Le sedicenni sostano, e non sanno.
Ma le ciabattine che la nonna comprava al mercato, adesso stanno in vetrina a venticinque euro. Detto questo, il pezzo di oggi potrebbe finir qui. O dovrei aggiunger qualcos’altro?
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi.
Noi no. Donate all'UNRWA.
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giovedì 29 giugno 2006
mercoledì 28 giugno 2006
- toh, chi si vede, l'illuso di sempre
Quando non hai talento né tecnica, puoi sempre tirar fuori una Vocina.
Mi riferisco alla banale arte delle cover. Per esempio c’è un gruppo italiano, non voglio neanche dire il nome, che non avendo né molta tecnica né talento, si riduce ogni tot anni a rispolverare un classico italiano, e a metterlo in bocca a una Vocina. Perché funziona sempre, la Vocina. Gradevole, non impegnativa, abbinata con elettronica soft impersonale quanto basta. E il gioco è fatto (continua su Grazia.blog)
Mi riferisco alla banale arte delle cover. Per esempio c’è un gruppo italiano, non voglio neanche dire il nome, che non avendo né molta tecnica né talento, si riduce ogni tot anni a rispolverare un classico italiano, e a metterlo in bocca a una Vocina. Perché funziona sempre, la Vocina. Gradevole, non impegnativa, abbinata con elettronica soft impersonale quanto basta. E il gioco è fatto (continua su Grazia.blog)
giovedì 22 giugno 2006
- Grazio!
Leonarda?
Nel periodo in cui sembrava venuto il momento di cambiare - perché ormai un blog come questo ce l'avevano i cani e i porci, e qui intorno era tutto un abbaiare e grugnire senza infamia né lode - la redazione di Leonardo formulò diverse ipotesi di lavoro.
Tra le meno probabili, c'era l'opzione "Leonarda", ovvero: cambiare sesso per qualche tempo, cimentandosi con la scrittura femminile, con prevedibili esiti parodici.
Inimicarsi per sempre tutto il genere femminile non era esattamente una priorità, così Leonarda non vide mai la luce. Piuttosto di cambiare sesso, il sito fu invecchiato di vent'anni. Sembrava un'idea meno disastrosa, all'inizio.
Questo sconcertante retroscena serve solo a introdurre la notizia, e cioè: a partire da ieri, e per una settimana, sto collaborando al blog di Grazia. Non so bene il perché mi abbiano invitato, e per ora ho preferito non chiedere. Non so neanche se abbia senso invitarvi tutti là. Ma a chi fosse vagamente curioso di sapere come sarebbe stata Leonarda, ebbene, consiglio di dare un'occhiata.
Più o meno sarebbe stata così. Non molto femminile, decisamente. Mai stato bravo nei travestimenti.
(Il primo pezzo si chiama "Il tunnel dell'amore").
Nel periodo in cui sembrava venuto il momento di cambiare - perché ormai un blog come questo ce l'avevano i cani e i porci, e qui intorno era tutto un abbaiare e grugnire senza infamia né lode - la redazione di Leonardo formulò diverse ipotesi di lavoro.
Tra le meno probabili, c'era l'opzione "Leonarda", ovvero: cambiare sesso per qualche tempo, cimentandosi con la scrittura femminile, con prevedibili esiti parodici.
Inimicarsi per sempre tutto il genere femminile non era esattamente una priorità, così Leonarda non vide mai la luce. Piuttosto di cambiare sesso, il sito fu invecchiato di vent'anni. Sembrava un'idea meno disastrosa, all'inizio.
Questo sconcertante retroscena serve solo a introdurre la notizia, e cioè: a partire da ieri, e per una settimana, sto collaborando al blog di Grazia. Non so bene il perché mi abbiano invitato, e per ora ho preferito non chiedere. Non so neanche se abbia senso invitarvi tutti là. Ma a chi fosse vagamente curioso di sapere come sarebbe stata Leonarda, ebbene, consiglio di dare un'occhiata.
Più o meno sarebbe stata così. Non molto femminile, decisamente. Mai stato bravo nei travestimenti.
(Il primo pezzo si chiama "Il tunnel dell'amore").
lunedì 19 giugno 2006
- sulla crosta sottile
Quaquaraquà generation
Io vorrei che anche nei giorni meno ispirati, la linea ""editoriale"" di questo blog fosse la seguente: evitare i commenti tanto-un-chilo, cercare di prendere ogni argomento come se fosse solo un aspetto di un problema più vasto. Una maglia del tessuto. Un elemento di una struttura. O un pezzo dell'animale, come direbbe Baricco (che è più bravo di me, ribadisco).
Nello specifico, non si tratta di sottolineare quanto siano stronzi e maiali Principe, Sottile e compagnia, quanto di notare una volta per tutte l'epoca eccezionale in cui stiamo vivendo.
Quest'epoca eccezionale è quella in cui una tecnologia davvero rivoluzionaria (la telefonia cellulare) è stata resa disponibile anche a persone di una certa età. Il che nel passato non avveniva: quando inventarono le automobili o gli aeroplani, non credo che i sessanta-settantenni ci si dilettassero. Ma in generale, i politici, i funzionari, i principi, non sono mai stati così all'avanguardia tecnologica come adesso. Hanno imparato a usare i cellulari, adesso li usano piuttosto bene, fin troppo bene, e il risultato da un anno a questa parte è una serie infinita di scandali seguiti a intercettazioni telefoniche. Prima Ricucci e compagnia, poi Fassino un po' spregiudicato che al telefono con Consorte sbotta in un "Abbiamo una banca!" (salvo pentirsi subito, perché è Fassino). Poi Moggi. E adesso Vittorio Emanuele, che comunque di Moggi non ha né il potere né il bieco carisma. Tutta gente un po' troppo chiacchierona, e poi hai voglia a lamentarti della fuga di notizie. E star zitti?
