[Questo pezzo è da considerare il seguito del Gesuita nella giungla, che apparve per la prima volta sul Post proprio dieci anni fa. In mezzo in realtà ci sono altre puntate che sono andate perse, anche loro, come pagine di un dossier lasciate alla deriva sul Fiume delle Perle].
Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del commercio procede in una atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba surriscaldata; proseguimmo lungo la costa informe delimitata da una risacca pericolosa, quasi che la natura stessa avesse voluto respingere gli intrusi; entrando e uscendo dai fiumi, vive correnti di morte, le cui rive imputridivano nella melma, le cui acque, ispessite dal fango, invadevano le intricate mangrovie che sembravano torcersi verso di noi in un eccesso di disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché potessi ricavarne un’impressione particolare, ma sentivo crescere in me un sentimento diffuso di vago e opprimente stupore. Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso immagini da incubo...
Il profilo di una giunca contro il sole del tramonto, che tinge d'arancio un'ansa del Fiume delle Perle. La giunca è ormeggiata; da riva si sente qualcuno che grida in lontananza, con l'affanno di chi fugge per salvarsi la vita. Sottocoperta, nella penombra, fra Marcelo riceve un'ambasciata.
Davanti a me stava un ragazzino spaventosamente magro, dai lineamenti selvaggi. Non avesse portato il saio francescano della Piantagione, lo avrei creduto un figlio della giungla, allevato dalle scimmie. Per questo ammetto che mi spaventai a morte quando lo sentii parlare in uno spagnolo quasi credibile, lui che fino a un attimo prima si era spiegato soltanto a gesti.
"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".
Lo schiavetto era spuntato all'improvviso dalla boscaglia. Come avesse potuto raggiungerci da solo, senza un'imbarcazione, era un mistero che si sarebbe portato con sé. Don Guillermo aveva uomini lungo tutto il fiume? Mi faceva seguire? Cosa voleva da me?
Anche Felipe, il mio attendente, era sbiancato.
Davanti a me stava un ragazzino spaventosamente magro, dai lineamenti selvaggi. Non avesse portato il saio francescano della Piantagione, lo avrei creduto un figlio della giungla, allevato dalle scimmie. Per questo ammetto che mi spaventai a morte quando lo sentii parlare in uno spagnolo quasi credibile, lui che fino a un attimo prima si era spiegato soltanto a gesti.
"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".
"Come ti chiami?"
"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma..."
"Ho capito, ho capito".
"... rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".
"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma..."
"Ho capito, ho capito".
"... rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".
"Ho capito".
Non mi avrebbe detto altro. Aveva imparato a memoria soltanto quella frase, da recitare nel caso mi avesse trovato, prima di essere mandato a morire nella giungla. Probabilmente Fra Guillermo non si aspettava che tornasse indietro. Chissà quanti ne aveva mandati in tutti i bracci del delta. Ci teneva, a quel flagello maledetto. Io nemmeno sapevo perché lo avevo raccolto. Lo avevo visto pendere da un paravento del santuario della Madonna della Guadalupe – quindici capanne al centro di una piantagione di papaveri, su un'isola del delta. Trecento schiavi, anche se se a fra Guillermo la parola non piaceva.
La Guadalupe era l'avamposto domenicano sul Fiume delle Perle, l'ultima località sulle mappe dei portoghesi, che da lì in poi si sospendevano nel vuoto. Lo gestiva fra Guillermo della Guadalupe medesima, un francescano che sembrava precipitato lì durante un monsone, il suo scopo dichiarato era conquistare quante più anime a Dio.
"Il ragazzo resta con noi. Dagli qualcosa da mangiare, Felipe".
"Non abbiamo più molto, padre".
"Il cuoco è a caccia, no? Troverà qualcosa".
"È da un po' che non torna".
"Va bene adesso scendo un po' sottocoperta Felipe, non disturbarmi".
"È già l'ora delle preghiere?"
"È già l'ora dei fatti tuoi, Felipe".
Forse il flagello l'avevo raccolto per lui. O per me? Molto presto avrei finito la scorta di oppio che avevo con me, e poi sarei stato male, nel bel mezzo del Fiume delle Perle, nella giungla. Avrei avuto nausea e diarrea e se la diarrea non si sarebbe fermata, sarei morto, disidratato e febbricitante. Sarei morto forse a mille passi dalla dimora di Francesco Xavier, senza sentire la sua voce, la voce che aveva convertito milioni di uomini.
Il suo dossier era sconcertante.
Figlio di nobili navarresi caduti in disgrazia dopo la conquista spagnola, entra alla Sorbona e si laurea nel giro di tre anni. A salvarlo da una carriera di precettore presso qualche signorotto castigliano è quel fottuto veterano basco, Ignazio di Loyola. Più ne sentivo parlare, più lo ammiravo. La maggior parte dei sant'uomini che conoscevo non avrebbero saputo fare nient'altro nella vita, ma Ignazio prima di scegliere la santità era stato un mascalzone. Avrebbe potuto diventare un generale in qualche esercito, ma cercava qualcos'altro. Sé stesso? Va in Terrasanta, ma i francescani lo cacciano perché fiutano l'eretico. L'Inquisizione spagnola in effetti lo tiene in carcere per un mese e mezzo, dopodiché tutte le imputazioni cadono come per miracolo, e in un qualche modo riesce a entrare alla Sorbona. A trentotto anni, madre di Dio. Il più giovane compagno di classe aveva la metà dei suoi anni. Io mi ci iscrissi a diciannove e a momenti ci restavo. Lui completò il corso. Sette anni. E nel frattempo aveva convertito i suoi migliori compagni di collegio, tra cui appunto il nostro amico Francesco X. Il dossier riportava la celebre frase celebre che il vecchio compagno avrebbe detto al giovane: "Che senso ha conquistare il mondo, se si perde la propria anima?" Suona molto bene [e infatti probabilmente è apocrifa] ma a rifletterci non ha molto senso. Francesco era uno studente di legge, o filosofia, più o meno spiantato; senz'altro non un aspirante conquistatore del mondo. O lo era? O Ignazio aveva fiutato la sua preda, o aveva riconosciuto in quel ragazzo la stessa ansia di conquista che lo aveva spinto tanti anni prima, da ragazzino, a farsi soldato?
"Sangue di Cristo, non ne posso più!"
Mentre ci riflettevo dovevo essermi appisolato. Mi svegliarono le bestemmie e i passi nervosi sulla tolda, proprio sopra il mio alloggiamento.
"Io taglio la corda, madre di Dio, non ero entrato nell'Ordine per queste porcherie. Una tigre! Una maledettissima tigre! Io volevo fare il cuoco in un convento, non andare a caccia in una giungla dimenticata di Dio e piena di tigri!
Portas vultus eius quis aperiet?
Per gyrum dentium eius formido...
Il cuoco era tornato a mani vuote e in stato di choc. Avremmo pranzato a manghi e preghiere, anche oggi.
Sternutatio eius favillae ignis,
et oculi eius ut palpebrae diluculi...
"Io non scendo più dalla nave, ve lo dico. Mai più. Il diluvio ci vorrebbe qui intorno, è l'inferno questo, Signore Dio! Il diluvio! Che anneghi tutto quanto!"
[Continua, magari nel 2035].
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