michele Cerulario non avrebbe potuto discutere) anche la restituzione delle diocesi della Sicilia e del meridione, che dopo secoli di dominio bizantino erano passate al rito greco: e piuttosto di cederle il Cerulario era disposto a rivangare le vecchie polemiche di secoli prima, il filioque e la comunione coi pani azzimi, insomma tutti i pretesti che tornavano utili per minacciare uno scisma. Un politico più astuto forse avrebbe a questo punto sostenuto i Normanni in funzione antibizantina, ma Leone IX forse non lo era, per cui lo si ritrovò ad allearsi coi Bizantini che non riconoscevano la sua autorità spirituale contro i Normanni che invece la riconoscevano; una contraddizione che si sarebbe risolta se almeno Leone avesse vinto, ma prevedibilmente successe il contrario. Dalla Germania, Enrico III si limitò a mandare un contingente di cavalieri, ma non ritenne necessaria la sua presenza. Così toccò a Leone condurre l'esercito: spettacolo inconsueto anche nel medioevo. I Normanni riuscirono a sorprenderlo prima che si potesse riunire con gli alleati Bizantini e lo fecero prigioniero, che è sempre un fatto increscioso per un pontefice: e se anche tutte le fonti dicono che fu trattato con tutti gli onori, e liberato in meno di un anno, è pur vero che di lì a poco morì, ad appena 52 anni e alla vigilia dello scisma d'oriente. Nel frattempo, in effetti, il cardinale che Leone aveva inviato per trovare un compromesso col Cerulario (Umberto di Silva Candida) ottenne il risultato opposto: Umberto e Michele si scomunicarono a vicenda, decretando ufficialmente uno scisma che dura tuttora. A quel punto però Leone era già morto da qualche mese, il che ha dato ai teologi qualche argomento per sostenere che la scomunica impartita da Umberto non avesse più valore legale. Eppure lo scisma c'è, nessuno è più riuscito a risanarlo.

venerdì 18 aprile 2025

Ognuno potrà farsi la sua Storia su misura

Dopo un paio di settimane, è sintomatico che là fuori ancora qualcuno parli del video fake di Barbero. Una storia che sembra escogitata per confermare la saggezza di quegli indigeni che per prima cosa rompevano le macchine fotografiche agli esploratori, non perché le confondessero con delle armi, ma perché capivano benissimo cosa fossero: strumenti che servono a rubare la tua immagine, e quindi la tua anima. Per un secolo li abbiamo presi in giro e poi... abbiamo scoperto i deepfake.

Provo a riassumere. Bottura (che stimo e che saluto) scrive un programma su rai3, che come tutti i programmi rai durano un'ora, un'ora e mezza più di quanto dovrebbero durare per essere divertenti. Riempirlo di contenuti di qualità è economicamente impossibile, e questo conduce rapidamente il nostro autore a un patto col diavolo, ovvero con l'AI: la quale AI forse un giorno scriverà davvero testi interessanti, ma nel frattempo, ricordiamolo, il motivo per cui qualcuno la progetta e qualcun altro la usa è la possibilità di produrre ingenti quantità di contenuti scadenti in tempi brevissimi e a costo zero. È da sempre che su Splendida Cornice compaiono dei video deepfake, anche se di solito più brevi e soprattutto la Cucciari avvisa immediatamente che sono deepfake. Da cui la domanda: ma c'è una sostanziale differenza da quando i deepfake li usava Striscia per far ballare la macarena ai politici a quando li usa Bottura per far dire Barbero che armarsi è giusto? A parte il fatto che a tutti, ogni tanto dovrebbe venire il dubbio: ma se lo facessero a me, un video in cui dico cose in cui non credo, ne sarei contento? A parte questo ognuno risponda secondo coscienza. 

Il video in questione proponeva un paragone storico notevolmente più bislacco del solito. Di solito chi fa propaganda cerca di paragonare quello che sta succedendo oggi (chiamiamolo A) con quello che è successo in un altro periodo storico (chiamiamolo B) che infallibilmente è il 1939 – siccome la propaganda al 90% serve a giustificare delle guerre, e l'unica guerra che la coscienza collettiva dà per giustificata sin dalla scuola dell'obbligo è quella contro i nazisti, B è praticamente sempre il 1939. Bottura invece se ne esce con questa idea senza senso di un tentativo degli austriaci di conquistare l'Italia che non solo non è mai successo (cioè inventati uno scenario e poi arrabbiati perché nel tuo scenario accadono cose ingiuste) ma è anche una grottesca inversione di quello che hanno sperimentato i sudtirolesi dopo il 1918: dal loro punto di vista sono gli italiani che li hanno invasi, sono loro che li hanno forzati a parlare in italiano e/o, dopo il 1939 a levare le tende.

