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martedì 20 maggio 2025

Il re beato e imbelle d'Inghilterra

Anonimo cinquecentesco
21 maggio: beato Enrico VI di Windsor (1421-1471), re imbelle

A pochi anni dalla morte, il culto di Enrico VI fu promosso da suo nipote Enrico VII, che in quanto fondatore della dinastia dei Tudor sentiva l'esigenza di sottolineare il suo legame con gli estinti Lancaster. E allo stesso tempo un re santo non è una cosa che si possa inventare dal nulla – non nel Rinascimanto, con in giro un bel po' di cronisti interessati a sviscerare il momento più critico del regno d'Inghilterra. Fu compilato comunque un intero libro di miracoli, da cui risultava che Enrico VI avesse resuscitato un'appestata e un supposto ladro di bestiame già appeso al cappio, e che il suo tocco fosse molto efficace contro la scrofola, a differenza ad esempio dell'ultimo esponente della casata degli York, Riccardo III. Forse il punto è che dal malvagio Riccardo i sudditi avevano paura di farsi toccare, laddove Enrico era stato tanto buono e inventarsi prodigi su di lui richiedeva meno fantasia. Ed ecco il paradosso: Enrico era venerato dal popolo proprio per i motivi per cui gli storici stavano cominciando a considerarlo un pessimo re. 

Ci fu mai un re che ereditasse un trono
e ne fosse contento men che me?
Non feci in tempo a uscire dalla culla
che venni fatto re, di nove mesi.
Mai un suddito ha agognato di esser re
quanto io ho agognato e aspiro ad esser suddito

(Enrico VI Parte II, Atto IV, scena IX)

Il padre di Enrico gli aveva dato lo stesso nome e un'eredità impossibile da gestire. Era stato un grande re, ovvero un re piuttosto fortunato, ma tant'è: quel tipo di re cui ancora oggi si può dedicare un film e chiamare a interpretarlo Timothée Chamelet; laddove il figlio al massimo si meriterebbe un Paul Dano che fissasse spesso il vuoto dietro gli interlocutori. Il padre si era coperto di gloria durante la storica battaglia di Azincourt – a vederla da vicino, una carneficina nel fango, vinta da un contingente disperato, circondato da nemici soverchianti. Una di quelle situazioni in cui o si vince o si viene completamente annichiliti; nessun valido condottiero dovrebbe ritrovarcisi, ma a Enrico V era successo: in un qualche modo aveva vinto – dopodiché aveva dato l'ordine di sterminare tutti i prigionieri, perché non aveva abbastanza uomini per controllarli. Più tardi il re di Francia, Carlo VI Valois, avrebbe acconsentito a fargli sposare la figlia, accettandolo come legittimo erede. Questo Carlo VI, da come ce lo dipingono i cronisti, ha tutto l'aspetto di uno schizofrenico: alternava periodi di lucidità a deliri allucinati, che almeno in un caso lo avevano portato a roteare le sue armi sui suoi stessi uomini, uccidendone quattro. Enrico VI non avrebbe mai avuto crisi altrettanto violente, e non è nemmeno detto che ne avesse ereditato la patologia: ma l'eredità di un nonno che era un matto conclamato poteva essere ingombrante quanto quella del padre saggio e vittorioso. Un padre che tra l'altro Enrico non conobbe mai – morto di febbre tifoide in Francia, quando Enrico aveva appena nove mesi. La guerra, che si apprestava a compiere Cent'Anni, e ad Azincourt sembrava ormai vinta dagli inglesi, conobbe negli anni successivi una svolta completamente improvista: quando Parigi era saldamente nelle mani degli inglesi e ormai restava da assediare soltanto la roccaforte di Orléans, i francesi ripresero slancio e iniziativa grazie a... una contadinella, tale Giovanna D'Arco

Dopo le prime vittorie il primogenito superstite di Carlo VI si lascia convincere a farsi incoronare a Reims – che è la città dove tradizionalmente si incoronavano i re di Francia. Gli inglesi rispondono al gesto provocatorio organizzando un'incoronazione alternativa a Parigi per Enrico, il quale dunque a nove anni deve compiere una faticosa traversata e sostare per mesi in Normandia, perché anche i dintorni di Parigi non erano sicuri dalle scorrerie armagnacche. Non è impossibile che una simile esperienza sia stata determinante a determinare la futura condotta di un re poco incline a invasioni e combattimenti. Non solo Enrico stesso era francese per metà, ma a 23 anni il rivale/cugino Carlo VI riuscì a strappargli una tregua biennale proponendogli di sposare una sua nipote, Margherita d'Angiò. Pare che Enrico si sia lasciato convincere al matrimonio perché gli emissari ne decantavano la straordinaria bellezza – dopodiché può darsi che il matrimonio non sia stato mai consumato: Enrico stesso confessava di non ricordare quando e come avesse messo sua moglie incinta di un principe di Galles. La diplomazia non cessava di inviluppare le dinastie in contorte genealogie, malgrado l'evidenza ormai dimostrasse che molti difetti dei regnanti erano di carattere ereditario, al punto che il ricorso all'adulterio a volte era un correttivo necessario. 

Non è che Enrico fosse un re pacifista; ma figlio devoto di una Valois, sposo affezionato di un'Angiò, non è così strano che tra i falchi che proponevano di continuare a mandare truppe in Francia, e le colombe che suggerivano un negoziato e un disimpegno, Enrico inclinasse sempre più verso i secondi. Del resto madre e moglie avevano il vantaggio di restare a corte, coi loro uomini di fiducia (che magari a volte erano anche amanti, ma è difficile scrostare il gossip accumulatosi da secoli), mentre i falchi, essendo più propensi a combattere, a corte si vedevano meno spesso e anche i più valorosi strateghi, prima o poi finivano per morire in battaglia. Così, anche dopo che Giovanna fu catturata, processata e bruciata, i francesi continuarono a combattere e la loro avanzata, dapprima molto graduale, verso il 1450 divenne inarrestabile, coinvolgendo anche territori legati alla corona da generazioni, come l'Aquitania. Le truppe inglesi erano vittime di un circolo vizioso: la corona, dubitando di poter concludere vittoriosamente un conflitto così lungo, non vi investiva abbastanza, il che portava gli inglesi a perdere ulteriori battaglie, confermando in questo modo i dubbi della corona. Non possiamo nemmeno escludere che Enrico, animato da un sincero sentimento religioso, non fosse stato turbato dal martirio di Giovanna: per quanto gli inglesi la considerassero una strega, a corte aveva avuto la possibilità di sentire la versione dei francesi. 

Per quanto gli storici la considerino finita nel 1453, la guerra dei Cent'Anni non si concluse con un trattato di pace, ma con il ritiro degli inglesi da tutti i territori oltre la Manica (salvo Calais): il che coincise più o meno con la prima vera crisi depressiva di Enrico e l'inizio di un vero e proprio collasso dell'apparato statale inglese che prende il nome di Guerra delle Due Rose. A parte la questione dinastica, come al solito intricata (semplificando: l'inettitudine di Enrico, ultimo Lancaster, offriva alla casata degli York un argomento in più per reclamare il trono), l'impressione è quella di un regno che crolla sulle sua fondamenta, le quali evidentemente poggiavano sulla guerra infinita: centinaia di possidenti avevano perduto le loro lucrose proprietà, e il monopolio su determinati commerci, come il vino d'Aquitania; generazioni di fanti e cavalieri abituati a vivere di scorrerie nel continente, una volta tornati nell'Isola, non avevano che da trovare una nuova scusa per rimettersi a razziare, e la rivalità tra York e Lancaster era buona come qualsiasi altra. Schiacciato da un meccanismo che non aveva la possibilità di comprendere, a Enrico capitò di essere imprigionato, liberato, riportato sul trono (in stato catatonico, secondo i cronisti), imprigionato di nuovo, finalmente assassinato, rimpianto dal popolo e venerato dai successori. E quando il processo di canonizzazione si interruppe dopo lo scisma anglicano, la figura di Enrico fu ripresa da un giovane drammaturgo evidentemente affascinato dai monarchi deboli, matti o scostanti: William Shakespeare, che a Enrico dedicò una monumentale trilogia. A rileggerla, si traggono conclusioni che Machiavelli sottoscriverebbe: il re più pacifico di tutti aveva trascinato l'Inghilterra in una guerra civile, il più gentile aveva consentito ai malvagi di trionfare. Evidentemente un re non dev'essere un santo, il suo operato deve essere giudicato secondo parametri diversi. Era una tesi che i Tudor stavano già applicando.

domenica 18 maggio 2025

Il primo dei Giovanni

18 maggio: San Giovanni I papa e martire (V-VI secolo)

Una cosa che abbiamo scoperto con papa Francesco è che i nomi dei papi non sono necessariamente seguiti da un numero ordinale: anche se qualcuno cominciò subito a chiamarlo "Francesco Primo", in quell'occasione si chiarì che un papa diventa "Primo" nei documenti soltanto quando qualcuno assume lo stesso nome: fino a quel momento "primo" è un'aggiunta inutile e i papi ne fanno a meno. Ciò è vero in generale per i sovrani, ma in particolare per i pontefici, che in quanto vicari di Cristo (ossia facenti funzione, finché non torna) devono sempre contemplare la possibilità di non essere i primi, bensì gli ultimi: "Vegliate, perché non sapete il giorno e l'ora" (Matteo 25,13). Se poi vogliamo essere davvero pignoli, Albino Luciani scelse di chiamarsi Giovanni Paolo Primo: ma forse nei pochi giorni del suo pontificato non fece in tempo ad accorgersi di violare una consuetudine. 

Ecco perché, per dire, Pietro si chiama Pietro e basta: siccome nessuno ancora se l'è sentita di chiamarsi Pietro II, per ora il primo papa non ha bisogno di ordinali. Per contro, il nome di gran lunga preferito dai pontefici è Giovanni e non sorprende, vista la quantità di santi omonimi. Quanti papi Giovanni abbiamo avuto? Non esattamente ventitré, anche se il prossimo sarebbe il ventiquattresimo. Il computo cominciò a ingarbugliarsi nel decimo secolo, quando succedeva non infrequentemente che due o più prelati fossero eletti pontefici da gruppi di potere in guerra tra loro; di solito a chi vince rimane il titolo di papa, mentre quello che perde viene classificato come "antipapa" ed escluso dal conteggio. Ad esempio Giovanni XVI (997-998) fu dichiarato antipapa, ma due secoli dopo: nel frattempo i suoi successori avevano già preso i numerali successivi fino al XIX. I tentativi di correggere l'errore, come talvolta accade in questi casi, portarono a errori ancora più grandi, per cui ad esempio nessun papa si è mai imposto il nome di Giovanni XX: il che ha fornito a qualche contrafrottole il pretesto per lanciare la leggenda della papessa. Col tempo gli errori diventano consuetudini, tradizioni, e infine legge: per cui nel 1958 Angelo Giuseppe Roncalli mise un punto probabilmente definitivo alla questione, scegliendo il numerale XXIII anche se era soltanto il ventunesimo papa ufficiale a chiamarsi Giovanni. Ma il primo a chiamarsi Giovanni (e non Giovanni Primo, almeno in vita), quando visse, e che papa fu?