Una volta il malavitoso di successo era il tizio con la voce bassa e roca, che parlava poco o nulla, e sempre per interposta persona. Con l'avvento del cellulare è arrivato il Chiacchierone. Indubbiamente la pubblicazione seriale delle intercettazioni è un malcostume, ma suvvia. Quante possibilità aveva di resistere il modello-Chiacchierone? Il mondo del malaffare, lo sappiamo tutti, è ferocemente darwiniano: vince chi si adatta meglio all'ambiente. Moggi parlava troppo per sopravvivere. Deve prendersela solo con sé stesso.
Il bello è che questi Chiacchieroni, lo sono diventati grazie a una tecnologia innovativa. Prima erano probabilmente intrallazzoni riservati. Il mondo del malaffare Italiano è una specie di Afganistan tecnologico, dove si è passati direttamente dalla sciabola al razzo Terra-Aria, dai pizzini di Provenzano al telefono cellulare. Risultato? Uomini potenti che si sputtanano per un nonnulla. Vittorio Emanuele si vantava di essere "il telefonino più intercettato d'Italia". E poi passava a spiegare come avrebbe rotto il naso a una giornalista tv rea d'essere brutta e comunista. Allora, a prescindere dai reati contestati, a uno così il cellulare bisogna toglierglielo. Come si sequestrano i motorini ai tredicenni.
C'è stato un periodo nella vita mia e di alcuni miei amici, in cui i nostri numeri di cellulare erano su liste della Digos. Niente di drammatico, ma c'eravamo e sapevamo di esserci. E sui nostri cellulari si sentivano clic strani: autosuggestione, probabilmente; in ogni caso era meglio non dire cazzate. Un normalissimo principio di precauzione: non si cammina su un cornicione, non ci si accende da fumare se si sente puzza di gas. E non si dicono cazzate su un cellulare. Ma noi eravamo giovani e assolutamente sfigati, non dirigevamo la Banca d'Italia né i Democratici di sinistra, né la Juventus, né la guardia al Pantheon. Questo periodo è eccezionale perché c'è un giro un sacco di vecchi furboni che di fronte a un cellulare non sanno resistere, non hanno introiettato il principio di precauzione. Come i pellerossa nei cantieri dovevano ancora introiettare il senso di vertigine. Che t'impedisce un po' nei movimenti, ma a volte ti salva la vita.
Le intercettazioni sono un colpo basso, indubbiamente. Ma posso dire una cosa poco correct? Questa gente doveva farsi furba, punto. Il reato di imbecillità non esiste, lo so bene. Ma una società che non si protegge dagli imbecilli non funziona.
Io vorrei che anche nei giorni meno ispirati, la linea ""editoriale"" di questo blog fosse la seguente: evitare i commenti tanto-un-chilo, cercare di prendere ogni argomento come se fosse solo un aspetto di un problema più vasto. Una maglia del tessuto. Un elemento di una struttura. O un pezzo dell'animale, come direbbe Baricco (che è più bravo di me, ribadisco).
Nello specifico, non si tratta di sottolineare quanto siano stronzi e maiali Principe, Sottile e compagnia, quanto di notare una volta per tutte l'epoca eccezionale in cui stiamo vivendo.
Quest'epoca eccezionale è quella in cui una tecnologia davvero rivoluzionaria (la telefonia cellulare) è stata resa disponibile anche a persone di una certa età. Il che nel passato non avveniva: quando inventarono le automobili o gli aeroplani, non credo che i sessanta-settantenni ci si dilettassero. Ma in generale, i politici, i funzionari, i principi, non sono mai stati così all'avanguardia tecnologica come adesso. Hanno imparato a usare i cellulari, adesso li usano piuttosto bene, fin troppo bene, e il risultato da un anno a questa parte è una serie infinita di scandali seguiti a intercettazioni telefoniche. Prima Ricucci e compagnia, poi Fassino un po' spregiudicato che al telefono con Consorte sbotta in un "Abbiamo una banca!" (salvo pentirsi subito, perché è Fassino). Poi Moggi. E adesso Vittorio Emanuele, che comunque di Moggi non ha né il potere né il bieco carisma. Tutta gente un po' troppo chiacchierona, e poi hai voglia a lamentarti della fuga di notizie. E star zitti?
Una volta il malavitoso di successo era il tizio con la voce bassa e roca, che parlava poco o nulla, e sempre per interposta persona. Con l'avvento del cellulare è arrivato il Chiacchierone. Indubbiamente la pubblicazione seriale delle intercettazioni è un malcostume, ma suvvia. Quante possibilità aveva di resistere il modello-Chiacchierone? Il mondo del malaffare, lo sappiamo tutti, è ferocemente darwiniano: vince chi si adatta meglio all'ambiente. Moggi parlava troppo per sopravvivere. Deve prendersela solo con sé stesso.
Il bello è che questi Chiacchieroni, lo sono diventati grazie a una tecnologia innovativa. Prima erano probabilmente intrallazzoni riservati. Il mondo del malaffare Italiano è una specie di Afganistan tecnologico, dove si è passati direttamente dalla sciabola al razzo Terra-Aria, dai pizzini di Provenzano al telefono cellulare. Risultato? Uomini potenti che si sputtanano per un nonnulla. Vittorio Emanuele si vantava di essere "il telefonino più intercettato d'Italia". E poi passava a spiegare come avrebbe rotto il naso a una giornalista tv rea d'essere brutta e comunista. Allora, a prescindere dai reati contestati, a uno così il cellulare bisogna toglierglielo. Come si sequestrano i motorini ai tredicenni.
C'è stato un periodo nella vita mia e di alcuni miei amici, in cui i nostri numeri di cellulare erano su liste della Digos. Niente di drammatico, ma c'eravamo e sapevamo di esserci. E sui nostri cellulari si sentivano clic strani: autosuggestione, probabilmente; in ogni caso era meglio non dire cazzate. Un normalissimo principio di precauzione: non si cammina su un cornicione, non ci si accende da fumare se si sente puzza di gas. E non si dicono cazzate su un cellulare. Ma noi eravamo giovani e assolutamente sfigati, non dirigevamo la Banca d'Italia né i Democratici di sinistra, né la Juventus, né la guardia al Pantheon. Questo periodo è eccezionale perché c'è un giro un sacco di vecchi furboni che di fronte a un cellulare non sanno resistere, non hanno introiettato il principio di precauzione. Come i pellerossa nei cantieri dovevano ancora introiettare il senso di vertigine. Che t'impedisce un po' nei movimenti, ma a volte ti salva la vita.