Il video fora l'attenzione collettiva, come purtroppo non succede mai alle cose meglio riuscite; tra i critici c'è anche chi nota che in questo caso qualcuno sta speculando sull'immagine di uno storico con un minimo di competenza per raccontare una storiella che non ha senso, uno scenario fittizio che non funziona. Lo stesso Bottura a un certo punto capisce di avere esagerato, almeno dal punto di vista tecnico, e ammette che in futuro starà più attento. Barbero dal canto suo la prende sportivamente, e quindi perché ne stiamo parlando ancora? Perché la fuori c'è gente che non solo è convinta che mettere in bocca a Barbero un messaggio opposto a quello che dice Barbero non sia una pratica scorretta, ma trova il contenuto del finto Barbero interessante. Parliamo di giornalisti, di esperti di comunicazione, di gente che sostiene di condividere con Barbero una passione per la Storia. Quello che hanno in comune, è l'avere sostenuto con molta causa una certo tipo di narrazione intorno al conflitto ucraino, e una non-accettazione del fatto che questa narrazione non avrà evidentemente un lieto fine. Il che li porta a contorsioni logiche e retoriche spettacolari – per chi vi assiste – ma forse anche pericolose.

In controluce c'è tutto un problema di ridefinizione della satira, un genere da cui la mia generazione si aspettava la "resistenza umana", ovvero la creazione di una dimensione altra in cui i torti del potere venivano vendicati da un'eletta schiera di autori satirici che in effetti erano molto bravi, fu un'età dell'oro, ma è finita; e ha lasciato questi cinque-sessantenni orfani non già di un'ideologia, ma di una cosa un po' meno interessante: una retorica. Se non si sono mai chiesti quale sia la differenza tra "satira" e "propaganda", non è per un caso, ma perché la risposta li schianterebbe: non c'è nessuna differenza. La chiamiamo "satira" quando se la prende coi nostri nemici – e in quel caso a quanto pare tutto le è concesso, anche rubare l'immagine e l'anima dei suoi avversari e indossarla per far loro dire il contrario di quello in cui credono – e "propaganda" quando se la prende coi nostri amici, nel qual caso, va da sé, è di regime. Ma se una la vediamo rossa e l'altra la vediamo blu, l'unica cosa che sappiamo davvero è la direzione verso la quale ci stiamo spostando. E questo è forse il motivo per cui continuiamo a parlare di questa storia abbastanza minuscola, mentre fuori si bombardano ospedali: qualcuno sta precipitando, non può più fidarsi dei maestri, come Barbero, nei quali aveva riposto illimitata fiducia; deve ricostruirsi un sistema morale e deve farlo alla svelta; e per quanto non sembri una buona idea, l'AI è lì a disposizione: non costa niente, è veloce, convincente, ormai la usano tutti, insomma perché no. 

lunedì 14 aprile 2025

Tomaide e Abbondio

14 aprile: Santa Tomaide d'Alessandria, vergine e martire (♱476)

Oggi li chiamiamo femminicidi e alla fine non li trattiamo molto diversamente: ne discutiamo, cerchiamo di esecrare gli assassini, di ricordare le vittime, di dare un senso al loro sacrificio. Per molto tempo questo compito, che oggi spesso è demandato ai cronisti di nera, se lo è assunto la Chiesa. Nell'Alessandria d'Egitto del quinto secolo – forse la città più grande del mondo – Tomaide è una ragazza che resiste alle avances pesanti del suocero. Quest'ultimo è un pescatore già anziano che in quello che oggi i giornalisti definirebbero "raptus omicida" la taglia a metà. Poi diventa cieco e si costituisce (verrà decapitato). Tomaide diventa immediatamente oggetto di venerazione, il che ci fa capire come il concetto del martirio si stesse allargando; Tomaide in effetti non è morta per difendere la fede cristiana, che ad Alessandria è maggioritaria (se non praticamente obbligatoria, a quasi un secolo dall'editto di Tessalonica). Non lotta nemmeno per offrire la sua verginità a Dio, visto che era già sposata. Tomaide lotta per lo stesso motivo per cui lotterà Maria Goretti un millennio e mezzo dopo, per lo stesso motivo per cui lottano le ragazze in ogni epoca e di ogni religione. Le martiri della violenza sessuale sul calendario non sono numerose, ma ricorrenti, e illustrano la posizione della Chiesa sul problema (che non fu la stessa nei secoli, e variava col variare delle nozioni; Agostino ad esempio, contemporaneo di Tomaide, nella Città di Dio sembra rifiutare l'idea che la violenza si possa consumare senza che la donna sia almeno in parte consenziente, una concezione quindi molto più antica dei blue jeans attillati: solo morendo la vittima poteva insomma dimostrare la sua contrarietà all'atto). 
Anche Tomaide divenne famosa per un olio, che in quel caso non distillava dalle ossa, ma era semplicemente l'olio che veniva usato per alimentare il lume sulla sua tomba, dopo che il corpo fu traslato a Costantinopoli. L'olio di Tomaide serviva ad allontanare le tentazioni carnali: e se mi chiedete come si faceva a ottenere olio da un lume, che l'olio in effetti lo brucia, non so che dirvi, non saprei proprio come ricavarlo. Saprei invece come usarlo.