Fu un papa sfortunato. Visse tra la fine del quinto e l'inizio di quel sesto secolo che tanti disastri avrebbe portato in Italia. (Sì, per quattrocento e più anni nessun papa si chiamò così). Giovanni era il suo nome di battesimo: a quei tempi i pontefici non ne sceglievano uno nuovo. Fu un papa sfortunato, a cui riuscì di morire martire in un periodo in cui la Chiesa non era affatto perseguitata, e non per difendere la propria fede, come ci si aspetta dai martiri. A Giovanni I capitò di dover difendere i fedeli di un'altra confessione religiosa: gli ariani. Non lo fece spontaneamente – diciamo pure che fu costretto da Teodorico, re ostrogoto – ma ci provò. Meglio però fornire un po' di contesto. 

Se abbiamo passato il 500, sappiamo che l'impero d'occidente è formalmente caduto anche se non molti se ne rendono conto: tutto sommato la situazione ora è più stabile che negli anni anteriori alla Caduta. Un imperatore c'è ancora – a Costantinopoli – mentre in Italia Teodorico amministra il suo potere con una certa abilità. Riconosce il superiore prestigio dell'imperatore d'oriente, ma ci tiene a non passare per un semplice vassallo, termine che peraltro ancora non esisteva. Le dispute religiose sono un sintomo di una certa tensione tra due comunità che Teodorico vuol fare collaborare: i latini per lo più aderiscono al credo ortodosso del Concilio di Nicea, che nel 325 aveva rigettato come eretiche le idee del predicatore egiziano Ario; i barbari per contro sono fieramente ariani e hanno un loro clero che Teodorico controlla più direttamente – da cui il sospetto che la vera tensione tra arianesimo e ortodossia sia politica e non dottrinale; il clero ariano è controllato o controllabile dagli ostrogoti; quello ortodosso mantiene una notevole autonomia.

I tentativi di mantenere una pax religiosa in Italia sono ostacolati dalle iniziative dell'imperatore Giustino, che a Costantinopoli sta trattando gli ariani con sempre maggiore intransigenza. Con un editto li ha obbligati a cedere chiese e altri immobili agli ortodossi; ha altresì proibito agli ariani ufficialmente convertiti (spesso con la forza) di tornare alla loro fede originale. È chiaro che a Roma e in Italia in generale i vescovi ortodossi vedono con sempre maggior simpatia questo imperatore che tratta gli eretici col pugno duro, e questo per Teodorico è un problema: la Chiesa nicena rischia di diventare la quinta colonna dei costantinopolitani il giorno che preparassero l'invasione dell'Italia. Non era un ragionamento così paranoide: l'invasione ci sarebbe stata, anche se dovremo attendere il nipote di Giustino, Giustiniano. Per sventare la guerra di religione che si delinea all'orizzonte, l'astuto Teodorico decide di inviare a Costantinopoli una delegazione composta proprio dagli stessi vescovi di credo ortodosso: tra questi Giovanni, che se non è ancora considerato il capo indiscusso della Chiesa, siede comunque sulla cattedra più prestigiosa di tutto l'Occidente. 

Giovanni deve chiedere all'imperatore tolleranza per gli eretici. Non sappiamo quanto la cosa gli ripugni, ma non ha scelta: se la missione fallisce, Teodorico minaccia di trattare gli ortodossi d'Italia come Giustino tratta gli ariani: conversioni forzate, requisizione dei beni. A Costantinopoli, Giovanni è accolto con gli onori che si devono al primo tra i patriarchi: gli viene riconosciuto persino il privilegio di celebrare la messa di Pasqua nella cattedrale di Santa Sofia, in latino! per molti fedeli dev'essere stato uno choc. Non è affatto strano che questo dettaglio sia ancora oggi trattenuto nell'edizione più recente del Martirologio Romano ("fu il primo tra i Romani Pontefici a celebrare in quella Chiesa il sacrificio pasquale"): si tratta in effetti di un precedente prezioso per chiunque voglia ricordare almeno un caso in cui il clero ortodosso abbia riconosciuto il primato del vescovo di Roma.  

Chissà se mentre diceva Messa in quella che al tempo era la cattedrale più famosa del mondo (ma sarebbe stata distrutta durante la grande rivolta del 535), Giovanni si rendeva conto di vivere il massimo momento di gloria prima della disgrazia. In effetti, al di là dei pubblici riconoscimenti, la missione diplomatica non ottiene molto. L'anziano Giovanni fa quel che può e qualche vaga promessa da Giustino la ottiene: ma quando torna a Roma scopre che non è abbastanza, Teodorico è scontento e lo fa imprigionare. Già provato dal lungo viaggio, Giovanni si spegne in carcere il 18 maggio del 526; dopo di lui fu eletto papa Felice IV, e dopo Felice, Bonifacio II. Alla morte di quest'ultimo, sulla Cattedra salirà un certo Mercurio di Proietto, che decide contestualmente di cambiare nome, non trovando "Mercurio" appropriato per un papa. Si chiamerà Giovanni anche lui, Giovanni II; e da quel momento papa Giovanni è diventato Giovanni I, che si festeggia oggi. 

giovedì 8 maggio 2025

Se rifletti con attenzione su quello che sta succedendo, probabilmente sei un po' antisemita

Pssst, sionista...

– Eh? Chi è? C'è un antisemita anche qui?

Sei solo in casa, sionista.

– Chi è? Chi parla? 

Sono la tua coscienza.

– Ancora tu, ma basta.

Hai paura della tua coscienza?

– Ultimamente fai dei discorsi strani.

Ti ricordi quanti abitanti faceva la Striscia, due anni fa?

– Leggi troppo Haaretz, la devi piantare.

Circa due milioni.

– Ah. 

Circa due milioni. 

– Ehi, ma hai sentito? C'è stato un diverbio in un ristorante di Napoli.

La maggior parte vive ancora lì, ma i rifornimenti sono bloccati da quaranta giorni.

– È terribile questa cosa, no?

Quale cosa?

– Che abbiano cacciato dei clienti da un ristorante di Napoli! Solo perché erano sionisti! È forse un crimine il sionismo?

Cosa succede a più di un milione di persone accumulate in un campo profughi sotto i bombardamenti se per un mese non entra più cibo?

– Senti, ho capito cosa vuoi intendere. È terribile, terribile. Netanyahu sta proprio esagerando, lo dice anche la Segre. 

Ah, ecco.

– Ma è tutta colpa di Hamas! Perché non rilascia gli ostaggi! 

Non ci credi davvero.

– E tu che ne sai, in cosa credo. 

Ti ricordi un solo caso in cui un commando terrorista ha preso degli ostaggi e chi li voleva indietro ha reagito bombardandolo?

– Beh...

Intensivamente?

– Dunque...

Per due anni?

– Così su due piedi...

Più megatoni che in tutta la seconda guerra mondiale?

– In circostanze straordinarie...

E stop ai rifornimenti?

– ...misure straordinarie.

Per favore, rispondi direttamente almeno a una domanda. Almeno a una.

– Spara.

Se tu avessi un prigioniero, e non avessi quasi più cibo, sfameresti tuo figlio o il prigioniero?

– Stai cercando di giustificare il comportamento di Hamas?

È il comportamento umano.

– Hamas non è umano! Il sette ottobre! bambini decapitati!

Ti è chiaro che se ci sono ancora ostaggi vivi, e sottolineo se, Netanyahu li sta facendo morire di fame?

– È terribile. È terribile. Netanyahu sta esagerando. Ma...

Ma?

– Non ci sono alternative, capisci? 

– Hamas durante la tregua ha liberato decine di prigionieri.

– Non ci sono alternative!

Non ci sono alternative allo scambio di prigionieri?

– Ma insomma cosa vuoi da me. Ho già detto che Netanyahu ha esagerato, da parte mia è un pronunciamento coraggioso. Quando tutto sarà finito, spero che se ne terrà conto.

Quando "tutto sarà finito?"

– Dio, non vedo l'ora.

Non vedi l'ora "che sia finito"... cosa?

– Questa cosa orribile! Non finisce mai, è estenuante.

Questa cosa orribile, come possiamo chiamarla?

– Questa... questa guerra.

Questo massacro.

– Netanyahu sta esagerando.

Questo genocidio?

– Vergognati a farti venire in mente quella parola!

E come pensi che dovrà finire?

– È una parola sacra per me. Vorrei che tu almeno rispettassi la mia...

Stai aspettando che muoiano tutti? È questo che intendi, quando dici "quando tutto sarà finito"?

Non ci sono alternative! Se almeno gli egiziani se li fossero presi, ma...

Quando "tutto sarà finito", ti sentirai sollevato?

– Certo che mi sentirò sollevato.

E non ti sentirai colpevole.

– Colpevole? Io? Di cosa? È stata Hamas. 

E gli egiziani.

 – E Netanyahu. Ha veramente esagerato. L'ho detto anche prima. L'ho detto in pubblico, esistono le prove. Ho preso le distanze.

Quindi non vedi l'ora che siano tutti morti, dopodiché darai la colpa a chi dava gli ordini. 

Ma si può sapere che cazzo vuoi, oh! Ma chi ti manda?

Ehi, sionista...

– Sì? Sono un sionista, e allora?

Ti ricordi quanti abitanti faceva la Striscia, due anni fa?

– Ma non ti spegni mai tu?

– Circa due milioni.

– Sei un antisemita, sai.

– Sono la tua coscienza, come posso essere antisemita?

– Non lo so. Ancestrali sensi di colpa, non m'interessa. A questo punto devo scegliere. 

– O il sionismo o la coscienza.

– Israele ha diritto di difendersi.

– Dalla propria coscienza.

– Precisamente. Ti ricordi quello che disse Coso.

– Israele sarà uno Stato come gli altri quando avremo ladri come tutti gli altri.

– Ecco.

– Quindi anche assassini come tutti gli altri.

– Anche, sì.

– Stragisti come tutti gli altri.

– Può capitare.

– Così insomma, per sentirsi "uno Stato come gli altri" Israele deve dimostrarsi in grado di poter massacrare un intero popolo...

– La vuoi piantare di saltare alle conclusioni.

– Sono la tua coscienza.

– Sei insopportabile.

– Non posso darti pace.

– Devo difendermi da te.

– Devi difenderti da te stesso.

– Maledetti antisemiti, sono dappertutto, dappertutto.

– Dovresti spegnere tutti gli specchi.

– Hai sentito quel che è successo a Napoli, è una vergogna.

martedì 6 maggio 2025

La sirena di Sennara

La sirena di Zennor. 
6 maggio: Santa Sennara (VI secolo)

Partorire in generale non è semplice, ma forse non è mai stato difficile come per Santa Sennara, o Asenora, o Azenor, madre di San Budoc. Figlia del re di Brest, secondo una cronaca quattrocentesca sposò un feudatario che non doveva riservarle particolari attenzioni, dato che quando lei si trovò incinta la accusò di adulterio (ispirato dalla di lei matrigna), e la gettò nella Manica dentro una botte. 

