6 marzo: 42 martiri di Amorio (845)
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Il califfo riceve diplomatici bizantini |
Quando furono decapitati, il 6 marzo dell'845 lungo le rive dell'Eufrate, i 42 prigionieri di Amorio erano reclusi da sette anni. Amorio, la loro città, era già parzialmente ricostruita; il disastroso assedio dell'837 ormai una pagina di Storia, ancora fresca ma già voltata; i due protagonisti della vicenda, il califfo Al Mutasin e il basileo Teofilo, entrambi morti. Eudosio, l'autore dell'agiografia, racconta come i carcerieri arabi avessero tentato in tutti i modi di convertire i prigionieri all'Islam, con minacce e blandizie ma soprattutto con la forza dei ragionamenti, inviando nel parlatorio del carcere sapienti musulmani e altri ex cristiani convertiti. Solo l'empio Baditze si era lasciato circoncidere, ma poi era stato condannato a morte ugualmente, e alla fine il suo era l'unico cadavere che invece di galleggiare era stato mangiato dai coccodrilli.
Baditze era l'ufficiale ritenuto colpevole di tradimento: perché Amorio era stata la Caporetto dei bizantini, e proprio come gli italiani dopo Caporetto, i bizantini non riuscivano a concepire che fosse caduta grazie alla superiorità militare del nemico: no, qualcuno doveva aver tradito.
Quella di Eudosio è l'ultima agiografia tardoantica. Più che a una vecchia storia di cristiani perseguitati, l'eccidio dei 42 comincia a sembrare qualcosa di diverso: l'esecuzione di un gruppo di ostaggi, un crimine di guerra. Siamo nell'Anatolia del nono secolo, in un angolo cieco della nostra memoria storica, nel mezzo di una guerra infinita tra due imperi teocratici, due dinastie che non dureranno ancora molto. Entrambi i monarchi traggono la loro legittimazione dalle vittorie sul campo: se vincono, è segno che Dio è dalla loro parte; se perdono, presto o tardi saranno destituiti. Questo è vero soprattutto per il più giovane dei due, Teofilo l'Amoriano, l'ultimo imperatore iconoclasta: ma per dimostrare che Dio davvero non ama essere raffigurato, e apprezza i roghi delle vecchie icone, bisogna dare battaglia e vincerla. Nell'833 la situazione è favorevole: l'avversario, il Califfo al-Mutasun, è distratto da beghe interne, mentre nel Caucaso sta creando scompiglio una nuova setta, i khurramiti. Costoro, combinando elementi di zoroastrismo e islam sciita, hanno fatto proseliti soprattutto presso la popolazione azera: il loro esercito è una spina nel fianco arabo. Nel 834, la svolta: un leader khurramita si fa battezzare, assume il nome di Teofobo e sposa una sorella dell'imperatore. Nel tentativo di liberare un gruppo di khurramiti prigioniero del califfo, Teofilo e Teofobo marciano assieme verso le città di Sozopetra e Arsamosata con un'armata, per i tempi, assolutamente smisurata (centomila uomini secondo Al-Tabari, in un secolo in cui con venticinquemila era già guerra totale). Una volta prese le città, Teofilo sente di aver compiuto la sua missione e riparte subito per Costantinopoli dove celebrerà il trionfo dell'iconoclastia. Teofobo invece rimane sul campo e, non essendo riuscito a liberare i correligionari, lascia i suoi uomini liberi di saccheggiare le città e abusare dei civili.
Il resoconto dei profughi che riusciranno attraverso il deserto ad arrivare a Samarra, capitale del califfato, scuoterà la corte: stavolta gli infedeli hanno esagerato, occorre rispondere con quella che un cortigiano del tempo avrà definito "violenza incomparabilmente superiore". Al-Mutasin chiede ai dignitari di segnalargli l'obiettivo più inaccessibile: gli viene fatto il nome di Amorio (Ἀμόριον), roccaforte della Frigia, "dove nessun musulmano è mai entrato". Presso i bizantini, gli spiegano, è più famosa di Costantinopoli: tutte balle, Amorio era una roccaforte importante ma sicuramente meno famosa ed espugnabile di Costantinopoli, tant'è che gli arabi l'avevano già presa e tenuta per due anni tra il 666 e il 668. Si trattava soprattutto di un obiettivo di importanza simbolica, come quella Stalingrado su cui i nazisti si intestardirono irrazionalmente perché portava il nome di Stalin; Amorio invece era la patria del padre di Teofilo, Michele II, fondatore di una dinastia che qualcuno cominciava già a chiamare amoriana. A parte questo, assediarla non aveva molto senso. Occorreva penetrare nell'Anatolia cristiana per qualcosa come cinquecento chilometri, e farlo con un esercito ancora più grande di quello messo in campo da Teofilo: secondo alcuni cronisti anche un mezzo milione di effettivi, ma è davvero difficile crederci.
Teofilo, che tenta di intercettare una delle colonne ad Azen, viene sconfitto e si salva per un pelo dalla cattura. Da lì in poi tenterà più volte di fare la pace, inviando scuse formali per i crimini di guerra commessi a Sozopetra e Arsamosata dopo che lui – questa è la versione ufficiale – se n'era già andato. Il califfo non accetterà nessun tipo di indennizzo, salvo la testa dell'irreperibile Teofobo. L'assedio durerà due settimane e costerà, ma sono davvero numeri esagerati, centomila vittime: la città sarà resa al suolo, la popolazione decimata e ridotta in schiavitù. Tentato di continuare la campagna fino a Gerusalemme, Al-Mutasin sarà invece richiamato a Samarra dalla notizia di una congiura ai suoi danni. Con sé porterà il generale Ezio, il presunto traditore Baditze e altri importanti dignitari che Teofilo tenterà più volte, negli anni successivi, di riscattare.
Amorio è l'ultima grande vittoria degli abbasidi in Anatolia, ma non porterà a conseguenze durature: nel giro di un secolo il califfato subirà le invasioni degli sciiti iraniani e poi dei turchi. Quanto a Teofilo, morirà tre anni più tardi, forse prostrato dalla sconfitta, ma la provincia sarà riconquistata dal figlio, Manuele III detto (ingiustamente) l'ubriacone. Amorio sarà ricostruita, anche se non sarà mai più così importante. L'effetto più duraturo della guerra sarà la fine del movimento iconoclasta: le icone, che non erano mai veramente sparite dalle case di Bisanzio, torneranno a essere esibite anche a corte. Eppure i 42 martiri non entreranno mai nel repertorio di pittori e autori di mosaici. Come se fossero arrivati troppo tardi.
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