Anonimo
15 aprile: Sant'Abbondio, mansionario (VI secolo)

Il patrono di don Abbondio è un santo che apparentemente non gli somiglia, un presbitero umile ma che svolge con grande dignità le sue funzioni di mansionario presso la basilica vaticana (quella vecchia, poi distrutta nel Rinascimento per far posto al guazzabuglio barocco). Il mansionario è un viceparroco senza incarichi amministrativi: in sostanza deve dire messa e amministrare i sacramenti. Un giorno una ragazza disabile, che in quella chiesa è una presenza fissa, le si para davanti: sostiene di avere avuto, a forza di preghiere, un'udienza in sogno con San Pietro in persona, e che San Pietro le ha detto per la guarigione di rivolgersi al mansionario. Eh, beh, se te l'ha detto San Pietro... Abbondio, che fino a quel momento non aveva mai pensato di poter fare un miracolo, senza fare una piega prende la mano della ragazza e la guarisce. L'episodio, riportato da Gregorio Magno nei suoi Dialoghi, è un manifesto della santità cattolica: Dio concede la grazia attraverso tutta una gerarchia di intermediari, uno in cielo (Pietro) e uno in terra (Abbondio). Questo è tutto quello che sappiamo del santo di oggi, che a volte viene confuso col vescovo patrono di Como, nato a Tessalonica e morto nel 499: ma è probabilmente un Abbondio diverso (molte pagine web sostengono che il vescovo sia "morto sul rogo", non si capisce per quale motivo, visto che il Cristianesimo era ormai religione di Stato da un secolo). Abbondio il mansionario è il patrono di tutti i dipendenti a cui un boss chiede di fare qualcosa di impossibile e loro, senza scomporsi più di tanto, lo fanno, o almeno ci provano. In fondo anche Manzoni chiede al suo don Abbondio di mostrare coraggio in un mondo di gangster: salvo che il suo Abbondio invece di essere un santo è un uomo come noi.

domenica 13 aprile 2025

Rolando Rivi, una storia sbagliata

 13 aprile – Beato Rolando Maria Rivi, martire ragazzo  (1931-1945)

Di foto direi c'è solo questa

Pensavo che non avrei mai scritto nulla su Rolando Rivi. Le storie dovrebbero avere una morale, un senso, e in quella del povero Rolando fin qui non l'ho trovata – se non che in guerra succedono cose tragiche e stupide. Rolando forse morì perché in quanto seminarista si ostinava a vestire da pretino, anche se i genitori glielo avevano sconsigliato – con tutti i partigiani che c'erano in giro, e che già stavano facendo impazzire il prete vero. Rolando avrebbe obiettato almeno una volta che lui preferiva vestirsi così perché apparteneva a Dio, ("la tonaca è il segno che io sono di Gesù"), che è una cosa che può dire un ragazzino a quattordici anni inconsapevole dei pericoli, ma nel suo caso è anche la ragione per cui per il Dicastero delle Cause dei Santi poteva considerare la sua esecuzione un martirio in odium fidei: Rolando in effetti fu ucciso da una formazione partigiana per spaventare il vero prete, o perché il vero prete non si poteva ammazzare, o semplicemente perché vestiva come un prete (da cui la leggenda che poi gli assassini abbiano appallottolato i suoi abiti per giocare a pallone: poco verosimile, se avete mai provato a calciare un pallone di tela). Abbiamo tutti disobbedito ai nostri genitori vestendo in un modo che loro non approvavano, e per questa cosa Rolando è stato ucciso – stupidamente – da partigiani che poi cercarono di convincere i genitori, e una giuria, e sé stessi, che Rolando vestito da prete andava in giro per l'appennino facendo la spia: e non ci riuscirono. Dieci giorni dopo la guerra era finita; alla voce "Triangolo della morte (Emilia)" di Wikipedia, Rivi è il primo della lista delle vittime. 

Le storie dovrebbero avere una morale, un senso, ma quello che riesco a dedurre è che nemmeno in guerra la stupidità ci dà tregua, trasformando in goffi assassini quelli che erano saliti in montagna per fare gli eroi, e in martiri dei ragazzini che magari si sentivano a disagio a vestire in borghese. Ovvio che raccontandola in questo modo riuscirei a ferire sia chi venera il martire, sia chi difende la lotta partigiana: ed entrambi hanno le loro ragioni che capisco e dovrei rispettare, per cui pensavo che non avrei mai scritto nulla su Rolando Rivi. Poi ho letto che a Monchio la sua lapide era sparita. Non è la tomba, ma è la pietra che ricorda il luogo dove Rolando fu ucciso, davanti alla buca già scavata, secondo alcuni dopo aver chiesto di pregare per i genitori; secondo altri mentre piangeva e implorava pietà appeso alla gamba di chi impugnava la pistola. Lì i cattolici avevano messo una lastra di marmo e qualcuno l'ha tolta: a ottant'anni dalla morte di Rolando, la stupidità non ci ha affatto abbandonato, il che non è una sorpresa ma nemmeno una buona notizia. Così scriverò un pezzo su Rolando Rivi, che prima o poi verrà anch'esso cancellato; ma a questo punto se non scrivessi niente mi sentirei reticente. Non sono reticente. 