Ora, questo è evidentemente un topos. (O un tropo. Gli americani a un certo punto hanno iniziato a dire tropo al posto di topos e ormai non c'è più modo di fermarli). I più sgamati avranno già in mente l'antecedente più illustre: Acrisio re di Argo, dopo essere stato informato dall'oracolo di Delfi che un suo eventuale nipotino lo avrebbe inevitabilmente ucciso, rinchiude la figlia Danae in una torre. Danae riesce comunque a restare incinta (potrebbe essere stato Zeus, trasformatosi in pioggia dorata; o il più plausibile zio Preto), e Acrisio la abbandona in mare in una cassa inchiodata. Vero è che in questa versione il piccolo Perseo, rinchiuso nella cassa con la madre, era già nato; ma quando finalmente approdano sulla spiaggia di Serifo, e un principe apre la cassa, è come se venisse al mondo di nuovo. Sennara invece partorisce in mare e approda con il figlioletto Budoc a Zennor, sulla punta estrema della Cornovaglia (proprio come Brest sta sull'estremità della Bretagna). È uno di quei luoghi in cui ti sembra finisca il mondo – come a Sagres, a Finisterre, o a Leuca – il che seleziona un certo tipo di abitanti. D.H. Lawrence ci andò ad abitare con la giovane moglie nel 1915, e forse perché amavano passeggiare nei pressi del promontorio, furono accusati dal controspionaggio di fare segnalazioni agli U-Boot: per quale altro motivo un buon borghese avrebbe dovuto trovarsi lì? Così lo fecero sloggiare – non prima che terminasse la stesura di Woman In Love. La leggenda potrebbe appartenere a un antichissimo sostrato indeuropeo, oppure essere arrivata nel medioevo per via letteraria: in ogni caso in Gran Bretagna ha lasciato al segno, di partorienti in zattera (o barile) ce n'è più d'una: così ad esempio viene alla luce Kentigern di Glasgow. La leggenda potrebbe essere nata per esorcizzare un ricordo traumatico: un'antica punizione per le donne adultere?    

Invece di diventare un guerriero eroico come Perseo, Budoc si farà monaco e poi tornerà in Bretagna a fare il vescovo. Sennara invece proseguirà per l'Irlanda dove si guadagnerà da vivere come lavandaia, ma dopo la morte sarà venerata in Bretagna dalle puerpere, che quando hanno poco latte vanno a bere dal pozzo santo di Languengar, nella parrocchia di Santa Sennara. In Cornovaglia viceversa è invocata dai pescatori. Zennor è l'ultimo toponimo inglese in ordine alfabetico, ma sappiamo che qualche secolo fa si chiamava Saint Senara. Secondo gli storici però fino al 1200 il santo venerato a Zennor era chiamato "Sanctus Sinar") ed era quindi di sesso maschile. Se le cose non fossero già abbastanza ambigue, la scultura più famosa del paese è una sirena intagliata sul fianco di un palco in legno di quercia. Non un granché dal punto di vista strettamente artistico, ma raffigurazioni così antiche di sirene in Cornovaglia non ci sono. Forse nemmeno in tutta l'Inghilterra. Il palco è quel che resta di un mobilio completamente scomparso dove probabilmente venivano ritratte altre creature marine; un'iconografia folkloristica che alla fine dell'Ottocento doveva sembrare davvero poco consona a un luogo di culto cristiano, e quindi fu rimossa. La sirena però è resistita, per un qualche motivo. Sembra spuntare dalle acque e porta con sé uno specchio ovale, come talvolta accade nei quadri ad Afrodite

La leggenda che ha ispirato non è molto originale. Nella chiesa di Saint Sennara ogni tanto si univa al coro una signora bionda e pallida, dalla voce particolarmente educata. Nessuno sapeva da dove venisse e come mai, anno dopo anno, non sembrava invecchiare. Quando il migliore corista di Zennor, Mathey Trewella, scomparve misteriosamente, qualcuno ricordò di averlo visto seguire la signora dopo la funzione religiosa; forse era curioso di capire dove abitasse. La signora non si fece più viva, ma qualche tempo dopo gli abitanti di Zennor sentirono parlare di una sirena che in una baia poco lontana era emersa per chiedere al capitano di una nave di rimuovere per favore l'ancora, che le ostruiva la porta di casa e le impediva di "prepararsi per andare a messa". (Il capitano, ipnotizzato dall'apparizione, aveva subito obbedito). Dedussero che si trattava della stessa signora pallida che ogni tanto veniva a unirsi al coro, e rabbrividirono perché, a differenza del capitano, erano pescatori da generazioni e sapevano che le sirene portano sfortuna. 

Sennara dunque è sia la madre che partorisce in mare, sia la figlia che nasce sulla spiaggia. O il figlio: non ha tutta questa importanza. L'importante è che a monte di questa leggenda, qualcuno si sia salvato da un naufragio: una donna in fuga, o il suo neonato. Questo ha commosso i principi, i pescatori e i contafrottole, e migliaia di anni dopo ancora ce lo raccontiamo: e pattugliamo i mari, perché succeda ancora. 

domenica 4 maggio 2025

Giaculatoria per il tunnel del San Gottardo

5 maggio: San Gottardo di Hildesheim, monaco, vescovo, tunnel

San Gottardo, per quanto sia in ritardo,
ti invoco antico amico,
proteggimi da tutto
dalla febbre, dalla podagra, dall'idropisia, 
ma soprattutto
finisca presto questa galleria
che mi circonda,
che mi sprofonda,
sedici chilometri
nessuna luce in fondo,
pietà di me.

Tu che ubbidisti a Enrico il Litigioso,
Proteggimi Gottardo
dal camionista stanco e rancoroso,
dagli assassini in Audi,
e dagli hondisti in banco
che sfidano i monsoni con destrezza
per spiaccicarsi contro un parabrezza
come mosconi,
uomo di Dio
fa che non sia mai il parabrezza mio.

Che non sia io
l'uomo che scappa sopra quel cartello
verso il rifugio 
che è ventilato separatamente
affinché il fuoco 
non mi raggiunga incenerendo me
la mia famiglia
com'è successo pure quella volta
nel monte Bianco,
o San Gottardo,
io non lo scordo
ogni volta che entro in un traforo,
per svago o per lavoro,
vedo le fiamme il fumo
alzo la radio canta Robert Scott
come una volta a Albenga
che tamponammo in trenta 
in coda in galleria 
baby please don't go
baby blease don't go
into that big black hole
you know I love you so 
baby please

Metti la radio leggono Dϋrrenmatt
Maledett

Tu che proteggi dalla grandine, Gottardo
abbia riguardo per la mia
carrozzeria,
tu che invocato aiuti donne a partorire,
aiutami ad uscire
da questo ventre buio, eterno, scuro.
Lo giuro
non sfiderò più gli inferi stradali
per sempre starò fuori dai trafori.
Prenderò il treno
o il valico come da ragazzino:
vedevo la lancetta dell'acqua andare su
ma io di più,
vedevo già le vacche pascolar,
facevo un pieno a Bar
Cenisio,
ah io vorrei tornarci anche solo per un dì,
invece eccomi qui
intubato nel profondo.

O porco mondo,
perché ci fai così, ci agiti invano,
in viaggi vani,
in van non adeguati,
in vani agguati,
perché non stiamo sempre dove stiamo,
perché viaggiamo,
voliamo traforiamo svalichiamo
tracciando piste in cielo e sotto i monti,
fetenti Fetonti,
e non ci accontentiamo,
di un monastero in Svevia.

Gottardo che nascesti in Passavia,
fammi pussare via.
Tu che portasti in Svevia la riforma di Cluny,
portami fuori di qui,
e ti sarò grato,
dirò per te un rosario all'autogrill,
ma senza fare il pieno,
perché lì costa tutto in modo assurdo,
O San Gottardo.

sabato 3 maggio 2025

Per il sesso chiedere ai genitori

Altri tempi
[Questo pezzo è uscito sul Manifesto del primo maggio. Ne ha parlato anche Nicola Ghittoni, che ringrazio, in Morning, il podcast del Post].

Al ministro dell’Istruzione e del Merito, decisamente, piacciono le riforme a costo zero. Anche ieri, quando ha annunciato che gli studenti potranno accedere all’educazione sessuale-affettiva soltanto previo consenso scritto dei genitori, non ci ha dato una vera e propria notizia: non esiste infatti al momento, nelle scuole italiane, un vero e proprio corso di educazione sessuale e/o affettiva. Le scuole che si attrezzano in questo senso, di solito lo fanno grazie all’interessamento di insegnanti e dirigenti, in una situazione in cui non sempre ci si può rivolgere agli esperti più autorevoli; così che per cautelarsi molto spesso ai genitori viene già chiesto una firma. Insomma Valditara ha annunciato che le cose cambieranno… per restare più o meno come sono. Inoltre agli studenti che non potranno accedere all’educazione sessuale dovrà essere garantito un insegnamento alternativo, il che avrebbe perfettamente senso se il Ministero stanziasse qualche fondo per questo insegnamento: ma in questo caso non si tratterebbe più di una riforma a costo zero. Ai dirigenti insomma il ministro ha fornito un motivo in più, economico, per evitare questo tipo di iniziative; e se qualche insegnante si ostinerà a invitare sessuologi o operatori del consultorio, i ragazzi non autorizzati finiranno in biblioteca a guardare un film con un supplente. 

Tanto basta perché l’associazione Pro Vita & Famiglia annunci un “passo storico contro il gender nelle scuole”: dopo anni di incessante lobbying dovrebbero essere i primi ad ammettere di non aver ottenuto un granché, ma rispetto al resto dell’Europa è comunque tanto. Come ci aveva fatto notare l’Unesco già dal 2023, gli altri Paesi UE a non riconoscere un corso obbligatorio di sessualità e affettività sono Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania. Questo malgrado già nel 2018 l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia segnalato l’importanza dell’educazione affettiva nella prevenzione delle violenze di genere. Nessuno ritiene che trascorrere qualche ora a parlare di sentimenti e contraccettivi risolva tutti i problemi, ma la scuola è il presidio sociale dove i ragazzi almeno possono scoprire di averne. Tanto più in un periodo in cui le autorità sanitarie segnalano un aumento allarmante di infezioni sessualmente trasmissibili che parte proprio dai giovani, e che non si fatica a collegare con il declinante uso dei profilattici. 

In questa, come in altre occasioni, il governo esprime la sua idea di una società divisa in compartimenti stagni, primo dei quali è la famiglia: solo ai capifamiglia spetterebbe il diritto di disporre della salute e del comportamento sessuale dei propri figli. Il fatto che i figli frequentino comunque le stesse scuole degli altri cittadini è visto come un disturbo; se proprio la scuola pubblica non si riesce a smantellare, non resta che ostacolarla con più burocrazia possibile, trasformando gli insegnanti più volonterosi in segretari costretti a sollecitare e raccogliere consensi firmati. Quando poi i capofamiglia diventano troppo aggressivi, la risposta del governo è la repressione: per cui non è così paradossale che nella stessa conferenza stampa Valditara abbia annunciato pene più aspre per chi picchia i prof. 

Malgrado tutto questo la scuola funziona, e continua a mettere di fianco ragazzi di estrazioni sociali e culture diversissime. Persino in biblioteca, dove a guardare un film assieme si ritroveranno i figli dei cattolici terrorizzati dal “gender” e i figli dei genitori musulmani ugualmente sospettosi nei confronti dell’affettività e sessualità occidentale. Magari scopriranno di avere molte più cose in comune: proprio come i loro genitori, in un certo senso. Forse saranno i genitori, a quel punto, a rimpiangere quelle ore mancate di educazione affettiva. E sessuale.

venerdì 2 maggio 2025

Uccidere gli schiavi non era reato

2 maggio: Santi Espero, Zoe, Ciriaco e Teodulo, un'intera famiglia martire in Attalia, II secolo

È bella la Panfilia, ci sono stato. 