Le intercettazioni sono un colpo basso, indubbiamente. Ma posso dire una cosa poco correct? Questa gente doveva farsi furba, punto. Il reato di imbecillità non esiste, lo so bene. Ma una società che non si protegge dagli imbecilli non funziona.
martedì 13 giugno 2006
- in anteprima per voi
Siccome Mantellini non lo fa, io, che avrei mille altre cose da fare, vi segnalo l’ultimo exploit del più prestigioso giornalista informatico di Repubblica, Giuseppe Turani, che l'altro ieri su Affari e Finanza ha provato per voi in anteprima un avveniristico software marca Microsoft. No, ma sentite:
Un altro esempio, sempre di questo genere, si ha in Word per quanto riguarda i caratteri. Se io seleziono un paragrafo e voglio cambiare carattere (tipo di carattere, corsivo, neretto, ecc.), mi si apre l’elenco dei caratteri e delle loro specificità, e scorrendovi sopra con il mouse, nella pagina il testo cambia. In sostanza ho un’anteprima istantanea di quello che voglio fare e così posso controllare subito come mi verrà alla fine il documento. Quando ho trovato la soluzione che mi piace, mando il segnale di conferma e a quel punto è fatta.
Tutto il nuovo Word è un po’ costruito così.
Cioè, capite, se io voglio cambiare tipo di carattere, corsivo, neretto, si apre l'elenco e posso...
La mente vacilla
lunedì 12 giugno 2006
- delle bande nere
E proprio stasera, vi viene in mente di lamentarvi per i Sedici Noni? Ma dove siete stati negli ultimi mesi?
Per capirsi: dopo mesi di attesa, finalmente è iniziato il mondiale, e la maggior parte dei telespettatori hanno scoperto, con raccapriccio, che le riprese quest'anno sono in 16:9, come al cinema. Belle, per carità: si vede molto campo in più. Ma se non hai il video a 16:9, sei costretto a guardarle con le due fasce nere, come i film in tv. E i giocatori diventano piccoli piccoli. E alla Rai dicono: non ci possiamo fare niente. In effetti così. In effetti il problema è più grave. Indovinate un po' qual è? È la crisi del consumismo italiano, né più né meno.
Insomma, teleutenti italiani: dove eravate negli ultimi mesi? Ma le avete visto bene le pubblicità tra una notizia e un'altra? Non vi siete accorti degli inviti piuttosto reiterati – diciamo pure degli ordini – a comprare nuovi smaglianti tv color a 16:9 in favolosa offerta speciale? Io forse ne guardo troppa, di televisione, ma ormai mi uscivano dagli occhi.
Il comunismo aveva i piani quinquennali, il consumismo ragiona piuttosto sulla distanza dei quattro anni. Il ritmo lo danno le grandi kermesse internazionali, olimpiadi e mondiali di calcio. Il piano quadriennale 2002-06 prevedeva il ricambio dei vecchi tubi catodici coi nuovi monitor smaglianti al plasma. Probabilmente in Francia, Uk e Germania tutto è andato per il verso giusto. Magari anche in Spagna. Di sicuro in Scandinavia. E l'Italia?
L'Italia è ferma, testarda come un mulo. Hai voglia a mettere in palio i premi. Hai voglia a reclamizzare prestiti agevolati: i desideri degli italiani restano indietro, segnano il passo. Il tubo catodico a colori è la zavorra degli anni Ottanta del secolo scorso, di cui non riusciamo a disfarci ancora. Anche perché i guru italiani sono tutti persi in progetti alternativi e poco credibili: il videofonino, per esempio. Un affarino col quale puoi vedere Portogallo–Angola in spiaggia sullo sdraio, se ne sentiva proprio l'esigenza.
Peccato che gran parte dei mondiali siano in giugno e gli italiani vadano al mare in luglio-agosto.
E così il consumista italiano, in attesa di guardarsi il deprimentissimo palinsesto estivo rai su un videofonino minuscolo sulla spiaggia (con sabbia vento e sale, ve lo raccomando) resta in casa ad imprecare perché le partite ormai non si vedono più bene neanche coi ventinove pollici.
E dire che il consumista italiano, quando vuole, non è secondo a nessuno. Non chiede di meglio che di consumare. Secondo me il problema è un po' a monte.
Per capirsi: dopo mesi di attesa, finalmente è iniziato il mondiale, e la maggior parte dei telespettatori hanno scoperto, con raccapriccio, che le riprese quest'anno sono in 16:9, come al cinema. Belle, per carità: si vede molto campo in più. Ma se non hai il video a 16:9, sei costretto a guardarle con le due fasce nere, come i film in tv. E i giocatori diventano piccoli piccoli. E alla Rai dicono: non ci possiamo fare niente. In effetti così. In effetti il problema è più grave. Indovinate un po' qual è? È la crisi del consumismo italiano, né più né meno.
Insomma, teleutenti italiani: dove eravate negli ultimi mesi? Ma le avete visto bene le pubblicità tra una notizia e un'altra? Non vi siete accorti degli inviti piuttosto reiterati – diciamo pure degli ordini – a comprare nuovi smaglianti tv color a 16:9 in favolosa offerta speciale? Io forse ne guardo troppa, di televisione, ma ormai mi uscivano dagli occhi.
Il comunismo aveva i piani quinquennali, il consumismo ragiona piuttosto sulla distanza dei quattro anni. Il ritmo lo danno le grandi kermesse internazionali, olimpiadi e mondiali di calcio. Il piano quadriennale 2002-06 prevedeva il ricambio dei vecchi tubi catodici coi nuovi monitor smaglianti al plasma. Probabilmente in Francia, Uk e Germania tutto è andato per il verso giusto. Magari anche in Spagna. Di sicuro in Scandinavia. E l'Italia?