Sugli ultimi giorni di Rolando esistono, a volerle semplificare, tre versioni. La prima, quella raccontata dai partigiani al processo, descrive i movimenti di un ragazzo intraprendente, che si aggira per l'Appennino dal 10 aprile, imbattendosi in varie bande partigiane, fornendo informazioni false che fanno cadere una formazione in un agguato che costa la vita a sei partigiani; chiedendo a ogni distaccamento la posizione di un altro distaccamento che intendeva raggiungere, finché tutti si fanno l'idea che il ragazzo stia cercando di fare la spia; lui nel frattempo ha sottratto una pistola e quando i partigiani della Garibaldi, allertati da due contadini, decidono di fermarlo, la punta contro uno di loro, ma fa cilecca. Viene quindi fermato da un plotone della Garibaldi, che lo perquisisce e scopre che ha con sé cinquecento lire; inoltre sotto l'abito nero da seminarista veste una canottiera su cui è cucito un fascio littorio. Durante l'interrogatorio, conferma di aver ricevuto il denaro dal commissario del Comune di Castellarano in cambio di informazioni, e asserisce spavaldamente che, se l'avessero rilasciato, sarebbe andato a far rapporto. Insomma è reo confesso di spionaggio e tradimento, per cui dopo un rapido processo il distaccamento, costituitosi a giuria, lo condanna a morte. A eseguire la condanna fu il commissario politico, Giuseppe Corghi, che all'epoca aveva 28 anni. Non solo Corghi non negò mai l'accaduto, ma questa versione la raccontò direttamente al padre di Rioli, che dopo qualche giorno di affannose ricerche (a piedi, in mezzo alla guerriglia) era riuscito a individuare l'ultima formazione partigiana con cui era stato visto suo figlio. La versione divenne poi la tesi difensiva al processo del 1951: a difendere Corghi e il comandante del distaccamento Narcisio Rioli, il PCI inviò Leonida Casali, che fece del suo meglio recuperando diverse testimonianze; la storia comunque faceva acqua da molte parti. Ad esempio: secondo le disposizioni del Comitato di Liberazione, Corghi non avrebbe avuto l'autorità per eseguire una condanna a morte. Questo forse nel 1945 Corghi non lo sapeva, ma sei anni più tardi lo stimolò a cambiare la versione: a Rivi aveva dovuto sparare perché stava scappando. Oppure invece no, non stava esattamente scappando, ma la situazione era tesa, la formazione si stava spostando e non avrebbe potuto gestire un prigioniero. Inoltre il commissario prefettizio di Castellarano, quello che avrebbe pagato le 500 lire a Rolando, non era affatto caduto in disgrazia dopo il 25 aprile: per cui poté testimoniare che non l'aveva mai incontrato.

La seconda versione è quella del padre di Rolando, che da subito fu adottata dalla stampa di area democristiana. Il 10 aprile il padre si era accorto della sparizione del figlio perché aveva trovato, nel luogo dove si appartava quotidianamente a pregare, il suo breviario (altre fonti dicono un suo quaderno) con un foglietto. Sul foglietto c'era un messaggio che diverse fonti riportano con qualche differenza: ma la versione più accreditata è: "Non cercatelo, viene un attimo con noi partigiani". Il padre, in compagnia di un sacerdote (don Camellini), comincia subito a cercarlo presso le varie formazioni, nella speranza che il figlio abbia semplicemente deciso di unirsi a una brigata: magari di quelle cattoliche di cui aveva sentito parlare e per le quali nutriva una grande ammirazione. Le cinquecento lire che si trovava in tasca erano una ricompensa del parroco di San Valentino per i servizi prestati durante le funzioni religiose. Rolando insomma era stato prelevato dai partigiani, forse come atto di ostilità verso il parroco, che già in precedenza era stato minacciato. Inoltre il ragazzo era stato malmenato: lo confermò al processo del 1951 la padrona della casa dove i partigiani avevano condotto Rolando per l'interrogatorio. La signora, settantenne, non aveva assistito direttamente all'interrogatorio, ma aveva sentito i colpi. 

La terza versione è una sintesi piuttosto recente delle prime due, che ha preso vita in quell'area post-giampaolopansesca che possiamo anche definire revisionista. Con l'avvertenza che Pansa, molto prima di essere uno storico o un revisionista, è un narratore: e anche i suoi discepoli risentono di questa impostazione, dando spesso rilievo a dettagli incongrui o esagerazioni che uno storico professionista liquiderebbe a prima vista come incrostazioni leggendarie (ad esempio la storia della partita a pallone con la tunica di Rolando, che serviva ai cattolici per ribadire l'odio dei partigiani comunisti per l'abito del prete; o la voce, non avvalorata da nessun testimone, che Rolando sia stato torturato per tutto il tempo della detenzione). Ma insomma secondo questa versione Rolando era davvero un ragazzo intraprendente e un po' impiccione, anche se non una spia; avrebbe veramente voluto unirsi alla Brigata Italia dei cattolici, che era il motivo per cui continuava a chiedere a tutti quelli che incontrava dove la Brigata si trovasse: e forse in questa ricerca era stato instradato da qualche falso amico che invece militava nella Garibaldi. Queste, molto in sintesi, le tre versioni, e siete liberi di credere quello che volete. I partigiani hanno combattuto perché voi foste liberi di credere in quello che volete (anche Rolando, paradossalmente, è morto per lo stesso motivo). 