Questo gruppo di martiri costituisce un nucleo famigliare: Ciriaco e Teodulo erano i figli di Espero e Zoe. A differenza della maggior parte dei martiri dei primi secoli, la condanna a morte non è attribuita a un imperatore o a un suo delegato, ma al padrone di casa, un tale Cato o Catlo (Catullo?), possidente di origine romana impiantato in Panfilia: del resto erano suoi schiavi. Il cristianesimo si stava diffondendo in tutte le classi sociali, e il suo messaggio egalitario doveva essere particolarmente apprezzato tra gli schiavi. Ciriaco e Teodulo, in occasione della nascita di un figlio del padrone non accettano di partecipare ai festeggiamenti mangiando cibo che sospettano consacrato alla Dea Fortuna, molto venerata nella casa. Catlo glielo ordina, loro disobbediscono; Catlo li fa torturare, loro non cedono. Decide infine di chiuderli nella fornace insieme ai genitori, come i tre ragazzi del libro di Daniele. Ma a differenza che nella Bibbia, i quattro non escono più sani e belli che mai: vengono probabilmente inceneriti, ma la Chiesa ne ricorda il sacrificio. È un ricordo stringato, conservato nei sinassari bizantini, privo di miracoli che attenuino l'orrore dei fatti. Il che ci porta più facilmente a domandarci: può essere successo davvero? 

La prima risposta, istintiva è: no. Le agiografie sono tutte più o meno leggendarie, perché questa dovrebbe dire la verità? Semplicemente perché non contiene nessun dettaglio favoloso o miracolistico, e non coinvolge nemmeno qualche celebrità come Decio o Diocleziano? Non è lo stesso supplizio – la classica fornace – già abbastanza favolosa, perché suvvia: chi è che si sbarazzerebbe così non di uno, ma di quattro schiavi di proprietà? Una famiglia mediamente benestante poteva permettersene appena uno. Disfarsi di due ragazzi nel fiore degli anni equivaleva a dar fuoco a una proprietà immobile. Bisogna essere pazzi per farlo volontariamente, ma è appunto questo il problema: i pazzi pur troppo li abbiamo da che mondo e mondo. La dimostrazione è a portata di clic ormai. Faccio l'esperimento, digito "family killed by a landlord". Come può indovinare chi è abituato a fare ricerche simili, il primo risultato è localizzato in Florida. Per qualche motivo, che avrà a che fare con l'antropologia ma anche con l'abilità dei cronisti del luogo nell'indicizzare i propri contenuti, la Florida è sempre in cima ai risultati della cronaca nera. Non so in tutto il mondo quanti padroni di casa abbiano bruciato nel camino i resti di una famiglia di quattro membri negli ultimi anni, ma sicuramente è successo a Pasco County nel giugno scorso. E ora immaginiamo lo storico che si porrà lo stesso problema, tra mille anni, che noi ci poniamo nei confronti di Catlo: può essere esistito un mostro del genere? Per qualche motivo credo che si farà meno dubbi lui, di quanti me ne sono fatto io. 

Da un punto di vista strettamente legale, Catlo non doveva temere nessun procedimento nei suoi confronti; nel secondo secolo il testo di riferimento per quanto riguardava gli omicidi era la lex Cornelia varata da Silla nell'82 a. C., che in effetti colpiva i padroni che uccidevano gli schiavi, ma solo per ingiusta causa. La disobbedienza di Ciriaco e Teodulo al padrone era una causa già sufficiente. Non è chiaro se anche i genitori avessero disobbedito, ma anche in questo caso è difficile immaginare che un uomo libero avrebbe denunciato Catlo. L'unica consolazione che restava ai compagni schiavi era ricordare i quattro caduti, consegnando i loro nomi alla Storia: e ce l'hanno fatta, ne stiamo parlando ancora quasi duemila anni dopo. Il cristianesimo si è diffuso anche per questo motivo: dava agli schiavi una possibilità di esprimersi, di dare un nome a sé stessi e ai propri martiri. 

(Il terzo risultato che mi dà Google è Joseph Czuba, un settantatreenne di Planfield, Illinois, condannato per aver ucciso un bambino di 6 anni di origine palestinese, Wadee Alfayoumi, e per aver ferito sua madre, Hanan Shaheen. Il duplice accoltellamento è avvenuto il 14 ottobre del 2023: com'è stato appurato dal processo, Czuba era sconvolto per le notizie che arrivavano dalla Palestina. Gran parte di queste notizie, lo sappiamo, erano false o grottescamente esagerate. Wadee è stato colpito 27 volte. Ricordo il suo nome).

mercoledì 30 aprile 2025

Dalle stalle al sacro soglio

30 aprile: San Pio V (1504-1572), pontefice e inquisitore

C'è chi scambia la democrazia per una semplice questione di pari opportunità: ovvero l'importante è che a tutti sia data la possibilità di comandare, dopodiché vediamo chi se la merita – qualcuno ci crede davvero a questa cosa, non sono tutti lacchè del potente di turno (o impiegati nella sua Fondazione), qualcuno è in buona fede. A costoro bisogna purtroppo far notare che sono proprio gli umili, appena gli dai tutto il potere, a usarlo in modo più feroce: che se il Novecento è stato il secolo terribile che è stato, ciò è successo proprio perché una maggior mobilità sociale ha consentito di raggiungere posizioni di potere a gente che in altri periodi storici non avrebbe conosciuto altro destino che zappare la terra: i genitori di Stalin erano contadini, quelli di Mao pure (anche se forse se la cavavano un po' meglio), il padre di Mussolini era un fabbro, quello di Hitler un doganiere. In altri secoli il fenomeno era meno osservabile, ma già evidente: Pio V ad esempio (al secolo Antonio Ghislieri, nato a Bosco Marengo, oggi provincia di Alessandria) era di famiglia umilissima, anche se in seguito pensò di nobilitarsi acquisendo lo stemma nobiliare di un'omonima casata bolognese decaduta ma nobile: nel sedicesimo secolo nessuno ancora rivendicava di venire dalla campagna. Eppure furono soltanto le sue facoltà intellettuali e la sua voglia di studiare a consentirgli di trovare protettori e sponsor che gli permisero di fare carriera nei frati domenicani, all'università di Pavia e poi nell'Inquisizione: finché dopo aver patito qualche incomprensione col papa Pio IV che lo aveva mandato a fare il vescovo a Mondovì, non riuscì a farsi eleggere suo successore al conclave del 1566. 

Ghisleri partecipò al conclave quasi per caso: l'ostilità di Pio IV era ormai evidente. Forse a trattenerlo a Roma fu davvero la notizia che i mobili che aveva spedito a Mondovì erano andati perduti; inoltre lo stato di salute non era tale da raccomandargli di mettersi in strada, e così scelse di restare a Roma a suo rischio e pericolo: dopodiché ad ammalarsi e morire fu il papa, e Ghisleri entrò in conclave benché malaticcio: che molto spesso è un vantaggio. In quel momento gli tornò utile il dossier che da decenni stava raccogliendo su uno dei cardinali più papabili, il cardinal Morone, vescovo di Modena e più illustre rappresentante di una fazione che, se non cercava il dialogo coi protestanti, perlomeno non riteneva necessario imprigionarli e torturarli; e per questo motivo era stato lui stesso prima espulso dall'Inquisizione e poi imprigionato, durante il pontificato di Paolo IV – un papa talmente intransigente che anche Ghisileri in quel periodo aveva rischiato di cadere in disgrazia. Alla morte di Paolo IV Morone era stato riabilitato, al punto che Pio IV lo aveva inviato a Trento a dirigere le ultime sessioni del concilio. Si trattava dunque di un ottimo candidato al Soglio, che dopo due pontificati molto intransigenti avrebbe potuto dare una svolta dialogante, tanto più che il lungo processo intentato contro di lui si era risolto con una completa assoluzione che ne metteva nero su bianco la condotta integerrima, eppure... eppure in qualche armadio doveva esserci ancora uno scheletro; Ghisleri lo aveva trovato e al momento giusto probabilmente lo usò. (Non sappiamo di cosa si trattasse: a quel punto i conclave si facevano sul serio a porte chiuse, tuttora se ci sono verbali vengono bruciati). Un altro grande papabile era ovviamente Carlo Borromeo. Filippo di Spagna lo spingeva apertamente; ma Carlo preferiva regnare a Milano che diventare una pedina degli spagnoli a Roma; fu lui a proporre Ghisleri. Tra i due c'era stima e concordanza di vedute, eppure all'inizio la nomina sembrò un ripiego; il cardinale aveva una brutta cera, tipica dei papi di transizione. Dopo l'incoronazione, come a volte accade, la salute migliorò. Non fu comunque un papato lungo: appena otto anni. Ma si può dire che lasciarono il segno. 

Oltre a scomunicare la regina Elisabetta, spronare il re di Spagna e la regina di Scozia all'invasione dell'Inghilterra, il re di Francia a farla finita con gli Ugonotti, l'imperatore a una maggiore intransigenza coi luterani, il re di Sicilia a eliminare i Valdesi di Calabria, Pio V sciolse la confraternita degli Umiliati e decise di confinare gli ebrei di Roma in un quartiere che sul modello veneziano prese il nome di ghetto, obbligandoli ad ascoltare regolarmente le prediche dei suoi confratelli domenicani: una tortura che secondo i suoi disegni avrebbe presto portato alla conversione dell'intera comunità (e in effetti è difficile capire come non sia successo: se non è la prova dell'esistenza di un Dio, diciamo che è un forte indizio in tal senso). Ma il massimo successo nella sua carriera di fomentatore di stragi religiose è sicuramente la battaglia navale di Lepanto del 1571, da lui fortemente voluta anche se bisogna riconoscergli che l'espansionismo ottomano nel Mediterraneo era una minaccia reale. Siccome all'indomani della vittoria l'ammiraglio genovese Andrea Doria se ne attribuiva il merito grazie alla sua finta ritirata – mentre per i veneziani non era stata affatto una finta – Pio V risolse la questione attribuendo il merito della vittoria all'intercessione della Madonna e ai fedeli che l'avevano sollecitata in tal senso con la preghiera più efficace, forse perché la più assillante: la mitragliatrice delle preghiere, il Santo Rosario. Un po' di gloria ricadde comunque su di lui, tanto che quando morì, l'anno successivo, a causa di una prostatite che forse trovava indecente curarsi, cominciò a spargersi la voce che fosse un santo. Il che non era affatto scontato, anzi, dopo il secolo IX i papi venerati come santi erano piuttosto rari; il più recente, Celestino V, era morto quasi trecento anni prima ed era comunque un papa decisamente irregolare, morto dimissionario e probabilmente fatto ammazzare dal pontefice che gli era subentrato. Anche dopo Ghisleri, per trovare un papa canonizzato dobbiamo aspettare Pio X, già nel secolo scorso (Pio IX per ora è soltanto beato). Su di lui si raccontavano miracoli che gli agiografi moderni omettono, o registrano con un certo fastidio, eppure per secoli furono discretamente popolari. Il più famoso era il crocefisso avvelenato; un non precisato eretico infatti aveva ben pensato di avvelenare i piedi del crocefisso a cui Pio V rivolgeva le preghiere della sera, ben sapendo che dopo la preghiera era solito dargli un bacetto. Doveva trattarsi di un eretico veramente esperto della vita privata del papa, un eretico che aveva le chiavi di camera sua, insomma non è difficile capire perché la Bibliotheca Sanctorum, dopo aver dedicato a Pio V quattro fitte pagine, ammette l'episodio soltanto alla voce iconografia, senza spiegarci quando sia successo e chi sia il mandante. Comunque la leggenda dice che il crocefisso, piuttosto di avvelenare il Santo Padre, avrebbe spostato i piedi: e quindi se trovate un quadro in cui un pontefice cerca di dare un bacino a un crocefisso coi piedi storti, non potete sbagliarvi: anche il quadro che ho riportato qua sopra, che sembra fatto da un'AI, invece è un Giovanni Capretti originale, di inizio Settecento. 