L'Italia è ferma, testarda come un mulo. Hai voglia a mettere in palio i premi. Hai voglia a reclamizzare prestiti agevolati: i desideri degli italiani restano indietro, segnano il passo. Il tubo catodico a colori è la zavorra degli anni Ottanta del secolo scorso, di cui non riusciamo a disfarci ancora. Anche perché i guru italiani sono tutti persi in progetti alternativi e poco credibili: il videofonino, per esempio. Un affarino col quale puoi vedere Portogallo–Angola in spiaggia sullo sdraio, se ne sentiva proprio l'esigenza.
Peccato che gran parte dei mondiali siano in giugno e gli italiani vadano al mare in luglio-agosto.
E così il consumista italiano, in attesa di guardarsi il deprimentissimo palinsesto estivo rai su un videofonino minuscolo sulla spiaggia (con sabbia vento e sale, ve lo raccomando) resta in casa ad imprecare perché le partite ormai non si vedono più bene neanche coi ventinove pollici.
E dire che il consumista italiano, quando vuole, non è secondo a nessuno. Non chiede di meglio che di consumare. Secondo me il problema è un po' a monte.
venerdì 9 giugno 2006
- cambiare regime budget
La guerra è finita (se lo vuoi)
Alla fine lo hanno ucciso, il capo-terrorista noto come Al Zarkawi. Come prima di lui Bin Laden. E hanno preso Saddam Hussein, e in Afganistan hanno spodestato i talebani. Insomma, il bilancio di questa guerra al terrore non è proprio da buttar via.
E invece nessuno riesce a fare festa. Qualche graduato comincia anche a dirlo alla stampa: la guerra in Iraq è persa (via Asphalto). Persa? Sul serio?
La guerra in Iraq si può vincere, invece. Tra due anni, o uno, o anche meno. Non c'è nessun reale impedimento. La mesopotamia non è la jungla vietnamita, gran parte è sabbia e sassi e si fa presto a rastrellare. Dietro i vietkong c'era l'Urss; dietro i guerriglieri iracheni c'è senz'altro una scaltrita opera di fundraising che fa appello alla frustrazione di un miliardo di fratelli islamici – alcuni dei quali petrolieri – ma anche quei rubinetti non sono infiniti. La supremazia tecnologica e militare americana è un fatto: hanno ucciso Al Zarqawi, uccideranno anche il successore. Possono ucciderli tutti, pacificare l'Iraq e passare al prossimo Stato canaglia, se vogliono.
Il problema è tutto lì: lo vogliono davvero?
A sentire la cronaca, si direbbe di no: agguati, rapimenti di massa, eccidi di sciiti. Il contingente angloamericano sembra impotente. In effetti lo è. Ma è anche un contingente numericamente inadeguato, che non riesce a difendere non dico gli iracheni, ma sé stesso. Come si diceva quest'estate, George W. Bush sta cercando di controllare due grandi Paesi con due piccoli eserciti da guerricciola coloniale. Tutto sommato è sorprendente che non abbia ancora del tutto fallito.
È anche sorprendente che i neocon di tutti i Paesi e i colori cerchino ancora di venderci la sòla del regime change. Che per carità, è un'idea interessante. Anche il ponte sullo stretto di Messina, se è per questo. Personalmente non ho chiusure ideologiche nei confronti né dell'uno né dell'altro. Chiedo solo di andare a vedere il preventivo, perché secondo me sono operazioni molto rischiose e – soprattutto – costosissime. Mentre George W, fin qui, non mi è sembrato uno spendaccione.
Invece è un gran cristiano, George W, e probabilmente conosce la parabola che dice: il regno dei cieli è come un uomo che trova un tesoro in un campo: sai che fa? Vende tutti i suoi averi e col ricavo compra quel campo. Il regno dei cieli è così. Anche il regime change è un po' così. Può funzionare, ma solo se ci credi fino in fondo, se vendi tutto quel che hai. Non puoi crederci al risparmio.
Se George W volesse crederci, avrebbe già vinto. Potrebbe raddoppiare il contingente – quadruplicarlo. Costringere gli alleati a partecipare al conflitto seriamente, pena sanzioni commerciali. Ah, ma per farlo dovrebbe reintrodurre la leva militare e aumentare le tasse – in pratica, dovrebbe smettere di essere trotskista in politica estera e neoliberale in economia. E allora vincerebbe la guerra in Iraq – forse ne scoppierebbe una in Arizona – ma i problemi si risolvono uno alla volta.
E allora perché non lo fa? È al secondo mandato, di che si preoccupa? Il regime change è o non è una priorità? Perché continua a trattare Iraq e Afganistan come fronti coloniali di terz'ordine? Io naturalmente non lo so, ma ho comunque preparato tre ipotesi: una grezza, una media e una sottile.
BUSH MANTIENE IN IRAQ E AFGANISTAN UN CONTINGENTE INADEGUATO PERCHÉ:
1) Teoria grezza: è un deficiente, circondato da deficienti.
2) Teoria media: È un "idealista al risparmio" (secondo la calzante definizione del Braccini), seriamente convinto che esportare la democrazia e cambiare i regimi sia una buona cosa, fintanto che riesce a farlo senza aumentare le tasse. Un atteggiamento compromissorio che spesso la Storia punisce (si perde la guerra e poi alla fine le tasse aumentano lo stesso).
3) Teoria sottile, anche troppo: È il degno reggitore dell'Impero Mondiale, che ha fatto proprio il diabolico motto dei predecessori latini: divide et impera. Non ha nessuna intenzione di vincere la guerra al terrore: vuole solo combatterla. Il suo orizzonte non è la liberazione dell'Iraq, ma la trasformazione di Iraq e Afganistan in sfiatatoi per il terrorismo mondiale, i luoghi dove sfogare le frustrazioni della comunità islamica e le ambizioni del complesso militare-industriale. La guerra al Terrore sarà infinita, come il Terrore. Morto un Bin Laden si fa un Al Zarqawi, morto Al Zarqawi si farà un altro.