Quanto a me, io sono un pessimo investigatore: di solito mi affeziono a un indizio e non riesco più a levarmelo dalla testa. In questo caso, il bigliettino. Soprattutto la frase "viene un attimo con noi partigiani", che mi sembra troppo strana per essere inventata: quindi più plausibile (lectio difficilior) di altre frasi riportate da altre fonti. Quell'"un attimo" contiene un sarcasmo troppo crudele perché un padre possa essersela scritta da solo. Se davvero qualcuno ha scritto "un attimo" (e non riesco più a immaginare che non l'abbia scritto), quella persona stava giocando con il ragazzo come il gatto col topo. Altre cose che fatico a immaginare: un prefetto che offre denaro a un quattordicenne in cambio di confidenze; un ragazzino che gira liberamente tra le bande partigiane vestito da prete per dare ancor più nell'occhio. Insomma ho più di un motivo per credere alla seconda versione, anche se alla fine l'unico indizio decisivo per me è quel biglietto.

Mi piacerebbe raccontare storie con una morale chiara, un senso; ma non sempre è possibile. È lo stesso motivo, in fondo, per cui la Chiesa inventa i santi: dare un senso a vite che se lo sarebbero meritato; tutte le vite se lo meriterebbero. Rivi sarebbe diventato un buon sacerdote, o forse pessimo. Non lo sapremo mai; in compenso è stato proclamato Beato da papa Francesco e ha già guarito almeno un malato terminale nelle Filippine. Inoltre nel 2018 la Pieve di Castellarano è diventata il Santuario del Beato Rolando Rivi, e per l'occasione i fratelli di Rolando hanno abbracciato la figlia di Giuseppe Corghi, che aveva scoperto la storia soltanto da adulta (e sì che il padre qualche anno di prigione lo aveva fatto, prima dell'amnistia Togliatti). Nel 2013 invece a Rio Saliceto (RE) alcuni genitori protestarono per la visita organizzata a una mostra sul Beato Rolando Rivi, che avrebbe offeso la memoria della guerra partigiana. E io sinceramente capisco tutti. Capisco i preti, che celebrano un loro martire; capisco la figlia di un assassino, che non sapeva di esserlo e sente il bisogno di essere perdonata pubblicamente per un reato che non si è nemmeno sognata di commettere; capisco i genitori che non vorrebbero che la prima lezione sulla Resistenza impartita ai figli fosse quella in cui dei partigiani ammazzano un ragazzo innocente. Se voi state leggendo qui siete adulti, partecipate a quell'esiguo percentile di adulti che ancora legge lunghi testi scritti evidentemente per passione. Sapete benissimo, lo avete studiato, che in ogni guerra vengono commessi crimini insensati, e che questo non è un motivo per stabilire che la tale guerra non andava combattuta. 

Se avete figli, o se li avrete, e vi chiederanno cos'è stata la Resistenza, probabilmente cercherete di imbastire un breve discorso su quanto fosse necessario resistere a nazisti e fascisti. Da lì poi si può partire per un discorso un po' più lungo, un po' più complesso; finché questa complessità potrà anche farsi carico dell'enorme stupidità che ovunque ci soverchia, di modo che verso la fine del secondo ciclo di istruzione non sarebbe affatto sbagliato cominciare a introdurre il tema dei crimini commessi anche dai partigiani. Sono sinceramente convinto che la Storia s'impari così, tornando e ritornando sugli stessi argomenti, aggiungendo sempre più complessità man mano che il nostro giudizio critico ci consente di gestirla: e di solito, quando m'imbatto in qualcuno che ha problemi con la Storia, noto che non ce l'ha fatta, che è stato investito troppo presto da un concetto troppo complesso per lui. È un tratto tipico dei complottisti, fateci caso, la fissa maniacale per uno o due episodi storici memorizzati con troppa attenzione senza conoscere il contesto. È il problema di Pansa, che pur avendo studiato la Resistenza alla fine l'aveva riscoperta da giornalista e la trattava come una materia opaca da cui disseppellire dei casi da offrire a un pubblico che voleva esattamente sentirsi dire che i partigiani non erano dei santi: no, non lo erano. Ma ai bambini prima devi raccontare chi erano i nazisti e i fascisti, e soprattutto cosa fecero. Monchio la misero a ferro e fuoco, uccidendo donne e bambini, risparmiando solo un violinista forse perché sapeva suonare Beethoven. Poi gli spieghi chi erano i partigiani: persone normali che a rischio della vita cercavano di contrastare i nazisti e difendere la popolazione. Non erano addestrati e in molti casi fecero disastri: se l'argomento vi interessa avrete tutto il tempo della vita per tornarci, ma no, in coscienza non credo che sia il caso di cominciare dai disastri. Non è reticenza. È senso delle proporzioni forse. Non è paura di parlarne: vedete, ne ho parlato. 

giovedì 10 aprile 2025

Un frate sposato e un monaco non venerabile

10 aprile: Beato Antonio Neyrot da Rivoli, martire (1423-1460)

Su EBay sta a 29,99, dice che è rarissimo

Per tutto il Basso Medioevo, il cristianesimo si è rifranto contro l'Africa come contro un muro. Se abbatterlo era fuori questione, anche solo penetrarlo si rivelava periodicamente impossibile. Falliscono i primi missionari francescani in Marocco, che almeno hanno la consolazione di morire da martiri; fallisce Francesco stesso, che in Egitto riesce a impressionare il Sultano ma non lo converte; fallisce Antonio da Padova, che si ammala appena mette piede nel continente; fallisce Re Luigi il Santo, che ci prova due volte finché non muore di dissenteria. Ci prova anche, due secoli dopo, il domenicano Antonio Neyrot (o Neirotti) da Rivoli, ma il suo caso è abbastanza singolare, e si capisce perché non gli abbia assicurato una maggiore fama; a quanto pare, prima di morire eroicamente da martire a Tunisi, Antonio si era convertito all'Islam, e addirittura sposato!