L'episodio riecheggia alla lontana l'attentato di cui fu vittima Borromeo a Milano. E come nel caso di Borromeo, bisogna ammettere che isolare il mandante è abbastanza difficile. Avrebbe potuto essere chiunque, un protestante o un cardinale estromesso dai giochi o un ebreo inferocito perché costretto ad ascoltare le prediche dei domenicani. Un turco, un ugonotto, un umiliato, Pio V aveva nemici in tutte le direzioni, e non se ne curava. Era figlio di pastori piemontesi e non faceva sconti a nessuno.

martedì 29 aprile 2025

Il papa del buonsenso


Faccio un paio di esempi, che forse non vogliono dire nulla. Qualche anno fa, ve la ricorderete, ci fu una crisi pandemica. Molti intellettuali non erano progettati per capirla. Benché esistessero precedenti storici, non si erano dati la pena di studiarli, né avevano l'umiltà di ascoltare gli epidemiologi. Venutisi a trovare in una situazione di emergenza, senza avere nulla di interessante da dire, cominciarono a girare in tondo, che è una cosa che fanno anche le formiche quando perdono la pista. Nulla sapevano, se non di non sapere: ma a differenza del vecchio greco che lo considerava un punto di partenza, per molti si trattava di un arrivo. Avevano studiato tutta la vita, e costruito carriere prestigiose, per arrivare al punto in cui non ci stavano capendo nulla; ne conseguiva che il loro non-capir-nulla-nel-mondo doveva essere un faro per gli altri poveri mortali, che avrebbero dovuto seguire il loro esempio e capirne nulla come loro, mentre invece qualcosa lo capivano, ad esempio mettevano le mascherine. Ebbene, questo era molto sospetto, probabilmente l'indizio di una deriva totalitaria. La gente cominciava a morire, ma loro ne dubitavano, se non altro perché dubitare era l'unica cosa che gli riusciva bene. I governi cominciarono a varare misure di contenimento, che loro si misero a criticare: non perché avessero argomenti, ma per istinto: se il governo vara qualcosa, l'intellettuale avrà bene il dovere di criticarlo, no? Altrimenti che ci sta a fare, insomma. I cittadini accettavano quelle norme, ebbene questo era uno scandalo, il risultato di un indottrinamento, un vero regresso per un popolo che si riduceva a gregge. Il gregge in effetti stava salvando la vita anche a loro. Scuole e bar restavano chiusi, e gli industriali cominciarono a fremere proprio quando questi intellettuali si trovavano sulla pista adatta per dar voce al loro malcontento: le scuole andavano riaperte il prima possibile, non era vero che erano luoghi di contagio, una specialista mondiale lo aveva dimostrato con una lettera a una rivista scientifica ripresa dal Corriere ecc. ecc. E nel frattempo, il papa?

Il papa nel frattempo aveva celebrato una messa praticamente da solo, in una piazza deserta, in mondovisione. Il messaggio era passato forte e chiaro, e qualcuno ancora non glielo perdona: state a casa, manteniamo le distanze, portiamo pazienza. Il papa ne sapeva di più? In realtà no, il papa stava reagendo come reagì la maggior parte di noi, seguendo un buon senso abbastanza mediano: l'epidemia esisteva, le misure di contenimento avevano dimostrato di funzionare, e la maggior parte di noi le seguì. Il papa era con la maggior parte di noi. 

Poi arrivò il vaccino, così presto che di nuovo molti intellettuali restarono spiazzati. Il governo aveva fretta di riaprire, e quindi trovò il modo di forzare lavoratori e studenti a vaccinarsi. E si videro gli stessi intellettuali che avevano caldeggiato la riapertura delle scuole improvvisamente contrari a questi modi bruschi che ledevano la libertà individuale, ecc. ecc. Non erano contrari ai vaccini, ma finirono rapidamente sugli scudi dei novax. Il papa nel frattempo che diceva? Che vaccinarsi era un atto di amore – e qualcuno ancora non gliel'ha perdonato. La maggior parte delle persone si vaccinò, non certo perché glielo chiedeva il papa: ma perché la pensava come lui. Il papa era con la maggior parte di noi.

Una volta – tanto tempo fa – esisteva il cosiddetto centro moderato. Esisteva sul serio, non era quella terra di nessuno su cui si aggirano personaggi disperati coi loro partiti personali. Era una realtà solida, perlopiù democristiana, con un po' di laici ai bordi. Parlava attraverso quotidiani a grande tiratura, affidati a stimati opinionisti sempre molto compassati ed equidistanti, mai troppo polemici. Tutto questo è talmente finito che la maggior parte dei miei coetanei non sa nemmeno di rimpiangerlo. Oggi il centro è il luogo della radicalizzazione, della psicosi, della paranoia. Il pannellismo ha infettato il doroteismo, con risultati devastanti. Gente che sperava di continuare a intascare un po' di soldi semplicemente ripetendo per altri quarant'anni "Due popoli due Stati" ogni volta che un popolo massacrava l'altro, adesso si ritrova a dover difendere un genocidio: e in teoria sono i moderati. Gente che semplicemente si preoccupava di pensarla come gli americani, ora dovrebbe pensarla come Trump e non ha ancora capito come gestire la cosa. Alcuni si sono caricati a molla tre anni fa, quando la parola d'ordine era difendere i confini dell'Ucraina: nel frattempo questi confini sono completamente saltati, Putin non solo si è preso il Donbass ma anche un bel pezzo di Washington, ma loro sono ancora in una specie di jungla personale, convinti che l'anno prossimo si sfonda sul Dnepr, magari i carri armati ce li mette l'UE. 

Nel frattempo, il papa? Il papa magari nell'occasione non trovò le parole più adatte. Devo dirlo: non era così bravo a trovarle, non credo passerà alla Storia per le sue doti oratorie. Del resto il concetto era spinoso: bisognava trovare un modo per dire, senza offendere i combattenti che difendevano il loro Paese, che in Ucraina era fallita una politica di logoramento della Nato: una politica probabilmente basata sull'assunto che i russi non avrebbero reagito militarmente a una situazione che pure percepivano come provocatoria. Invece hanno reagito, e il risultato è davanti agli occhi di tutti. Ora è la Nato ad aver dimostrato la propria impotenza, perché mentre i reparti russi oltrepassavano i confini, quelli Nato non si spostavano di un centimetro, limitandosi a... il papa usò il termine "abbaiare". La Nato era andata ad "abbaiare alla porta della Russia". Una metafora abbastanza cruda, e imprecisa. Ma efficace. Il papa ne sapeva più degli strateghi occidentali? Il papa ne sapeva quanto ciascuno di noi, e tutto sommato anche in quell'occasione diede voce a quello che pensa la maggioranza di noi. Qualcuno non gliel'ha perdonato: a una certa ora in tv vanno tanti vecchi opinionisti a masticare amaro su questo papa che non difendeva l'Occidente.  

Quanto a me, devo ammetterlo: non ho fatto i compiti – e sì che i segnali c'erano tutti, ma forse è un destino di noi cresciuti negli anni Ottanta: non riusciamo ad abituarci che ogni tot anni muoia ancora un papa. Non ho letto le encicliche, non sono nella posizione adatta per esaminare la sua eredità pastorale. Quello che posso notare, è che è stato un papa ragionevole: che in un qualche modo riusciva sempre a trovarsi con la maggior parte di noi. Quella che una volta si chiamava maggioranza silenziosa, e che lo sarebbe molto più oggi che i giornali sono in mano a vecchi arnesi impazziti che un anno tifano per la pandemia e l'anno dopo per il genocidio, vegliardi convinti di poter muovere guerra a chiunque e chissachì. Alfieri di un capitalismo sfrenato e paranoide che intravede nelle masse dei poveri una minaccia da reprimere, laddove Francesco li vede ancora come li vediamo noi: persone bisognose che la collettività ha il dovere di aiutare. Ho qualche motivo per ritenere che anche il prossimo papa resterà a presidiare il settore della ragionevolezza, se non altro perché è lì che c'è più spazio. Nemmeno Ratzinger è mai stato davvero il papa tradizionalista e occidentalista che molti stupidi amano pensare: e del resto, un papa tradizionalista e occidentalista che margini avrebbe? Si farebbe immediatamente rubare la scena da personaggi come aa presidente del consiglio e i suoi volonterosi portavoce. 

Poi certo, c'è sempre l'opzione "papa nero" (o asiatico, sarebbe comunque uno choc), che confonderebbe un sacco di osservatori, perché sarebbe allo stesso tempo più tradizionalista e meno occidentale. Il che ci fornirebbe almeno un'occasione di notare chi si inginocchierebbe perché prova davvero un attaccamento emotivo e intellettuale per l'universalismo della Chiesa cattolica, e chi davanti a una faccia di un altro colore proprio non ce la farebbe. Ma tutto sommato si vede già adesso. 

sabato 26 aprile 2025

Nessuno è necessario (nemmeno Pascasio)

26 aprile: San Pascasio Radberto, abate dimissionario di Corbie (790-860). 

Corbie qualche secolo dopo. 

San Pascasio un giorno si stancò di far l'abate. Si dimise, e lasciò il monastero benedettino di Corbie che lui stesso aveva fondato. Probabilmente fu a causa di Carlo il Calvo, re dei Franchi occidentali, che a questo punto aveva più di un motivo per non essere contento di quello che succedeva a Corbie. Era il monastero dove aveva deciso di rinchiudere un suo cugino omonimo: orbene, questo Carlo era scomparso, a Corbie nessuno l'aveva più visto, e l'abate Pascasio in tutto questo? L'abate Pascasio era uno dei più grandi intellettuali del secolo IX e preferiva discutere di eucarestia e mariologia in elaborati carteggi con gli abati suoi pari, invece di tener d'occhio i monaci coatti. Il Carlo che si era dato alla macchia era figlio di Pipino d'Aquitania, un nome che non vi dice niente perché a scuola vi hanno insegnato che Ludovico il Pio aveva diviso l'Impero in tre parti per tre figli: Lotario, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico. Ma indovinate: le cose sono un po' più complesse, Ludovico si sposò due volte ed ebbe quattro figli maschi (più altri illegittimi, perché per quanto Pio non disdegnava le concubine). Pipino d'Aquitania era addirittura il secondogenito e aveva regnato in Aquitania; ma una serie di liti con fratelli e fratellastri ne avevano di molto ridotto il regno a favore, appunto, del più giovane Carlo il Calvo. Il figlio che avrebbe dovuto restare confinato a Corbie aveva qualche titolo per rivendicare i territori del padre, e in effetti sappiamo che una volta scappato tentò davvero di organizzare una rivolta, che però non ebbe successo. Poi ci fu il caso di Ivo, un altro monaco di buona famiglia, che al contrario del Carlo fuggitivo, a Corbie voleva restarci: e quando Pascasio lo cacciò per indegnità, andò a lamentarsi dal re, che gli diede ragione: fu la goccia che ne fece traboccare la pazienza. Pascasio convocò i suoi monaci e li informò che l'indegno era lui, e per qualche tempo si ritirò in un altro monastero (St.-Riquier), dove finalmente poté dedicare il suo tempo agli amati studi, difendere la tesi della verginità di Maria post-partum e dimostrare la presenza della carne di Cristo nell'eucarestia: non i due argomenti che mi avvicinano di più a San Pascasio. Ma ho voluto lo stesso scrivere di lui: perché?