A me – e credo anche a voi – la numero 3 suona sinistramente familiare. Come si chiama quella situazione in cui invece di risolvere un problema lo si amministra? Si può chiamare in tanti nomi, come Satana. Da noi si chiama spesso mafia. Saddam Hussein, Al Zarqawi: non hanno fatto un po' la fine di certi boss, spremuti fino all'osso e poi rivenduti allo Stato quando non servivano più a nulla? (Però anche la numero 1 non è da sottovalutare).
Alla fine lo hanno ucciso, il capo-terrorista noto come Al Zarkawi. Come prima di lui Bin Laden. E hanno preso Saddam Hussein, e in Afganistan hanno spodestato i talebani. Insomma, il bilancio di questa guerra al terrore non è proprio da buttar via.
E invece nessuno riesce a fare festa. Qualche graduato comincia anche a dirlo alla stampa: la guerra in Iraq è persa (via Asphalto). Persa? Sul serio?
La guerra in Iraq si può vincere, invece. Tra due anni, o uno, o anche meno. Non c'è nessun reale impedimento. La mesopotamia non è la jungla vietnamita, gran parte è sabbia e sassi e si fa presto a rastrellare. Dietro i vietkong c'era l'Urss; dietro i guerriglieri iracheni c'è senz'altro una scaltrita opera di fundraising che fa appello alla frustrazione di un miliardo di fratelli islamici – alcuni dei quali petrolieri – ma anche quei rubinetti non sono infiniti. La supremazia tecnologica e militare americana è un fatto: hanno ucciso Al Zarqawi, uccideranno anche il successore. Possono ucciderli tutti, pacificare l'Iraq e passare al prossimo Stato canaglia, se vogliono.
Il problema è tutto lì: lo vogliono davvero?
A sentire la cronaca, si direbbe di no: agguati, rapimenti di massa, eccidi di sciiti. Il contingente angloamericano sembra impotente. In effetti lo è. Ma è anche un contingente numericamente inadeguato, che non riesce a difendere non dico gli iracheni, ma sé stesso. Come si diceva quest'estate, George W. Bush sta cercando di controllare due grandi Paesi con due piccoli eserciti da guerricciola coloniale. Tutto sommato è sorprendente che non abbia ancora del tutto fallito.
È anche sorprendente che i neocon di tutti i Paesi e i colori cerchino ancora di venderci la sòla del regime change. Che per carità, è un'idea interessante. Anche il ponte sullo stretto di Messina, se è per questo. Personalmente non ho chiusure ideologiche nei confronti né dell'uno né dell'altro. Chiedo solo di andare a vedere il preventivo, perché secondo me sono operazioni molto rischiose e – soprattutto – costosissime. Mentre George W, fin qui, non mi è sembrato uno spendaccione.
Invece è un gran cristiano, George W, e probabilmente conosce la parabola che dice: il regno dei cieli è come un uomo che trova un tesoro in un campo: sai che fa? Vende tutti i suoi averi e col ricavo compra quel campo. Il regno dei cieli è così. Anche il regime change è un po' così. Può funzionare, ma solo se ci credi fino in fondo, se vendi tutto quel che hai. Non puoi crederci al risparmio.
Se George W volesse crederci, avrebbe già vinto. Potrebbe raddoppiare il contingente – quadruplicarlo. Costringere gli alleati a partecipare al conflitto seriamente, pena sanzioni commerciali. Ah, ma per farlo dovrebbe reintrodurre la leva militare e aumentare le tasse – in pratica, dovrebbe smettere di essere trotskista in politica estera e neoliberale in economia. E allora vincerebbe la guerra in Iraq – forse ne scoppierebbe una in Arizona – ma i problemi si risolvono uno alla volta.
E allora perché non lo fa? È al secondo mandato, di che si preoccupa? Il regime change è o non è una priorità? Perché continua a trattare Iraq e Afganistan come fronti coloniali di terz'ordine? Io naturalmente non lo so, ma ho comunque preparato tre ipotesi: una grezza, una media e una sottile.
BUSH MANTIENE IN IRAQ E AFGANISTAN UN CONTINGENTE INADEGUATO PERCHÉ:
1) Teoria grezza: è un deficiente, circondato da deficienti.
2) Teoria media: È un "idealista al risparmio" (secondo la calzante definizione del Braccini), seriamente convinto che esportare la democrazia e cambiare i regimi sia una buona cosa, fintanto che riesce a farlo senza aumentare le tasse. Un atteggiamento compromissorio che spesso la Storia punisce (si perde la guerra e poi alla fine le tasse aumentano lo stesso).
3) Teoria sottile, anche troppo: È il degno reggitore dell'Impero Mondiale, che ha fatto proprio il diabolico motto dei predecessori latini: divide et impera. Non ha nessuna intenzione di vincere la guerra al terrore: vuole solo combatterla. Il suo orizzonte non è la liberazione dell'Iraq, ma la trasformazione di Iraq e Afganistan in sfiatatoi per il terrorismo mondiale, i luoghi dove sfogare le frustrazioni della comunità islamica e le ambizioni del complesso militare-industriale. La guerra al Terrore sarà infinita, come il Terrore. Morto un Bin Laden si fa un Al Zarqawi, morto Al Zarqawi si farà un altro.
A me – e credo anche a voi – la numero 3 suona sinistramente familiare. Come si chiama quella situazione in cui invece di risolvere un problema lo si amministra? Si può chiamare in tanti nomi, come Satana. Da noi si chiama spesso mafia. Saddam Hussein, Al Zarqawi: non hanno fatto un po' la fine di certi boss, spremuti fino all'osso e poi rivenduti allo Stato quando non servivano più a nulla? (Però anche la numero 1 non è da sottovalutare).
martedì 6 giugno 2006
- cambiare regime veicolo
Mina Vagante 4x4
Interrompo il non imprescindibile sermone sui barbari perché è morto un altro italiano a Nassiriya, e quel che è peggio – è morto su un VM90. Ora.
Io non sono un esperto di cose militari, perciò posso sbagliare, e se sbaglierò correggetemi, ma sul VM90 mi pare di aver già letto qualcosa quando morirono i penultimi tre italiani, su Repubblica.