È una storia di cui sappiamo poco, né chi l'ha tramandata aveva interesse a saperne di più. I resti di Antonio vengono acquisiti da mercanti genovesi e ritornano a Rivoli nel 1469, nove anni dopo il suo martirio. Probabilmente non erano in un buono stato. I mercanti avevano tutto l'interesse a sostenere di avere acquisito i resti di un martire della fede, i cui resti emanavano il caratteristico profumo: e tuttavia non era affatto chiaro cosa ci facesse Antonio a Tunisi. L'Ordine non ce l'aveva mandato, e si sa che uno dei voti dei domenicani è l'obbedienza. Ma Antonio da questo punto di vista forse non era il perfetto tra i frati. I suoi anni di apprendistato li aveva trascorsi nel convento di San Marco a Firenze, il che ha spinto qualche agiografo a collegarlo con Antonino Pierozzi, il famoso priore che divenne arcivescovo al posto del Beato Angelico. Se Antonio fece in tempo a essere allievo di Antonino, doveva davvero essere l'ultimissimo; dopodiché a venticinque anni avrebbe chiesto un trasferimento in Sicilia. Questo rappresenterebbe un indizio delle velleità missionarie di Antonio; ma davvero nella Sicilia del Quattrocento c'era tutta questa esigenza di missionari? E infatti il priore non era affatto convinto; sicché Antonio avrebbe fatto ricorso nientemeno che alla Santa Sede. È una storia strana, che sconfina definitivamente nel romanzesco quando qualche anno dopo la nave in cui viaggiava viene catturata dai pirati berberi che conducono i passeggeri a Tunisi per venderli come schiavi. Non è che queste cose non succedessero davvero, ma non è chiaro come mai il vascello si trovasse sulla tratta Sicilia-Napoli: stava tornando a Firenze? A Tunisi viene riscattato da un mercante genovese: anche queste cose succedevano; ma invece di tornare in Italia con lui, Antonio decide di restare in città, non si sa bene con che budget. In un qualche modo riesce a trovarsi una sistemazione, e nel 1459 si converte all'Islam e si sposa. Non è chiaro di cosa vivesse, ma gli agiografi riportano i suoi tentativi di tradurre il Corano in italiano. Un altro dettaglio bislacco: i  buoni musulmani non apprezzano le traduzioni del libro di Dio, che è tale solo quando è scritto nella lingua in cui fu dettato a Maometto, ovvero l'arabo. Tradurlo sembra un gesto più da studioso che da devoto, per cui non possiamo escludere che Antonio fosse arrivato in Africa per soddisfare una curiosità antropologica più potente della vocazione religiosa. La sua storia per certi versi somiglia all'avventura africana di Vincenzo De Paoli, anche lui rapito dai pirati e rivenduto a Tunisi un secolo e mezzo dopo. E in entrambi i casi si insinua nella nostra mentalità scettica il sospetto: ma davvero se la cavavano così bene, gli schiavi cristiani a Tunisi: davvero riuscivano a riscattarsi così facilmente e trovarsi subito qualche professione interessante? Non è possibile che almeno uno dei due sant'uomini in Africa ci sia andato volontariamente, magari perché il vestito di religioso che indossavano in Europa gli stava stretto e la prospettiva di fare altro, magari anche di farsi una famiglia, li tentava? 

Ma non c'era niente da fare: l'Africa respingerà, ancora per qualche secolo, anche i cristiani pentiti. Vincenzo tornerà in Francia dopo due anni, in seguito a una misteriosa traversata che non vorrà mai raccontare in dettaglio. Nel 1460 invece Antonio viene lapidato, probabilmente per apostasia. Possiamo ipotizzare che fosse rimasto cristiano tutto il tempo, come i musulmani in Spagna e in Sicilia che si facevano battezzare ma continuavano di nascosto a pregare in direzione della Mecca; oppure si era stancato di sua moglie; o la moglie si era stancato di lui e l'aveva denunciato, chi lo sa. Agli agiografi tornava più utile raccontare che il fatale ravvedimento fosse stato ispirato da un'apparizione in sogno del vecchio maestro Antonino Pierozzi. Al martirio avrebbe assistito un frate gerolamino, Costanzo da Carpi, che avrebbe scritto la prima agiografia su di lui; un altro resoconto fu fornito dal domenicano siciliano Pietro Ranzano, che avrebbe avuto accesso a lettere provenienti da Tunisi. Tanta documentazione, come si vede, non ha affatto chiarito l'ambiguità del caso: anzi ogni dettaglio sembra smentire un pezzo di storia. Persino il ritrovamento del corpo, che dopo un tentativo di bruciarlo, le autorità avrebbero abbandonato una discarica; eppure i mercanti genovesi dovettero spendere qualcosa per riscattarlo. Dove si vede la potenza del commercio: quel che a Tunisi era un rifiuto da smaltire, a Genova sarebbe diventata una preziosa reliquia che Amedeo duca di Savoia avrebbe acquisito, non senza un esborso importante.