Chissà se capita a volte anche a voi, di mettervi a scrivere qualcosa e di scoprire, dopo qualche minuto/ora, che è una cosa che avete scritto già. Ad esempio, questo pezzo comincia così: San Pascasio un giorno si stancò. Sono sicuro di avere già scritto qualcosa del genere. Magari non proprio le esatte parole: sicuramente non il nome del santo (auguri a tutti i Pascasio). Ma qualcosa vorrà pur dire, se tra migliaia di santi mi capita sempre più spesso di pescare quelli che si stancano. Quelli che abbandonano ruoli di responsabilità nelle abbazie, o non vogliono essere eletti vescovi, e non dev'essere sempre stata una manifestazione di falsa modestia: la storia della Chiesa è davvero molto ricca di personaggi così. Chissà se c'entra per qualcosa il fatto che si tratti di una grande gerarchia affidata per secoli a secondogeniti e terzogeniti. Gente che in famiglia non era stata abituata a comandare. Non è il caso di San Pascasio, che era stato trovato neonato sui gradini del monastero femminile di Soissons. Non è nemmeno il mio caso, eppure mi ci ritrovo sempre più spesso. Come dico ai miei colleghi, quando si comincia a parlare di pensione, io non credo di poterci arrivare sui miei piedi: non dico che la mia professione sia tra le più faticose, e allo stesso tempo non posso immaginare di fare le stesse cose che facci adesso tra quindici anni: o mi succede qualcosa (a tanti miei colleghi con qualche anno in più sta succedendo qualcosa), o devo cominciare in un qualche modo a tirare i remi in barca. Rifiutare gli incarichi nuovi (questo è facile), rinunciare a quelli che ho già (molto meno facile), convocare i colleghi e spiegare che non sono capace di fare quello che sto facendo, anche se magari non è del tutto vero: ma comunque tra qualche anno lo sarà. In fin dei conti nessuno è necessario, no?

Oggi seppelliscono papa Francesco, probabilmente il pontefice migliore che potevo attendermi in questi anni così complicati. Pure non posso impedirmi di pensare che avrebbe potuto avere una vita un po' più lunga e serena se invece di lavorare fino all'ultimo giorno della sua vita, avesse abdicato per tempo, come coraggiosamente fece il suo predecessore che tanto meno mi era simpatico. Perché non l'ha fatto? Come tutte le scelte che pertengono alla coscienza di un individuo, non lo sapremo veramente mai (può darsi non lo sapesse nemmeno lui). Credo che l'umana vanità di regnare fino alla fine di un Giubileo abbia giocato un ruolo molto relativo; inoltre Francesco non sembrava condividere l'attesa messianica di un Giovanni Paolo II. Può persino darsi che la manfrina dei sedevacantisti abbia suggerito alla Curia di evitare un ulteriore papa emerito, e questo sarebbe l'unico risultato che hanno ottenuto quei fanatici repellenti: costringere un brav'uomo, anziano e malato a lavorare fino alla morte. Ma nell'occasione ho scoperto che molti, non sono tra i cattolici, sono ancora molto legati all'idea wojtyliana del papa che deve restare papa a oltranza, fino all'ultimo respiro; e che il gesto coraggioso di Ratzinger (il più importante del suo papato, secondo me) non è stato affatto recepito. Eppure davvero nessuno è necessario, nemmeno il papa, anzi lui dovrebbe essere uno dei più sostituibili: non è un Profeta in stretto contatto con Dio; è un vicario, un facente funzione, non capisco che problema c'è se a un certo punto rimette il suo incarico e si ritira anche lui in un monastero più tranquillo. Il clero cattolico, a cui tanti addebitano la responsabilità di millenni di società patriarcale, è un'organizzazione che per sopravvivere ha dovuto stemperare la sua componente patriarcale al punto da rinunciare al primo orgoglio del maschio, che è la prole (o forse la virilità: in ogni caso il clero ha rinunciato a entrambe). È una gerarchia di anziani, ma a questo punto le possibilità che un papa anziano possa trascorrere mesi o anni in situazioni in cui non è più in grado di intendere e volere sono sempre più alte.

Di Pascasio, che le monache avevano battezzato Radberto, si racconta che da giovane "condusse una vita dissoluta" finché non rimase "disgustato dai piaceri mondani", e non decise di entrare in un monastero e assumere il nome latino di Pascasio, più adatto a intestare i trattati di teologia. Non si capisce però con quali fondi Radberto possa avere condotto quella vita dissoluta che in effetti è un topos di tante vite di santi e governanti – tutti però nobili o comunque di famiglia abbastanza facoltosa da potersi garantire di vivere un po' di rendita, laddove Radberto era un trovatello. Chi ha infilato il topos nell'agiografia di San Pascasio non si è posto il problema. Gli interessava evitare l'impressione che Radberto/Pascasio non avesse mai conosciuto, del mondo, altro che una manciata di chiostri: una giovinezza dissoluta rende sempre il santo un po' più interessante. E magari voleva suggerirci che i suoi problemi con Ivo, anche lui monaco gaudente e riottoso, siano i tipici problemi del padre che riconosce nei vizi del figlio i suoi: quelli con cui sta lottando da una vita, e magari proprio quando sembra vittorioso, ecco che li ritrova in una versione più giovane di sé stesso, a dimostrargli che una vita sola non basta. 

Magari un giorno qualcuno si metterà a leggere questo blog, che un minimo di valore come testimonianza storica lo avrà, no? Voglio dire, vent'anni di paginette qualche cosa l'avranno trattenuta. Questa persona non scoprirà molto di me, di quello che mi è successo per interi anni di vita. Non ne ho parlato mai molto e a un certo punto ho proprio smesso. Avrà lo stesso una forte sensazione di conoscermi, perché anche se ho scritto di Beatles o di San Pascasio, tutto quello che ho scritto in un qualche modo mi somiglia: e in particolare questi frati e monaci recalcitranti, che non vorrebbero più sorvegliare né giudicare, non perché sia faticoso (a volte è faticoso): ma perché non sono bravi, sul serio, non era il loro mestiere, non avrebbero mai dovuto nemmeno cominciare.

venerdì 25 aprile 2025

1945 – 1995 – 2025


Col tempo doveva succedere che i due anniversari si confondessero: che la memoria (vissuta) del 25 aprile 1995 si sovrapponesse a quella (ricostruita) del 25 aprile 1945, e che insomma a un certo punto per noi ricordare i partigiani coincidesse col ricordare Mara Redeghieri che canta i Ribelli della montagna sul palco di Materiale Resistente.


Così il 25/4 è diventato qualcosa di cui abbiamo sinceramente nostalgia, un momento eccezionale in cui avevano senso cose che non l'avrebbero avuto né un momento prima né un momento dopo. Fatte le dovute proporzioni, cinquant'anni prima aveva un senso nascondersi in montagna e poi sparare ai tedeschi, prendere un municipio su una collina e proclamare una repubblica provvisoria; cinquant'anni dopo diventava improvvisamente naturale che le migliori basi trip-hop italiane arrivassero dall'Appennino reggiano, e sopra ci cantasse una ragazza un po' fuori chiave, con una dizzione tutta sua ma irresistibile.

Materiale Resistente è un disco che serviva a celebrare, e ora si celebra da solo. Quanto ad ascoltarlo, era già abbastanza faticoso nel 1995, ed è molto difficile che col tempo sia migliorato (non ho voglia di controllare). Per alcuni partecipanti era un punto d'arrivo, per altri una partenza o ripartenza; qualcuno era sui monti perché ci credeva, qualcuno ancora non si era spiegato bene ma avrebbe voluto fondare una repubblica nel senso medievale del termine, coi castelli merlati e i cavalieri e soprattutto tanti cavalli; qualcuno era comunista, qualcuno non voleva restare indietro, qualcuno non si rendeva conto, qualcuno cercava di limitare i danni: qualcuno infine era Freak Antoni, ora e sempre contro tutto e contro tutti. Il gioco poteva avere un senso solo se durava poco e impediva alla miscela di esplodere: un po' come cinquant'anni prima (fatte le dovute proporzioni). Era tutto molto ingenuo, decisamente puerile, un po' troppo retorico, e non abbiamo mai più avuto niente di meglio.

giovedì 24 aprile 2025

La terza Maria

Niccolò dell'Arco,
Compianto del Cristo Morto
Di Stefano Maioli - Opera propria, CC BY-SA 4.0
24 aprile: Santa Maria di Cleofa, madre dei fratelli di Gesù, per quanto strano ciò possa sembrare

Maria di Cleofa mi fa girare la testa, ogni volta che provo a raccapezzarmici. Forse era la zia di Gesù, forse la cognata, forse entrambe le cose? E come poteva essere madre di eventuali fratelli di Cristo, senza essere la madre del Cristo medesimo? Sono quei classici problemi che nell'antichità coinvolgevano chi cercava di recuperare un minimo di coerenza nei miti greci (in particolare nei rapporti di parentela tra gli Dei), un affanno simile a quello che oggi patiscono quelli che pretendono che funzioni la continuity nei fumetti dei supereroi. 

