Johnny: una questione pubblica
Può darsi che, con la Repubblica di ieri, abbiate acquistato Il Partigiano Johnny, di Beppe Fenoglio.
Tutto sommato, avete fatto bene. È uno dei romanzi italiani più belli e interessanti del Novecento, come a dire, di sempre. Oltre a essere un documento tutt’altro che elegiaco sulla guerra partigiana.
Ma è lo stesso un peccato. Perché? Perché il Partigiano Johnny non è un vero romanzo. E comunque quello che avete acquistato per quattro euro e novanta non è il vero Partigiano Johnny. Anche se è senz’altro meglio di niente. Vi hanno fregato. Ma rilassatevi: non siete i primi.
Questa è una storia complessa, e probabilmente non sono io il più indicato a raccontarla: se qualcuno volesse farlo al posto mio, prego. È la storia di un grande scrittore che di mestiere esportava vermouth, ex partigiano nelle Langhe, con un piccolo e fatale difetto: scarsa fiducia nella propria scrittura. Fenoglio era convinto di essere stato un buon partigiano e un mediocre scrittore (“di quart’ordine”, scrive), e aveva forse una fiducia eccessiva nei consigli degli editor.
La filippica nei confronti degli Editor ve la risparmio: è un mestiere molto più ingrato di quanto non si pensi, e forse anche un capolavoro di Fenoglio, dattiloscritto e impilato su una scrivania affollata, correva il rischio di perdersi per sempre. Tutto sommato a Fenoglio andò bene: trovò editor che credettero in lui, e lo pubblicarono. Se la posta in gioco è di essere pubblicato, ed esser letto, non c’è nulla di male a scendere a compromessi col mercato, coi gusti del tempo, e anche con le idiosincrasie di un paio di consulenti. Ma c’è un limite. Non si può chiedere a Melville di togliere il capitano Achab per sfoltire Moby Dick: non si può chiedere ad Alessandro Manzoni di aggiungere una scena di sesso tra Renzo e la monaca di Monza.
Nel 1957 Fenoglio ha in mente un romanzo-fiume su un ragazzo piemontese (Johnny) che entra nell’esercito poco prima della caduta di Mussolini, torna avventurosamente a casa dopo l’8 settembre, si imbosca e partecipa quindi alla guerra partigiana. Il romanzo, probabilmente, è già scritto: ma non è ancora ‘presentabile’ a un editore, perché Fenoglio, con la scarsa autostima che lo contraddistingue, lo ha scritto per sé, in una lingua a lui solo comprensibile, mista d’italiano e uno strano inglese elisabettiano (Fenoglio era appassionato di letteratura inglese, ma non visitò mai l’Inghilterra).
Così almeno doveva sembrare a lui: in realtà il cosiddetto ‘Fenglese’ è un impasto un po’ strano, sì, ma tutto sommato leggibile.
Fenoglio ha già pubblicato qualcosa e ha due contatti importanti: Einaudi (l’editor, Calvino, è il suo primo ammiratore) e Garzanti. Stavolta prova con Garzanti. Perché? Possiamo sbizzarrirci di congetture: il romanzo di Fenoglio tratta male i partigiani comunisti, e l’Einaudi è il punto di riferimento della sinistra (ma l’anno prima Calvino è uscito dal PCI dopo i fatti d’Ungheria, e comunque Fenoglio non era stato tenero coi comunisti nemmeno nei racconti pubblicati da Einaudi fin dal ’52). Può darsi che Fenoglio temesse l’amore di Calvino per i romanzi brevi, semplici, geometrici, (tanto che ne scriverà uno che sembra fatto apposta per piacergli, e infatti gli piacerà moltissimo: Una questione privata). Sia come sia, Fenoglio bussa a Garzanti con questa idea del romanzo-fiume (e forse anche col primo dattiloscritto). Lo riceve l’editor Pietro Citati, che gli propone di… tagliare due terzi della storia. Far morire il protagonista poco dopo l’otto settembre. Cancellare insomma tutto il nucleo centrale del romanzo: la guerra partigiana. Il che equivale, a mio modesto parere, a chiedere a Melville di togliere il capitano Achab, o peggio.
Fenoglio accetta. In fondo, chissà, Citati ha ragione: il libro è troppo lungo, e i capitoli sui partigiani troppo controversi. Chi è lui per sostenere il contrario? Solo l’agente commerciale di un’azienda vinicola, con un hobby per la scrittura. Così spezza il romanzo in due tronconi, scrive un capitoletto in più (piuttosto raccogliticcio) in cui il protagonista, Johnny, muore nel primo conflitto a fuoco coi tedeschi. Non solo: sempre su consiglio di Citati sfronda anche i primissimi capitoli, in cui Johnny è ancora un liceale di belle speranze che marcia nel Guf, odia Mussolini, ma non vede l’ora di partir soldato perché i suoi amici sono già tutti via. L’esile risultato è il romanzo Primavera di bellezza. Con la sua uscita, per Garzanti, nel 1959, Fenoglio può dire addio al romanzo-fiume, amputato e privato del protagonista. Dalle pagine del canovaccio continuerà a estrarre spunti per racconti e romanzi, convinto che il canovaccio in sé sia una cosa impresentabile, da scrittore di quart’ordine. Meno male che qualche editor ha avuto fiducia in lui, e gli ha dato dei buoni consigli…
Fenoglio muore quattro anni dopo, troppo presto (quaranta o quarantun anni). Ora il suo materiale non è più in pasto agli editor, ma a un’altra razza di lettori che si rivelerà altrettanto miope e pasticciona: i filologi. I primi che riescono a mettere il naso nei suoi cassetti si rendono conto subito di aver tra le mani un capolavoro, scritto in due stesure: senza perdere troppo tempo, l'Einaudi mette insieme una versione abbastanza coerente del testo e la pubblica nel 1968, col titolo inventato Il partigiano Johnny. Non dico che sia stato un errore, nel 1968. Ma… [continua domani]
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