Se mi ricordo bene, il VM90 è un furgone blindato dell'Iveco, dall'apparenza molto solido, è in effetti lo è. Il suo problema è che è troppo solido.
La cabina non teme le raffiche, ma in Iraq non è questione di raffiche ai camion. Il problema sono le mine e le bombe. Mine e bombe esplodono sotto la cabina – l'unica superficie non blindata. E siccome la cabina è molto solida, invece di saltare in aria, rimane al suo posto e contiene l'esplosione.
Questo significa, se ho ben capito, che tutta l'energia dell'esplosione, invece di disperdersi in tutte le direzioni, si sfoga totalmente all'interno della cabina. Significa che chi sta dentro la cabina, prima di essere dilaniato, muore per choc termico, come è successo a Ciardelli, Lattanzio, De Trizio e Bogdan Hancu. Significa che il VM90, affettuosamente chiamato bacherozzo, è una trappola orrenda, e anche i ribelli iracheni stanno cominciando a farci caso (prima di oggi almeno altri 10 VM90 erano stati colpiti).
Da cui la domanda: se ci piacciono così tanto i nostri soldati, ché eravamo tutti davanti alla tv per la parata (meno i soliti idealisti pancabbestia comunisti terroristi pacifisti antisemiti traditori), perché lasciamo che vadano in giro con un mezzo così pericoloso? Va bene il virile sprezzo del pericolo, ma non c'è nulla di più sicuro?
Certo che c'è. A Nassiriya ci sono mezzi più sicuri, i Dardo e gli Ariete. Blindati anche sotto. E cingolati. Insomma, sono dei tank. Antica Babilonia ha i carri armati! Ma non glieli lasciano usare. Se ho ben capito, è una questione d'immagine. Se esci dalla base in tank, non sembra più una missione di pace. Bisogna salvare le apparenze, insomma.
Se ora interrompo i fatti miei per parlare, tra tutti i morti della guerra d'Iraq, di un morto italiano, è appunto per questo: che tra migliaia di morti assurdi io non sopporto che un altro venticinquenne crepi così, di choc termico, per salvare un'apparenza. Nessuna apparenza mi sembra così preziosa. A prescindere da qualsiasi dibattito sul perché siamo lì e quanto dobbiamo ancora restare, per l'amor di Dio, fategli tirare fuori quei tank. Sono militari, mica crocerossine! Con tutto il rispetto per quest'ultime. Come si fa a chiedere a qualcuno di morire per salvare un'immagine?
Come sia possibile, poi, che il sei giugno del duemilaesei un noglobbal-pancabbestia-comunista-terrorista-pacifista-antisemita-traditore si metta a chiedere a gran voce di tirare fuori i tank, mentre lo Stato Maggiore insiste con il maquillage da missione di pace e i VM90, è un problema da discutere in seguito con più calma. Personalmente credo che in Iraq sia stato commesso un grande peccato originale: abbiamo fatto organizzare una guerra agli idealisti. Peggio di un deficiente che blatera di armi di distruzione di massa o regime change, c'è solo un idealista che al regime change ci crede davvero. Questo tipo di deficienti, li abbiamo fatti commander in chief. E a pagare sono i professionisti – quelli che la guerra la saprebbero anche fare. Dovrebbero essere i primi ad incazzarsi (e non è detto che non si siano già incazzati).
Quello che abbiamo perso, in Iraq (oltre a migliaia di vite umane), è la distinzione netta tra idealismo e realismo. Una volta gli idealisti erano i pacifisti, con le loro utopie. Ancora adesso, il Presidente della Camera rischia di apparire puerile, con la sua spilletta arcobaleno alla parata. Come se la sfilata militare fosse uno spettacolo più serio. Come se giocare ai liberatori dell'Iraq fosse meno puerile. Come se mandare in giro VM90, autentiche mine vaganti 4x4, per le strade di Nassiriya fosse un gesto meno irresponsabile.
Andiamo pure avanti così. Continuiamo a credere alla nostra piccola guerra di liberazione, agli iracheni che prima o poi verranno ai balconi a lanciarci i fiori. Ecco, siamo al quarto anno, e ancora giriamo in VM90, in attesa di essere salutati a colpi di fiori. Quanti ragazzi, o uomini, quanti professionisti moriranno nel frattempo, non importa. Abbiamo una riserva illimitata di lacrime, bei discorsi e spari a salve.
giovedì 1 giugno 2006
- bar bar 2
It's my wine
(don't you forget)
L'invasione del vino hollywoodiano, come la racconta Baricco, è semplice e avvincente. È un bignami di storia del gusto, un riassunto efficace di un pezzo di scibile umano che non hai troppa voglia di approfondire, sicché ti vien fatto di prenderla per buona. Sul serio, la mia prima reazione è stata: "ah, allora le cose sono andate così, interessante". Ci ho messo qualche tempo a rendermi conto che Bar. mi stava prendendo in giro. E dire che mi bastava consultare un po' nei miei ricordi famigliari. È vero che ultimamente bevo vino senza personalità? Sì, è senz'altro vero. E dieci anni fa, cosa bevevo? E mio padre? E mio nonno?
Nessun dubbio in riguardo: bevevano schifezze che oggi non si potrebbero neanche commerciare sotto la categoria "vino". Tutte le testimonianze concordano in questo. Basta risalire indietro di una generazione per sentire racconti agghiaccianti sull'abitudine di imbottigliare la sciacquatura del mosto. Il "vino buono" fatto in casa si teneva per gli ospiti; ma non bisogna pensare che gli ospiti gradissero. Personalmente ho ricordi angosciosi di "vini buoni" fatti in casa offerti dai parenti. Il vino, si sa, è un alimento complesso, che instaura con la lingua un rapporto particolare. Ne consegue che ogni famiglia di campagna tende ad amare il proprio beverone, e a offrirlo agli ospiti come se fosse una specialità pregiata. Di solito è roba oggettivamente imbevibile. Baricco non ne parla.