Nei vangeli la situazione è più circoscritta: a compatire Gesù sotto la croce c'è un gruppo di donne, un dettaglio che da subito sembrò verosimile ma forse anche consono a una sensibilità greco-romana in cui il cristianesimo fu immediatamente trapiantato: non si dà tragedia senza coro. E il coro dev'essere un personaggio collettivo, per cui ha persino un senso che queste donne non abbiano un nome o ne condividano uno che al tempo, ci informano gli archeologi, era davvero diffusissimo, benché nella Bibbia fino a quel momento solo la sorella di Mosè si chiamasse così: una donna su quattro si chiamava Maria, stando alle iscrizioni funerarie. Per cui non è così improbabile che due o tre donne ai piedi della croce si chiamassero Maria. Una sarebbe la madre di Gesù; un'altra è Maria di Magdala, che a sua volta racchiude altri personaggi: la peccatrice che aveva unto Gesù, l'invasata da cui lo stesso Gesù aveva scacciato ben sette demoni, la sorella di Marta e di Lazzaro. C'è poi, ai piedi della croce, una terza Maria, sulla quale gli evangelisti non riescono a mettersi d'accordo: Luca, che di solito è il più completista, si limita a definirla "di Giacomo". Per Marco e Matteo è la madre di Giacomo e Giuseppe, che quindi sono fratelli; Matteo definisce Giacomo "il minore" per distinguerlo dall'altro apostolo che porta lo stesso nome. In tutti i sinottici Giacomo il minore viene chiamato anche Giacomo d'Alfeo. In Matteo, poi, "Giacomo e Giuseppe" sono i primi nomi di una lista di fratelli di Gesù nominati dalla folla. ("Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?") Questa circostanza ha portato molti lettori a identificare Giacomo il minore con il Giacomo che San Paolo nella lettera ai Galati definisce "fratello del Signore", leader della comunità cristiano-ebraica di Gerusalemme. Ora, se si accetta l'idea che Gesù possa avere avuto fratelli di sangue (e alcune confessioni protestanti la accettano), Maria di Cleofa non potrebbe che essere la stessa Maria di Nazareth: e allora perché gli evangelisti nominerebbero due Marie diverse? Per i cattolici l'idea è da escludere: la madre di Dio sarebbe rimasta vergine anche dopo la nascita di Gesù. La presenza di entrambe le Marie davanti alla croce esclude anche la possibilità che Gesù avesse dei fratellastri, perché per sposare una delle due Giuseppe avrebbe dovuto rimanere vedovo dell'altra. 

Un'altra ipotesi, molto apprezzata dai cattolici, è che "fratelli" (adelphoi nell'originale greco) significhi "cugini": nel qual caso le due Marie potrebbero essere sorelle, e complimenti ai genitori per la fantasia. Qui interviene il quarto evangelista, quello che scrive per ultimo e che forse voleva proprio chiarire la questione: senonché finisce per confonderla ancor di più. Giovanni scrive che "Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre Maria di Cleofa e Maria di Magdala". Viene per la prima volta nominata una "Maria di Cleofa" (una variante di Alfeo?), un nome che fin qui era associato soltanto al discepolo che secondo Luca aveva riconosciuto Gesù a Emmaus. A parte questo, è da duemila anni che ci chiediamo se Giovanni abbia elencato tre donne o addirittura quattro. A quel tempo, si sa, non si mettevano le virgole, per cui sta a noi decidere se "la sorella di sua madre" e "Maria di Cleofa" siano una persona soltanto o addirittura due. Alcuni storici trovano inverosimile che due sorelle si chiamino entrambe "Maria" – io per contro insegno alle medie e mi è capitato di avere sorelle che si chiamavano Miriam e Meriem, per cui non trovo più inverosimile nulla. Tra l'altro Giovanni, che pure sostiene di essere l'apostolo più vicino alla madre di Gesù, non la chiama mai per nome. Un'altra ipotesi è che "sorella" qui significhi "cognata", e perché no? Maria di Cleofa potrebbe essere sorella di Giuseppe il falegname e moglie di Alfeo/Cleofa o viceversa: a quel punto gli apostoli Giacomo e Giuseppe sarebbero davvero cugini di Gesù. 

Una cosa interessante di questa tortuosa ricostruzione, è che è del tutto irrilevante da un punto di vista dottrinale. Lo chiarisce Gesù stesso, in un passo riportato dai tre sinottici: quando gli dicono che sono venuti a trovarlo sua madre e i suoi fratelli, lui risponde platealmente che "sua madre" e i "suoi fratelli" sono i suoi discepoli, e "chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio" (Matteo 12,50). Che sia zia, cognata o semplice conoscente, Maria è una delle donne che il terzo giorno dopo la deposizione vanno a visitare la tomba di Gesù (secondo Marco intendevano imbalsamarlo), ma trovano la tomba vuota. Un angelo le avvisa che il Salvatore è risorto. Corrono ad avvertire gli apostoli, i quali almeno secondo Luca restano piuttosto increduli. Lo stesso Paolo, quando raccontava la resurrezione, preferiva omettere il dettaglio della prima apparizione alle pie donne: probabilmente temeva che le testimonianze femminili non fossero abbastanza credibili. Matteo e Luca, viceversa, sembrano dare una certa importanza al fatto che le prime a essere informate della resurrezione siano le donne. È uno dei tanti indizi che ci suggeriscono che Paolo e i sinottici si rivolgessero a pubblici diversi, con sensibilità diverse.

martedì 22 aprile 2025

Il padre (più santo) di Origene

22 aprile: San Leonida martire, padre di Origene (✝204)

Di Leonida, padre di Origene, sappiamo poco, quasi solo un aneddoto: la notte, mentre Origene dormiva, Leonida gli baciava il petto, "quasi fosse un sacrario dello Spirito Santo". Così almeno secondo il solito Eusebio da Cesarea, ma c'è un problema: come faceva Eusebio a saperlo, se l'unico testimone sveglio era appunto Leonida, morto mezzo secolo prima che Eusebio nascesse, durante le persecuzioni di Settimio Severo? Escludiamo che prima delle persecuzioni, Leonida andasse in giro a raccontare dei bacini notturni che dava al suo figlio prediletto, di cui intuiva le doti intellettuali che considerava un dono dello Spirito Santo. È più probabile che a ricordare di questi bacini fosse Origene stesso, il quale evidentemente non dormiva davvero; a volte magari faceva finta. In età adulta avrebbe poi citato l'episodio in qualche omelia andata perduta, perché in quelle che abbiamo, l'autore parla pochissimo di sé. Ma anche in questo caso, come faceva il piccolo Origene a sapere che Leonida considerava il suo petto "un sacrario dello Spirito Santo"? Forse un giorno gliel'avrà chiesto e avrà ottenuto una sincera risposta; non è impossibile; ma secoli di relazioni tra padri e figli ci fanno sospettare che Origene non abbia mai svelato di essere sveglio e il padre non gli abbia mai davvero spiegato perché gli dava un bacino della buona notte sul cuore. È Origene a essersi convinto di essere uno speciale custode dello Spirito; di avere una potenzialità, un dono, qualcosa di cui il padre era orgoglioso. Cosa pensasse davvero il padre non possiamo saperlo, ma in generale cosa desiderano i padri? In generale il meglio per i figli; poi fortunatamente si tolgono di mezzo prima di verificare se il meglio arrivi o no. 

Leonida fu martirizzato ad Alessandria d'Egitto verso il 204. Quando lo arrestarono, Origene aveva diciassette anni e avrebbe voluto seguirlo, ma la madre gli nascose i vestiti, o almeno così ci racconta sempre Eusebio. Origene scrisse allora una lettera al padre per esortarlo al martirio. Il martirio ci fu, ma anche la confisca dei beni, e Origene si ritrovò sul groppone sei fratelli minori più la vedova. Era comunque un ragazzo promettente e grazie al sostegno di una matrona cristiana in un qualche modo riuscì a cavarsela: si mise a insegnare retorica, a copiare manoscritti, e nei ritagli di tempo divenne uno degli intellettuali più importanti del secolo III. Santo no, però, perché in quel periodo era complicato: la dottrina non era ancora del tutto fissata, il che lasciava agli intellettuali ampi margini di speculazione. Origene ad esempio non credeva che le pene infernali potessero durare in eterno, ma soprattutto pensava che il figlio fosse subordinato al padre, il che sarebbe stato recisamente escluso dal concilio di Nicea; così si ritrovò eretico, per quanto stimato da tanti contemporanei, compresi un paio di padri della Chiesa. Nel secolo successivo poi su di lui si impigliarono voci sempre più infamanti, così che il primo ad aver dichiarato che "Non c'è salvezza al di fuori della Chiesa"... è tuttora considerato al di fuori della Chiesa. Al tempo del padre le cose erano più semplici: bastava morire da martiri, e nessuno sarebbe andato a controllare se morivi per le idee giuste. Così insomma per quel che ne sappiamo, Leonida è in paradiso e il figlio fuori. Ma che paradiso può essere per un padre, se il figlio resta fuori. 

domenica 20 aprile 2025

Se una santa alza un piede per te

20 aprile: Sant'Agnese di Montepulciano (1274-1314), mistica


Agnese era talmente famosa per i miracoli che diventò badessa a quindici anni; nella sua Leggenda, Raimondo di Capua racconta che cominciò a guarire i malati quando era ancora una bambina. Ma il più famoso è postumo e piuttosto macabro: quando nel probabile centenario della sua nascita, Caterina di Siena si recò in visita nel suo sacrario, vi trovò un corpo che a quanto pare era ancora incorrotto, e si chinò per baciarle un piede in segno di devozione. Il piede, dicono i testimoni, si sollevò per accorciare la fatica di Caterina. Bisogna però avvertire che il biografo di Agnese, Raimondo, era anche il padre spirituale che i domenicani avevano procurato a Caterina, il quale si trovava dunque in una posizione privilegiata per orchestrare un prodigio come questo, dal significato palese: Caterina era l'erede di Agnese, in quanto domenicana, mistica e santa. Raimondo, accettando la direzione spirituale di un personaggio irregolare come Caterina, era probabilmente conscio di giocarsi la carriera: la ragazza destava scalpore per le lettere che scriveva e inviava ai potenti della Terra, ma come tutti i mistici tra Due e Trecento si muoveva sulla lama sottile che separava l'eresia della santità. Il compito di Raimondo era farne una santa; il precedente di Agnese forniva sia al maestro sia all’allieva un canovaccio da seguire. Possiamo immaginare che Caterina abbia imparato come comportarsi da santa sul libro di Raimondo: anche se il gusto per le privazioni e i digiuni eroici lo aveva già sperimentato ben prima di incontrarlo, leggendo di Agnese aveva scoperto che si poteva vivere per quindici anni a pane e acqua, e che una santa seria al posto del cuscino usa una pietra. 

