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martedì 7 ottobre 2003

Lo Stato Esistenziale

“Ho ricevuto, Signore, il vostro ultimo libro contro il genere umano…” (Voltaire, in un biglietto a Rousseau)

Io, in Francia, non stavo poi male.
Abitavo in un appartamento per professori, contiguo a un plesso scolastico. Una volta i prof avevano il diritto ad abitare vicino al plesso, non so se l’abbiano ancora, ma in molti casi sono stati loro i primi a volersene andare. Il mio appartamento era tra i più grandi del quartiere (ma il quartiere era piuttosto difficile).
Nella stessa casa abitava una ragazza polacca di Germania – la sua famiglia era scappata dalla Polonia comunista appena in tempo, prima che cadesse il muro (e la Germania Federale smettesse di assistere finanziariamente i fuoriusciti dell’Europa dell’est). Per lei, naturalmente, il comunismo era il male, e come darle torto. Però io amo la Storia per i piccoli dettagli inverosimili, come per esempio quella regione dell’Italia centrosettentrionale che per quarant’anni fu amministrata, e bene, da un partito sedicente comunista e finanziato dal Pcus. Sono paradossi che mi mettono di buon umore, ma lei non ci trovava nulla da ridere. Non solo i comunisti erano il male, ma erano dovunque, e avevano ancora fame. Anche in Francia: occorreva guardarsi le spalle. Io pensavo che esagerasse.

Per un paio di mesi abbiamo vissuto in relativa armonia, comunque, anche se io non riuscivo a capire dove provenissero i nostri sacchetti della spazzatura. Erano molto belli, di un nylon verde scuro e resistente. Prima o poi sarebbero finiti e io non riuscivo a trovarli in nessun negozio. Mi vergognavo anche un po’ a chiederli: non mi ero ancora rimesso dal fatto che al bistrot non avessero le brioches.
Poi una mattina, incredibile, suonò il campanello (era la prima volta che lo sentivo).
“Ma chi è?”
“Siamo quelli dei sacchetti della spazzatura”.
Mi affacciai alla finestra. C’era un furgone del comune. Contai 1, 2, 3, 4, cinque impiegati comunali in livrea verde scura. Venivano a portarmi i sacchetti della spazzatura in casa. Ecco perché non c’erano nei negozi: erano gratis. Erano un mio diritto. E venivano in cinque a portarmeli. Col furgone. Una cittadina di ventimila abitanti.
Mi voltai verso la mia coinquilina, vidi che scuoteva la testa.
“Che ti dicevo? I comunisti, vedi? Anche qui. È pieno”.

I francesi non sono comunisti, ma hanno uno Stato assistenziale così solido e ramificato che forse nemmeno loro se ne rendono conto. Non se ne rendono conto anche per un motivo banale: che funziona. Noi italiani ci autoaccusiamo spesso di assistenzialismo, ma la realtà è anche peggiore: noi abbiamo un grande senso dello Stato, ma non siamo in grado di farlo funzionare. Parliamo tanto di Stato perché la lingua batte dove il dente duole, e il dente è marcio. I francesi ne parlano poco, ma intanto hanno luce, gas e servizi che funzionano, e poca voglia di privatizzarli definitivamente (a destra come a sinistra). E in certi comuni si fanno recapitare in casa i sacchetti del pattume, servizio la cui utilità, tuttora, mi sfugge.

Tutto questo cosa c’entra molto con Le particelle elementari, che usciva in Italia proprio mentre io ero laggiù? Niente, è uno scrupolo mio. Io ho un sacco di pregiudizi sui francesi e su tutto ciò che è francese. Voglio bene alla Francia, ma come si vuol bene a una zia di cui ci sono ben note le stravaganze. È come se vedessi tutto filtrato dal nylon verde di quel sacco che mi sono infilato in testa nel ’99 e non riesco a togliermi più.

Ed è in questa condizione che mi è capitato di notare una costante curiosa dei personaggi di Houellebecq: non il fatto che siano tutti disperati (quello non è così curioso), ma che siano tutti impiegati statali.
Cioè, non proprio tutti: c’è anche qualche hippy, un bassista fallito e un chirurgo estetico: ma quelli tutto sommato sono i ‘cattivi’. I nostri eroi, invece, hanno tutti il posto fisso. Djerzinski e Desplechin sono ricercatori. Annabelle lascia il suo lavoro alla TF1 per fare la bibliotecaria; Bruno è un insegnante che non può più insegnare, per aver molestato una sua allieva: viene aggregato a una Commissione per il Programma di Francese (“mi giocavo gli orari da insegnante e le ferie scolastiche, ma il salario restava lo stesso”). La sua ex moglie è un’insegnante; la sua amante è un’insegnante: coincidenza sbalorditiva, ma nessuno dei personaggi ci fa caso. Ho la sensazione che non ci abbia fatto troppo caso neanche l’autore. Sembra una cosa normale: se sei insegnante finisci sempre a letto con insegnanti.

“Non servo a niente”, disse Bruno con tono rassegnato. “Sono incapace di allevare maiali. Non ho alcuna nozione riguardo alla produzione delle salsicce, delle forchette o dei telefoni portatili. Le cose che mi circondano, che utilizzo o di cui mi nutro, sono incapace di produrle; non sono neppure in grado di comprendere il loro processo di produzione. […] Ciononostante percepisco un salario, e per giunta un salario superiore alla media. La maggior parte della gente che mi circonda si trova nella stessa situazione”.

Il posto fisso, dicevamo. Non che muoiano dalla voglia di andarci. Djerzinski è in anno sabbatico quasi per tutto il libro (il suo superiore quasi si vergogna di doverlo richiamare). Bruno e Christiane si fanno certificare una malattia fasulla da un medico compiacente per recarsi a Cap D’Agde dove, dice lei “è pieno di infermiere olandesi, di funzionari tedeschi, tutti molto corretti, borghesi, genere paesi nordici o Benelux. Mica male, ammucchiarsi con un paio di poliziotte lussemburghesi, no?” Funzionari ed infermiere, il cuore pulsante e libertino dell’Europa. Niente operai nelle ammucchiate, figurarsi. Ma nemmeno un artigiano. O un imprenditore. Niente. È uno dei romanzi contemporanei più classisti che mi sia capitato di leggere. Anche perché ho il sospetto che sia un classismo involuto: Houellebecq non parla di operai e artigiani perché per lui non sono rappresentativi, come se si trattasse di esigue minoranze in un’umanità di impiegati statali: una concezione dell’umanità molto francese, secondo me, (ma cosa volete che ne sappia? Leggo i libri con un sacchetto della spazzatura in testa).

(Lo so cosa vuol dire, già che uno è arrivato fin qui, sentirsi dire che continua domani: ma è così.)

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