Baricco ha una sua idea piuttosto aristocratica di quello che c'era prima delle Invasioni Barbariche: se deve evocarla, parla di un vecchio maestro del vino, uno di quei francesi o italiani che sono cresciuti in famiglie in cui l'acqua a tavola non c'era, e che vivono sulla stessa collina in cui da tre generazioni la loro famiglia va a dormire nell'odore di mosto, e che conosce la propria terra e le proprie uve meglio del contenuto delle proprie mutande. Si tratta evidentemente di un sacerdote, un artista, un monomaniaco, un feticista: non un contadino. Questo, secondo Baricco, è il passato del vino nostrano: ebbene, non lo è. Statisticamente. Queste famiglie interamente dedite alla produzione del vino, nel passato erano invece molto rare. Fino agli anni Cinquanta in valpadana era tutta policoltura: i vigneti erano piantati tra un campo di frumento e l'altro. C'erano, naturalmente, i produttori pregiati: ma sono sempre stati un'élite – esattamente come adesso (anzi, è probabile che si venda più vino pregiato oggi che trent'anni fa). Fino agli anni Sessanta-Settanta, il vino sulla tavola della maggior parte degli italiani era persino inferiore allo standard del "vino hollywoodiano": erano le orride bottiglie verdi di mosto fermentato in casa, il bianco acido che ancora non riempiva i tetrapak del Tavernello ma non era molto meglio. Se avete più di trent'anni e avete iniziato a bere a dodici potete smentirmi. Altrimenti credetemi.
La vera svolta nella nostra concezione del vino arriva negli anni Ottanta, con lo scandalo del metanolo. Per chi se l'è perso, si trattò di questo: decine di persone morirono per aver bevuto vino adulterato. Col metanolo arriva al capolinea una certa idea del vino che si era fatta strada a partire dal boom economico: l'idea che un elemento tradizionale della tavola italiana (il vino) si potesse commercializzare seguendo i principi del nascente mercato di massa, mantenendo uno standard qualitativo piuttosto basso ma 'democratico'. Questa idea non era molto dissimile da quella portata avanti in America da Mondavi e compagnia: perché da loro ha funzionato e da noi no? Perché noi avevamo papille gustative più raffinate degli americani? No. È stata più probabilmente una crisi strutturale. La nazione delle mille cantine non è riuscita a uniformare a sufficienza il prodotto. La concorrenza, in assenza pressoché totale di controlli di qualità, ha fatto sì che i produttori italiani (anni luce distanti dai sacerdoti evocati da Baricco) iniziassero a tagliare il loro prodotto con qualunque immondizia – tra cui il metanolo, appunto.
Negli stessi anni, prima dell'invasione barbarica, c'è stato qualche timido tentativo di invasione da parte nostra, con prodotti che (secondo noi) sarebbero potuti piacere agli americani. Quello che conosco meglio è il tentativo un po' folle di un cantiniere modenese, Giacobazzi, che abbassò la gradazione del suo lambrusco a otto gradi e mezzo e lo mise in lattina: l'8 e ½ Giacobazzi. In lattina, proprio così. Il lambrusco è uno dei rari rossi frizzanti, bello da vedersi e facile da mandar giù: come dichiarò Mario Soldati, è un vino che va "tracannato". L'8 e ½ doveva far concorrenza alla cocacola: il target era quello dei teen ager. Ve lo giuro: mi ricordo lo spot col ragazzino, e persino lo slogan: Giacobazzi is my wine.
Col senno del poi è facile capire perché non funzionò: in molti Stati americani i teen ager non possono neppure acquistare birra. Eppure Giacobazzi qualcosa l'aveva capito: è un fatto che gli erasmus americani e inglesi, appena sbarcati in Italia, si attacchino ai tetrapak di Tavernello. È dolce, è frizzante, cosa vuoi di più. I nostri teen ager, per contro, sono un po' più sofisticati: bevono Bacardi Breeze, che fa quattro gradi. Giacobazzi aveva sbagliato la gradazione di quattro gradi e mezzo appena. È un precursore sfortunato, oggi una lattina di 8 e ½ su Ebay varrebbe parecchio (ma non se ne trova).
Dopo la crisi del metanolo l'industria italiana del vino ha cambiato strada, puntando sulla qualità. Il vino 'da tavola' non è scomparso di botto, s'intende: ma ha cambiato recipiente e destinazione. È finita l'epoca delle bottiglie a cauzione, ritirate dalla Cantina Sociale del paese: il vino è entrato nel tetrapak, garanzia di bassa qualità, ma anche di igiene. Peraltro, nessun italiano fuori dalle pubblicità si farebbe vedere mentre beve vino in scatola. È in tutti i frigoriferi, ma ufficialmente si usa come condimento.
Nel frattempo le cantine hanno 'creato' il vino pregiato. Che esisteva già da prima: ma negli anni Novanta è diventato un fatto di costume. Si aprono le enoteche e i wine bar, si moltiplicano gli intenditori. È un'operazione di riscrittura del nostro passato: non solo pretendiamo di bere vino al di sopra delle nostre possibilità (e del nostro palato): ma pretendiamo di averlo fatto da sempre. Di essere un popolo di sommelier, attaccato dai barbari che non sanno cos'è la tradizione, il gusto, l'anima.
E arriviamo a oggi.
No – anche stavolta ho scritto troppo – mi sa che arriviamo a lunedì.
(don't you forget)
L'invasione del vino hollywoodiano, come la racconta Baricco, è semplice e avvincente. È un bignami di storia del gusto, un riassunto efficace di un pezzo di scibile umano che non hai troppa voglia di approfondire, sicché ti vien fatto di prenderla per buona. Sul serio, la mia prima reazione è stata: "ah, allora le cose sono andate così, interessante". Ci ho messo qualche tempo a rendermi conto che Bar. mi stava prendendo in giro. E dire che mi bastava consultare un po' nei miei ricordi famigliari. È vero che ultimamente bevo vino senza personalità? Sì, è senz'altro vero. E dieci anni fa, cosa bevevo? E mio padre? E mio nonno?