Il problema è che mentre Agnese era già una leggenda, Caterina viveva ancora nel mondo complicato dei viventi ed è probabile che abbia un poco invidiato la relativa facilità con cui la consorella Agnese era riuscita a farsi spedire bambina in un convento, mentre Caterina per convincere i suoi che non avrebbe sposato il cognato rimasto vedovo dovette fare più di uno sciopero della fame. Anche per farsi accettare come religiosa Caterina aveva faticato non poco, mentre Agnese che viveva in un secolo dove le confraternite religiose erano meno strutturate, aveva trovato immediatamente posto in una comunità quasi spontanea, le cosiddette Suore del Sacco, dette così dal vestito molto ruvido che portavano. Agnese, dappertutto riverita e onorata, a quindici anni era già superiora a Proceno (oggi provincia di Viterbo), e in seguito avrebbe ceduto al desiderio dei compaesani di Montepulciano di fondarne un altro nel suo luogo di nascita, aderendo alla regola domenicana. Caterina invece avrebbe viaggiato in lungo e in largo senza mai trovare pace, impiegata in missioni diplomatiche che la esposero almeno una volta a un attentato, a Firenze. Agnese, come conviene a una santa protagonista di una leggenda, faceva tanti miracoli: dove passava scendeva una manna, un pulviscolo bianco fatto di tante minuscole croci. Anche Caterina qualche miracolo avrebbe voluto farlo: tutti in particolare le chiedevano di riportare il papa da Avignone a Roma e lei in teoria ci riuscì; ma poi scoppiò la guerra, il papa morì subito, i cardinali italiani ne elessero uno e i francesi un altro, tutta una confusione che Caterina cercò di risolvere digiunando, finché ne morì, nove giorni dopo la festa della sua santa modello. Qualche anno dopo Raimondo diventò maestro generale dell'Ordine, come Caterina aveva previsto. Il corpo di Agnese è ancora custodito in una teca, a Montepulciano, anche se i piedi sono piuttosto incartapecoriti e da quella volta nessuno ha più visto muoverli. 

sabato 19 aprile 2025

Il papa verso lo scisma

19 aprile: Leone IX (1002-1054)

Lo scisma più annoso, quello che non si è ricomposto ancora dopo secoli di tentativi, ha motivi più storici che dogmatici: cristiani di rito latino e cristiani di riti orientali (greco o slavo) hanno sempre avuto qualche difficoltà a capirsi, ma questo non aveva impedito loro di sentirsi parte di una stessa Chiesa... fino a quando? Sui libri di Storia trovate di solito una data, 1054 (a volte 1055). Ma cosa successe in quell'anno, di così irreparabile, tra Roma e Costantinopoli? Chi sono insomma i responsabili di questo strappo che non si è più ricucito, e che tuttora sanguina ogni volta che si riapre un fronte in Europa, nei Balcani come in Ucraina? Il patriarca di Costantinopoli nel 1054 era Michele Cerulario: e a Roma chi c'era? In teoria Leone IX, ma ecco: è difficile capire come siano andate le cose. È molto più facile notare come generazioni di storici e agiografi abbiano tentato di sminuire le responsabilità di questo papa che è venerato come un santo e ammirato come un grande riformatore; per cui attribuirgli uno scisma sembrava forse indelicato.  

Quando un papa sceglie, tra tanti nomi, Leone, di solito ci si aspetta che dia battaglia, e Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg ci provò, anche se alla fine non si può dire che ne vinse. Parente neanche troppo lontano dell'imperatore Corrado II, Brunone in quanto terzogenito era destinato alla carriera ecclesiastica, che non significava necessariamente passare la vita sui breviari. Ad esempio: per conquistarsi il titolo di vescovo della sua Toul, in Lorena, Brunone si mise a 24 anni a capo di un contingente di cavalieri teutonici che accompagnarono Corrado in una campagna in alta Italia. La responsabilità della missione sarebbe spettata al vescovo in carica, troppo anziano: Brunone era già il suo vice e se ne prese carico, in attesa di sostituirlo anche sulla cattedra. Questo precoce successo militare avrebbe segnato il suo destino, per più di un motivo. È probabile che Brunone nell'occasione si sia fatto un'opinione di sé che non sarebbe riuscito nei fatti a dimostrare: per prima cosa, un condottiero vincente – ma è destino dei condottieri continuare a vincere finché non perdono. Nell'occasione potrebbe anche essersi infiltrata nella sua coscienza quell'idea che noi postmoderni chiamiamo meritocrazia: la convinzione che ai posti di comando dovrebbero starci quelli che se lo meritano. Il che sarebbe ineccepibile, senonché molto spesso a parlare di meritocrazia è gente, fateci caso, con un cognome illustre: e arciconvinta di meritarselo. Brunone era figlio di conti (che gli avevano dato un nome che richiamasse quello di altri famosi prelati), parente di imperatori: se non avesse combattuto qualche battaglia a 24 anni sarebbe diventato vescovo comunque; magari un po' più tardi, ma lo richiedeva il suo lignaggio. E però era convinto di esserselo conquistato sul campo, non come certi vescovi a cui la cattedra gliela pagava papà perché si sistemassero, seguendo una pratica che la Chiesa ufficialmente denigrava. Tale pratica era chiamata “simonia”,  dal nome di quel Simone Mago che negli Atti degli Apostoli, invidioso dei miracoli praticati dai cristiani, aveva offerto denaro a Pietro affinché lo ammettesse tra gli apostoli. 

Per Brunone, che apparteneva a un movimento di riforma della Chiesa che si irradiava soprattutto dai monasteri cluniacensi, la simonia era uno scandalo che andava rimosso ad ogni costo, e non è nemmeno così necessario calarsi nella mentalità rigorista di un vescovo del secolo XI per condividerne i motivi: una Chiesa che metteva all’asta i ruoli apicali sarebbe stata inevitabilmente gestita da figli di papà solo raramente, e casualmente, competenti e meritevoli. E allo stesso tempo, non era la simonia un fenomeno inevitabile, in una società che considerava la carriera ecclesiastica come appannaggio delle famiglie più nobili, un modo di tenere impegnati i secondi o terzogeniti senza frazionare più di tanto l’asse ereditario? Da questi rampolli delle grandi famiglie ci si aspettava comunque che contribuissero alla gloria delle loro diocesi con donazioni di beni immobili, terre in beneficio e chiese monumentali, per cui davvero: c’era così tanta differenza tra Brunone e certi vescovi che per diventarlo cominciavano a pagare in anticipo? A distanza di secoli io non ci vedo tantissima differenza, ma capisco quanto fosse vitale per Brunone notarla e farla notare. Ad esempio, quando il vecchio vescovo di Toul passò a miglior vita, l'imperatore voleva investire Brunone senza tanti complimenti, ma quest'ultimo obiettò che la diocesi di Toul era soggetta a quella di Treviri, e che quindi la nomina spettava all'arcivescovo di colà. Giunto a Treviri, però Brunone scoprì che l'arcivescovo lo avrebbe nominato soltanto in seguito a un giuramento di fedeltà che non era previsto dal diritto canonico, sicché alla fine B. riuscì nell'impresa di litigare sia con l'imperatore sia con l'arcivescovo – ovvero con entrambe le autorità che dovevano designarlo. Così almeno scriveva il biografo ufficiale di Leone, mentre il papa era ancora in vita, ma guardando alle date qualcosa non va: tutto questo doppio braccio di ferro tra imperatore e arcivescovo dovrebbe essersi risolto (a favore di Brunone) in meno di due mesi, che in un secolo in cui le informazioni viaggiavano a cavallo passavano in un soffio. È probabile che le resistenze di Brunone siano state ingigantite dal biografo per dimostrare l’alto senso che aveva il futuro Papa per l’autonomia della Chiesa e le prerogative della sua carica, nonché per mascherare un’evidenza: nel giro di cinquanta giorni il vescovo designato dall’imperatore era già in cattedra, con tanti saluti all’autonomia della Chiesa e le prerogative eccetera. Da cui un sospetto: forse tutta la retorica antisimoniaca era funzionale all’affermazione di una nuova gerarchia selezionata direttamente dall’imperatore.

Vent’anni dopo la manfrina si ripeté, stavolta intorno al Soglio di Roma. Alla morte di papà Damaso II, l’imperatore (che ora era Enrico III, figlio di Corrado) non si diede nemmeno la pena di scendere in Italia: convocò una dieta a Worms e nominò Brunone. Brunone obiettò ovviamente che non era degno, ma soprattutto che la nomina spettava al clero romano e persino al popolo: dopodiché arrivò a Roma, vestito da umile pellegrino – ma accompagnato dal fior fiore dei riformisti, tra cui Ugo di Cluny e un giovane Ildebrando di Soana che da qui in poi sarebbe stato l’eminenza grigia dei pontefici riformisti, finché non sarebbe diventato papa lui stesso col nome di Gregorio VII. L’elezione fu una semplice ratifica della designazione imperiale, dopodiché Brunone (da qui in poi Leone) procedette a sorprendere i romani con atteggiamenti che ricordano, alla lontana, quelli di un’altro Papa venuto da lontano, Giovanni Paolo II: considerandosi, più che vescovo dell’Urbe, capo della Chiesa universale (o almeno imperiale), Leone si mise in viaggio e in sei anni di pontificato, si è calcolato che a Roma abbia trascorso soltanto qualche manciata di mesi. Ovunque andava, Leone convocava sinodi che servivano soprattutto a sollevare dai loro incarico i vescovi simoniaci – da sostituire ovviamente con uomini di fiducia di Leone e dell’imperatore. Ma forse perché la simonia non era sempre così facile da dimostrare, sempre più spesso nell’obiettivo di Leone e dei suoi collaboratori c’era un altro fenomeno, il Nicolaismo: l’abitudine di molti prelati a convivere con donne, dalle quali avevano persino bambini. Una plateale violazione dei voti sacerdotali (che però ci avevano messo secoli a essere formalizzati: e a Oriente i sacerdoti si sposavano tranquillamente) ma anche una seria minaccia all’unità patrimoniale della Chiesa. Non sempre le cose andavano lisce: a Mantova durante il sinodo del 1053 scoppiò un tumulto, animato a quanto pare dai servi dei vescovi convocati: vescovi evidentemente molto legati ai loro comportamenti simoniaci e alle loro concubine, sicché Leone dovette lasciare la città senza riuscire a punire nemmeno i colpevoli. 

Ma i veri problemi – che gli furono fatali – Leone li incontrò nel Meridione, dove nell'equilibrio già molto relativo tra ducati longobardi, arabi di Sicilia e Bizantini si erano inseriti con una certa prepotenza i Normanni. I papi li avevano appoggiati – in funzione antiaraba – ma ora cominciavano a temere il loro espansionismo. Leone IX decise di contrastarli proprio nel momento in cui, sul piano dottrinale, era ai ferri corti con i loro avversari: i Bizantini. Da questi ultimi Leone pretendeva, oltre al riconoscimento del primato di Roma (che in linea teorica il patriarca Michele Cerulario non avrebbe potuto discutere) anche la restituzione delle diocesi della Sicilia e del meridione, che dopo secoli di dominio bizantino erano passate al rito greco: e piuttosto di cederle il Cerulario era disposto a rivangare le vecchie polemiche di secoli prima, il filioque e la comunione coi pani azzimi, insomma tutti i pretesti che tornavano utili per minacciare uno scisma. Un politico più astuto forse avrebbe a questo punto sostenuto i Normanni in funzione antibizantina, ma Leone IX forse non lo era, per cui lo si ritrovò ad allearsi coi Bizantini che non riconoscevano la sua autorità spirituale contro i Normanni che invece la riconoscevano; una contraddizione che si sarebbe risolta se almeno Leone avesse vinto, ma prevedibilmente successe il contrario. Dalla Germania, Enrico III si limitò a mandare un contingente di cavalieri, ma non ritenne necessaria la sua presenza. Così toccò a Leone condurre l'esercito: spettacolo inconsueto anche nel medioevo. I Normanni riuscirono a sorprenderlo prima che si potesse riunire con gli alleati Bizantini e lo fecero prigioniero, che è sempre un fatto increscioso per un pontefice: e se anche tutte le fonti dicono che fu trattato con tutti gli onori, e liberato in meno di un anno, è pur vero che di lì a poco morì, ad appena 52 anni e alla vigilia dello scisma d'oriente. Nel frattempo, in effetti, il cardinale che Leone aveva inviato per trovare un compromesso col Cerulario (Umberto di Silva Candida) ottenne il risultato opposto: Umberto e Michele si scomunicarono a vicenda, decretando ufficialmente uno scisma che dura tuttora. A quel punto però Leone era già morto da qualche mese, il che ha dato ai teologi qualche argomento per sostenere che la scomunica impartita da Umberto non avesse più valore legale. Eppure lo scisma c'è, nessuno è più riuscito a risanarlo.

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