10 aprile: San Beda il Giovane (IX secolo), non il Venerabile

I genovesi c'entrano qualcosa anche con la storia di Beda il Giovane, l'ennesimo esempio di come un equivoco possa trascinarsi per secoli e trasformarsi in una leggenda. Beda sarebbe un chierico sassone che dopo una pluridecennale esperienza professionale a corte di Carlo Magno avrebbe scelto di ritirarsi a vita contemplativa in uno dei luoghi più umili al mondo, che al tempo era già il Polesine. Nel monastero di Gavello avrebbe passato gli ultimi anni della sua vita sempre studiando, insegnando e rifiutando offerte di promozione ad abate o vescovo. Alla sua morte, sopraggiunta verso l'883 (ma è una data veramente molto avanzata per un ex cortigiano di Carlo), sarebbe stato sepolto dai confratelli nel monastero e fatto oggetto di una venerazione piuttosto tiepida, visto che quattro secoli più tardi un monaco genovese, Giovanni Beacqua, avrebbe scoperto la sua tomba quasi per caso in questo monastero ormai abbandonato tra le paludi, e organizzato in fretta e furia la traslazione dei resti mortali di San Beda presso il monastero di San Benigno di Capofaro (GE). Ora, tutto questo potrebbe anche non essere mai successo, perché l'unica fonte di tutta la storia è una cronaca anonima che confondeva questo Beda sassone trapiantato in Polesine col più illustre Beda il Venerabile, vissuto quei due secoli prima in Inghilterra. O più facilmente preferiva confonderli, e sostenere che Giovanni Beacqua avesse recuperato le ossa di un santo così importante, pensate, in territorio veneziano; e di essersele portate a Genova senza tanti complimenti. Per tutto il resto del Duecento abbiamo la sensazione che i fedeli genovesi credessero di custodire le ossa del Beda importante (quello che tra l'altro aveva proposto di contare gli anni a partire dalla nascita di Cristo), e soprattutto di averlo sottratto ai veneziani. L'errore sarebbe stato scoperto più tardi, forzando gli agiografi a separare i due Beda, il Venerabile e il Giovane: quest'ultimo piuttosto evanescente.

mercoledì 9 aprile 2025

Demetrio, o il Dio in incognito

Icona russa del XVIII sec.
9 aprile: San Demetrio di Tessalonica, mistero 

Demetrio è uno dei casi in cui più grande è il distacco tra quanto un santo è venerato e quanto è conosciuto, nel senso che pur essendo un santo molto importante (soprattutto nelle Chiese orientali, dove però la sua festa è in ottobre) non abbiamo idea di chi sia e di cos'abbia fatto o se se sia nemmeno mai esistito. In occidente la sua fama ebbe un'impennata durante le crociate, per cui la sua situazione è in qualche modo simile a quella di San Giorgio (col quale forma una coppia di combattenti vagamente simile ai soliti dioscuri): antichi soldati romani, che magari erano stati martirizzati proprio perché si rifiutavano di combattere per imperatori pagani, innalzati mille anni dopo come stendardi da soldati venuti ad ammazzare musulmani. Ma se di Giorgio qualcosa sappiamo, Demetrio non risulta nemmeno in una lista dei martiri di Tessalonica del terzo secolo: un dettaglio molto strano, dal momento che Tessalonica (oggi Salonicco) nel medioevo era il centro del suo culto: tanto che nei documenti curiali ci si lamentava che i tessalonicesi venerassero più Demetrio che Cristo. Come nel caso dell'altro santo popolarissimo nel Mediterraneo orientale, Nicola, un veicolo importante del culto era un olio miracoloso che in teoria sgorgava dai resti del santo; in teoria, perché questi resti non era possibile vederli. L'olio aveva ovviamente proprietà curative e non ci è dato sapere se la sua messa in commercio sia nata dalla popolarità del santo, o se viceversa il santo abbia avuto successo perché in effetti l'olio era buono.  

Giorgio e Demetrio sconfiggono un drago (monastero di Sumela, Trebisonda)