Nessun dubbio in riguardo: bevevano schifezze che oggi non si potrebbero neanche commerciare sotto la categoria "vino". Tutte le testimonianze concordano in questo. Basta risalire indietro di una generazione per sentire racconti agghiaccianti sull'abitudine di imbottigliare la sciacquatura del mosto. Il "vino buono" fatto in casa si teneva per gli ospiti; ma non bisogna pensare che gli ospiti gradissero. Personalmente ho ricordi angosciosi di "vini buoni" fatti in casa offerti dai parenti. Il vino, si sa, è un alimento complesso, che instaura con la lingua un rapporto particolare. Ne consegue che ogni famiglia di campagna tende ad amare il proprio beverone, e a offrirlo agli ospiti come se fosse una specialità pregiata. Di solito è roba oggettivamente imbevibile. Baricco non ne parla.
Baricco ha una sua idea piuttosto aristocratica di quello che c'era prima delle Invasioni Barbariche: se deve evocarla, parla di un vecchio maestro del vino, uno di quei francesi o italiani che sono cresciuti in famiglie in cui l'acqua a tavola non c'era, e che vivono sulla stessa collina in cui da tre generazioni la loro famiglia va a dormire nell'odore di mosto, e che conosce la propria terra e le proprie uve meglio del contenuto delle proprie mutande. Si tratta evidentemente di un sacerdote, un artista, un monomaniaco, un feticista: non un contadino. Questo, secondo Baricco, è il passato del vino nostrano: ebbene, non lo è. Statisticamente. Queste famiglie interamente dedite alla produzione del vino, nel passato erano invece molto rare. Fino agli anni Cinquanta in valpadana era tutta policoltura: i vigneti erano piantati tra un campo di frumento e l'altro. C'erano, naturalmente, i produttori pregiati: ma sono sempre stati un'élite – esattamente come adesso (anzi, è probabile che si venda più vino pregiato oggi che trent'anni fa). Fino agli anni Sessanta-Settanta, il vino sulla tavola della maggior parte degli italiani era persino inferiore allo standard del "vino hollywoodiano": erano le orride bottiglie verdi di mosto fermentato in casa, il bianco acido che ancora non riempiva i tetrapak del Tavernello ma non era molto meglio. Se avete più di trent'anni e avete iniziato a bere a dodici potete smentirmi. Altrimenti credetemi.
La vera svolta nella nostra concezione del vino arriva negli anni Ottanta, con lo scandalo del metanolo. Per chi se l'è perso, si trattò di questo: decine di persone morirono per aver bevuto vino adulterato. Col metanolo arriva al capolinea una certa idea del vino che si era fatta strada a partire dal boom economico: l'idea che un elemento tradizionale della tavola italiana (il vino) si potesse commercializzare seguendo i principi del nascente mercato di massa, mantenendo uno standard qualitativo piuttosto basso ma 'democratico'. Questa idea non era molto dissimile da quella portata avanti in America da Mondavi e compagnia: perché da loro ha funzionato e da noi no? Perché noi avevamo papille gustative più raffinate degli americani? No. È stata più probabilmente una crisi strutturale. La nazione delle mille cantine non è riuscita a uniformare a sufficienza il prodotto. La concorrenza, in assenza pressoché totale di controlli di qualità, ha fatto sì che i produttori italiani (anni luce distanti dai sacerdoti evocati da Baricco) iniziassero a tagliare il loro prodotto con qualunque immondizia – tra cui il metanolo, appunto.
Negli stessi anni, prima dell'invasione barbarica, c'è stato qualche timido tentativo di invasione da parte nostra, con prodotti che (secondo noi) sarebbero potuti piacere agli americani. Quello che conosco meglio è il tentativo un po' folle di un cantiniere modenese, Giacobazzi, che abbassò la gradazione del suo lambrusco a otto gradi e mezzo e lo mise in lattina: l'8 e ½ Giacobazzi. In lattina, proprio così. Il lambrusco è uno dei rari rossi frizzanti, bello da vedersi e facile da mandar giù: come dichiarò Mario Soldati, è un vino che va "tracannato". L'8 e ½ doveva far concorrenza alla cocacola: il target era quello dei teen ager. Ve lo giuro: mi ricordo lo spot col ragazzino, e persino lo slogan: Giacobazzi is my wine.
Col senno del poi è facile capire perché non funzionò: in molti Stati americani i teen ager non possono neppure acquistare birra. Eppure Giacobazzi qualcosa l'aveva capito: è un fatto che gli erasmus americani e inglesi, appena sbarcati in Italia, si attacchino ai tetrapak di Tavernello. È dolce, è frizzante, cosa vuoi di più. I nostri teen ager, per contro, sono un po' più sofisticati: bevono Bacardi Breeze, che fa quattro gradi. Giacobazzi aveva sbagliato la gradazione di quattro gradi e mezzo appena. È un precursore sfortunato, oggi una lattina di 8 e ½ su Ebay varrebbe parecchio (ma non se ne trova).
Dopo la crisi del metanolo l'industria italiana del vino ha cambiato strada, puntando sulla qualità. Il vino 'da tavola' non è scomparso di botto, s'intende: ma ha cambiato recipiente e destinazione. È finita l'epoca delle bottiglie a cauzione, ritirate dalla Cantina Sociale del paese: il vino è entrato nel tetrapak, garanzia di bassa qualità, ma anche di igiene. Peraltro, nessun italiano fuori dalle pubblicità si farebbe vedere mentre beve vino in scatola. È in tutti i frigoriferi, ma ufficialmente si usa come condimento.
Nel frattempo le cantine hanno 'creato' il vino pregiato. Che esisteva già da prima: ma negli anni Novanta è diventato un fatto di costume. Si aprono le enoteche e i wine bar, si moltiplicano gli intenditori. È un'operazione di riscrittura del nostro passato: non solo pretendiamo di bere vino al di sopra delle nostre possibilità (e del nostro palato): ma pretendiamo di averlo fatto da sempre. Di essere un popolo di sommelier, attaccato dai barbari che non sanno cos'è la tradizione, il gusto, l'anima.
E arriviamo a oggi.
No – anche stavolta ho scritto troppo – mi sa che arriviamo a lunedì.
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