Nel Settecento i Bollandisti ipotizzano che il Demetrio di Salonicco sia lo stesso Demetrio di Sirmio (oggi Mitrovic in Bosnia): il che spiegherebbe come mai, malgrado un culto così importante, a Salonicco di resti veri e propri non ce ne fossero. Siccome si trattava di un santo soldato, per i Bollandisti era facile ipotizzare che il trasferimento del culto non avesse seguito la traslazione di un cadavere, ma lo spostamento di una legione da Sirmio a Tessalonica. A Sirmio per la verità Demetrio non faceva il soldato, ma il diacono: una volta trasferito nella nuova città avrebbe però perso la sua identità, mantenendo unicamente il ruolo di protettore dei soldati. L'ipotesi è convincente, ma non possiamo nemmeno accantonare la proposta avanzata nel 2000 da uno storico americano, David Woods, che fa notare come le uniche reliquie custodite a Salonicco non fossero ossa, com'era tipico, ma una sciarpa e un anello. È una combinazione di oggetti assai rara, per non dire unica: molto singolare quindi il fatto che una simile coppia di oggetti fosse menzionata dal poeta Prudenzio nel Peristephanon, associata a due martiri spagnoli, Emeterio e Chelidonio. Da cui un'ipotesi: e se i due oggetti fossero arrivati a Tessalonica dalla Spagna, magari portati dall'imperatore Teodosio durante i suoi soggiorni in città (379-380)? Le reliquie, custodite in un luogo sacro, sarebbero state rapidamente dimenticate e riscoperte trent'anni dopo da un prefetto dell'Illiria, Leonzio, che nei paraggi era guarito miracolosamente da un male e voleva capire quale santo lo aveva salvato (i maliziosi penseranno che voleva fondare un nuovo luogo di culto, o magari lanciare una sua linea di olio). Il ritrovamento delle reliquie da parte di Leonzio è documentato da ben due Passio: secondo Woods, Leonzio avrebbe potuto trovato il nome "Emetrius" e aver pensato che la D iniziale era andata cancellata, come doveva succedere spesso in quei secoli in cui la gente scriveva sulle pietre, sulla terracotta e altri materiali facilmente sbrecciabili. Avrebbe quindi deciso di portare anello e sciarpa in una chiesa che a Tessalonica esisteva già, ed era dedicata al Demetrio di Sirmio, contribuendo involontariamente a fondere l'immagine dei due santi. 

Questa è in assoluto la storia più interessante che sono riuscito a trovare su San Demetrio. In realtà stavo cercando qualcuno che si attentasse a collegare il santo con culto del dio Mitra, molto diffuso proprio negli stessi secoli (III e IV) e proprio in ambiente militare. Davo per scontato che ne avrei trovati, dopotutto Demetrio in bosniaco si dice proprio "Mitra" (e Sirmio oggi si chiama Sremska Mitrovica). Certo, c'è il solito problema che di Mitra sappiamo davvero poco, proprio come di San Demetrio. Non pochissimo, ma molto poco rispetto all'importanza che ebbe il culto negli stessi secoli in cui si stava diffondendo il cristianesimo. Veniva senz'altro da oriente (esiste un Mitra indù, dio solare degli affari; e un Mitra persiano, dio dell'amicizia e dei contratti), verso il primo secolo si diffonde nell'Impero, soprattutto nelle zone con alta concentrazione di accampamenti militari, com'è il caso dei Balcani. È ancora un Dio solare, ma più timido di Gesù: non cerca grandi folle, ma piccole comunità che praticano riti misterici di cui non sappiamo quasi niente. Sono comunità esclusivamente maschili, e questo forse fu l'aspetto che condannò il mitraismo, nel mentre che il cristianesimo si diffondeva offrendo alle ricche matrone un modo di rendersi protagoniste della gestione economica di intere comunità. Ci ha lasciato centinaia di mitrei, luoghi di culto dalla forma facilmente riconoscibile, sale rettangolari senza finestre in cui la comunità compiva le sue liturgie festeggiando ogni sette giorni il sole con un pasto rituale che, ammette lo stesso Tertulliano, ricordava parecchio il banchetto eucaristico dei cristiani. Il culto scompare all'improvviso a fine quarto secolo, quando proprio a Tessalonica l'imperatore Teodosio dichiara con un editto i non cristiani eretici e "dementes". Proprio per le sue caratteristiche misteriche, il mitraismo avrebbe potuto sopravvivere in clandestinità ancora per qualche generazione, anche tra i ranghi dell'esercito: per finire presto o tardi normalizzato, magari con l'istituzione di un Demetrius a nascondere quel che restava di un Deus Mitra. 

Mitra era di solito raffigurato nell'atto di uccidere un toro: una raffigurazione chiamata tauroctonia, in cui sono coinvolti anche un serpente, un cane (che bevono la ferita dal collo) e uno scorpione (attaccato ai testicoli). La tauroctonia probabilmente ha un significato astrologico: Toro, Scorpione, Cane Maggiore (o Cane Minore), e un non meglio precisato Serpente (l'Idra) rappresenterebbero le costellazioni in cui il sole transitava a partire dall'equinozio di primavera nell'era del Toro, più o meno 4000 anni fa; perché oggi, a causa della precessione degli equinozi, il sole passa dai Pesci (e verso il 2500 passerà dall'Acquario). Forse la Tauroctonia è lontanamente imparentata col tetramorfo che attraverso il libro di Daniele arriva al cristianesimo: la nube in cui compaiono un angelo, un vitello, un'aquila e un leone (in seguito identificati con gli evangelisti). San Demetrio purtroppo non compare mai nell'atto di uccidere un toro – un'immagine così avrebbe chiuso la questione, ma ormai anche se la vedessi penserei a un fake digitale. In ambito occidentale a volte trafigge con la lancia un uomo scuro di pelle, ma è un'iconografia chiaramente ispirata alle crociate e all'identificazione del nemico con il moro. Magari il moro ha preso il posto del toro (il cambio di iniziale funziona anche in latino: taurus, maurus). Quando il saggio cercava di metterci in guardia dal Demone dell'Analogia, credo si riferisse a questo tipo di coincidenze.

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